di Carlo Musilli

Dopo anni di marginalità forzata, l'Iran torna ad avere il coltello dalla parte del manico sul mercato del petrolio. La rivalsa di Teheran è legata non soltanto alla revoca delle sanzioni in seguito all'accordo sul nucleare, ma anche ai calcoli sbagliati dall'Arabia Saudita, che la settimana scorsa ha cercato invano di correggere la propria strategia.

Insieme a Qatar e Venezuela (entrambi Paesi Opec), martedì 16 febbraio Riyadh ha siglato un accordo con la Russia per congelare la produzione di greggio ai livelli di gennaio. Non si tratta di una svolta in grado di far risalire il prezzo del barile nel lungo termine, dal momento che l’attuale livello di produzione globale supera la domanda di almeno due milioni di barili al giorno, ma l'intesa è comunque importante, perché segna la fine di un muro contro muro durato 15 anni e l'inizio di una fase di disgelo fra Mosca e il cartello dei produttori.

Con questa mossa l'Arabia Saudita - dominus dell'Opec - rinnega per la prima volta la politica della sovrapproduzione inaugurata mesi fa per abbattete i prezzi e danneggiare così i Paesi concorrenti, guadagnando quote di mercato a livello globale. La prima parte del piano ha funzionato: se nella seconda metà del 2014 i prezzi del petrolio viaggiavano oltre i 100 dollari al barile, quest’anno sia il Brent sia il Wti sono scesi fin sotto i 30 dollari (oggi si attestano poco oltre questa soglia), toccando i livelli più bassi da oltre 10 anni.

Eppure, la caduta dei prezzo non ha dato finora i risultati che Riyadh sperava, visto che nel mirino dei sauditi c’era in primo luogo la produzione statunitense di shale oil (il petrolio ottenuto con la tecnica non convenzionale del fracking, la fratturazione idraulica della roccia). Anche se è stato raggiunto l’obiettivo minimo - evitare che gli Stati Uniti si affrancassero dai Paesi arabi per l’approvvigionamento di energia - le società Usa di shale oil costrette a dichiarare bancarotta sono state molte meno di quelle che ci si attendeva alcuni mesi fa. Secondo le ultime stime, i giacimenti di petrolio da scisto di almeno 10 contee del Texas potrebbero viaggiare in utile anche con prezzi inferiori ai 30 dollari al barile e in alcuni casi la soglia di sopravvivenza sarebbe addirittura a 22,5 dollari. Il settore, insomma, ha rivelato capacità di resistenza superiori a quelle pronosticate dai sauditi.

Il fallimento su questo fronte non è facile da accettare per l’Arabia, che per attuare la strategia dei prezzi bassi ha sacrificato anche i propri redditi da petrolio (il 90% delle entrate del Paese), chiudendo il 2015 con un deficit pubblico di circa 130 miliardi di dollari, pari a 118 miliardi di euro (per intenderci, più di tre volte l’ultima legge di Stabilità italiana). Il disavanzo record ha costretto Riyadh ad annunciare un taglio alla spesa e ai sussidi pubblici, provocando non poco malcontento.

A questo punto, però, invertire la rotta non è facile. Un semplice taglio della produzione non basterebbe a far risalire le quotazioni in modo significativo nel lungo periodo, almeno per due ragioni. Primo, perché per rivelarsi efficace la riduzione dovrebbe essere davvero molto significativa, addirittura superiore al 50% stando ai calcoli di vari analisti. Secondo, perché un’operazione del genere dovrebbe essere concordata perlomeno fra Opec e Russia: se fosse messa in pratica da un singolo Paese - anche dall’Arabia Saudita - equivarrebbe a un suicidio commerciale.

Non a caso, l’accordo siglato a Doha il 16 febbraio prevedeva una clausola: “I quattro Paesi - ha spiegato Mohammed Saleh al-Sada, ministro del petrolio del Qatar - hanno concordato di congelare la produzione ai livelli di gennaio a condizione che gli altri grandi produttori facciano lo stesso”.

Il riferimento è naturalmente all’Iran, che a gennaio, subito dopo la fine delle sanzioni - per colpa delle quali le sue esportazioni di greggio sono crollate da circa 2,5 milioni di barili al giorno nel 2011 agli attuali 1,1 mbg - aveva annunciato un piano per aumentare l’export di petrolio di 500mila barili al giorno.

Com’era prevedibile, mercoledì 17 febbraio Mehdi Asali, delegato iraniano all’Opec, ha definito “illogica” la richiesta di congelare la produzione: gli altri esportatori hanno approfittato degli anni di embargo nei confronti della Repubblica islamica per aumentare il loro output fino a 4 milioni di barili al giorno “e ora si aspettano che l’Iran paghi il costo di un riequilibrio. Se ci chiedono di diminuire la nostra produzione, la risposta è no”.

Subito dopo il ministro del petrolio iraniano Bijan Zanganeh, al termine di un incontro con i suoi omologhi di Iraq, Qatar e Venezuela, ha detto che Teheran “appoggia la decisione presa da membri Opec e paesi non-Opec di mantenere un tetto alla produzione per stabilizzare il mercato e i prezzi a beneficio dei produttori e dei consumatori”. Parole sibilline con cui il ministro è riuscito a confondere i mercati, provocando un immediato e inspiegabile rialzo delle quotazioni che è stato riassorbito nei giorni seguenti.

In realtà, la posizione dell’Iran è piuttosto chiara: se gli altri Paesi si sforzano di far risalire il prezzo del greggio ben venga, ma non si può pretendere che questo obiettivo sia raggiunto con la collaborazione di Teheran, che dal 2013 a causa degli embarghi internazionali ha perso qualcosa come 5 miliardi di dollari al mese. Insomma, la produzione globale aumenterà invece di diminuire o di stabilizzarsi. Del resto, con l’Arabia Saudita in difficoltà, come si può chiedere all’Iran di non picchiare sulla ferita?

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