di Carlo Musilli

Mentre l’Europa arranca per far rispettare la regola del 3%, una delle principali economie del pianeta fa decollare volontariamente il proprio deficit. E’ l’Arabia Saudita, che si appresta a chiudere il 2015 con un disavanzo di circa 130 miliardi di dollari, pari a 118 miliardi di euro (più di tre volte l’ultima legge di Stabilità italiana). Per Riyadh si tratta del terzo bilancio consecutivo in rosso, ma i conti di quest’anno destano particolare attenzione, visto che nel 2014 il deficit non era andato oltre i 17,5 miliardi di dollari (15,9 miliardi di euro).

A determinare questa situazione è stata la scelta di mantenere un elevato livello di spesa pubblica malgrado il petrolio - che oggi assicura il 90% delle entrate del Paese - continui a perdere valore.

Tuttavia, l’Arabia Saudita non deve adattare le proprie politiche economiche all’andamento capriccioso delle materie prime: in quanto capofila dell’Opec, è stata proprio Riyadh ad abbattere le quotazioni del greggio, inducendo il cartello fra i Paesi esportatori di petrolio a non tagliare la produzione nonostante il calo della domanda globale. Una politica che ha fatto crollare il prezzo del barile di oltre il 60% dall’agosto del 2014.

A ben vedere, perciò, il maxi deficit è un investimento che l’Arabia mette in campo con un obiettivo preciso: danneggiare i Paesi produttori estranei all’Opec, colpendo direttamente i concorrenti più pericolosi (Usa e Canada) e i principali alleati della Siria di Assad (Russia e Iran). In particolare, il primo concorrente da mettere fuori gioco è lo shale oil americano. Con il crollo delle quotazioni sui mercati internazionali, Riyadh punta a ridurre la convenienza economica del fracking, la tecnica di estrazione di petrolio e gas tramite la fratturazione della roccia che ha permesso agli Usa di ridurre la dipendenza dall’energia estera.

Secondo Bernstein Research, un terzo della produzione di shale non sarebbe conveniente con il prezzo del Wti sotto gli 80 dollari al barile, mentre Morgan Stanley stima che il punto di pareggio sia a circa 77 dollari al barile. Goldman Sachs e Credit Suisse, invece, ritengono che per i grandi giacimenti i profitti siano assicurati anche con il prezzo sotto i 60 dollari. Ormai però le quotazioni sono cadute a picco oltre ogni immaginazione e il Wti viaggia sui 36-37 dollari al barile.

D'altra parte, agli Stati Uniti non dispiacciono gli altri obiettivi del piano saudita, a cominciare dagli effetti sull'Iran: più scende il prezzo del petrolio e meno conveniente diventa il programma nucleare di Teheran, che è stato concepito anche per conservare petrolio e gas da vendere sui mercati internazionali. Dal punto di vista degli Usa, però, la conseguenza più importante del crollo petrolifero è il colpo inferto alla Russia, nemica anche dei sauditi in quanto alleata del regime di Damasco ed esportatrice di energia in Europa.

Insieme alle rinnovate sanzioni economiche per la crisi ucraina e al rallentamento generale dell'economia, il calo del greggio ha affossato il rublo, che ieri è crollato al livello più basso da oltre un anno contro il dollaro. Le Autorità russe hanno recentemente affermato che il Paese è tecnicamente uscito dalla recessione, ma la nuova caduta del petrolio ha rimesso in discussione lo scenario: la Banca centrale prevede che se il barile restasse ai livelli attuali nel 2016, il Pil potrebbe scendere di oltre il 2% dopo il -3,7% di quest’anno.

Quanto alle previsioni sull’andamento del petrolio, secondo un report pubblicato la settimana scorsa da Goldman Sachs, l’eccesso di offerta è destinato a durare fino alla seconda metà del 2016 e il prezzo del greggio potrebbe scendere addirittura a 20 dollari il barile prima che domanda e offerta tornino a una situazione di sostanziale pareggio.

L’Opec, invece, prima di Natale ha pubblicato nuove stime in cui parla di prezzi in rialzo nei prossimi cinque anni: secondo quanto si legge nel rapporto, la quotazione del greggio raggiungerà il target di 70 dollari al barile entro il 2020, per poi impennarsi a 95 dollari al barile nel 2040. Si tratta però di numeri da prendere con molta cautela, visto che mai come oggi è evidente quanto l’andamento del petrolio sia del tutto estraneo alla logica del libero mercato.

Al di là dei calcoli tecnici e per quanto la domanda possa salire in futuro, è evidente che il prezzo del greggio resterà basso (o bassissimo) finché l’Arabia Saudita riterrà che la politica di sovrapproduzione sia per lei vantaggiosa sullo scacchiere globale.

Al momento, il deficit alto è un prezzo che Riyadh paga volentieri e senza sforzo, visto che, per finanziare il nuovo disavanzo, 80 miliardi di dollari arrivano da riserve valutarie e altri 20 da bond immessi sul mercato. Alla luce di tutto ciò, il debito pubblico è atteso al 5,8% del Pil quest'anno, contro il 2% dell'anno scorso. E, considerato il quadro generale, non è un conto troppo salato.

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