di Antonio Rei

Tra le varie favole che si raccontano sull'economia italiana, ce n'è una che fa più danni delle altre. L'ultima istituzione a raccontarla è stata l'agenzia di rating Standard & Poors', che sabato ha aggiunto un meno alla valutazione sul merito di credito del nostro Paese, perché "un forte aumento del debito, accompagnato da una crescita perennemente debole e dalla bassa competitività, non è compatibile con un rating BBB".

Sui primi due punti nessuno può dare torto a S&P. Il terzo, invece, è una fandonia che ormai sentiamo raccontare da tempo immemore. Non è affatto vero che la competitività italiana sui mercati internazionali sia bassa: i numeri ufficiali smentiscono questa tesi ormai cristallizzata nell'opinione comune.

Secondo i dati diffusi dall'Istat lo scorso 17 novembre, nei primi nove mesi del 2014 il saldo commerciale dell'Italia fuori dall'Unione europea - ovvero la differenza fra esportazioni e importazioni - è stato positivo per 28,2 miliardi di euro, in miglioramento rispetto al surplus da 19 miliardi registrato nello stesso periodo del 2013. Inoltre, se non consideriamo il commercio di energia, che pesa moltissimo sull'import, il risultato s'impenna di oltre il 100%, arrivando a quota 61,7 miliardi. Tra gennaio e settembre 2014, in generale, l'export è salito dell'1,4%, mentre l'import è sceso dell'1,9%. In tutto il 2013, infine, il saldo è stato positivo per 29,230 miliardi.

In un report successivo, pubblicato il 24 novembre, l'Istituto di statistica ha comunicato che - secondo le stime preliminari - lo scorso ottobre l'avanzo commerciale extra Ue è stato pari a 4,038 miliardi (contro il surplus di 2,805 miliardi dell'ottobre 2014), il livello più alto dal gennaio del 1993. Al netto dei prodotti energetici il dato sale a 6,8 miliardi, con esportazioni e importazioni in crescita rispettivamente dell'1,6 e del 7,5%. I mercati di sbocco più dinamici sono stati Turchia (+13,1%), Stati Uniti (+9,8%) e Cina (+4,8%).

Ora, nessuno vuole dipingere un quadro assurdamente ottimistico della congiuntura attraversata dall'Italia, ma è inevitabile porsi una domanda: in che modo si conciliano i calcoli dell'Istat con la vulgata della "bassa competitività"? Risposta: in alcun modo. Si può pensare che surplus così ampi siano stati prodotti dal progressivo crollo delle importazioni, ma i numeri smentiscono anche questa interpretazione.

Al contrario, la verità è che sui mercati internazionali, specie quelli globalmente più ricettivi, le aziende italiane continuano a dar prova non solo di resistenza, ma perfino di dinamismo. Da questo punto di vista alcuni comparti del Made in Italy hanno un che di eroico, considerando che nei mesi scorsi la forza dell'euro sul dollaro ha rappresentato un ostacolo non da poco alle esportazioni.

Ma allora perché tanta enfasi nel raccontare la fiaba della "bassa competitività"? Viene da pensare che l'obiettivo principale dei cantastorie sia glissare sulla vera natura dei problemi che affliggono il nostro sistema produttivo. E cioè che la crisi attuale e la stagnazione del prossimo futuro hanno tutt'altra origine: la debolezza della domanda interna.

I consumi degli italiani, quelli sì, sono crollati nel baratro. Stando a una ricerca pubblicata la settimana scorsa da Confcommercio, nel 2014 si sono attestati allo stesso livello del 1997. Rispetto al picco del 2007 sono stati erosi circa duemila euro a testa di spesa, per un calo complessivo del 12%. L'allarme dell'associazione riguarda anche il reddito reale pro-capite, che nel 2013-2014 sarebbe tornato addirittura ai livelli del 1986, perdendo circa 2.700 euro negli ultimi sette anni.

Purtroppo, in quasi tutti gli allarmi lanciati da Bruxelles, dai centri studi delle banche e dalle agenzie di rating la parola "consumi" si legge solo nei paragrafi secondari. Questa faccia del problema non è mai segnalata come una delle priorità da affrontare: è piuttosto vista come una conseguenza lineare dell'alto tasso di disoccupazione, che a sua volta viene giudicato un danno collaterale accettabile pur di non mettere in discussione i vincoli di bilancio. Di rilanciare la domanda interna con una politica di (vero) sostegno ai redditi, non si parla nemmeno.

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