di Carlo Musilli

Nessun default, nessun biglietto d'uscita dall'Eurozona. Cipro è salva, ma la soluzione concordata fra Bruxelles e Nicosia per evitare il baratro manda su tutte le furie Mosca. A pagare il conto più salato saranno proprio i facoltosi oligarchi russi, che nelle banche dell'isola - ormai ex paradiso fiscale - avevano parcheggiato diversi miliardi di euro. Si rallegra invece la Germania di Angela Merkel, uscita vincitrice anche da questa battaglia negoziale.

Nella notte fra domenica e lunedì l'Eurogruppo ha dato il via libera al pacchetto d'aiuti in favore di Cipro (10 miliardi di euro), cui potrebbe aggiungersi anche un contributo del Fondo monetario internazionale. La prima tranche sarà trasferita a maggio. Da parte sua, l'isola si impegna a ridimensionare fortemente il proprio sistema bancario (esposto per asset pari all'800% del Pil) e a raccogliere gli altri sette miliardi necessari al salvataggio del Paese.

Il piano prevede la chiusura della banca Laiki, secondo istituto cipriota per dimensioni, "con il pieno contributo di titolari di azioni, obbligazioni e depositi non garantiti", come si legge nella dichiarazione dell’Eurogruppo. La Banca sarà divisa in una "good bank" e in una "bad bank": la parte "buona" confluirà nella Banca di Cipro, il principale istituto del Paese.

Nella “good bank” saranno trasferiti i depositi inferiori a 100mila euro, che non saranno toccati e verranno garantiti dall'Unione europea. I depositi superiori alla soglia, invece, "resteranno congelati finché non sarà effettuata la ricapitalizzazione della banca" e "potrebbero successivamente essere soggetti a misure appropriate". Ovvero a un prelievo forzoso, di cui però ancora non si conosce l'ammontare.

La Banca di Cipro sarà a sua volta ricapitalizzata, anche in questo caso "con un pieno contributo dei titolari di azioni e di obbligazioni" e "con una conversione dei depositi non garantiti in azioni". In questo caso, tuttavia, sui depositi superiori a 100 mila euro sarà applicato un prelievo di "circa" il 30%, come ha spiegato il portavoce del governo cipriota, Christos Stilianides, parlando alla radio pubblica. Una stangata pesantissima, ma comunque inferiore al 60% proposto dalla Troika. Nessuna differenza invece per i depositi inferiori alla soglia dei 100 mila euro, che godranno della garanzia europea.

Questi termini dell'accordo consentono di far rientrare dalla finestra (anche se in forma diversa) quel prelievo forzoso che il Parlamento cipriota aveva bocciato non più di una settimana fa. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha spiegato che l’intesa "non ha bisogno di essere votata dal Parlamento di Nicosia perché non è più una tassa, ma prevede solo ristrutturazione e risoluzione di banche, come da legge già passata venerdì".

Intanto la Bce continuerà a fornire liquidità d'emergenza all'isola, operazione che avrebbe interrotto ieri se Nicosia non avesse raggiunto l'accordo con i creditori internazionali. Quanto alle banche del Paese, dovrebbero riaprire oggi, ma ieri il ministro delle Finanze cipriota Michalis Sarris non ha dato certezze: "Riapriranno il prima possibile". Gli istituti sono chiusi ormai da 10 giorni per evitare la fuga in massa dei capitali, anche se nel frattempo sono state varate misure che dovrebbero impedire i maxi trasferimenti (ma non sempre ci riescono). E' saltato così anche un altro tabù, ovvero la libera circolazione dei capitali nell'Eurozona.

E' evidente che il nuovo piano pesi in particolare sulle tasche dei russi. Il primo ministro di Mosca, Dimitri Medvedev, non ha usato giri di parole: "A mio parere continuano a rubare ciò che è già stato rubato - ha detto ieri -. Dobbiamo capire in cosa si trasformerà questa storia e quali saranno le conseguenze per il sistema finanziario e monetario internazionale, come pure per i nostri interessi".

Di segno opposto la reazione di Angela Merkel, che si è detta "molto contenta" dell'accordo, giudicandolo "sostenibile" e rispondente agli interessi di Nicosia e dell'Eurozona. Di fatto, alla fine è passata la linea tedesca, che fin dall'inizio chiedeva l'eliminazione dei due principali istituti di credito ciprioti.

Nel frattempo è partita la gara fra le banche europee che vorrebbero accaparrarsi i depositi russi in fuga da Cipro. Secondo il Financial Times, i primi tentativi sono arrivati da Andorra, Germania, Lettonia e Svizzera. Ma non è escluso che a questo punto gli oligarchi abbiano in mente località più esotiche.

di Carlo Musilli

L'attenzione di Cipro si sposta da Bruxelles a Mosca. Il governo dell'isola ha congelato le trattative con l'Unione europea - che si è rivelata incapace di proporre soluzioni accettabili - e per risolvere lo stallo ha chiesto aiuto alla Russia. Nicosia ha bisogno in tutto di circa 17 miliardi di euro per ricapitalizzare le banche e salvarsi dal fallimento. Dai creditori internazionali non potranno arrivarne più di 10, poiché non si ritiene verosimile che Cipro sia in grado di restituire un prestito più generoso.

Per sbloccare questi aiuti è necessario però che il Paese garantisca la copertura della quota rimanente. Ed è proprio questo il problema, perché martedì scorso il Parlamento cipriota ha bocciato la proposta concordata dal governo con l'Eurogruppo, che prevedeva come misura principale un maxi prelievo forzoso sui conti correnti. Risultato: all'appello mancano ancora 5,8 miliardi.

Per risolvere la situazione senza toccare i depositi bancari (intervento che non avrebbe precedenti nella storia dell'Ue e che ha terrorizzato i mercati) martedì sera il ministro delle Finanze dell'isola, Michalis Sarris, è volato in Russia. Le richieste di Cipro a Mosca sono due: il prolungamento del credito da 2,5 miliardi di euro ricevuto due anni fa (che scadrebbe nel 2016), con tanto di riduzione del tasso d'interesse (attualmente al 4,5%), e un ulteriore credito da cinque miliardi. Secondo alcune indiscrezioni, Nicosia avrebbe offerto in cambio una quota nella sua riserva di gas offshore non ancora sviluppata (nei giorni scorsi si era parlato di Gazprom come parte attiva nell'operazione), ma le autorità russe hanno negato qualsiasi interesse del Cremlino in questo senso.

La stampa cipriota e greca ipotizza anche che, oltre al prestito, Mosca potrebbe acquistare da Nicosia la banca Laki (Banca Popolare di Cipro) e altre istituzioni, in cambio di concessioni per un porto da destinare alla flotta russa. Non è da sottovalutare infatti la posizione geografica di Cipro, nodo strategico a pochi chilometri dalle coste della Siria.

D'altra parte, l'amicizia fra l'isola mediterranea e la Russia non è certo una novità di questi giorni. I depositi bancari più ricchi fra quelli parcheggiati nelle banche cipriote appartengono ad oligarchi russi (secondo alcune stime si tratta di 18,3 miliardi su 91,5 totali). E' quindi facile capire per quale ragione proprio da Mosca sia arrivata l'opposizione più violenta all'ipotesi del prelievo forzoso, che prevedeva una stangata addirittura del 9,9% sui patrimoni superiori a 100 mila euro.

E si spiega anche perché le autorità di Nicosia abbiano rifiutato la proposta dell'Eurogruppo, che ieri ha rivelato di aver suggerito fin dall'inizio l'esenzione totale sui depositi fino a 100 mila euro: se i correntisti meno facoltosi non avessero pagato nulla, per mantenere i saldi invariati l'aliquota sui più ricchi sarebbe schizzata ancora più in alto (si è parlato perfino del 15%), risultando ancor più inaccettabile per i munifici partner russi.

Il voto del Parlamento cipriota ha fatto calare il sipario su questi calcoli, almeno per il momento. Ma a questo punto il governo di Nicosia è obbligato a proporre un piano B. Oltre alla pista russa, ieri si è parlato anche di opzioni più folkloristiche. Si pensa ad esempio di metter mano ai beni della Chiesa ortodossa: l'arcivescovo Chrysostomos II - al termine di un incontro con il presidente Nicos Anastasiades - ha annunciato che il clero è pronto a offrire il suo enorme patrimonio immobiliare.

Un'altra ipotesi prevede di nazionalizzare i fondi pensione delle istituzioni pubbliche e para-statali, misura che secondo fonti governative potrebbe garantire fino a tre miliardi di euro. Lo Stato potrebbe inoltre decidere di pilotare la fusione dei due maggiori istituti di credito del Paese, in modo da ridurre l'ammontare delle ricapitalizzazioni necessarie.

Qualunque soluzione scelga Nicosia, all'Europa interessa soltanto che il gettito finale di 5,8 miliardi sia garantito per intero. "Non si sa quando Cipro metterà sul tavolo un progetto - hanno riferito fonti Ue citate da France Presse -. Ma la zona euro si riunirà questa settimana unicamente se Cipro farà delle proposte concrete".

Intanto, l'incubo del prelievo forzoso non è affatto svanito. Potrebbe tornare da un momento all'altro, magari dopo aver subito l'ennesima metamorfosi. Per questo l'obiettivo numero uno della Banca centrale cipriota è scongiurare la fuga in massa dei capitali: gli istituti di credito sono chiusi da sabato scorso e anche la mini-Borsa cipriota tiene le saracinesche abbassate.

“Cipro è nostro partner nell'Eurozona - ha detto ieri la cancelliera tedesca Angela Merkel -. E' nostro dovere trovare una soluzione insieme”. Certo, se ci pensasse la Russia, sarebbe un piacere.

di Carlo Musilli

Tre giorni di storia cipriota per umiliare l'Unione europea. Quello che è successo nell'isola mediterranea fra domenica e lunedì ha smascherato tutta la goffaggine e il pressappochismo di cui sono capaci a Bruxelles. Dopo aver rinviato due volte la votazione, ieri il Parlamento di Cipro - composto da ben 56 persone - ha bocciato il pacchetto di misure chieste dall'Ue in cambio di aiuti per 10 miliardi di euro. I voti contrari sono stati 36, 19 gli astenuti, un assente. Il Paese avrebbe bisogno del credito internazionale per ricapitalizzare le banche ed evitare la bancarotta. E allora perché mai il gran rifiuto?

Il problema centrale è uno degli interventi compresi nel pacchetto: il prelievo forzoso sui conti correnti. Qualcosa di inaudito e inedito. Mai prima d'ora l'Europa aveva cercato di mettere le mani direttamente nei risparmi dei cittadini, calpestando di fatto ogni minimo residuo di sovranità nazionale. In Italia si sono sprecati i paragoni con quello che successe nel 1992 sotto il governo Amato, ma occorre sottolineare almeno due differenze cruciali. Primo: anche se si trattava di un esecutivo tecnico, nel nostro Paese fu un'autorità nazionale a decidere l'intervento. Secondo: il prelievo che abbiamo subito 21 anni fa era dello 0,6%. Una leggera carezza in confronto a quello che si pensa d'infliggere ai ciprioti.

Partorita nella notte tra venerdì e sabato dall'Eurogruppo, la versione originaria del provvedimento stabiliva di tassare al 6,75% i depositi bancari fino a 100 mila euro e al 9,9% quelli d'importo superiore. Le prevedibili contestazioni hanno poi scatenato il giochetto patetico dello scaricabarile. Nessuno si è assunto la paternità della proposta, nemmeno la Germania. I mercati però si sono terrorizzati all'idea che l'Europa sia capace di un'imposizione simile (anche se ieri il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha assicurato che non si ripeterà altrove) e questo ha convinto i tecnocrati a una fulminea retromarcia.

Lunedì sera l'Eurogruppo aveva chiesto ufficialmente che fossero esentati dal prelievo i conti fino a 100 mila euro. Per bilanciare la correzione, tuttavia, l'aliquota sui patrimoni d'importo superiore sarebbe stata innalzata, potenzialmente fino al 15%. Niente da fare, anche stavolta un buco nell'acqua.

Nel giro di poche ore la tassa della discordia ha subito altre metamorfosi: prima sono circolate voci di una possibile riduzione dal 6,75 al 3% sui depositi inferiori ai 100 mila euro, contro un innalzamento dal 9,9 al 12,5% per quelli d'importo superiore; poi si è detto di esonerare dal balzello i depositi inferiori ai 20 mila euro, mantenendo l'aliquota del 6,75% su quelli tra 20 e 100 mila euro e quella da 9,9% sui conti più facoltosi. Nell'ultima ipotesi cominciava forse a baluginare un minimo di progressività, ma la proposta non consentiva di raggiungere il gettito complessivo di 5,8 miliardi richiesto dall’Ue. Alla fine il Parlamento cipriota ha fatto calare il sipario sull'indecoroso teatrino.

E adesso? "E' il pacchetto di riforme di Cipro - ha sentenziato Joerg Asmussen, membro del board Bce -, spetta a Cipro decidere la struttura del contributo delle banche. L'importante è che alla fine il conto sia di 5,8 miliardi". L'Europa ha praticamente concesso carta bianca sulla rimodulazione della stangata, a patto che Nicosia riesca a raccogliere la somma necessaria a sbloccare il prestito internazionale. I ministri delle Finanze dell'Eurozona ritengono però che "i piccoli depositi debbano essere trattati diversamente da gli altri", garantendo l'esenzione a quelli sotto i 100 mila euro. Evidentemente tra venerdì e sabato avevano scherzato, nel weekend siamo tutti un po' più burloni.

Visto che la situazione non era abbastanza complicata, gli inglesi hanno pensato bene di alzare la tensione. Con il solito spirito comunitario made in England, Londra ha congelato i pagamenti dei pensionati britannici che vivono a Cipro, in modo da evitare loro il prelievo forzoso. Poi ha deciso d'inviare un aereo militare con a bordo un milione di euro cash da destinare ai soldati britannici e alle loro famiglie (sulla costa sudorientale dell'isola sorge un'enorme base militare inglese).

Sul fronte internazionale, tuttavia, l'opposizione più agguerrita al prelievo cipriota è arrivata da Mosca. La maggior parte dei grandi patrimoni parcheggiati nelle banche dell'isola è infatti di origine russa (in molti sospettano che si tratti per lo più di ricavi prodotti da attività illecite e riciclati al sole). Dei 91,5 miliardi di euro depositati negli istituti ciprioti, 18,3 miliardi appartengono ufficialmente a cittadini russi. Ecco spiegato per quale motivo Vladimir Putin consideri il prelievo "ingiusto, poco professionale e pericoloso". (Intanto ieri mattina il ministro delle Finanze cipriota, Michalis Sarris, si è recato a Mosca per chiedere un’estensione del credito di 2,5 miliardi di euro ricevuto due anni fa e un alleggerimento delle condizioni).

Al numero uno del Cremlino ha risposto indirettamente Wolfgang Schaeuble: "Chiunque investa i suoi soldi in un Paese dove si pagano meno imposte se ne assume il rischio - ha detto il ministro delle Finanze tedesco -. E' irresponsabile pensare che solo i contribuenti europei debbano finanziare gli investimenti stranieri a Cipro".

Intanto nelle strade di Nicosia vanno in scena manifestazione di protesta da parte della popolazione, mentre in tutto il Paese le banche sono chiuse da sabato scorso e rialzeranno le saracinesche solo domani. Secondo la Banca centrale cipriota, gli istituti di credito dell'isola rischiano una fuga di capitali pari al 10% del totale nei primi giorni dalla riapertura.

Chiusa anche la mini-Borsa cipriota, ufficialmente per "proteggere gli investitori", ufficiosamente perché i depositi potrebbero scappare anche con la corsa all'acquisto di azioni e bond.

Quanto ai mercati internazionali, continua l'apprensione degli investitori per il caso Cipro. C'è già chi sostiene che l'isola abbia una "rilevanza sistemica", potenzialmente in grado di scatenare l'effetto domino decisivo per l'autodistruzione dell'euro. Insomma, quell'armageddon finale tanto temuto negli ultimi anni. E stiamo parlando di un Paese con una popolazione di circa 800 mila abitanti. Meno di Torino.

di Carlo Musilli

La "Balena di Londra" torna a galla e fa tremare ancora JP Morgan. Giovedì sera la Sottocommissione permanente per le indagini del Senato americano ha accusato la superbanca americana di aver continuato ad ingannare le autorità di vigilanza e gli investitori su un vecchio scandalo. Il caso - legato, tanto per cambiare, al mercato dei derivati - riguarda "The London Whale", ovvero Bruno Iksil, il broker inglese che l'anno scorso ha aperto una voragine nei conti dell'istituto con una serie di scommesse rischiosissime e fallimentari sui più famigerati titoli finanziari, i Cds.

Stando al rapporto della sottocommissione Usa - basato su oltre 50 interviste e sull'analisi di circa 90 mila documenti - JP Morgan avrebbe mentito sull'ammontare delle perdite legate al cetaceo britannico. Il buco potrebbe essere molto più pesante di quanto finora ammesso dalla Banca, che nel febbraio dell'anno scorso aveva quantificato il danno patrimoniale in 6,3 miliardi i dollari.

Insomma, per evitare catastrofi ancora peggiori sui mercati, sembra proprio che l'istituto abbia cercato di sminuire il più possibile la vicenda, al punto che l'amministratore delegato James Dimon ha smorzato gli allarmi parlando di una "tempesta in un bicchiere d'acqua".

Ma secondo il numero uno della sottocommissione, il senatore democratico Carl Levin, gli investigatori "hanno scoperto operazioni di trading, fondate sul rischio, che ignoravano i limiti posti all'assunzione dei rischi stessi, nascondevano le perdite, eludevano la supervisione e disinformavano il pubblico".

JP Morgan però non ci sta: "Anche se abbiamo più volte riconosciuto gli errori - scrivono dalla Banca -, i nostri alti dirigenti hanno agito in buona fede e non hanno mai avuto intenzione di ingannare nessuno".

Peccato che l'ex direttore finanziario di JP Morgan, Ina Drew, abbia fornito ai senatori americani la seguente testimonianza: "Le cose sono andate terribilmente male. Acquisti molto cospicui all'epoca non sono stati portati alla mia attenzione. Da quando me ne sono andata ho saputo di condotte riprovevoli da parte del team di Londra: ero e sono profondamente rattristita dal fatto che simili condotte abbiano deluso me e la Banca".

Già, perché il settore in cui operava la "Balena di Londra", il Chief Investment Office, era del tutto particolare. I controlli erano di gran lunga meno severi rispetto ad altri comparti, veniva usato un sistema di calcolo del rischio più blando e i manager rendevano conto direttamente al Ceo Dimon, senza passare da strutture intermedie.

John McCain, senatore repubblicano ex candidato alla presidenza, sostiene che l'istituto abbia "ingannato gli investitori e i contribuenti americani", producendo perdite che rappresentano "un enorme fallimento non solo per JP Morgan, ma anche per il governo federale".

Nel mirino della sottocommissione è finito anche l'Office of the Comptroller of the Currency (Occ), ovvero l'ufficio di vigilanza del Dipartimento del Tesoro. Attraverso un portavoce, l'Occ ha ammesso che nei controlli ci sono state delle "carenze", ma al tempo stesso ha garantito che le autorità stanno prendendo "provvedimenti per migliorare il processo di controllo di tutti i grandi istituti finanziari sottoposti a vigilanza".

Meglio tardi che mai? Non ancora. Quando si parla di finanza - soprattutto americana o inglese - è sempre bene non lasciarsi trasportare dalla fiducia, né tantomeno dall'entusiasmo. L'ultima storiaccia sul conto di JP Morgan non racconta ancora verità giudiziarie, ma dimostra per l'ennesima volta che le vere metastasi dell'economia contemporanea godono ancora di ottima salute.

L'assenza di regole stringenti nel mercato dei derivati - dove si svolgono operazioni incomprensibili ai più - e la mancanza di controlli rigidi da parte delle autorità sono le radici più profonde della crisi finanziaria di cui ancora subiamo le conseguenze. Nessuno le ha mai estirpate. Il buon Dimon è uno dei più strenui oppositori a qualsiasi tipo di nuova regolamentazione per le banche e - secondo un passaggio del rapporto - almeno in un'occasione avrebbe esplicitamente chiesto ai suoi dipendenti di interrompere l’invio delle informazioni alle autorità che effettuano i controlli. Ecco perché, a intervalli regolari, vengono ancora a galla le solite "balene".




di Carlo Musilli

Li chiamano "prestiti payday", ma assomigliano molto a una forma di strozzinaggio legalizzato. Niente sicari, minacce fisiche, boss o malavita. Si fa tutto via internet. Negli Stati Uniti esistono società di credito che concedono prestiti online con una facilità davvero sorprendente, senza perdere troppo tempo in fastidiose domande. Hai bisogno di denaro? Ecco a te, è semplicissimo. Peccato che tanta munificenza non sia affatto gratis: i tassi d'interesse arrivano a superare il 500% e - per chi non è in grado di restituire il malloppo entro un anno - possono toccare perfino la vetta spaventosa del 16mila%. Naturalmente, operazioni di questo tipo non possono che avvenire con la complicità delle banche.

E' evidente che, a mente lucida e in condizioni normali, nessuno si sottoporrebbe a un trattamento del genere. Ma in tempi di crisi la razionalità passa in secondo piano e i giganti della finanza fanno affari d'oro picchiando sulle ferite dei più deboli. Persone magari in difficoltà, che non resistono alla tentazione di un credito così accessibile. Secondo uno studio del centro no profit Pew Charitable Trusts, solo nel 2010 circa tre milioni di americani hanno ottenuto un prestito "payday" e fra 2006 e 2011 l'ammontare complessivo di queste operazioni è salito da 5,8 a 13 miliardi di dollari.

Ma qual è il ruolo delle banche? Come sempre, gli istituti delle dimensioni di Bank of America e JP Morgan recitano una parte decisiva, consentendo alle società creditrici di prelevare automaticamente i ricchi interessi dai conti correnti dei loro creditori. Un via libera che viene concesso sempre e comunque: anche negli Stati Usa dove i prestiti "payday"sono vietati per legge e perfino se i clienti stessi chiedono esplicitamente di non permettere alcun prelievo.

Lo fanno perché traggono profitto dai guai dei propri correntisti. Spesso chi ha avuto la sventura di entrare nella spirale dei "payday" si ritrova il conto azzerato dagli interessi siderali succhiati dall'esterno. Nel 27% dei casi (sempre secondo i dati Pew Charitable Trusts) finisce addirittura in rosso ed è costretto a pagare multe salate alla propria banca.

Ma chi riesce a non farsi prosciugare i risparmi deve tenere comunque la guardia alta, perché uscire dal vortice non è affatto semplice come può sembrare. Per restituire il prestito bisogna avvisare la società di credito con almeno tre giorni d'anticipo, altrimenti gli interessi saranno prelevati come nulla fosse e il credito verrà rinnovato per almeno un altro mese.

Queste aziende sanno benissimo di praticare un'attività illegale in 15 dei 50 Stati americani, perciò si stanno spostando all'estero, in Paesi dove le maglie della legge sono meno strette. Una scelta che non porterà loro alcuna perdita, dato che attraverso internet saranno comunque in grado di raggiungere tutti i clienti americani.

Ma cosa sta facendo il governo federale per contrastare tutto questo? Nonostante la pratica dei prestiti "payday" vada avanti da anni, solo di recente le autorità Usa hanno preso di mira le banche coinvolte. Sul ruolo degli istituti di credito nello "strozzinaggio telematico" hanno iniziato a indagare due agenzie di controllo: la Federal Deposit Insurance Corporation e il Consumer Financial Protection Bureau. Nello Stato di New York, dove per legge i tassi non potrebbero superare il 25%, il numero uno del dipartimento dei Servizi finanziari, Benjamin Lawsky, sta portando avanti un'inchiesta.

Non sembra invece avere dubbi un certo Josh Zinner, direttore dell’organizzazione Neighborhood Economic Development Advocacy Project: "Senza la collaborazione delle banche nell'effettuare le transazioni - ha detto al New York Times - queste società non potrebbero fare quello che fanno".

A questo punto rimane soltanto da aspettare il corso della giustizia americana. E non sarà affatto un'attesa breve, almeno a giudicare dalla timidezza con cui l'amministrazione Obama sta ancora perseguendo le banche di Wall Street per il vero peccato originale dell'intera crisi finanziaria. I cari vecchi mutui subprime. 


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