di Antonio Rei

Nuovo Def, nuovo pasticcio. A dimostrazione dell’assunto secondo cui le stime macroeconomiche servono principalmente a rivalutare gli astrologi, nel nuovo Documento di Economia e Finanza il governo riversa una pioggia di bianchetto sulle vecchie stime relative all’andamento dei conti pubblici italiani.

Adesso il Pil 2016 è visto in crescita dell'1,2% (contro il +1,6% stimato lo scorso settembre), mentre per il 2017 si indica ora un +1,4% (dall'1,6%). Per il 2018 le previsioni parlano di un +1,5%, ma il termine è davvero troppo lontano per attribuire a questo dato una qualche credibilità, considerando la rapidità e la facilità con cui cambiano questi numeri.

È vero, il rallentamento della crescita è un fenomeno globale, non solo italiano, ma la congiuntura internazionale non basta a spiegare il flop della politica economica renziana. L’ultima legge di Stabilità era un coacervo di mance e favori che ha drogato i numeri dell’occupazione senza porre affatto basi solide per la ripresa dei consumi e degli investimenti, come vorrebbe far credere il ministro Padoan.

Per citare alcuni numeri, il 5 aprile l’Istat ha scritto che nel quarto trimestre dell'anno scorso il potere di acquisto delle famiglie (al netto dell'inflazione) è sceso dello 0,7%: i consumi sono comunque cresciuti dello 0,4%, ma solo grazie a un ribasso della propensione al risparmio. A gennaio 2016, invece, le vendite al dettaglio in volume sono rimaste invariate rispetto al mese precedente, mentre sono risultate negative per il terzo mese consecutivo su base tendenziale (-1,6%). Come prevedibile, infine, una volta archiviato il maxi-sconto per le assunzioni lo scenario nel mondo del lavoro è tornato a peggiorare, con il tasso di disoccupazione salito all'11,7% a febbraio.

In questo contesto, mentre continua a combattere con Bruxelles sugli aggiustamenti e le limature del deficit e del debito, il governo prepara anche un nuovo pacco regalo per le imprese. A maggio dovrebbero arrivare l'azzeramento della tassa sui capital gain, interventi a sostegno degli investimenti nelle aziende non quotate e sgravi sugli utili reinvestiti. Secondo il Tesoro, il nuovo provvedimento dovrebbe valere un +0,2% di Pil.

Viene da chiedersi dove l’Esecutivo immagini di trovare i soldi per finanziare queste misure, visto che nel frattempo deve disinnescare l’aumento automatico dell’Iva (servono 15 miliardi) e evitare una manovra monstre. Rinviare il pareggio di bilancio al 2019 e chiedere alla Ue di incrementare di altri 11 miliardi il deficit nel 2016 non è sufficiente, perciò nel Def rispunta il taglio delle cosiddette tax expenditures, la selva di deduzioni, detrazioni ed esenzioni fiscali che secondo la Corte dei Conti ogni anno sottrae all’Erario 313 miliardi di euro. Lo scorso 15 ottobre 2015, presentando l’ultima manovra, Renzi aveva orgogliosamente rivendicato la scelta “politica” di non tagliare gli sconti fiscali, perché “significa aumentare le tasse”. Curioso che ci abbia ripensato proprio mentre cucina l’ennesimo cioccolatino per gli imprenditori.

Intendiamoci, le misure in favore delle aziende non sono di per sé negative (anzi), così come non lo era il bonus Irpef da 80 euro al mese né la cancellazione della Tasi sulla prima casa. Il problema è che interventi di questo tipo dimostrano quanto sia ancora lontana la cura shock di cui l’economia italiana avrebbe davvero bisogno per avviare una ripresa credibile. La sterzata potrebbe arrivare con un piano serio (no, non il piano Juncker) per il rilancio degli investimenti pubblici e con l’abbattimento delle tasse sul lavoro.

Purtroppo, si tratta di due chimere: nel primo caso perché non lo consentono le regole europee (ci ritroviamo a pietire uno 0,1% di disavanzo in più pressoché inutile, figurarsi a quanti anni luce di distanza siamo da un piano d’investimenti), nel secondo perché non interessa al governo.

Le scelte dell’Esecutivo, quando non rispondono agli interessi dei lobbisti, sono sempre elettorali. Gli 80 euro sono un regalo circoscritto alla classe media e l’abolizione della tassa sulla prima casa è una misura socialmente iniqua, perché avvantaggia di più chi più ha ed è sostanzialmente irrilevante per i poveri.

Qualsiasi studente di economia sa benissimo che l’effetto sul Pil è molto maggiore quando si abbassano le tasse sul reddito piuttosto che quelle sulla proprietà, ma i politici sanno ancor meglio che l’intervento sul fisco immobiliare porta con sé un dividendo superiore in termini di consenso. Ma poi, alla fine, anche se qualche calcolo si rivela sbagliato che importa? Tra sei mesi arriverà un altro Def.

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