di Carlo Musilli

Quella che si è appena chiusa a Bruxelles è stata una settimana di accordi molto attesi, ma rimangono ancora diverse zone d'ombra. Nonostante la soddisfazione espressa dai vari capi di Stato e di governo, non è chiaro se e in che modo le intese raggiunte saranno in grado di sostenere concretamente l'economia europea. Fra le decisioni prese nel corso del vertice Ue di giovedì e venerdì, quelle di maggiore interesse riguardano il lavoro e gli investimenti.

Sul primo fronte si è stabilito che i sei miliardi di euro già stanziati per l'occupazione giovanile saranno interamente spendibili nel biennio 2014-2015 (inizialmente erano spalmati fino al 2020). A questa somma si aggiungeranno altri 2-3 miliardi grazie alla flessibilità concordata per il bilancio europeo 2014-2020 (su cui il Consiglio ha finalmente trovato un accordo, tutelando lo "sconto" tradizionalmente concesso alla Gran Bretagna). Il presidente Ue Herman Van Rompuy ha parlato di due miliardi, il premier Enrico Letta di tre. All'Italia spetterà circa un miliardo e mezzo: "Un grandissimo risultato", ha detto il Presidente del Consiglio, dal momento che la somma è stata "quasi triplicata".

L'iniziativa dovrà essere “pienamente operativa entro gennaio 2014 - si legge nelle conclusioni del vertice - in modo da consentire  i primi pagamenti ai beneficiari nelle regioni Ue con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25%”.

Purtroppo ancora non è dato sapere come questi "pagamenti" saranno impiegati per tamponare la piaga del lavoro che non c'è. Mentre aspettiamo il secondo pacchetto di misure annunciato dal nostro governo (sperando che contenga provvedimenti più efficaci del primo), prendiamo atto che buona parte dei fondi sarà spesa per finanziare il programma europeo "Youth Guarantee", con cui si dovrebbe assicurare ai giovani sotto i 25 anni un posto di lavoro o una formazione d’eccellenza entro i primi quattro mesi dalla fine degli studi.

Ora, anche sfruttando questo canale, il nostro Paese rischia di trovarsi in seria difficoltà. Il programma dovrà infatti essere gestito dai centri per l'impiego, che in Italia non sono certamente un modello d'efficienza.

Rimane infine da capire quale efficacia potrà avere la somma stanziata complessivamente. In uno slancio d'onestà il cancelliere austriaco Werner Fayman ha ammesso che "per rispondere alla sfida della disoccupazione giovanile in Europa ci vorrebbero almeno sei miliardi l'anno". 

Quanto al secondo grande capitolo affrontato la settimana scorsa a Bruxelles, il Consiglio Ue ha deciso di rafforzare il ruolo della Banca europea degli investimenti (Bei) come erogatore di garanzie e di prestiti (che aumenteranno "almeno del 40%", contro il +50% indicato nella prima bozza d'accordo). La Bei ha già individuato opportunità di prestiti per circa 150 miliardi di euro, con priorità per l'accesso al credito delle imprese, l'innovazione e la formazione, l'efficienza energetica e le infrastrutture strategiche.

Il ruolo della Bei è al centro della più classica controversia europea, quella fra i rigoristi intransigenti e coloro che preferirebbero allentare il cappio. I primi vogliono che l'istituto conservi il rating massimo, la famosa "tripla A", investendo soltanto in progetti più che sicuri. La fazione opposta - di cui fa parte l'Italia - chiede invece che la Bei allarghi il suo raggio d'azione per sostenere in modo più incisivo l'economia reale. Che rimane ancora in attesa.

Il dibattito europeo non ha prodotto invece particolari sorprese su altri fronti. Nessun passo avanti, ad esempio, sull'unione bancaria, se non l'illuminante precisazione che si tratta di una "priorità chiave". Più movimentata la discussione sui nuovi Paesi da accogliere nella grande famiglia europea.

Due decisioni sono ormai acquisite: la Croazia è ufficialmente il 28esimo Paese dell'Ue, mentre dall'anno prossimo la Lettonia entrerà a far parte dell'Eurozona. La partita è invece ancora aperta e complicata per quanto riguarda la Serbia. Il Consiglio ha stabilito di aprire “al più tardi nel gennaio 2014” i negoziati per l’ingresso di Belgrado nell'Unione.

La cancelliera tedesca Angela Merkel, tuttavia, non è una fan dell'allargamento europeo nei Balcani. Su pressione della Germania, dunque, si è deciso che la struttura dei negoziati con la Serbia dovrà essere approvata dal Consiglio Ue di fine 2013. Van Rompuy avrebbe preferito affidare il dossier al Consiglio Affari Esteri, ma questo avrebbe rimesso la pratica al giudizio dei ministri dei vari Paesi.

Il cambiamento di rotta, invece, consentirà molto probabilmente alla Merkel di occuparsi personalmente della vicenda. Il calcolo è semplice: a settembre la Germania andrà al voto e, se dalle urne dovesse uscire un governo di grande coalizione, i socialdemocratici potrebbero pretendere il ministero degli Esteri.

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