di Carlo Musilli

Tre giorni di storia cipriota per umiliare l'Unione europea. Quello che è successo nell'isola mediterranea fra domenica e lunedì ha smascherato tutta la goffaggine e il pressappochismo di cui sono capaci a Bruxelles. Dopo aver rinviato due volte la votazione, ieri il Parlamento di Cipro - composto da ben 56 persone - ha bocciato il pacchetto di misure chieste dall'Ue in cambio di aiuti per 10 miliardi di euro. I voti contrari sono stati 36, 19 gli astenuti, un assente. Il Paese avrebbe bisogno del credito internazionale per ricapitalizzare le banche ed evitare la bancarotta. E allora perché mai il gran rifiuto?

Il problema centrale è uno degli interventi compresi nel pacchetto: il prelievo forzoso sui conti correnti. Qualcosa di inaudito e inedito. Mai prima d'ora l'Europa aveva cercato di mettere le mani direttamente nei risparmi dei cittadini, calpestando di fatto ogni minimo residuo di sovranità nazionale. In Italia si sono sprecati i paragoni con quello che successe nel 1992 sotto il governo Amato, ma occorre sottolineare almeno due differenze cruciali. Primo: anche se si trattava di un esecutivo tecnico, nel nostro Paese fu un'autorità nazionale a decidere l'intervento. Secondo: il prelievo che abbiamo subito 21 anni fa era dello 0,6%. Una leggera carezza in confronto a quello che si pensa d'infliggere ai ciprioti.

Partorita nella notte tra venerdì e sabato dall'Eurogruppo, la versione originaria del provvedimento stabiliva di tassare al 6,75% i depositi bancari fino a 100 mila euro e al 9,9% quelli d'importo superiore. Le prevedibili contestazioni hanno poi scatenato il giochetto patetico dello scaricabarile. Nessuno si è assunto la paternità della proposta, nemmeno la Germania. I mercati però si sono terrorizzati all'idea che l'Europa sia capace di un'imposizione simile (anche se ieri il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha assicurato che non si ripeterà altrove) e questo ha convinto i tecnocrati a una fulminea retromarcia.

Lunedì sera l'Eurogruppo aveva chiesto ufficialmente che fossero esentati dal prelievo i conti fino a 100 mila euro. Per bilanciare la correzione, tuttavia, l'aliquota sui patrimoni d'importo superiore sarebbe stata innalzata, potenzialmente fino al 15%. Niente da fare, anche stavolta un buco nell'acqua.

Nel giro di poche ore la tassa della discordia ha subito altre metamorfosi: prima sono circolate voci di una possibile riduzione dal 6,75 al 3% sui depositi inferiori ai 100 mila euro, contro un innalzamento dal 9,9 al 12,5% per quelli d'importo superiore; poi si è detto di esonerare dal balzello i depositi inferiori ai 20 mila euro, mantenendo l'aliquota del 6,75% su quelli tra 20 e 100 mila euro e quella da 9,9% sui conti più facoltosi. Nell'ultima ipotesi cominciava forse a baluginare un minimo di progressività, ma la proposta non consentiva di raggiungere il gettito complessivo di 5,8 miliardi richiesto dall’Ue. Alla fine il Parlamento cipriota ha fatto calare il sipario sull'indecoroso teatrino.

E adesso? "E' il pacchetto di riforme di Cipro - ha sentenziato Joerg Asmussen, membro del board Bce -, spetta a Cipro decidere la struttura del contributo delle banche. L'importante è che alla fine il conto sia di 5,8 miliardi". L'Europa ha praticamente concesso carta bianca sulla rimodulazione della stangata, a patto che Nicosia riesca a raccogliere la somma necessaria a sbloccare il prestito internazionale. I ministri delle Finanze dell'Eurozona ritengono però che "i piccoli depositi debbano essere trattati diversamente da gli altri", garantendo l'esenzione a quelli sotto i 100 mila euro. Evidentemente tra venerdì e sabato avevano scherzato, nel weekend siamo tutti un po' più burloni.

Visto che la situazione non era abbastanza complicata, gli inglesi hanno pensato bene di alzare la tensione. Con il solito spirito comunitario made in England, Londra ha congelato i pagamenti dei pensionati britannici che vivono a Cipro, in modo da evitare loro il prelievo forzoso. Poi ha deciso d'inviare un aereo militare con a bordo un milione di euro cash da destinare ai soldati britannici e alle loro famiglie (sulla costa sudorientale dell'isola sorge un'enorme base militare inglese).

Sul fronte internazionale, tuttavia, l'opposizione più agguerrita al prelievo cipriota è arrivata da Mosca. La maggior parte dei grandi patrimoni parcheggiati nelle banche dell'isola è infatti di origine russa (in molti sospettano che si tratti per lo più di ricavi prodotti da attività illecite e riciclati al sole). Dei 91,5 miliardi di euro depositati negli istituti ciprioti, 18,3 miliardi appartengono ufficialmente a cittadini russi. Ecco spiegato per quale motivo Vladimir Putin consideri il prelievo "ingiusto, poco professionale e pericoloso". (Intanto ieri mattina il ministro delle Finanze cipriota, Michalis Sarris, si è recato a Mosca per chiedere un’estensione del credito di 2,5 miliardi di euro ricevuto due anni fa e un alleggerimento delle condizioni).

Al numero uno del Cremlino ha risposto indirettamente Wolfgang Schaeuble: "Chiunque investa i suoi soldi in un Paese dove si pagano meno imposte se ne assume il rischio - ha detto il ministro delle Finanze tedesco -. E' irresponsabile pensare che solo i contribuenti europei debbano finanziare gli investimenti stranieri a Cipro".

Intanto nelle strade di Nicosia vanno in scena manifestazione di protesta da parte della popolazione, mentre in tutto il Paese le banche sono chiuse da sabato scorso e rialzeranno le saracinesche solo domani. Secondo la Banca centrale cipriota, gli istituti di credito dell'isola rischiano una fuga di capitali pari al 10% del totale nei primi giorni dalla riapertura.

Chiusa anche la mini-Borsa cipriota, ufficialmente per "proteggere gli investitori", ufficiosamente perché i depositi potrebbero scappare anche con la corsa all'acquisto di azioni e bond.

Quanto ai mercati internazionali, continua l'apprensione degli investitori per il caso Cipro. C'è già chi sostiene che l'isola abbia una "rilevanza sistemica", potenzialmente in grado di scatenare l'effetto domino decisivo per l'autodistruzione dell'euro. Insomma, quell'armageddon finale tanto temuto negli ultimi anni. E stiamo parlando di un Paese con una popolazione di circa 800 mila abitanti. Meno di Torino.

di Carlo Musilli

La "Balena di Londra" torna a galla e fa tremare ancora JP Morgan. Giovedì sera la Sottocommissione permanente per le indagini del Senato americano ha accusato la superbanca americana di aver continuato ad ingannare le autorità di vigilanza e gli investitori su un vecchio scandalo. Il caso - legato, tanto per cambiare, al mercato dei derivati - riguarda "The London Whale", ovvero Bruno Iksil, il broker inglese che l'anno scorso ha aperto una voragine nei conti dell'istituto con una serie di scommesse rischiosissime e fallimentari sui più famigerati titoli finanziari, i Cds.

Stando al rapporto della sottocommissione Usa - basato su oltre 50 interviste e sull'analisi di circa 90 mila documenti - JP Morgan avrebbe mentito sull'ammontare delle perdite legate al cetaceo britannico. Il buco potrebbe essere molto più pesante di quanto finora ammesso dalla Banca, che nel febbraio dell'anno scorso aveva quantificato il danno patrimoniale in 6,3 miliardi i dollari.

Insomma, per evitare catastrofi ancora peggiori sui mercati, sembra proprio che l'istituto abbia cercato di sminuire il più possibile la vicenda, al punto che l'amministratore delegato James Dimon ha smorzato gli allarmi parlando di una "tempesta in un bicchiere d'acqua".

Ma secondo il numero uno della sottocommissione, il senatore democratico Carl Levin, gli investigatori "hanno scoperto operazioni di trading, fondate sul rischio, che ignoravano i limiti posti all'assunzione dei rischi stessi, nascondevano le perdite, eludevano la supervisione e disinformavano il pubblico".

JP Morgan però non ci sta: "Anche se abbiamo più volte riconosciuto gli errori - scrivono dalla Banca -, i nostri alti dirigenti hanno agito in buona fede e non hanno mai avuto intenzione di ingannare nessuno".

Peccato che l'ex direttore finanziario di JP Morgan, Ina Drew, abbia fornito ai senatori americani la seguente testimonianza: "Le cose sono andate terribilmente male. Acquisti molto cospicui all'epoca non sono stati portati alla mia attenzione. Da quando me ne sono andata ho saputo di condotte riprovevoli da parte del team di Londra: ero e sono profondamente rattristita dal fatto che simili condotte abbiano deluso me e la Banca".

Già, perché il settore in cui operava la "Balena di Londra", il Chief Investment Office, era del tutto particolare. I controlli erano di gran lunga meno severi rispetto ad altri comparti, veniva usato un sistema di calcolo del rischio più blando e i manager rendevano conto direttamente al Ceo Dimon, senza passare da strutture intermedie.

John McCain, senatore repubblicano ex candidato alla presidenza, sostiene che l'istituto abbia "ingannato gli investitori e i contribuenti americani", producendo perdite che rappresentano "un enorme fallimento non solo per JP Morgan, ma anche per il governo federale".

Nel mirino della sottocommissione è finito anche l'Office of the Comptroller of the Currency (Occ), ovvero l'ufficio di vigilanza del Dipartimento del Tesoro. Attraverso un portavoce, l'Occ ha ammesso che nei controlli ci sono state delle "carenze", ma al tempo stesso ha garantito che le autorità stanno prendendo "provvedimenti per migliorare il processo di controllo di tutti i grandi istituti finanziari sottoposti a vigilanza".

Meglio tardi che mai? Non ancora. Quando si parla di finanza - soprattutto americana o inglese - è sempre bene non lasciarsi trasportare dalla fiducia, né tantomeno dall'entusiasmo. L'ultima storiaccia sul conto di JP Morgan non racconta ancora verità giudiziarie, ma dimostra per l'ennesima volta che le vere metastasi dell'economia contemporanea godono ancora di ottima salute.

L'assenza di regole stringenti nel mercato dei derivati - dove si svolgono operazioni incomprensibili ai più - e la mancanza di controlli rigidi da parte delle autorità sono le radici più profonde della crisi finanziaria di cui ancora subiamo le conseguenze. Nessuno le ha mai estirpate. Il buon Dimon è uno dei più strenui oppositori a qualsiasi tipo di nuova regolamentazione per le banche e - secondo un passaggio del rapporto - almeno in un'occasione avrebbe esplicitamente chiesto ai suoi dipendenti di interrompere l’invio delle informazioni alle autorità che effettuano i controlli. Ecco perché, a intervalli regolari, vengono ancora a galla le solite "balene".




di Carlo Musilli

Li chiamano "prestiti payday", ma assomigliano molto a una forma di strozzinaggio legalizzato. Niente sicari, minacce fisiche, boss o malavita. Si fa tutto via internet. Negli Stati Uniti esistono società di credito che concedono prestiti online con una facilità davvero sorprendente, senza perdere troppo tempo in fastidiose domande. Hai bisogno di denaro? Ecco a te, è semplicissimo. Peccato che tanta munificenza non sia affatto gratis: i tassi d'interesse arrivano a superare il 500% e - per chi non è in grado di restituire il malloppo entro un anno - possono toccare perfino la vetta spaventosa del 16mila%. Naturalmente, operazioni di questo tipo non possono che avvenire con la complicità delle banche.

E' evidente che, a mente lucida e in condizioni normali, nessuno si sottoporrebbe a un trattamento del genere. Ma in tempi di crisi la razionalità passa in secondo piano e i giganti della finanza fanno affari d'oro picchiando sulle ferite dei più deboli. Persone magari in difficoltà, che non resistono alla tentazione di un credito così accessibile. Secondo uno studio del centro no profit Pew Charitable Trusts, solo nel 2010 circa tre milioni di americani hanno ottenuto un prestito "payday" e fra 2006 e 2011 l'ammontare complessivo di queste operazioni è salito da 5,8 a 13 miliardi di dollari.

Ma qual è il ruolo delle banche? Come sempre, gli istituti delle dimensioni di Bank of America e JP Morgan recitano una parte decisiva, consentendo alle società creditrici di prelevare automaticamente i ricchi interessi dai conti correnti dei loro creditori. Un via libera che viene concesso sempre e comunque: anche negli Stati Usa dove i prestiti "payday"sono vietati per legge e perfino se i clienti stessi chiedono esplicitamente di non permettere alcun prelievo.

Lo fanno perché traggono profitto dai guai dei propri correntisti. Spesso chi ha avuto la sventura di entrare nella spirale dei "payday" si ritrova il conto azzerato dagli interessi siderali succhiati dall'esterno. Nel 27% dei casi (sempre secondo i dati Pew Charitable Trusts) finisce addirittura in rosso ed è costretto a pagare multe salate alla propria banca.

Ma chi riesce a non farsi prosciugare i risparmi deve tenere comunque la guardia alta, perché uscire dal vortice non è affatto semplice come può sembrare. Per restituire il prestito bisogna avvisare la società di credito con almeno tre giorni d'anticipo, altrimenti gli interessi saranno prelevati come nulla fosse e il credito verrà rinnovato per almeno un altro mese.

Queste aziende sanno benissimo di praticare un'attività illegale in 15 dei 50 Stati americani, perciò si stanno spostando all'estero, in Paesi dove le maglie della legge sono meno strette. Una scelta che non porterà loro alcuna perdita, dato che attraverso internet saranno comunque in grado di raggiungere tutti i clienti americani.

Ma cosa sta facendo il governo federale per contrastare tutto questo? Nonostante la pratica dei prestiti "payday" vada avanti da anni, solo di recente le autorità Usa hanno preso di mira le banche coinvolte. Sul ruolo degli istituti di credito nello "strozzinaggio telematico" hanno iniziato a indagare due agenzie di controllo: la Federal Deposit Insurance Corporation e il Consumer Financial Protection Bureau. Nello Stato di New York, dove per legge i tassi non potrebbero superare il 25%, il numero uno del dipartimento dei Servizi finanziari, Benjamin Lawsky, sta portando avanti un'inchiesta.

Non sembra invece avere dubbi un certo Josh Zinner, direttore dell’organizzazione Neighborhood Economic Development Advocacy Project: "Senza la collaborazione delle banche nell'effettuare le transazioni - ha detto al New York Times - queste società non potrebbero fare quello che fanno".

A questo punto rimane soltanto da aspettare il corso della giustizia americana. E non sarà affatto un'attesa breve, almeno a giudicare dalla timidezza con cui l'amministrazione Obama sta ancora perseguendo le banche di Wall Street per il vero peccato originale dell'intera crisi finanziaria. I cari vecchi mutui subprime. 

di Mariavittoria Orsolato

Con un ritardo di quasi cinquant'anni sul vaticinio di Bob Dylan, possiamo affermare con la quasi assoluta certezza che “i tempi stanno cambiando”. La Svizzera, patria universalmente riconosciuta della finanza e delle sue ombre, sarà infatti il primo Paese al mondo a porre un tetto agli stipendi multimilionari dei super-manager di banche e aziende. Lo ha deciso ieri un referendum di iniziativa popolare, promosso dal deputato indipendente Thomas Minder, che ha conquistato praticamente un plebiscito in tutti e 26 i cantoni svizzeri.

Il 67.9% dei cittadini chiamati alle urne ha infatti votato a favore della proposta di legge per ridimensionare i bonus elargiti ai top manager delle aziende elvetiche ed ora, stando a quanto affermano i detrattori, la Svizzera si sarebbe dotata del diritto societario “più rigido del mondo”.

La bozza di legge riguarda solo le aziende svizzere quotate alla borsa nazionale o in quelle straniere: limita ad un anno il mandato dei membri del consiglio d’amministrazione, vieta alcuni tipi di compensi, compresi i bonus milionari quando i manager lasciano le società. Vieta inoltre i bonus in caso di acquisizioni e vendita di parte del business. Gli svizzeri hanno deciso che saranno gli azionisti, e non gli stessi manager, a decidere sui compensi ma, stando a quanto afferma il promotore del referendum , «per ora si è vinta solo una battaglia».

Ora infatti nel parlamento elvetico ne comincerà necessariamente un'altra per l'applicazione del testo costituzionale che dovrebbe rafforzare i diritti degli azionisti e limitare compensi esorbitanti per i manager. E i deputati non paiono affatto coesi come invece lo è la popolazione che rappresentano.

Il successo di Minder, fino a poco tempo fa anonimo parlamentare eletto a Schaffhausen, ha infatti dell'incredibile: la sua proposta di legge si è affermata nonostante la contrarietà di tutti i principali partiti elvetici, della Confindustria locale e dell’establishment bancario. La sua crociata contro i mega stipendi aveva preso avvio infatti cinque anni fa, quando vennero depositate le 100.000 firme necessarie alla promozione del referendum, ma la strenua opposizione della politica istituzionale ha fatto sì che il processo democratico assumesse tempi biblici e che Minder guadagnasse il soprannome di “Robin Hood dei piccoli azionisti”.

Il parlamentare, che di professione fa il piccolo imprenditore, aveva cominciato a raccogliere le firme necessarie alla consultazione in completa solitudine politica dopo che era scoppiato lo scandalo della Swissair; la compagnia di bandiera elvetica era infatti fallita nel 2001 ma al suo amministratore delegato Mario Croci era stato concesso un bonus di 12 milioni di franchi. Stesso copione nel 2008 ai vertici della Ubs, la principale banca svizzera allora alle prese con un buco da 2,7 miliardi: lo Stato era intervenuto in soccorso del colosso finanziario ma 50 milioni di franchi era stati buttati in premi ai suoi amministratori. A favorire Minder, nelle ultime settimane, anche l’appoggio inatteso creato dalla polemica sul “caso Vasella”.

Secondo i commentatori, però, a dare la spinta decisiva alla proposta di legge è stata la recente vicenda che ha interessato l’ex presidente della casa farmaceutica Novartis, Daniel Vasella. Il top manager ha guadagnato 15 milioni di franchi svizzeri (12 milioni di euro) nel solo 2011 e, lasciando l’azienda di cui era al timone dal 1996, avrebbe dovuto ricevere un indennizzo di 72 milioni di franchi svizzeri (59 milioni di euro circa), dilazionati in sei anni purché non fosse andato a lavorare per la concorrenza.

Vasella alla fine ha pubblicamente rinunciato ai pantagruelici emolumenti, ma ormai la polemica era esplosa in tutti i Cantoni. A montare l'astio della popolazione contro “i gatti grassi” - così sono state definite le elites finanziarie e industriali elvetiche - anche le somme guadagnate da altri top manager: i 12,5 milioni di franchi svizzeri per Severin Schwan, boss della Roche, gli 11,2 milioni (9 milioni di euro) di Paul Bulcke della Nestlé o i 10 milioni (8 milioni di euro) di Ernst Tanner, capo del gruppo cioccolatiero Lindt. Secondo i promotori della consultazione, le enormi somme iscritte a bilancio mostrano chiaramente che le società hanno perso il controllo sulle retribuzioni dei loro “capitani” e, se la bozza di legge dovesse essere approvata dal Parlamento nel 2014, la dieta dei “gatti grassi” dovrebbe essere decisamente ridimensionata.

Gli elettori svizzeri sono stati chiamati contestualmente ad esprimersi su altri due quesiti. Il primo riguardava la revisione della legge sulla pianificazione del territorio (LPT), che prevede condizioni severe per classificare i terreni come zona edificabile, è passato con il 62,9% dei consensi, mentre il “Röstigraben” - l'immaginaria barriera culturale che divide la Svizzera romanza da quella germanofona e che storicamente ne delinea le abitudini di voto -, ha invece affossato il terzo oggetto in votazione, l'articolo costituzionale sulla politica familiare.

La proposta di legge voleva far sì che Confederazione e Cantoni promuovessero misure per permettere di conciliare la vita famigliare all'attività professionale o alla formazione, ma la natura costituzionale del quesito - che prevede la maggioranza non solo dei voti complessivi ma anche quella dei Cantoni - non ha fatto sì che la proposta passasse.





di Carlo Musilli

Una piccola ma significativa crepa si apre nel castello della finanza. Il Parlamento europeo, la Commissione Ue e il Consiglio europeo hanno trovato un accordo preliminare su Basilea 3, il nuovo pacchetto di regole per le banche che dovrebbe entrare in vigore nella prima metà del 2014. Una delle norme più controverse riguarda l'ammontare dei bonus ai manager, che secondo i termini dell'intesa non potrà più superare l'importo dello stipendio di un anno. Questo principio generale ammette però un'eccezione: se la maggioranza degli azionisti darà il proprio assenso (con due terzi dei voti o con il 75% se in assemblea siede meno della metà del capitale), i bonus potranno arrivare fino al doppio della retribuzione annua.

Insomma, Bruxelles non è posto per iniziative alla Robin Hood: i grandi dirigenti e i trader di banca continueranno a guadagnare somme pantagrueliche, ma il punto è un altro. La novità in arrivo non ha alcuna importanza sul piano morale, eppure è fondamentale a livello pratico. Fino ad oggi nessuno ha mai posto limiti ai premi che gli istituti di credito possono destinare ai loro manager, e proprio questa mancanza è stata una causa tutt'altro che secondaria della crisi finanziaria.

I benefit sono in genere proporzionali ai guadagni che i dipendenti portano all'azienda con i loro investimenti. Ma c'è un'asimmetria di fondo: quando il business è redditizio, i manager incassano laute ricompense; quando invece l'affare si rivela un fiasco, o addirittura apre un buco nei conti della banca, il responsabile dell'errore non subisce praticamente alcuna conseguenza.

Un sistema così sbilanciato non può evidentemente garantire una gestione razionale e oculata del denaro. Anzi, incentiva i manager a lanciarsi in scommesse sempre più azzardate, dal momento che in finanza i margini di profitto nel breve periodo aumentano insieme al rischio che si è disposti a correre. In un'ottica del genere, chi ha poco o nulla da perdere e tutto da guadagnare non può che puntare al jackpot. Così facendo espone la propria azienda a un pericolo che spesso è difficile quantificare, ma non gli interessa: finché le regole del gioco sono queste, gli conviene rischiare.

Questo vizio è tipico della spericolata finanza anglosassone, principale responsabile della crisi di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Non stupisce quindi che la nemica numero uno del nuovo tetto ai bonus sia la Gran Bretagna. Gli inglesi sostengono che il provvedimento sarà compensato da un aumento degli stipendi, ma come sempre il sospetto è che fingano di non capire quale sia la posta in gioco pur di fare gli interessi delle banche della City (dove nel 2012 sono stati distribuiti bonus cash per 5,1 miliardi di euro, dopo i 13,4 miliardi del 2008).

E' del tutto evidente che uno stipendio più alto non abbia il potenziale distruttivo di un super-bonus: uscendo dalla logica del "premio", gli operatori avranno meno interesse a rischiare sul mercato e questo ridurrà il pericolo di alimentare nuove bolle speculative. Francia e Germania sostengono proprio questa tesi e fortunatamente - almeno per ora - la loro posizione ha prevalso in sede europea.

"E’ la fine dell'epoca dei bonus insensati e ingiustificabili - ha commentato il commissario Ue al mercato interno, Michel Barnier -. D’ora in poi le prese di rischio saranno più controllate: è l’inizio di una grande trasparenza nel settore bancario europeo".

Sullo stesso argomento domenica prossima si terrà in Svizzera un referendum d'iniziativa popolare. Se sarà approvato, il testo darà potere agli azionisti d'impedire il versamento di stipendi e bonus eccessivamente elevati. In terra elvetica è ancora fresco lo sdegno per il benefit oceanico riconosciuto al presidente uscente del Cda Novartis, gigante della farmaceutica. Il suo nome è Daniel Vasella e nel 2012 ha guadagnato qualcosa come 10,6 milioni di euro.

Uno stipendio da fantascienza, che però assomiglia agli spicci per la merenda se paragonato alla buonuscita che si preparava ad incassare: 58,5 milioni in sei anni. Alla fine, per fortuna, Vasella ha rinunciato al malloppo. Ora la speranza è che decisioni del genere non siano più lasciate al buon cuore dei top manager.


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