di Carlo Musilli

Ancora il Bilderberg? Sì, ancora. Da venerdì a domenica una pletora di potenti euro-nordamericani si è ritrovata nella ridente cittadina inglese di Watford per l’ormai consueto summit del lato oscuro. Erano in 138, provenienti da 21 nazioni diverse. Quello che  si è appena chiuso è stato il 61esimo incontro dalla fondazione del Club, che risale al 1954. La novità di quest’anno è stata una minima (e ipocrita) apertura nei confronti del mondo esterno.

Dopo decenni d’imboscamenti e segreti impronunciabili, gli organizzatori hanno provato ad allentare la tensione simulando qualche velleità di trasparenza. Era già nota la lista degli invitati e il programma dell’evento, almeno quello ufficiale (si è parlato - a quanto dicono - di temi come l’occupazione in Europa e negli Stati Uniti, i problemi dell'Africa, la crisi mediorientale e la politica estera americana). Ma non solo: per la prima volta è stato allestito anche un ufficio stampa per fornire "informazioni a giornalisti, cameraman, fotografi, blogger, ricercatori presenti" e "dettagli" sugli invitati.

Nel descrivere con malcelato compiacimento il "notevole passo avanti nelle relazioni fra la conferenza del Bilderberg e la stampa", il sito inglese dell'evento sottolinea il ruolo fondamentale svolto in questo senso del cancelliere George Osborne (uno di famiglia alle riunioni del Club) e del premier britannico David Cameron.

E' però alquanto difficile immaginare che tutto questo abbia a che fare con il diritto d’informazione dei comuni mortali. Da sempre fucina d’importanti accordi politici, economici e finanziari, il Bilderberg è una riunione in cui l'interesse pubblico viene trattato come merce privata. Ma è anche la massima fonte d’eccitazione per chi si nutre di complottismo. I membri della setta se ne rendono conto: per anni hanno tenuto segrete le loro riunioni, poi si sono adattati a veder costruire castelli di pura fantasia intorno ai vari appuntamenti. Ora però il loro anacronismo è più stridente che mai.

Nell’epoca dei social network e dei blog, di Wikileaks e di Anonymous, una vicenda medievale come il Bilderberg non è più minimamente accettabile. Ora che la guerra fredda si legge solo sui libri, l'idea dei poteri malvagi in doppiopetto e monocolo ha perso anche il fascino alla romanzo di Le Carré. E il loro opulento ritrovo fa solo rabbia.

Ecco perché, dopo lunga trattativa, la Polizia della zona di Watford ha accettato che un gruppo di giornalisti e attivisti vari si stabilisse nel cosiddetto Bilderberg Speakers Corner, una sorta di palco non lontano dal lussuoso albergo dove il gotha confabula. Qui si è svolto il Bilderberg Fringe Festival, una specie di contro-conferenza. Naturalmente a tenere separate le due fazioni c’era un plotone d’agenti.

Che sia stato un carrozzone o una protesta seria, è certo che i membri della setta globale non abbiano rivolto nemmeno un pensiero ai pur vicini contestatori. Anzi, probabilmente li hanno lascati sfogare solo per essere disturbati il meno possibile. E poi c’era sempre la possibilità che le foto e i video della contro-riunione pubblica ridimensionassero il fascino di chi per mestiere grida al complotto globale, pretendendo di sapere come funziona il governo occulto del pianeta.

Ma, intanto, chi partecipava al Bilderberg? In generale si trattava come sempre di politici, vertici della finanza e dell’industria, accademici di prestigio. Il nostro Paese vantava ben sette invitati e la breve lista ricorda il gioco della settimana enigmistica “Trova l’intruso”: il numero uno di Telecom Italia Franco Bernabè, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Enrico Cucchiani, l’ex premier Mario Monti (gli daranno la pagella?), il Ceo di Mediobanca Alberto Nagel, il presidente del gruppo Techint Gianfelice Rocca, l’accademico Emanuele Ottolenghi e la giornalista Lilli Gruber. Misteri del Bilderberg.

Tra i partecipanti più influenti a livello universale figuravano gli amministratori delegati di Siemens, Alcoa, Amazon, Michelin, Shell, Heineken e Ab, oltre a personalità di spicco di Deutsche Bank, Barclays, Goldman Sachs, Novartis e Google. Presenti anche la numero uno del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, e l'ex capo della Cia, David Petraeus. Venerdì si è aggiunto al gruppo anche Mr. Cameron, provocando diverse polemiche a Londra per l’assenza di portavoce e funzionari al seguito.

Pare che invece abbiano disertato il Bilderberg gli alfieri di giganti finanziari come JP Morgan, Morgan Stanley, Credit Suisse, Citigroup, Ubs e Bank of America Merrill Lynch. Non c’era neppure Enrico Letta, che in passato si era aggregato alla gaudente comitiva. Quest’anno aveva altro da fare. Speriamo non i compiti a casa.







di Carlo Musilli

Il flusso di manodopera fra Washington e Wall Street inverte la rotta e preme sull'acceleratore. Il copione vorrebbe che le super banche quotate a New York, le "Too big to fail", piazzino i propri uomini in posizioni di governo per imbonire e sedurre i legislatori degli Stati Uniti (tipico il caso di Hank Paulson, ex Goldman Sachs, poi segretario al Tesoro durante l'ultima crisi). Ma negli ultimi tempi l'esodo ha cambiato direzione: ora sono gli istituti "troppo grandi per fallire" ad assumere ex politici.

Di per sé nemmeno questa è una novità assoluta, lo fanno da una vita, ma di recente la pratica è cresciuta moltissimo. Lo rivela un articolo di Politico.com, celebre testata d'inchiesta americana.

Giganti come Citigroup e JP Morgan stanno reclutando ex funzionari politici e tecnici provenienti dalle autorità di controllo, mentre Morgan Stanley e Goldman Sachs si apprestano far sedere sulle poltrone più alte delle loro piramidi dirigenziali uomini che hanno ricoperto incarichi di primo piano al Tesoro e alla Casa Bianca.

I diretti interessati non faticano a trovare milioni di ottime ragioni per passare dall'altra parte della barricata. In termini di stipendi, quello che può offrire la pubblica amministrazione non regge nemmeno il confronto con la manna che sgorga dai forzieri di Wall Street. L'aspetto più interessante riguarda però il movente delle banche.

L'obiettivo degli istituti è disinnescare sul nascere ogni possibile riforma della finanza che rischi di compromettere i loro margini di profitto. Il timore numero uno è che il Congresso riesca finalmente a operare il cambiamento di cui il sistema finanziario americano avrebbe più bisogno, ovvero il ridimensionamento delle "Too big to fail", evidentemente troppo grandi non solo per fallire, ma anche per esistere.

Una priorità sottolineata perfino dal governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, che ha definito le super banche "una delle maggiori cause della crisi finanziaria, un problema reale, tutt’altro che risolto". Per il capo dell'istituto centrale americano, "finché non affronteremo la questione, non potremo dire di aver combattuto la crisi con successo". Parole con cui di fatto Bernanke ha ammesso il completo fallimento da questo punto di vista della Dodd-Frank, la riforma finanziaria varata nel 2010 dall'amministrazione Obama.

Ma al di là delle affermazioni di principio - ripetute invano da anni - a preoccupare le grandi banche americane è soprattutto la proposta di legge presentata il mese scorso dal parlamentare democratico Sherrod Brown e dal repubblicano David Vitter. Scopo del provvedimento è imporre agli istituti con asset superiori ai 500 miliardi di dollari di avere riserve di capitale intorno al 15%. Una quota che raddoppierebbe la soglia attuale, superando di gran lunga anche i limiti in via di definizione per Basilea III. Se la misura fosse approvata, le "big banks" sarebbero costrette a ridimensionarsi, se non addirittura a dividersi.

La risposta di Wall Street è arrivata per voce di uno dei suoi sicari, l'agenzia di rating Standard & Poor's. Come al solito, ogni possibile cambiamento dello status quo viene letto in chiave apocalittica dagli analisti di S&P, che prevedono ulteriori strette del credito e terremoti finanziari nel caso in cui la riforma fosse approvata. Anche perché “se la grandi banche venissero spezzate - scrivono gli esperti di Standard & Poor's - non le potremmo classificare come banche di alta importanza sistemica”. E quindi, probabilmente, una volta privati del loro oligopolio questi istituti subirebbero downgrade a pioggia.

E' bene ricordare, tuttavia, che S&P è stata insieme a Moody's e Fitch una delle principali artefici della crisi. Le agenzie di rating assegnavano il giudizio di massima affidabilità a titoli che sapevano essere carta straccia, e lo facevano perché incassavano denaro proprio dalle banche. Mai conflitto d'interessi fu più lampante: le tre agenzie svolgevano un servizio per chi comprava i titoli, ma venivano pagate da chi li emetteva. La loro credibilità è dunque perlopiù una questione di fede irrazionale.

Insomma, come sempre è avvenuto, gli istituti elefantiaci quotati a New York cercano ogni mezzo per fare pressione sulla politica. Stavolta il pericolo è maggiore rispetto al passato e per questo si tutelano aprendo definitivamente le porte a chi fino a ieri hanno cercato di corrompere. E' una vecchia massima: per battere il nemico devi conoscerlo. O assumerlo.

di Carlo Musilli

Il numero uno della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha assicurato mercoledì che la Banca centrale americana non ridurrà gli stimoli all'economia, perché "una prematura stretta della politica monetaria metterebbe a rischio la ripresa". Poi però ha anche ammesso che "già nei prossimi mesi" la Fed potrebbe decidere di ridurre gli acquisti di titoli sul mercato secondario. Le parole del governatore hanno prima esaltato e poi depresso le Borse di mezzo mondo.

Ma in tanta fibrillazione planetaria per la pioggia di soldi in arrivo, è bene ricordare che pochi giorni prima lo stesso Bernanke aveva suonato un campanello d'allarme da non sottovalutare, come invece hanno puntualmente fatto i regolatori americani. Nel mirino, ancora una volta, c'è la speculazione finanziaria.

"Alla luce dell'attuale ambiente macro, caratterizzato da tassi d'interesse ultrabassi - aveva avvertito due settimane fa il numero uno della Fed -, guardiamo con estrema attenzione a ogni esempio di corsa ai rendimenti e di altre forme di eccessiva assunzione del rischio, che potrebbero avere ripercussioni sui prezzi degli asset e sulla loro relazione con i fondamentali".

Non solo: secondo Bernanke, il sistema bancario "ombra", fatto di fondi speculativi, "pone ancora dei seri rischi per il sistema finanziario. Questi fondi potrebbero non essere ancora capaci di far fronte a un default", e anche se oggi il settore "ha dimensioni inferiori rispetto a prima della crisi, è necessario affrontare le restanti vulnerabilità" rafforzando le regole.

Parole sagge, peccato che a distanza di pochissimo tempo sia accaduto l'esatto contrario. Le regole sono state ammorbidite, a tutto vantaggio delle lobby bancarie. Ed è successo proprio nell'ambito della riforma Dodd-Frank, il provvedimento varato nel 2010 dall'amministrazione Obama per rafforzare le regola della finanza Usa, responsabile della crisi mondiale scoppiata due anni prima.

A metà maggio le authority statunitensi hanno modificato una normativa cruciale, alleggerendo gli standard per la verifica dei prezzi dei contratti derivati (ovvero i titoli speculativi per eccellenza, che consentono di massimizzare i guadagni, ma espongono gli investitori a rischi altissimi).

In principio i regolatori americani avevano stabilito che i grandi gestori di asset dovessero rivolgersi ad almeno cinque banche per determinare i prezzi di questi strumenti (e si trattava già di un compromesso). D'ora in poi, invece, ne basteranno due, che saliranno a tre fra 15 mesi. Non esattamente un passo avanti in termini di trasparenza.

La questione è tutt'altro che marginale, visto che proprio l'oscurità dei mercati su cui si scambiano i derivati è stata alla base dell'esplosione speculativa di cui ancora oggi patiamo le conseguenze. L'allentamento di quella norma, dunque, preserva scientemente una di quelle "vulnerabilità" contro cui si dovrebbe combattere.

A beneficiarne sono naturalmente i colossi di Wall Street, che potranno continuare più facilmente a gonfiare commissioni e prezzi sui derivati. Si tutela così l'oligopolio delle cinque maggiori banche americane (JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs), capaci di controllare da sole il 90% di questi contratti, in un mercato che vale la cifra oceanica di 700 mila miliardi di dollari. Un manipolo di giganti in grado di esercitare pressioni indicibili sul potere politico, come sempre molto sensibile alle ragioni di chi finanzia le campagne elettorali (e non solo).

La recente modifica non azzera certamente l'efficacia della riforma, considerando che in futuro il commercio dei titoli derivati si dovrà svolgere su piattaforme regolamentate, non più nel buio pesto che ha regnato finora. E' tuttavia preoccupante che il ripensamento sia arrivato dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l'authority di controllo su futures e derivati.

"Quello dei derivati non sarà più un mercato chiuso e opaco - ha detto il presidente della Cftc, Gary Gensler -, ma resta comunque il più oscuro del pianeta. Bisognerà quindi applicare regole simili a quelle che disciplinano il mercato azionario e quello dei futures".

Nel frattempo, però, le authority americane (comprese la Sec, ovvero la Consob americana, e la stessa Federal Reserve) tardano anche a completare molte altre norme della Dodd-Frank, come la cosiddetta la Volcker Rule, che vorrebbe impedire il trading proprietario delle banche e ridurre la propensione al rischio degli istituti. Se ne discute da tanto, ma ancora niente. Con buona pace di Bernanke e dei suoi discorsi.





di Mario Lombardo

In seguito alla diffusione della notizia che il gigante della tecnologia Apple non ha praticamente pagato alcuna tassa sulle proprie entrate negli ultimi anni, l’amministratore delegato della compagnia con sede a Cupertino, Tim Cook, è stato chiamato a testimoniare questa settimana di fronte ad una commissione del Congresso americano, teoricamente per spiegare il comportamento della propria azienda.

L’apparizione, oltre a mostrare il consueto servilismo della classe politica USA verso gli esponenti dell’aristocrazia economica e finanziaria, si è risolta però in una difesa dell’operato di Apple e in un aperto invito ad abbassare ulteriormente il carico fiscale delle corporation.

Nella giornata di martedì, una sotto-commissione permanente del Senato per le investigazioni aveva presentato i risultati di un proprio rapporto, nel quale era emerso come Apple tra il 2009 e il 2011 ha pagato la miseria di 21 milioni di dollari su tutto il proprio fatturato registrato al di fuori degli Stati Uniti, traducendosi in un’aliquota che non arriva nemmeno allo 0,1%.

La più grande azienda del pianeta per capitalizzazione di mercato ha potuto evadere impunemente le tasse grazie ad una serie di più o meno complesse manovre che hanno convogliato i profitti su scala planetaria verso proprie filiali in paradisi fiscali. In particolare, la creazione di Apple Operations International in Irlanda avrebbe permesso alla corporation fondata da Steve Jobs di pagare un’aliquota nominale pari al 2% su quasi i due terzi del suo fatturato complessivo, nonostante le operazioni in questo paese siano ammontate, per l’anno 2011, a meno dell’1% di quelle totali.

Secondo l’indagine del Senato, ciò sarebbe stato possibile grazie ad un accordo speciale concordato tra Apple e le autorità fiscali dell’Irlanda, dove peraltro l’aliquota ufficiale per le corporation – 12,5% – risulta già una delle più basse in assoluto. Questa ipotesi di un’intesa ad hoc per Apple è stata però smentita martedì dal vice primo ministro di Dublino, Eamon Gilmore.

Negli ultimi anni, poi, Apple Operations International non avrebbe nemmeno presentato le pratiche per il pagamento delle tasse per la suddetta quota di fatturato, sfruttando la diversa legislazione fiscale di Stati Uniti e Irlanda. Nel primo paese, infatti, la domiciliazione fiscale dipende dalla sede legale dell’azienda in questione (Irlanda), mentre nel secondo dal luogo in cui viene gestita (USA). Grazie a questo cavillo, Apple avrebbe evitato di pagare un solo dollaro di tasse su qualcosa come 74 miliardi di dollari, così che la compagnia tra il 2009 e il 2012 ha potuto dichiarare ben 30 miliardi di profitti.

Se un simile comportamento è tutt’altro che un’eccezione nel panorama del business a stelle e strisce, per stessa ammissione degli investigatori che hanno condotto la ricerca per la commissione del Senato, Apple è stata la prima grande azienda statunitense a sottrarre la gran parte del proprio fatturato all’autorità fiscale di qualsiasi paese.

Ciononostante, Tim Cook è apparso tutt’altro che pentito o mortificato nella sua audizione di martedì, affermando, non senza ragione, che Apple ha pagato regolarmente tutte le tasse dovute senza violare alcuna legge. Nessuno dei senatori della commissione ha potuto smentire il CEO di Apple, dal momento che quest’ultima ha semplicemente utilizzato un sistema fiscale costruito appositamente per consentire alle grandi aziende di evadere legalmente le tasse.

Cook ha inoltre ricordato come i vertici di Apple abbiano “raccomandato all’amministrazione Obama e a molti membri del Congresso di adoperarsi per semplificare drasticamente il sistema di tassazione delle corporation americane”, lasciando intendere che gli espedienti messi in atto per ridurre il carico fiscale tramite filiali estere potrebbero essere abbandonati se gli Stati Uniti dovessero applicare aliquote irrisorie come quelle in vigore in Irlanda o in altri paradisi fiscali.

Da parte dei senatori, invece, durante l’audizione non c’è stato altro che deferenza nei confronti di Cook, con il presidente della commissione, il democratico Carl Levin, e altri suoi colleghi che hanno elogiato a lungo il management di Apple, evitando accuratamente di suggerire misure o iniziative per far pagare alla compagnia la giusta quota di tasse negli Stati Uniti o per impedire la continua colossale truffa legalizzata ai danni del governo e dei normali contribuenti americani.

Le manovre messe in atto per annullare virtualmente il carico fiscale sono peraltro la regola per le corporation americane, e non solo. Pochi mesi fa, per le stesse ragioni erano finiti sotto indagine alcuni dei concorrenti di Apple, come Microsoft e HP, mentre, secondo quanto riportato dall’organizzazione Citizens for Tax Justice, tra il 2008 e il 2010 una trentina di corporation - tra cui Boeing, General Electric, Mattel e Verizon - non hanno pagato un solo dollaro di tasse a fronte di profitti complessivi pari a 205 miliardi di dollari. Se queste compagnie avessero pagato in pieno l’aliquota prevista negli USA - pari al 35% - in tre anni il governo federale avrebbe incassato oltre 78 miliardi di dollari.

Il danno causato da questo gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche dell’élite economica e finanziaria è stato calcolato dalla stessa commissione del Senato, la quale ha messo in luce il collegamento tra l’impennata del debito pubblico americano e il crollo delle tasse effettivamente pagate dalle corporation, “producendo un fardello sempre più pesante per i singoli contribuenti e le generazioni future”.

Nel 1952, ad esempio, le tasse pagate dalle corporation negli Stati Uniti costituivano più del 32% di tutto il gettito fiscale federale, mentre oggi tale quota è crollata al di sotto del 9%.

Tutto ciò si è concretizzato, per l’anno 2011, in un conto fiscale di 1.100 miliardi di dollari pagato dai contribuenti individuali e di appena 181 miliardi dalle corporation. Simili dati risultano ancora più sconcertanti se si considera che, secondo alcune ricerche, il fatturato registrato all’estero dalle grandi aziende americane per l’anno 2012 ha sfiorato i duemila miliardi di dollari, mentre i profitti non tassabili negli USA sono aumentati del 70% negli ultimi cinque anni.

La stessa Apple vanta oggi una liquidità pari a 145 miliardi di dollari, di cui oltre 100 localizzabili al di fuori dei confini americani e quindi non soggetti al sistema fiscale degli Stati Uniti.

In questo scenario, la classe politica americana, come quella degli altri paesi, si limita a lanciare vuoti appelli ad una riforma globale del sistema di tassazione delle grandi compagnie multinazionali, mentre i giganteschi profitti già sottratti al fisco e alla grande maggioranza della popolazione rimangono al di fuori di qualsiasi ipotesi di confisca o, quanto meno, di un’equa tassazione.

In compenso, i politici di tutti gli schieramenti continuano a chiedere durissimi tagli alla spesa pubblica, sostenendo che non esistono più le risorse per programmi vitali che potrebbero essere invece ampiamente finanziati con la vasta ricchezza scandalosamente concentrata nelle mani di una ristretta oligarchia al vertice della piramide sociale.

di Carlo Musilli

Goodbye Bruxelles... Oppure no? Saranno gli elettori a deciderlo. Ieri il Partito Conservatore britannico ha presentato un progetto di legge sul tanto pubblicizzato referendum per uscire dall'Unione europea. Un'idea che aveva già ottenuto l’approvazione del primo ministro David Cameron e che dovrebbe portare il Paese alle urne entro il 2017. Si tratta certamente di una trovata elettorale, ma il suo potenziale è quantomeno destabilizzante.

Innanzitutto sul fronte continentale, dove rischierebbe di provocare una crisi diplomatica (per il mancato rispetto dei trattati internazionali) e forse anche una nuova tornata di speculazione anti-euro (sport in cui le banche della City sono maestre indiscusse).

L’uscita di un Paese dall’Ue non creerebbe certo gli stessi problemi di una defezione all’interno dell’Eurozona, né sarebbero paragonabili le procedure (peraltro mai scritte). Ma i mercati potrebbero giocare al massacro sulla scorta di una semplice deduzione: se oggi qualcuno può abbandonare l’Unione, perché mai domani qualcun altro non potrebbe salutare Eurolandia?

E ancora: l'Europa unita, già debole a livello globale, avrebbe ancora senso se si privasse della sua terza economia? In realtà, molti Conservatori inglesi sostengono la necessità di rimanere nel mercato unico europeo, ma allo stesso tempo vorrebbero sottrarsi ad altre pratiche comunitarie, nella convinzione che stiano diventando sempre più burocratiche e anti-democratiche.

Ma prima di sottoporre questi dubbi amletici ad altri 26 Paesi, gli adepti di Cameron dovranno risolvere un paio di grane in casa. Purtroppo per loro, al momento non hanno la maggioranza in Parlamento: fanno parte di una coalizione di governo con i liberaldemocratici, i quali non hanno alcuna intenzione di uscire dall’Ue. Il progetto referendario potrebbe quindi fallire, a meno che i parlamentari di altri partiti non lo sostengano.

Da parte sua, Cameron - che guida il governo di coalizione da tre anni - ha annunciato la ratifica della proposta lunedì sera, mentre si trovava in visita negli Stati Uniti. Quattro mesi fa il Premier si era assunto un impegno di fronte al Paese: rinegoziare i termini dell'adesione britannica all'Ue per poi tenere il famoso referendum entro cinque anni. Una posizione che però secondo qualcuno non è ancora abbastanza netta, dal momento che un centinaio di parlamentari conservatori potrebbe presentare un emendamento per criticare la decisione del governo di non anticipare la consultazione.

Sembra quindi che l'obiettivo numero uno del Premier non sia affatto ridefinire il ruolo del Regno Unito nello scacchiere politico ed economico internazionale, quanto cercare di mantenere la coesione dei Conservatori intorno al tema che più di ogni altro ha diviso la destra inglese negli ultimi decenni. L'integrazione continentale, in passato, ha contribuito alla caduta di Margaret Thatcher e di John Major. Già nel 2006 Cameron aveva intimato al suo partito di "smettere di fare casino sull'Europa".

Oggi però la situazione è ancora più difficile da gestire, soprattutto perché negli ultimi tempi è aumentata incredibilmente la popolarità dell'euroscettico Ukip (il Partito per l'Indipendenza del Regno Unito), che secondo alcuni sondaggi potrebbe contare ormai sul 18% dei voti nazionali (al momento non ha alcun rappresentante in Parlamento). Un'ascesa che naturalmente sottrae fiumi di voti ai Conservatori, più che mai angosciati in vista delle elezioni generali del 2015.

Il fenomeno è stato confermato dalle recenti consultazioni locali: l'Ukip è passato da otto a ben 147 consiglieri, ottenendo in media il 25% dei suffragi nelle circoscrizioni in cui ha presentato dei candidati. Al contrario, i Conservatori sono andati peggio del previsto, perdendo 335 seggi e fermandosi a quota 1.116.

Cameron vuole tamponare la ferita per non rischiare di morire dissanguato, ma lo fa in modo quantomeno sospetto. Basta ragionare sulla data scelta per il referendum: prevedere la consultazione nel 2017 significa vincolarla alla vittoria dei Conservatori alle prossime elezioni. "Sarebbe sbagliato chiedere ai cittadini se vogliono restare o uscire - si era giustificato Cameron a gennaio - prima di avere avuto la possibilità di correggere i nostri rapporti con l'Unione europea".

Insomma, l'addio all'Ue viene sbandierato davanti agli occhi degli elettori inglesi un po' come si è fatto in Italia con la cancellazione dell'Imu. E se in Gran Bretagna aumentano gli euroscettici, in Europa sono sempre di più gli "angloperplessi".





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