di Liliana Adamo

Tutto ciò che vorreste sapere sul Fiscal Compact e non osate chiedere. A dare le dovute risposte non sono stati i partirti politici (compreso il M5S), tantomeno la tecnocrazia europea. C’è voluto un intero capitolo tratto da un libro, “Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa” (curato da B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang, H. Sterdyniak), per avere un’esplicativa disamina di cosa, in realtà, ci attende.

Procediamo a ritroso. Il trattato internazionale è stato ratificato il 2 marzo dello scorso anno da tutti gli stati membri dell’Ue (con la sola esclusione di Repubblica Ceca e Regno Unito); impone d’avere un deficit pubblico “strutturale” (vale a dire “proporzionato” all’evoluzione del ciclo economico), che non oltrepassi lo 0,5% del Pil. In altre parole, per quei paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del Pil, la soglia d’ammissibilità nel rapporto fra i due oggetti sarà obbligata a livellarsi sull’1%, con uscite concernenti gli stati membri, che potranno avere uno “scoperto” sulle entrate non superiori allo 0,5% del Pil; finanche, il dato include le spese degli interessi sul debito pubblico. Avete letto bene: perfino le spese sugli interessi…

Primo elemento su cui riflettere: il termine “strutturale” ha in sé complicati procedimenti statistici che “ritoccano” il calcolo secondo il ciclo economico. Ebbene, vista l’attuale recessione, le entrate (ovverossia, le tasse), si abbassano (ma non la pressione fiscale che fornisce, comunque, una minore quantità di denaro), mentre si alzano le uscite, per esempio quelle che coprono gli ammortizzatori sociali. La “correzione” ne terrà conto? In pratica, chi ha un disavanzo pari al 2% del Pil potrà ottenere un dato “strutturale” conciliabile con lo 0,5% stabilito a priori dal trattato.

Nel giro di vent’anni vigerà l’obbligo a rientrare in questo limite minimo al ritmo forsennato di un ventesimo d’eccedente, per ogni benedetto anno. Significa che il debito pubblico italiano, pari a 126%, sarà obbligato a restringersi intorno al 60% del Pil e che l’Italia dovrà registrare avanzi primari fino al 2033.

Due le ipotesi perfettamente antitetiche: per gli economisti che si oppongono al Fiscal Compact, questo si tradurrà in vent’anni d’insostenibile inflessibilità, rendendo permanente la recessione economica, mentre per i tecnocrati della Bce (in testa, la cancelliera Merkel e l’intero staff della troika, Fmi e Commissione inclusi), rispettare le condizioni del trattato vorrà dire riconquistare la fiducia dei mercati, agevolare la posizione dei titoli debitori, frenare i tassi d’interesse.

Veniamo ai nostri partiti politici, riprendendone l’orientamento prima e dopo l’ultima campagna elettorale (conclusasi con un nulla di fatto). Il primo degli otto punti (sostanziali), presentati da Pierluigi Bersani alla direzione del PD, chiarisce (finalmente) la questione (pur non affrontandola di petto). "Il governo italiano dovrà apportare una correzione nelle politiche europee di stabilità, conciliando la disciplina del bilancio con investimenti pubblici produttivi, al fine d’ottenere maggiore elasticità con obiettivi a medio termine nella finanza pubblica…L’aggiustamento del debito e deficit è fra gli obiettivi a medio termine. Nell’immediato, l’emergenza sta nell’economia reale e nell’occupazione"…

Molto probabilmente, l’intento è riferito a politiche fiscali anticicliche, al temporaneo aumento del debito con la spesa pubblica non coperta da tassazione, bensì finanziata da emissione di titoli, invertendo, in tal modo, il rullo compressore del Fiscal Compact. E riferendosi anche all’introduzione di deroghe nel famoso tetto dello 0,5%, come pure al rapporto “strutturale” tra deficit e Pil, dilatando, in questo modo l’arco temporale (vent’anni) entro cui conseguire la riduzione del nostro debito. “Stabilizzazione del debito pubblico” è un termine (e un concetto), usato dal segretario del partito democratico, al posto di un rilevante azzeramento voluto dalla troika.

Per ciò che concerne l’interlocutore più irascibile, Beppe Grillo (e il M5S), assolutamente programmatica la totale rinegoziazione dei vincoli fiscali e di bilanci europei; giusto per ripristinare quei fondi tagliati a scuola pubblica, sanità, abolire l’Imu, erogare misure come reddito di cittadinanza e quant’altro. Fermo restando che nel manifesto M5S i capisaldi si concentrano principalmente sui costi dello Stato, sul taglio degli sprechi, sulla casta e i suoi affiliati, auspicando l’introduzione di nuovi strumenti tecnologici che consentano la democratizzazione al flusso d’informazioni e servizi, senza il bisogno, per il cittadino, di vari intermediari.

C’è d’aggiungere che con il Fiscal Compact cresce la preoccupazione, tutta istituzionale, di un “europeismo da gregge” in forte decadenza, influendo negativamente sulle scelte elettorali, come tra l’altro è già avvenuto, particolarmente per chi (come Monti), si presenta filo - europeista.

Ricordiamoci, che PD, UDC, perfino i berlusconiani e i leghisti, il Fiscal Compact l’hanno approvato, firmato, reso legge dello Stato, anche se la ratifica formale ci è arrivata, come un verdetto tra capo e collo, soltanto il 2 marzo del 2012. Il pericolo di una deriva economica senza appello, che coinvolga anche i vecchi capisaldi dell’Europa - i diritti acquisiti - è, secondo molti economisti contro, un dato di fatto.

Il trattato è frutto di un liberismo sregolato che agisce come un’arma a doppio taglio legata alla finanza internazionale, che scommette sul fallimento d’intere nazioni, impone profitti a scapito dell’ambiente, del lavoro, del risparmio e di un sistema basato sull’economia reale tutt’altro che obsoleta.

Ed è palese (come scrivono gli autori del pamphlet citato in apertura), il tentativo di “paralizzare completamente le politiche fiscali”, al contempo, “privare le politiche economiche di qualsiasi potere discrezionale…”, mettere in atto, cioè, l’obiettivo basilare: sbarrare la strada alle questioni nazionali che regolano i bilanci statali.

Ciascuna nazione, soprattutto nell’area del sud Europa (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, insieme a Irlanda e i paesi membri dell’Est), dovrà adottare un regime d’austerità a tempo indeterminato con misure violentemente restrittive che ledono diritti e democrazia. Ciò si traduce in diminuzione per pensioni, salari, funzioni (e funzionari) dello Stato, prestazioni sociali, ma si traduce anche, in aumento progressivo delle tasse.



di Michele Paris

Uno dei principi non dichiarati dell’amministrazione Obama in relazione alle pratiche criminali messe in atto dalle maggiori banche d’investimenti di Wall Street prima e dopo l’esplosione della crisi finanziaria del 2008, è stato rigorosamente quello di proteggerle da qualsiasi serio procedimento legale nei loro confronti. Un’ulteriore conferma di questa attitudine è giunta pochi giorni fa anche da un ex membro dell’élite finanziaria d’oltreoceano, il truffatore condannato a 150 anni di carcere Bernard Madoff, il quale ha messo in evidenza ancora una volta la sostanziale inerzia delle autorità americane quando si tratta di perseguire i crimini delle grandi banche.

L’accusa di Madoff è avvenuta tramite l’invio di un’e-mail alla rete televisiva Fox Business e al sito web Market Watch la scorsa settimana. In essa, l’ex broker di Wall Street ha affermato che numerose banche americane erano perfettamente a conoscenza della sua frode ultra-decennale e, nonostante la sua disponibilità a denunciare il comportamento di queste ultime, l’amministratore di nomina governativa incaricato di risarcire gli investitori truffati si è finora rifiutato di prendere provvedimenti in proposito.

Il testo del messaggio di Madoff pubblicato on-line dalle due testate riporta le seguenti parole: “Sin dalla mia prima intervista con i media ho affermato che le banche erano a conoscenza [della truffa], poiché sono state complici e hanno contribuito al mio crimine. Nonostante abbia offerto al curatore fallimentare le informazioni in mio possesso che dimostrano nel dettaglio la complicità di banche come JP Morgan, Bank of New York, HSBC, Citicorp e altre, egli non sembra interessato ad agire in base alla mia offerta. Perciò, intendo fornire queste informazioni alle commissioni governative competenti, nella speranza che possano risultare utili per la futura regolamentazione degli istituti finanziari”.

La risposta ufficiale alle dichiarazioni di Madoff è stata affidata ad una portavoce dell’agenzia federale incaricata della protezione degli investitori (Securities Investor Protection Corporation, SIPC), la quale ha affermato che le informazioni in suo possesso non sono di alcun valore dal momento che la credibilità dello stesso Madoff, in quanto esecutore del più grande schema di Ponzi della storia, è “altamente sospetta”.

Bernie Madoff era stato condannato nel 2009 dopo essersi dichiarato colpevole di 11 capi d’accusa, scaturiti dall’attività della sua compagnia trasformata in una macchina dedita alla truffa su vasta scala di ignari investitori che hanno perso complessivamente oltre 50 miliardi di dollari.

Il curatore fallimentare di Madoff aveva in realtà avviato un procedimento legale contro almeno una delle banche coinvolte nella truffa - JP Morgan - già nel dicembre 2010, sostenendo che questa, pur essendo a conoscenza della natura delle transazioni finanziarie del broker, aveva continuato a fare affari con la sua compagnia. Secondo il curatore, per queste attività JPMorgan avrebbe incassato un miliardo di dollari in commissioni e profitti vari, dal momento che per più di due decenni è stata la principale banca di Madoff.

Il procuratore incaricato del caso, inoltre, aggiunse che “Madoff non sarebbe stato in grado di creare il gigantesco schema di Ponzi senza questa banca”, perciò JP Morgan “dovrebbe pagare le conseguenze per avere permesso la messa in atto della frode”. Ad accompagnare la denuncia di oltre due anni fa c’era, tra l’altro, anche un’e-mail interna a JPMorgan nella quale un impiegato riferiva di come un dirigente della banca gli avesse appena comunicato che “i guadagni di Madoff facevano parte di uno schema di Ponzi”.

La truffa di Madoff, infatti, è stata condotta per anni anche grazie ad un conto aperto presso JPMorgan, sul quale venivano depositati i fondi versati dagli investitori. Nel 2008 questo conto venne azzerato più volte senza che JPMorgan muovesse un dito per avvertire le autorità competenti, nonostante su di esso fossero transitate in precedenza somme miliardarie.

Contemporaneamente alla pubblicazione della lettera di Madoff, la settimana scorsa il New York Times ha riportato la notizia di un’indagine federale in corso ai danni di JPMorgan proprio in relazione ai rapporti d’affari intrattenuti con l’ex broker ora in carcere. Complessivamente, la banca americana è attualmente indagata da almeno otto agenzie governative, tra cui l’FBI, per le sue svariate attività criminali che vanno dal riciclaggio all’occultamento di informazioni sulla propria situazione finanziaria alle autorità di regolamentazione, dalla manipolazione del tasso interbancario Libor alla frode nei confronti di sottoscrittori di mutui immobiliari.

JPMorgan, così come tutte le altre grandi banche di Wall Street, continua tuttavia a condurre i propri affari indisturbata, essendo chiamata tutt’al più a pagare irrisorie sanzioni che, con ogni probabilità, vengono ormai considerate come una sorta di pedaggio da versare per poter operare liberamente e senza alcun vincolo legale sui mercati finanziari.

L’intera classe politica americana, d’altra parte, agisce in difesa degli interessi di banche come JPMorgan, tanto che il ministro della Giustizia di Obama, Eric Holder, nel corso di una recente audizione al Senato ha apertamente ammesso che questi giganti della finanza hanno raggiunto dimensioni tali che risulta “difficile per il governo sottoporli a procedimenti giudiziari”.

Un’ammissione, quella di Holder, che conferma come Washington consideri di fatto le grandi banche di Wall Street al di sopra della legge o, almeno, dell’azione di governo.

L’atteggiamento di sottomissione e la riverenza della politica d’oltreoceano per i vertici di questi colossi appare evidente a qualsiasi livello. Lo stesso presidente Obama, ad esempio, al momento dell’esplosione di uno dei numerosi scandali nei quali è coinvolta JPMorgan, lo scorso anno definì pubblicamente questa banca come “una delle meglio gestite” e il suo amministratore delegato, Jamie Dimon, “uno dei banchieri più in gamba di cui disponiamo” negli Stati Uniti.

di Carlo Musilli

Anche nei paradisi del nord Europa capita d'incontrare serpenti diabolici. Non strisciano, non invitano a mangiar mele, ma affossano i conti delle banche e i risparmi dei cittadini. L'Eden in questione è la Danimarca, una dei pochissimi Paesi dell'Unione europea a godere ancora del magico rating AAA. Il principio primo del male - come da copione nella finanza del 21esimo secolo - sono i mutui immobiliari. Vere e proprie trappole riuscite nell'impresa di mettere in dubbio la tenuta del sistema bancario e creditizio danese.

Tutto iniziò nel 2003, quando gli istituti di credito del Paese cominciarono ad offrire ai propri clienti i cosiddetti mutui "interest-only", ovvero prestiti concessi con la formula del "preammortamento finanziario". Traduzione: per i primi 10 anni paghi solo gli interessi, poi inizi a rimborsare anche il capitale.

Se il diavolo si nasconde nei dettagli, stavolta almeno è facile da trovare: il rischio evidente in mutui di questo tipo è che con il passare del tempo diventino inesigibili, vale a dire che per molti debitori le rate "normalizzate" non siano più sostenibili. Cosa che sta puntualmente accadendo. Certo, il pericolo non sembrava difficile da prevedere, ma in tempi di crisi molte persone - specialmente le cassi meno fortunate - hanno visto negli "interest only" un'occasione irripetibile per riuscire a pagare una casa, almeno all'inizio. Una tentazione irrinunciabile che ha contribuito in modo decisivo a far impennare il debito privato danese fino al 322% del reddito delle famiglie. Ad oggi, il 56% dei mutui concessi in Danimarca è del tipo "interest only".

Tutto questo si è accompagnato dal 2008 in poi agli effetti prodotti dallo scoppio della bolla immobiliare, che ha provocato un calo dei prezzi delle case pari al 20% (-2,1% su base annua solo nel quarto trimestre del 2012). L’industria dei mutui si è svalutata del 51%, pari a 255 milioni di euro, e le banche danesi hanno dovuto sborsare 17,5 miliardi di euro come garanzie supplementari per soddisfare i requisiti normativi, oltre a 14,4 miliardi per ottemperare alle richieste degli investitori internazionali. Stando ai calcoli del Fondo monetario internazionale e dell'agenzia di rating americana Standard & Poor’s, solo gli interessi sui prestiti hanno indebolito la Danimarca di 500 miliardi dollari sul mercato dei mutui.

I contratti "interest only" nascondono evidentemente dentro di sé il germe dell'insolvenza, ragion per cui sono considerati illegali in molti Paesi. Anche in quel di Copenaghen stanno pensando di vietarli, ma secondo Yingin Xiao, senior economist dell'Fmi, "sarebbe più prudente porre fine a questa tipologia di prestiti con gradualità", dal momento che risulterebbe irrealistico "chiedere alle banche di proibirli all'improvviso".

A questo punto è bene ricordare di quali spumeggianti performance sia capace l'economia danese. Le ultime notizie, a onor del vero, non sono delle più rosee, considerando che il 20 marzo la Banca centrale ha tagliato le stime sul Pil 2013 al +0,8%, dal +1,3% stimato solo tre mesi prima.

Nondimeno, per collocare i propri titoli decennali la Danimarca paga interessi dell'1,49%, oltre tre punti meno dell'Italia e appena qualche decimale più della mitica Germania. Non solo: il rapporto debito-Pil è al 45,6%, il tasso di disoccupazione fa segnare un irrisorio 4,6% e il mese scorso l'inflazione non viaggiava oltre l'1,2%. Insomma, forse non proprio l'Eden, ma qualcosa di molto vicino per chi è abituato ai numeri dell'Italia.

E' mai possibile rovinare un quadretto così idilliaco con i mutui immobiliari? A quanto pare ce la stanno mettendo tutta. Secondo uno studio pubblicato due mesi fa dalla University of Southern Denmark, i proprietari di casa che non riusciranno a ripagare i debiti sono 100 mila (su una popolazione totale di circa 5 milioni e mezzo di persone). Bisognerà aiutarli in qualche modo, altrimenti perfino nel paradiso nordico scatteranno pignoramenti in massa.

di Carlo Musilli

Nessun default, nessun biglietto d'uscita dall'Eurozona. Cipro è salva, ma la soluzione concordata fra Bruxelles e Nicosia per evitare il baratro manda su tutte le furie Mosca. A pagare il conto più salato saranno proprio i facoltosi oligarchi russi, che nelle banche dell'isola - ormai ex paradiso fiscale - avevano parcheggiato diversi miliardi di euro. Si rallegra invece la Germania di Angela Merkel, uscita vincitrice anche da questa battaglia negoziale.

Nella notte fra domenica e lunedì l'Eurogruppo ha dato il via libera al pacchetto d'aiuti in favore di Cipro (10 miliardi di euro), cui potrebbe aggiungersi anche un contributo del Fondo monetario internazionale. La prima tranche sarà trasferita a maggio. Da parte sua, l'isola si impegna a ridimensionare fortemente il proprio sistema bancario (esposto per asset pari all'800% del Pil) e a raccogliere gli altri sette miliardi necessari al salvataggio del Paese.

Il piano prevede la chiusura della banca Laiki, secondo istituto cipriota per dimensioni, "con il pieno contributo di titolari di azioni, obbligazioni e depositi non garantiti", come si legge nella dichiarazione dell’Eurogruppo. La Banca sarà divisa in una "good bank" e in una "bad bank": la parte "buona" confluirà nella Banca di Cipro, il principale istituto del Paese.

Nella “good bank” saranno trasferiti i depositi inferiori a 100mila euro, che non saranno toccati e verranno garantiti dall'Unione europea. I depositi superiori alla soglia, invece, "resteranno congelati finché non sarà effettuata la ricapitalizzazione della banca" e "potrebbero successivamente essere soggetti a misure appropriate". Ovvero a un prelievo forzoso, di cui però ancora non si conosce l'ammontare.

La Banca di Cipro sarà a sua volta ricapitalizzata, anche in questo caso "con un pieno contributo dei titolari di azioni e di obbligazioni" e "con una conversione dei depositi non garantiti in azioni". In questo caso, tuttavia, sui depositi superiori a 100 mila euro sarà applicato un prelievo di "circa" il 30%, come ha spiegato il portavoce del governo cipriota, Christos Stilianides, parlando alla radio pubblica. Una stangata pesantissima, ma comunque inferiore al 60% proposto dalla Troika. Nessuna differenza invece per i depositi inferiori alla soglia dei 100 mila euro, che godranno della garanzia europea.

Questi termini dell'accordo consentono di far rientrare dalla finestra (anche se in forma diversa) quel prelievo forzoso che il Parlamento cipriota aveva bocciato non più di una settimana fa. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha spiegato che l’intesa "non ha bisogno di essere votata dal Parlamento di Nicosia perché non è più una tassa, ma prevede solo ristrutturazione e risoluzione di banche, come da legge già passata venerdì".

Intanto la Bce continuerà a fornire liquidità d'emergenza all'isola, operazione che avrebbe interrotto ieri se Nicosia non avesse raggiunto l'accordo con i creditori internazionali. Quanto alle banche del Paese, dovrebbero riaprire oggi, ma ieri il ministro delle Finanze cipriota Michalis Sarris non ha dato certezze: "Riapriranno il prima possibile". Gli istituti sono chiusi ormai da 10 giorni per evitare la fuga in massa dei capitali, anche se nel frattempo sono state varate misure che dovrebbero impedire i maxi trasferimenti (ma non sempre ci riescono). E' saltato così anche un altro tabù, ovvero la libera circolazione dei capitali nell'Eurozona.

E' evidente che il nuovo piano pesi in particolare sulle tasche dei russi. Il primo ministro di Mosca, Dimitri Medvedev, non ha usato giri di parole: "A mio parere continuano a rubare ciò che è già stato rubato - ha detto ieri -. Dobbiamo capire in cosa si trasformerà questa storia e quali saranno le conseguenze per il sistema finanziario e monetario internazionale, come pure per i nostri interessi".

Di segno opposto la reazione di Angela Merkel, che si è detta "molto contenta" dell'accordo, giudicandolo "sostenibile" e rispondente agli interessi di Nicosia e dell'Eurozona. Di fatto, alla fine è passata la linea tedesca, che fin dall'inizio chiedeva l'eliminazione dei due principali istituti di credito ciprioti.

Nel frattempo è partita la gara fra le banche europee che vorrebbero accaparrarsi i depositi russi in fuga da Cipro. Secondo il Financial Times, i primi tentativi sono arrivati da Andorra, Germania, Lettonia e Svizzera. Ma non è escluso che a questo punto gli oligarchi abbiano in mente località più esotiche.

di Carlo Musilli

L'attenzione di Cipro si sposta da Bruxelles a Mosca. Il governo dell'isola ha congelato le trattative con l'Unione europea - che si è rivelata incapace di proporre soluzioni accettabili - e per risolvere lo stallo ha chiesto aiuto alla Russia. Nicosia ha bisogno in tutto di circa 17 miliardi di euro per ricapitalizzare le banche e salvarsi dal fallimento. Dai creditori internazionali non potranno arrivarne più di 10, poiché non si ritiene verosimile che Cipro sia in grado di restituire un prestito più generoso.

Per sbloccare questi aiuti è necessario però che il Paese garantisca la copertura della quota rimanente. Ed è proprio questo il problema, perché martedì scorso il Parlamento cipriota ha bocciato la proposta concordata dal governo con l'Eurogruppo, che prevedeva come misura principale un maxi prelievo forzoso sui conti correnti. Risultato: all'appello mancano ancora 5,8 miliardi.

Per risolvere la situazione senza toccare i depositi bancari (intervento che non avrebbe precedenti nella storia dell'Ue e che ha terrorizzato i mercati) martedì sera il ministro delle Finanze dell'isola, Michalis Sarris, è volato in Russia. Le richieste di Cipro a Mosca sono due: il prolungamento del credito da 2,5 miliardi di euro ricevuto due anni fa (che scadrebbe nel 2016), con tanto di riduzione del tasso d'interesse (attualmente al 4,5%), e un ulteriore credito da cinque miliardi. Secondo alcune indiscrezioni, Nicosia avrebbe offerto in cambio una quota nella sua riserva di gas offshore non ancora sviluppata (nei giorni scorsi si era parlato di Gazprom come parte attiva nell'operazione), ma le autorità russe hanno negato qualsiasi interesse del Cremlino in questo senso.

La stampa cipriota e greca ipotizza anche che, oltre al prestito, Mosca potrebbe acquistare da Nicosia la banca Laki (Banca Popolare di Cipro) e altre istituzioni, in cambio di concessioni per un porto da destinare alla flotta russa. Non è da sottovalutare infatti la posizione geografica di Cipro, nodo strategico a pochi chilometri dalle coste della Siria.

D'altra parte, l'amicizia fra l'isola mediterranea e la Russia non è certo una novità di questi giorni. I depositi bancari più ricchi fra quelli parcheggiati nelle banche cipriote appartengono ad oligarchi russi (secondo alcune stime si tratta di 18,3 miliardi su 91,5 totali). E' quindi facile capire per quale ragione proprio da Mosca sia arrivata l'opposizione più violenta all'ipotesi del prelievo forzoso, che prevedeva una stangata addirittura del 9,9% sui patrimoni superiori a 100 mila euro.

E si spiega anche perché le autorità di Nicosia abbiano rifiutato la proposta dell'Eurogruppo, che ieri ha rivelato di aver suggerito fin dall'inizio l'esenzione totale sui depositi fino a 100 mila euro: se i correntisti meno facoltosi non avessero pagato nulla, per mantenere i saldi invariati l'aliquota sui più ricchi sarebbe schizzata ancora più in alto (si è parlato perfino del 15%), risultando ancor più inaccettabile per i munifici partner russi.

Il voto del Parlamento cipriota ha fatto calare il sipario su questi calcoli, almeno per il momento. Ma a questo punto il governo di Nicosia è obbligato a proporre un piano B. Oltre alla pista russa, ieri si è parlato anche di opzioni più folkloristiche. Si pensa ad esempio di metter mano ai beni della Chiesa ortodossa: l'arcivescovo Chrysostomos II - al termine di un incontro con il presidente Nicos Anastasiades - ha annunciato che il clero è pronto a offrire il suo enorme patrimonio immobiliare.

Un'altra ipotesi prevede di nazionalizzare i fondi pensione delle istituzioni pubbliche e para-statali, misura che secondo fonti governative potrebbe garantire fino a tre miliardi di euro. Lo Stato potrebbe inoltre decidere di pilotare la fusione dei due maggiori istituti di credito del Paese, in modo da ridurre l'ammontare delle ricapitalizzazioni necessarie.

Qualunque soluzione scelga Nicosia, all'Europa interessa soltanto che il gettito finale di 5,8 miliardi sia garantito per intero. "Non si sa quando Cipro metterà sul tavolo un progetto - hanno riferito fonti Ue citate da France Presse -. Ma la zona euro si riunirà questa settimana unicamente se Cipro farà delle proposte concrete".

Intanto, l'incubo del prelievo forzoso non è affatto svanito. Potrebbe tornare da un momento all'altro, magari dopo aver subito l'ennesima metamorfosi. Per questo l'obiettivo numero uno della Banca centrale cipriota è scongiurare la fuga in massa dei capitali: gli istituti di credito sono chiusi da sabato scorso e anche la mini-Borsa cipriota tiene le saracinesche abbassate.

“Cipro è nostro partner nell'Eurozona - ha detto ieri la cancelliera tedesca Angela Merkel -. E' nostro dovere trovare una soluzione insieme”. Certo, se ci pensasse la Russia, sarebbe un piacere.


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