di Carlo Musilli

Per allietare i mesi estivi, a Karlsruhe va in scena un nuovo spettacolo della saga "Nibelunghi contro Draghi". Dopo la querelle dell'anno scorso sul fondo Esm, stavolta la Corte Costituzionale tedesca è chiamata ad esprimersi sulla legittimità del programma Omt (Outright monetary transactions) messo a punto fra agosto e settembre 2012 dalla Banca centrale europea. Un teatrino che la dice lunga su una porzione consistente dell'opinione pubblica e della politica tedesca, pronta a difende la moneta unica solo finché riesce a trarne il massimo profitto.

Aiutare gli altri membri dell'Eurozona non rientra affatto nei loro piani. Al contrario, pur di continuare a guadagnare sulle disgrazie altrui, le stesse persone che hanno difeso per anni la rigida osservanza dei trattati europei oggi mettono in discussione l'indipendenza della Bce.

L'ultimo oggetto del contendere - il programma Omt - consente all'istituto centrale di acquistare sul mercato secondario i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, in modo da raffreddare gli spread. Chiunque voglia attivarlo deve sottoscrivere un memorandum con la Commissione Ue e la stessa Eurotower, impegnandosi formalmente a risanare i propri conti e a varare le riforme strutturali necessarie. L'aspetto chiave del programma è però tutto in un aggettivo: "illimitato". Una volta iniziati, gli acquisti possono proseguire senza alcuna soglia massima stabilita preventivamente.

E' proprio questo aspetto ad aver scaricato la pistola in mano ai grandi speculatori internazionali. L'Omt finora non è mai stato messo in pratica, ma il solo effetto-annuncio è bastato ad allentare in modo significativo la tensione sui mercati. Chi in passato ha scommesso contro paesi come Italia e Spagna, speculando sui rialzi dello spread, oggi sa benissimo che il gioco non funzionerebbe, perché nessun fondo può competere con la potenza di fuoco della Bce.

Contro questo programma hanno fatto ricorso 35mila cittadini tedeschi, che però non si sono rivolti alla Corte di giustizia europea (in Lussemburgo), ma alle loro beneamate toghe costituzionali. Peccato che il tribunale di Karlsruhe, per quanto supremo, sia pur sempre un organismo nazionale e non possa quindi piegare al proprio volere un'istituzione di diritto europeo.

Gli stessi giudici tedeschi hanno riconosciuto i limiti della propria giurisdizione, ma invece di lasciare il compito ai colleghi del Lussemburgo hanno deciso di proseguire lungo la propria strada. Rientra infatti nelle loro prerogative stabilire se le Omt abbiano superato alcuni limiti fissati dal diritto europeo, risultando incompatibili anche con la Costituzione tedesca.

I punti fondamentali su cui si concentra il ricorso sono due. Primo: le Omt metterebbero a rischio il bilancio pubblico tedesco, impedendo al Parlamento di decidere liberamente altre spese. Secondo: le grandi immissioni di liquidità nel sistema rischierebbero di far impennare l'inflazione, pregiudicando la stabilità dell'euro, ovvero la condizione fondamentale posta oltre 20 anni fa dall'Esecutivo di Berlino per firmare il trattato di Maastricht.

Sembra abbastanza evidente che nessuna di queste due obiezioni abbia ragion d'essere. Innanzitutto, per quanto illimitati, gli acquisti della Bce riguarderebbero solo bond già emessi e con scadenze comprese fra uno e tre anni: in nessun caso un'eventuale perdita (che per altro si avrebbe solo in caso di default di un Paese dell'Eurozona...) potrebbe mai superare la soglia massima di spesa già fissata dalla Corte di Karlsruhe nel 50% del bilancio federale annuo.

Quanto al secondo tema, la Bce ha già chiarito che la liquidità immessa nel sistema con l'acquisto dei titoli verrebbe sterilizzata: nessun aumento della massa monetaria, nessuna impennata dell'inflazione. Inoltre, mettendo al riparo l'euro da attacchi speculativi, il programma Omt contribuirebbe casomai a rafforzare la moneta unica, non certo a indebolirla.

A difesa della Bce di sono già espressi la cancelliera Angela Merkel e il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, oltre al presidente dell' Parlamento europeo, il tedesco Martin Schultz, e alla numero uno del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde.

Ma allora per quale ragione tanti tedeschi si scagliano contro Mario Draghi? A pensar male si farà peccato, ma è un fatto che gli spread eccessivamente alti abbiano garantito affari d'oro alla Germania. Un tesoro che dal 2009 a oggi ha raggiunto gli 80 miliardi, destinati a diventare 100 entro fine anno.

Il meccanismo di base non è complesso. Quando il mercato dei debiti pubblici era dominato dal panico, gli investitori puntavano sui titoli di Stato tedeschi come veri beni-rifugio, consentendo a Berlino di rifinanziare il proprio debito a tassi bassissimi. I rendimenti sono scesi spesso addirittura sotto lo zero e il Tesoro è riuscito a guadagnare denaro mentre ne chiedeva in prestito (come se la banca dove accendiamo un mutuo, invece di chiederci gli interessi, fosse disposta a pagarceli per avere il privilegio di dare a noi i suoi soldi). Il circolo virtuoso per la Germania ha coinvolto anche le banche private e le aziende tedesche, che hanno raccolto denaro pagando tassi nettamente inferiori a quelli delle loro concorrenti europee.

L'egoismo dei tedeschi che invocano la Corte Costituzionale ha quindi le sue ragioni. Ma si tratta di una prospettiva miope. Come fece notare in passato lo stesso Schultz, continuando con il giochetto dei differenziali "non ci sarà più un mercato per i prodotti della Germania, perché gli altri non avranno i soldi per comprarli". Una deduzione logica. Speriamo se ne rendano conto anche a Karlsruhe.

di Carlo Musilli

"Questa riforma non s'ha da fare", dicono le banche di Wall Street. E ancora una volta sono loro a spuntarla. L'applicazione delle nuove norme sul mercato dei derivati made in Usa è stata ufficialmente rinviata di due anni: se ne riparlerà nel luglio del 2015. Al centro del contendere, una serie di regole contenute nella Dodd-Frank, la legge che dovrebbe mettere un freno all'anarchia della finanza americana. Il testo è stato approvato ormai tre anni fa, ma ad oggi è entrato in vigore solo il 38% delle misure previste, stando allo studio legale Davis Polk, che segue l'applicazione della riforma.

A chiedere più tempo per l'applicazione delle norme è stato un manipolo di colossi (JP Morgan, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Hsbc, Morgan Stanley e US Bancorp), sette sorelle che molto probabilmente saranno imitate a breve da altri istituti. Il via libera al rinvio è arrivato dall'Office of the Comproller of the Currency (Occ), l'ufficio di vigilanza del Dipartimento del Tesoro che insieme alla Federal Reserve ha la responsabilità di supervisionare le banche. La stessa Fed, inoltre, aveva già chiarito nei giorni scorsi che un'eventuale proroga avrebbe interessato anche gli istituti stranieri attivi negli Usa.

In particolare, la controffensiva della lobby di Wall Street si è scatenata contro una norma che punta a ridurre il potenziale distruttivo dei derivati più rischiosi (come i Cds, titoli con i quali è possibile guadagnare dal fallimento altrui). Si tratta della "Swap push-out Rule", che prevede l'obbligo di concentrare alcune operazioni finanziarie in società distinte da quelle che raccolgono le attività meno pericolose.

L'obiettivo fondamentale è circoscrivere il perimetro delle potenziali bombe finanziarie per evitare effetti sistemici in caso di esplosione e limitare al contempo il costo di eventuali salvataggi (pagati come sempre dai contribuenti). Insomma, si tratterebbe di fare in modo che una valanga come quella innescata nel 2008 dal fallimento di Lehman Brothers non possa ripetersi.

All'epoca furono proprio i derivati - in particolare quelli legati ai mutui subprime - a mettere in ginocchio l'intero sistema finanziario americano, scatenando un effetto domino che ebbe ripercussioni a livello globale e accese la miccia della crisi dei debiti sovrani europei. E' probabile che al momento non siano in vista nuovi tsunami finanziari di quella portata, ma il punto è un altro: un minimo barlume di raziocinio suggerisce di prevenire oggi quello che potrebbe finire di distruggerci domani.

Peccato che non siano dello stesso avviso a Wall Street, dove negli ultimi anni gli indici azionari si sono ampiamente risollevati, tornando di recente a far segnare record storici. Da sole, le cinque maggiori banche americane (JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs) controllano il 90% dei derivati, in un mercato che vale qualcosa come 700 mila miliardi di dollari.

Purtroppo la politica americana, su entrambe le sponde del Congresso, è evidentemente troppo compromessa con questi grandi poteri finanziari. Non c'è quindi da stupirsi se nemmeno la democratica amministrazione Obama ha la forza, gli strumenti o anche semplicemente l'intenzione di cambiare veramente le regole del gioco fra i giganti di Borsa.

Le pressioni della lobby bancaria hanno la meglio sempre e comunque. Il triste destino della Dodd-Frank lo dimostra in modo pressoché inequivocabile. Quella degli istituti di credito è una lenta opera d'erosione che punta ad ammorbidire, dilazionare, smontare pezzo a pezzo e depotenziare l'unico strumento concepito negli Stati Uniti per correggere le storture del sistema finanziario.

Fra i moltissimi ritardi nell'applicazione delle regole, un altro esempio clamoroso è quello della cosiddetta "Volcker Rule", relativa alla separazione tra banche d'affari e istituti d'investimento. L'uomo che dà il nome alla norma, Paul Volcker - già governatore della Federal Reserve - ha fondato un'istituzione autonoma, la Volcker Alliance, che si contrappone esplicitamente alla lobby finanziaria per cercare di piegare le banche alle nuove regole. Non rimane da sperare che un ultraottantenne abbia successo dove le varie agenzie federali hanno fallito.

di Carlo Musilli

Ancora il Bilderberg? Sì, ancora. Da venerdì a domenica una pletora di potenti euro-nordamericani si è ritrovata nella ridente cittadina inglese di Watford per l’ormai consueto summit del lato oscuro. Erano in 138, provenienti da 21 nazioni diverse. Quello che  si è appena chiuso è stato il 61esimo incontro dalla fondazione del Club, che risale al 1954. La novità di quest’anno è stata una minima (e ipocrita) apertura nei confronti del mondo esterno.

Dopo decenni d’imboscamenti e segreti impronunciabili, gli organizzatori hanno provato ad allentare la tensione simulando qualche velleità di trasparenza. Era già nota la lista degli invitati e il programma dell’evento, almeno quello ufficiale (si è parlato - a quanto dicono - di temi come l’occupazione in Europa e negli Stati Uniti, i problemi dell'Africa, la crisi mediorientale e la politica estera americana). Ma non solo: per la prima volta è stato allestito anche un ufficio stampa per fornire "informazioni a giornalisti, cameraman, fotografi, blogger, ricercatori presenti" e "dettagli" sugli invitati.

Nel descrivere con malcelato compiacimento il "notevole passo avanti nelle relazioni fra la conferenza del Bilderberg e la stampa", il sito inglese dell'evento sottolinea il ruolo fondamentale svolto in questo senso del cancelliere George Osborne (uno di famiglia alle riunioni del Club) e del premier britannico David Cameron.

E' però alquanto difficile immaginare che tutto questo abbia a che fare con il diritto d’informazione dei comuni mortali. Da sempre fucina d’importanti accordi politici, economici e finanziari, il Bilderberg è una riunione in cui l'interesse pubblico viene trattato come merce privata. Ma è anche la massima fonte d’eccitazione per chi si nutre di complottismo. I membri della setta se ne rendono conto: per anni hanno tenuto segrete le loro riunioni, poi si sono adattati a veder costruire castelli di pura fantasia intorno ai vari appuntamenti. Ora però il loro anacronismo è più stridente che mai.

Nell’epoca dei social network e dei blog, di Wikileaks e di Anonymous, una vicenda medievale come il Bilderberg non è più minimamente accettabile. Ora che la guerra fredda si legge solo sui libri, l'idea dei poteri malvagi in doppiopetto e monocolo ha perso anche il fascino alla romanzo di Le Carré. E il loro opulento ritrovo fa solo rabbia.

Ecco perché, dopo lunga trattativa, la Polizia della zona di Watford ha accettato che un gruppo di giornalisti e attivisti vari si stabilisse nel cosiddetto Bilderberg Speakers Corner, una sorta di palco non lontano dal lussuoso albergo dove il gotha confabula. Qui si è svolto il Bilderberg Fringe Festival, una specie di contro-conferenza. Naturalmente a tenere separate le due fazioni c’era un plotone d’agenti.

Che sia stato un carrozzone o una protesta seria, è certo che i membri della setta globale non abbiano rivolto nemmeno un pensiero ai pur vicini contestatori. Anzi, probabilmente li hanno lascati sfogare solo per essere disturbati il meno possibile. E poi c’era sempre la possibilità che le foto e i video della contro-riunione pubblica ridimensionassero il fascino di chi per mestiere grida al complotto globale, pretendendo di sapere come funziona il governo occulto del pianeta.

Ma, intanto, chi partecipava al Bilderberg? In generale si trattava come sempre di politici, vertici della finanza e dell’industria, accademici di prestigio. Il nostro Paese vantava ben sette invitati e la breve lista ricorda il gioco della settimana enigmistica “Trova l’intruso”: il numero uno di Telecom Italia Franco Bernabè, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Enrico Cucchiani, l’ex premier Mario Monti (gli daranno la pagella?), il Ceo di Mediobanca Alberto Nagel, il presidente del gruppo Techint Gianfelice Rocca, l’accademico Emanuele Ottolenghi e la giornalista Lilli Gruber. Misteri del Bilderberg.

Tra i partecipanti più influenti a livello universale figuravano gli amministratori delegati di Siemens, Alcoa, Amazon, Michelin, Shell, Heineken e Ab, oltre a personalità di spicco di Deutsche Bank, Barclays, Goldman Sachs, Novartis e Google. Presenti anche la numero uno del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, e l'ex capo della Cia, David Petraeus. Venerdì si è aggiunto al gruppo anche Mr. Cameron, provocando diverse polemiche a Londra per l’assenza di portavoce e funzionari al seguito.

Pare che invece abbiano disertato il Bilderberg gli alfieri di giganti finanziari come JP Morgan, Morgan Stanley, Credit Suisse, Citigroup, Ubs e Bank of America Merrill Lynch. Non c’era neppure Enrico Letta, che in passato si era aggregato alla gaudente comitiva. Quest’anno aveva altro da fare. Speriamo non i compiti a casa.







di Carlo Musilli

Il flusso di manodopera fra Washington e Wall Street inverte la rotta e preme sull'acceleratore. Il copione vorrebbe che le super banche quotate a New York, le "Too big to fail", piazzino i propri uomini in posizioni di governo per imbonire e sedurre i legislatori degli Stati Uniti (tipico il caso di Hank Paulson, ex Goldman Sachs, poi segretario al Tesoro durante l'ultima crisi). Ma negli ultimi tempi l'esodo ha cambiato direzione: ora sono gli istituti "troppo grandi per fallire" ad assumere ex politici.

Di per sé nemmeno questa è una novità assoluta, lo fanno da una vita, ma di recente la pratica è cresciuta moltissimo. Lo rivela un articolo di Politico.com, celebre testata d'inchiesta americana.

Giganti come Citigroup e JP Morgan stanno reclutando ex funzionari politici e tecnici provenienti dalle autorità di controllo, mentre Morgan Stanley e Goldman Sachs si apprestano far sedere sulle poltrone più alte delle loro piramidi dirigenziali uomini che hanno ricoperto incarichi di primo piano al Tesoro e alla Casa Bianca.

I diretti interessati non faticano a trovare milioni di ottime ragioni per passare dall'altra parte della barricata. In termini di stipendi, quello che può offrire la pubblica amministrazione non regge nemmeno il confronto con la manna che sgorga dai forzieri di Wall Street. L'aspetto più interessante riguarda però il movente delle banche.

L'obiettivo degli istituti è disinnescare sul nascere ogni possibile riforma della finanza che rischi di compromettere i loro margini di profitto. Il timore numero uno è che il Congresso riesca finalmente a operare il cambiamento di cui il sistema finanziario americano avrebbe più bisogno, ovvero il ridimensionamento delle "Too big to fail", evidentemente troppo grandi non solo per fallire, ma anche per esistere.

Una priorità sottolineata perfino dal governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, che ha definito le super banche "una delle maggiori cause della crisi finanziaria, un problema reale, tutt’altro che risolto". Per il capo dell'istituto centrale americano, "finché non affronteremo la questione, non potremo dire di aver combattuto la crisi con successo". Parole con cui di fatto Bernanke ha ammesso il completo fallimento da questo punto di vista della Dodd-Frank, la riforma finanziaria varata nel 2010 dall'amministrazione Obama.

Ma al di là delle affermazioni di principio - ripetute invano da anni - a preoccupare le grandi banche americane è soprattutto la proposta di legge presentata il mese scorso dal parlamentare democratico Sherrod Brown e dal repubblicano David Vitter. Scopo del provvedimento è imporre agli istituti con asset superiori ai 500 miliardi di dollari di avere riserve di capitale intorno al 15%. Una quota che raddoppierebbe la soglia attuale, superando di gran lunga anche i limiti in via di definizione per Basilea III. Se la misura fosse approvata, le "big banks" sarebbero costrette a ridimensionarsi, se non addirittura a dividersi.

La risposta di Wall Street è arrivata per voce di uno dei suoi sicari, l'agenzia di rating Standard & Poor's. Come al solito, ogni possibile cambiamento dello status quo viene letto in chiave apocalittica dagli analisti di S&P, che prevedono ulteriori strette del credito e terremoti finanziari nel caso in cui la riforma fosse approvata. Anche perché “se la grandi banche venissero spezzate - scrivono gli esperti di Standard & Poor's - non le potremmo classificare come banche di alta importanza sistemica”. E quindi, probabilmente, una volta privati del loro oligopolio questi istituti subirebbero downgrade a pioggia.

E' bene ricordare, tuttavia, che S&P è stata insieme a Moody's e Fitch una delle principali artefici della crisi. Le agenzie di rating assegnavano il giudizio di massima affidabilità a titoli che sapevano essere carta straccia, e lo facevano perché incassavano denaro proprio dalle banche. Mai conflitto d'interessi fu più lampante: le tre agenzie svolgevano un servizio per chi comprava i titoli, ma venivano pagate da chi li emetteva. La loro credibilità è dunque perlopiù una questione di fede irrazionale.

Insomma, come sempre è avvenuto, gli istituti elefantiaci quotati a New York cercano ogni mezzo per fare pressione sulla politica. Stavolta il pericolo è maggiore rispetto al passato e per questo si tutelano aprendo definitivamente le porte a chi fino a ieri hanno cercato di corrompere. E' una vecchia massima: per battere il nemico devi conoscerlo. O assumerlo.

di Carlo Musilli

Il numero uno della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha assicurato mercoledì che la Banca centrale americana non ridurrà gli stimoli all'economia, perché "una prematura stretta della politica monetaria metterebbe a rischio la ripresa". Poi però ha anche ammesso che "già nei prossimi mesi" la Fed potrebbe decidere di ridurre gli acquisti di titoli sul mercato secondario. Le parole del governatore hanno prima esaltato e poi depresso le Borse di mezzo mondo.

Ma in tanta fibrillazione planetaria per la pioggia di soldi in arrivo, è bene ricordare che pochi giorni prima lo stesso Bernanke aveva suonato un campanello d'allarme da non sottovalutare, come invece hanno puntualmente fatto i regolatori americani. Nel mirino, ancora una volta, c'è la speculazione finanziaria.

"Alla luce dell'attuale ambiente macro, caratterizzato da tassi d'interesse ultrabassi - aveva avvertito due settimane fa il numero uno della Fed -, guardiamo con estrema attenzione a ogni esempio di corsa ai rendimenti e di altre forme di eccessiva assunzione del rischio, che potrebbero avere ripercussioni sui prezzi degli asset e sulla loro relazione con i fondamentali".

Non solo: secondo Bernanke, il sistema bancario "ombra", fatto di fondi speculativi, "pone ancora dei seri rischi per il sistema finanziario. Questi fondi potrebbero non essere ancora capaci di far fronte a un default", e anche se oggi il settore "ha dimensioni inferiori rispetto a prima della crisi, è necessario affrontare le restanti vulnerabilità" rafforzando le regole.

Parole sagge, peccato che a distanza di pochissimo tempo sia accaduto l'esatto contrario. Le regole sono state ammorbidite, a tutto vantaggio delle lobby bancarie. Ed è successo proprio nell'ambito della riforma Dodd-Frank, il provvedimento varato nel 2010 dall'amministrazione Obama per rafforzare le regola della finanza Usa, responsabile della crisi mondiale scoppiata due anni prima.

A metà maggio le authority statunitensi hanno modificato una normativa cruciale, alleggerendo gli standard per la verifica dei prezzi dei contratti derivati (ovvero i titoli speculativi per eccellenza, che consentono di massimizzare i guadagni, ma espongono gli investitori a rischi altissimi).

In principio i regolatori americani avevano stabilito che i grandi gestori di asset dovessero rivolgersi ad almeno cinque banche per determinare i prezzi di questi strumenti (e si trattava già di un compromesso). D'ora in poi, invece, ne basteranno due, che saliranno a tre fra 15 mesi. Non esattamente un passo avanti in termini di trasparenza.

La questione è tutt'altro che marginale, visto che proprio l'oscurità dei mercati su cui si scambiano i derivati è stata alla base dell'esplosione speculativa di cui ancora oggi patiamo le conseguenze. L'allentamento di quella norma, dunque, preserva scientemente una di quelle "vulnerabilità" contro cui si dovrebbe combattere.

A beneficiarne sono naturalmente i colossi di Wall Street, che potranno continuare più facilmente a gonfiare commissioni e prezzi sui derivati. Si tutela così l'oligopolio delle cinque maggiori banche americane (JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs), capaci di controllare da sole il 90% di questi contratti, in un mercato che vale la cifra oceanica di 700 mila miliardi di dollari. Un manipolo di giganti in grado di esercitare pressioni indicibili sul potere politico, come sempre molto sensibile alle ragioni di chi finanzia le campagne elettorali (e non solo).

La recente modifica non azzera certamente l'efficacia della riforma, considerando che in futuro il commercio dei titoli derivati si dovrà svolgere su piattaforme regolamentate, non più nel buio pesto che ha regnato finora. E' tuttavia preoccupante che il ripensamento sia arrivato dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l'authority di controllo su futures e derivati.

"Quello dei derivati non sarà più un mercato chiuso e opaco - ha detto il presidente della Cftc, Gary Gensler -, ma resta comunque il più oscuro del pianeta. Bisognerà quindi applicare regole simili a quelle che disciplinano il mercato azionario e quello dei futures".

Nel frattempo, però, le authority americane (comprese la Sec, ovvero la Consob americana, e la stessa Federal Reserve) tardano anche a completare molte altre norme della Dodd-Frank, come la cosiddetta la Volcker Rule, che vorrebbe impedire il trading proprietario delle banche e ridurre la propensione al rischio degli istituti. Se ne discute da tanto, ma ancora niente. Con buona pace di Bernanke e dei suoi discorsi.






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