di Michele Paris

Uno dei principi non dichiarati dell’amministrazione Obama in relazione alle pratiche criminali messe in atto dalle maggiori banche d’investimenti di Wall Street prima e dopo l’esplosione della crisi finanziaria del 2008, è stato rigorosamente quello di proteggerle da qualsiasi serio procedimento legale nei loro confronti. Un’ulteriore conferma di questa attitudine è giunta pochi giorni fa anche da un ex membro dell’élite finanziaria d’oltreoceano, il truffatore condannato a 150 anni di carcere Bernard Madoff, il quale ha messo in evidenza ancora una volta la sostanziale inerzia delle autorità americane quando si tratta di perseguire i crimini delle grandi banche.

L’accusa di Madoff è avvenuta tramite l’invio di un’e-mail alla rete televisiva Fox Business e al sito web Market Watch la scorsa settimana. In essa, l’ex broker di Wall Street ha affermato che numerose banche americane erano perfettamente a conoscenza della sua frode ultra-decennale e, nonostante la sua disponibilità a denunciare il comportamento di queste ultime, l’amministratore di nomina governativa incaricato di risarcire gli investitori truffati si è finora rifiutato di prendere provvedimenti in proposito.

Il testo del messaggio di Madoff pubblicato on-line dalle due testate riporta le seguenti parole: “Sin dalla mia prima intervista con i media ho affermato che le banche erano a conoscenza [della truffa], poiché sono state complici e hanno contribuito al mio crimine. Nonostante abbia offerto al curatore fallimentare le informazioni in mio possesso che dimostrano nel dettaglio la complicità di banche come JP Morgan, Bank of New York, HSBC, Citicorp e altre, egli non sembra interessato ad agire in base alla mia offerta. Perciò, intendo fornire queste informazioni alle commissioni governative competenti, nella speranza che possano risultare utili per la futura regolamentazione degli istituti finanziari”.

La risposta ufficiale alle dichiarazioni di Madoff è stata affidata ad una portavoce dell’agenzia federale incaricata della protezione degli investitori (Securities Investor Protection Corporation, SIPC), la quale ha affermato che le informazioni in suo possesso non sono di alcun valore dal momento che la credibilità dello stesso Madoff, in quanto esecutore del più grande schema di Ponzi della storia, è “altamente sospetta”.

Bernie Madoff era stato condannato nel 2009 dopo essersi dichiarato colpevole di 11 capi d’accusa, scaturiti dall’attività della sua compagnia trasformata in una macchina dedita alla truffa su vasta scala di ignari investitori che hanno perso complessivamente oltre 50 miliardi di dollari.

Il curatore fallimentare di Madoff aveva in realtà avviato un procedimento legale contro almeno una delle banche coinvolte nella truffa - JP Morgan - già nel dicembre 2010, sostenendo che questa, pur essendo a conoscenza della natura delle transazioni finanziarie del broker, aveva continuato a fare affari con la sua compagnia. Secondo il curatore, per queste attività JPMorgan avrebbe incassato un miliardo di dollari in commissioni e profitti vari, dal momento che per più di due decenni è stata la principale banca di Madoff.

Il procuratore incaricato del caso, inoltre, aggiunse che “Madoff non sarebbe stato in grado di creare il gigantesco schema di Ponzi senza questa banca”, perciò JP Morgan “dovrebbe pagare le conseguenze per avere permesso la messa in atto della frode”. Ad accompagnare la denuncia di oltre due anni fa c’era, tra l’altro, anche un’e-mail interna a JPMorgan nella quale un impiegato riferiva di come un dirigente della banca gli avesse appena comunicato che “i guadagni di Madoff facevano parte di uno schema di Ponzi”.

La truffa di Madoff, infatti, è stata condotta per anni anche grazie ad un conto aperto presso JPMorgan, sul quale venivano depositati i fondi versati dagli investitori. Nel 2008 questo conto venne azzerato più volte senza che JPMorgan muovesse un dito per avvertire le autorità competenti, nonostante su di esso fossero transitate in precedenza somme miliardarie.

Contemporaneamente alla pubblicazione della lettera di Madoff, la settimana scorsa il New York Times ha riportato la notizia di un’indagine federale in corso ai danni di JPMorgan proprio in relazione ai rapporti d’affari intrattenuti con l’ex broker ora in carcere. Complessivamente, la banca americana è attualmente indagata da almeno otto agenzie governative, tra cui l’FBI, per le sue svariate attività criminali che vanno dal riciclaggio all’occultamento di informazioni sulla propria situazione finanziaria alle autorità di regolamentazione, dalla manipolazione del tasso interbancario Libor alla frode nei confronti di sottoscrittori di mutui immobiliari.

JPMorgan, così come tutte le altre grandi banche di Wall Street, continua tuttavia a condurre i propri affari indisturbata, essendo chiamata tutt’al più a pagare irrisorie sanzioni che, con ogni probabilità, vengono ormai considerate come una sorta di pedaggio da versare per poter operare liberamente e senza alcun vincolo legale sui mercati finanziari.

L’intera classe politica americana, d’altra parte, agisce in difesa degli interessi di banche come JPMorgan, tanto che il ministro della Giustizia di Obama, Eric Holder, nel corso di una recente audizione al Senato ha apertamente ammesso che questi giganti della finanza hanno raggiunto dimensioni tali che risulta “difficile per il governo sottoporli a procedimenti giudiziari”.

Un’ammissione, quella di Holder, che conferma come Washington consideri di fatto le grandi banche di Wall Street al di sopra della legge o, almeno, dell’azione di governo.

L’atteggiamento di sottomissione e la riverenza della politica d’oltreoceano per i vertici di questi colossi appare evidente a qualsiasi livello. Lo stesso presidente Obama, ad esempio, al momento dell’esplosione di uno dei numerosi scandali nei quali è coinvolta JPMorgan, lo scorso anno definì pubblicamente questa banca come “una delle meglio gestite” e il suo amministratore delegato, Jamie Dimon, “uno dei banchieri più in gamba di cui disponiamo” negli Stati Uniti.

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