di Carlo Musilli

È come se Biancaneve si trovasse a scegliere fra due opzioni: continuare a mangiare ogni anno la mela della strega cattiva e vivere per sempre felice e contenta; oppure farsi salvare dal principe, incassare subito un tesoro ma abbandonare ogni certezza sul futuro. Di fronte a un paradosso simile, l’Irlanda ha scelto di stare dalla parte della strega.

Il governo di Dublino farà ricorso contro l’ingiunzione della Commissione europea che obbliga il Paese a riscuotere da Apple 13 miliardi di euro di tasse non versate, più 4,8 miliardi d’interessi. È stata una decisione tribolata, poiché quello di Enda Kenny è un governo di minoranza e inizialmente i ministri indipendenti non erano d’accordo con l’appello.

Alla fine però si sono lasciati convincere dalla promessa del Premier di avviare una revisione indipendente per stabilire “quanto le multinazionali paghino oggi di tasse e quanto dovrebbero pagare”. Mercoledì il Parlamento darà il via libera all’azione legale.

La preoccupazione principale del governo è fare in modo che l’Irlanda rimanga la sede fiscale più gettonata in Europa fra i colossi industriali americani, uno status che negli ultimi anni ha consentito al Paese di uscire in fretta dalla crisi e di prosperare. Il ministro delle Finanze irlandese, Michael Noonan, ha ammesso candidamente che l’esecutivo è spinto dal timore di perdere questo privilegio.

Ma quali sono, di preciso, le accuse mosse da Bruxelles? Nel mirino della Commissione ci sono due accordi fiscali sugli utili imponibili di due società di diritto irlandese controllate dal gruppo di Cupertino (Apple Sales International e Apple Operations Europe), cui facevano capo tutti i profitti generati dalla multinazionale in Europa.

In sostanza, grazie a queste intese, solo una minima parte degli utili europei di Apple veniva tassata (peraltro con un’aliquota del 12,5%, la più bassa dell’Ue), mentre la stragrande maggioranza dei profitti era di fatto esentasse, poiché veniva attribuita a una “sede centrale” che esisteva solo sulla carta. Con questo stratagemma, possibile grazie a norme del diritto tributario irlandese oggi non più in vigore, Apple ha pagato le imposte con un’aliquota che dall'1% del 2003 è scesa progressivamente fino allo 0,005% del 2014.

Com’è ovvio, tanta generosità fiscale prevede una contropartita. In tutto il Paese, solo Apple ha ben 5.500 dipendenti e, secondo i calcoli dell’Agenzia irlandese per gli investimenti, il 20% dei lavoratori è impiegato in una multinazionale. Senza queste risorse l’Irlanda non si sarebbe mai ripresa dalla crisi, con buona pace delle anime belle che ancora credono alla favola dell’economia ripartita grazie all’austerity.

Il sistema fiscale selvaggio made in Ireland è da sempre un’assurdità all’interno dell’Ue, perché aiuta i colossi industriali a danno degli altri Paesi dell’Unione. Eppure i vantaggi sono tali per Dublino che il governo ha deciso di combattere contro Bruxelles pur di non incassare da Apple quasi 18 miliardi. Per avere un termine di paragone basti pensare che, senza considerare gli interessi, soltanto i 13 miliardi di tasse non pagate da Apple equivalgono al budget sanitario irlandese dell’anno scorso.

Certo, non sarebbero comunque risorse che il governo di Dublino potrebbe spendere a beneficio dell’elettorato, perché le regole europee impongono d’impiegarle per abbattere il debito pubblico. D’altra parte, se alla fine il ricorso fallisse (lo sapremo fra qualche anno) e l’Irlanda rifiutasse comunque d’incassare gli arretrati, rischierebbe una procedura d’infrazione per aiuti di Stato che potrebbe culminare in una sanzione.

La questione però va ben oltre i rapporti Dublino-Bruxelles. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha già lanciato vari avvertimenti all’indirizzo della Commissione europea, affermando che le sue azioni “potrebbero minacciare gli investimenti stranieri, il clima degli affari in Europa e l'importante spirito della partnership economica tra Usa e Ue”.

Dalla Casa Bianca hanno fatto sapere che il presidente Barack Obama porterà il tema generale dell’elusione fiscale al G20 di Hangzhou. Il tutto in un clima già infuocato dalle trattative per il TTIP, l’accordo di libero scambio fra Stati Uniti ed Europa tanto caro all’amministrazione Obama, su cui di recente Francia e Germania sembrano aver posto una pietra tombale.

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