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di Carlo Musilli
E' un record di cui avremmo volentieri fatto a meno. Ma tant'è, siamo primi. Nella classifica mondiale, l'Italia è il Paese con il debito pubblico su cui sono stati sottoscritti più Cds in assoluto: 388 miliardi di dollari a fine 2012, contro i 158 del 2008. Il dato emerge dal "Global Financial Stability Report" del Fondo Monetario Internazionale, che in verità registra un incremento dei Cds su tutti i Paesi europei. Nella graduatoria complessiva, comunque, noi italiani non temiamo alcun confronto: al secondo posto si piazza la Spagna, lontanissima con i suoi 212 miliardi, mentre la medaglia di bronzo va alla Francia, a quota 117. Appena fuori dal podio troviamo il Brasile (156 miliardi) e la Germania (154).
Ma cosa sono i Cds? Il simpatico acronimo sta per "Credit-default swaps", ovvero titoli derivati che funzionano come una polizza assicurativa sulla vita di altre obbligazioni (i titoli di Stato, in questo caso). Il pagamento dei Cds scatta quando chi ha emesso le obbligazioni si dichiara insolvente: tu fai bancarotta, io incasso. Nati come strumenti per tutelarsi dai rischi, questi derivati sono cresciuti in un mercato deregolamentato che li ha trasformati ben presto in micidiali strumenti speculativi. E' infatti possibile acquistare Cds anche su obbligazioni che non si hanno in portafoglio, e questo non significa proteggersi da un rischio, bensì scommettere sul fallimento altrui. Trarre nutrimento dalle carcasse, come fanno gli avvoltoi.
Il record italiano non vuol dire però che secondo gli investitori il nostro Paese sia il più vicino al fallimento. Sanno tutti benissimo che non è così. L'arcano si può spiegare con una mera questione aritmetica: l'ammontare dei Cds è infatti tendenzialmente proporzionale alle dimensioni del debito pubblico. Il nostro non è il più alto al mondo, ma fra i Paesi con indebitamenti mostruosi siamo certamente quello con l'economia più debole.Ora però è bene chiarire che acquistare un Cds in ottica speculativa (ossia senza avere le obbligazioni corrispondenti) vuol dire sì scommettere contro qualcuno, ma non in senso tradizionale. Se in una corsa automobilistica puntassimo sull'esplosione di una macchina, poi ci limiteremmo a guardare la gara sperando nella sciagura. Con i Cds, invece, è come se rendessimo quell'esplosione più probabile, mettendo mano al motore dell'auto.
Sempre secondo l'Fmi, infatti, la volatilità dei credit default swap italiani ha l'effetto di incrementare "artificialmente" il costo del finanziamento sovrano del nostro Paese, ovvero i tassi d'interesse sui nostri titoli di Stato. Teoricamente dovrebbe accadere il contrario, ma per l'Italia non è così, perché a pesare è soprattutto la volatilità correlata a fattori di natura "residuale", cioè non legata ai fondamentali dell'economia nazionale, quanto piuttosto a fattori di rischio sistemico e di contagio indotti dalla volatilità di altri Cds sui debiti sovrani.
In particolare, il Fondo monetario stima che la "volatilità residuale" dei Cds sull'Italia dipenda per circa 75% da quella dei Cds sul debito pubblico tedesco e per il 20% da quella sui Cds spagnoli. E' evidente quindi che spesso chi compra questi titoli lo fa in previsione di quel tanto temuto effetto domino nell'Eurozona che dovrebbe portare la moneta unica all'armageddon finale.
Il tipo di strategia è confermata dall'andamento complessivo del mercato dei Cds: a fine giugno 2012, quelli sui debiti sovrani dei vari Paesi ammontavano complessivamente a circa 3 mila miliardi di dollari, mentre il bacino complessivo dei Cds (che comprende anche quelli sulle aziende) era pari a 27 mila miliardi. Il mercato di chi si protegge (o specula) contro l'insolvenza dei titoli di stato valeva quindi poco più del 10% del mercato globale.
Ma dal 2008 - ovvero dall'inizio della crisi - i Cds per coprirsi dal rischio sovrano sono aumentati moltissimo, mentre gli altri segmenti si sono ridimensionati. E, cosa ancor più importante, da allora a oggi nessuno è riuscito a imporre delle regole ferree a chi compra e vende questi titoli. Per dirla con gli economisti, i Cds dovrebbero essere "uno strumento importante nella gestione del rischio". Ma spesso fanno ancora la parte dei derivati-avvoltoi.
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di Carlo Musilli
Non solo Cipro, non solo Pigs. Alla bomba europea è collegata almeno un’altra miccia, la Slovenia. Quella che una volta era considerata la "Svizzera di Jugoslavia" potrebbe diventare presto il sesto Paese dell'Eurozona (dopo Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro) a chiedere aiuti internazionali. Anche se per le agenzie di rating i conti di Lubiana sono ancora da serie A (Standard & Poor's le assegna una A, Fitch A- e Moody's Baa2), in molti a Bruxelles e dintorni prevedono la necessità di un piano di salvataggio entro fine 2013.
Martedì scorso la Banca centrale slovena ha tagliato con il machete le stime sul Pil di quest'anno, passate da -0,7 a -1,9%. Intanto la disoccupazione è schizzata al 13,6%, il deficit 2012 è arrivato oltre il 6% e nel 2013 si manterrà probabilmente oltre il 4%. La ripresa dovrebbe iniziare lentamente nel 2014 (Pil +0,5%), per poi accelerare nel 2015 (+1,4%). Ma non è detto, e forse non sarà sufficiente. Il governatore Mirko Kranjec ha avvertito che "molto dipenderà da quanto farà lo Stato quest'anno e il prossimo ", perché "i rischi sono alti".
Quali rischi? Facile, le banche. In Slovenia gli istituti di credito sono per la maggior parte controllati dallo Stato e pesano per circa il 130% del Pil. L'anno scorso hanno perso per strada in tutto 606 milioni di euro, 67 in più del 2011. Tanto per cambiare, una fetta significativa dell'emorragia finanziaria è legata al mattone. Le banche hanno dispensato mutui e prestiti con eccessiva allegria, poi i prezzi delle case si sono impennati e molti debitori sono risultati insolventi.
Il tutto mentre il Paese deve ancora riprendersi dalla recente crisi di governo. Pochi giorni fa si è insediato il nuovo esecutivo di centrosinistra, guidato Alenka Bratusek, che ha sostituito la squadra del conservatore Janez Jansa, politico di lungo corso ritenuto “affidabile” dalla cancelliera Angela Merkel, ma sconfitto senza appello dalla crisi.
Per far fronte alle difficoltà, Jansa si era attenuto al copione europeo dell'austerity, fatto di tagli alla spesa e fantomatici pareggi di bilancio. Alla solita ricetta, però, gli sloveni hanno aggiunto due ingredienti: una bad bank per assorbire le perdite bancarie e una holding per privatizzare parte del patrimonio pubblico (misure su cui i sindacati avevano chiesto un referendum, poi bocciato dalla Corte costituzionale).Le proteste popolari e un'esplicita accusa di corruzione hanno segnato la fine di Jansa, che nell'abbandonare la nave non è apparso troppo rammaricato. Ora tocca a Bratusek, che però non sembra in grado di modificare nella sostanza la rotta impostata dal suo predecessore: holding e bad bank fanno parte anche del suo programma, insieme alla riforma delle pensioni e del lavoro. Altri interventi possibili sono l’aumento dell’Iva, la riduzione del salario dei dipendenti pubblici e il taglio di circa il 10% del loro organico.
La matassa è davvero ingarbugliata, eppure fino a qualche anno fa non sembrava affatto. Dopo l'indipendenza dalla Jugoslavia - raggiunta nel 1991 -, fra il 1992 e il 2008 il Pil della Slovenia è cresciuto all'invidiabile media annua del 5,5%. La sbornia da economia di mercato si è rivelata però difficile da smaltire e l'ondata di privatizzazioni a rotta di collo ha prodotto una crescita troppo violenta per essere sana.
Ma la vera svolta è stata quella europea. Nel 2004 la Slovenia è entrata nell'Ue e all'inizio del 2007 ha adottato ufficialmente la moneta unica. Un tempismo disgraziato, visto che meno di due anni dopo è iniziato il domino delle crisi, dalla Atene fino a Nicosia. La tempesta ha inevitabilmente oscurato anche i cieli sloveni e le aziende privatizzate hanno iniziato ad aumentare il proprio indebitamento con le banche. Ad oggi, gli istituti di credito devono fare i conti con sofferenze (ovvero crediti impossibili da riscuotere) pari al 18% del Pil.
Di qui un dubbio amletico: l'ingresso nella grande famiglia di Bruxelles ha evitato guai peggiori all'economia slovena o le ha dato il colpo di grazia? Mettiamo a confronto qualche dato "prima e dopo", come si fa nelle pubblicità delle diete: il Pil è passato dalla crescita alla contrazione; il tasso di disoccupazione è aumentato di oltre il 3%; il debito pubblico è salito dal 35,7 % al 49,5% del Pil; i tassi d'interesse sui titolo di Stato decennali sono saliti dal 5,5 al 6,9%. E' migliorato invece il commercio, con il saldo tra esportazioni e importazioni salito dai -300 milioni del 2006 ai -200 del 2012.
"Non saremo costretti al bailout - ha detto ancora il governatore Kranjec -, i sistemi bancari della Slovenia e di Cipro non sono comparabili e rappresentano proporzioni totalmente diverse dei rispettivi Pil. Le nostre difficoltà sono state causate da una politica creditizia eccessivamente espansiva nel periodo dal 2004 al 2008, ma non c’è nulla che non siamo in grado di risolvere autonomamente". Intanto, però, "stiamo ancora aspettando che venga presentato il programma del governo e speriamo che aiuti a stabilizzare la situazione". Lo spera anche il nostro Paese, visto che l'esposizione delle banche italiane in terra slovena è di oltre sette miliardi e mezzo. Altro che Cipro.
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di Liliana Adamo
Tutto ciò che vorreste sapere sul Fiscal Compact e non osate chiedere. A dare le dovute risposte non sono stati i partirti politici (compreso il M5S), tantomeno la tecnocrazia europea. C’è voluto un intero capitolo tratto da un libro, “Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa” (curato da B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang, H. Sterdyniak), per avere un’esplicativa disamina di cosa, in realtà, ci attende.
Procediamo a ritroso. Il trattato internazionale è stato ratificato il 2 marzo dello scorso anno da tutti gli stati membri dell’Ue (con la sola esclusione di Repubblica Ceca e Regno Unito); impone d’avere un deficit pubblico “strutturale” (vale a dire “proporzionato” all’evoluzione del ciclo economico), che non oltrepassi lo 0,5% del Pil. In altre parole, per quei paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del Pil, la soglia d’ammissibilità nel rapporto fra i due oggetti sarà obbligata a livellarsi sull’1%, con uscite concernenti gli stati membri, che potranno avere uno “scoperto” sulle entrate non superiori allo 0,5% del Pil; finanche, il dato include le spese degli interessi sul debito pubblico. Avete letto bene: perfino le spese sugli interessi…
Primo elemento su cui riflettere: il termine “strutturale” ha in sé complicati procedimenti statistici che “ritoccano” il calcolo secondo il ciclo economico. Ebbene, vista l’attuale recessione, le entrate (ovverossia, le tasse), si abbassano (ma non la pressione fiscale che fornisce, comunque, una minore quantità di denaro), mentre si alzano le uscite, per esempio quelle che coprono gli ammortizzatori sociali. La “correzione” ne terrà conto? In pratica, chi ha un disavanzo pari al 2% del Pil potrà ottenere un dato “strutturale” conciliabile con lo 0,5% stabilito a priori dal trattato.
Nel giro di vent’anni vigerà l’obbligo a rientrare in questo limite minimo al ritmo forsennato di un ventesimo d’eccedente, per ogni benedetto anno. Significa che il debito pubblico italiano, pari a 126%, sarà obbligato a restringersi intorno al 60% del Pil e che l’Italia dovrà registrare avanzi primari fino al 2033.Due le ipotesi perfettamente antitetiche: per gli economisti che si oppongono al Fiscal Compact, questo si tradurrà in vent’anni d’insostenibile inflessibilità, rendendo permanente la recessione economica, mentre per i tecnocrati della Bce (in testa, la cancelliera Merkel e l’intero staff della troika, Fmi e Commissione inclusi), rispettare le condizioni del trattato vorrà dire riconquistare la fiducia dei mercati, agevolare la posizione dei titoli debitori, frenare i tassi d’interesse.
Veniamo ai nostri partiti politici, riprendendone l’orientamento prima e dopo l’ultima campagna elettorale (conclusasi con un nulla di fatto). Il primo degli otto punti (sostanziali), presentati da Pierluigi Bersani alla direzione del PD, chiarisce (finalmente) la questione (pur non affrontandola di petto). "Il governo italiano dovrà apportare una correzione nelle politiche europee di stabilità, conciliando la disciplina del bilancio con investimenti pubblici produttivi, al fine d’ottenere maggiore elasticità con obiettivi a medio termine nella finanza pubblica…L’aggiustamento del debito e deficit è fra gli obiettivi a medio termine. Nell’immediato, l’emergenza sta nell’economia reale e nell’occupazione"…
Molto probabilmente, l’intento è riferito a politiche fiscali anticicliche, al temporaneo aumento del debito con la spesa pubblica non coperta da tassazione, bensì finanziata da emissione di titoli, invertendo, in tal modo, il rullo compressore del Fiscal Compact. E riferendosi anche all’introduzione di deroghe nel famoso tetto dello 0,5%, come pure al rapporto “strutturale” tra deficit e Pil, dilatando, in questo modo l’arco temporale (vent’anni) entro cui conseguire la riduzione del nostro debito. “Stabilizzazione del debito pubblico” è un termine (e un concetto), usato dal segretario del partito democratico, al posto di un rilevante azzeramento voluto dalla troika.
Per ciò che concerne l’interlocutore più irascibile, Beppe Grillo (e il M5S), assolutamente programmatica la totale rinegoziazione dei vincoli fiscali e di bilanci europei; giusto per ripristinare quei fondi tagliati a scuola pubblica, sanità, abolire l’Imu, erogare misure come reddito di cittadinanza e quant’altro. Fermo restando che nel manifesto M5S i capisaldi si concentrano principalmente sui costi dello Stato, sul taglio degli sprechi, sulla casta e i suoi affiliati, auspicando l’introduzione di nuovi strumenti tecnologici che consentano la democratizzazione al flusso d’informazioni e servizi, senza il bisogno, per il cittadino, di vari intermediari.
C’è d’aggiungere che con il Fiscal Compact cresce la preoccupazione, tutta istituzionale, di un “europeismo da gregge” in forte decadenza, influendo negativamente sulle scelte elettorali, come tra l’altro è già avvenuto, particolarmente per chi (come Monti), si presenta filo - europeista.
Ricordiamoci, che PD, UDC, perfino i berlusconiani e i leghisti, il Fiscal Compact l’hanno approvato, firmato, reso legge dello Stato, anche se la ratifica formale ci è arrivata, come un verdetto tra capo e collo, soltanto il 2 marzo del 2012. Il pericolo di una deriva economica senza appello, che coinvolga anche i vecchi capisaldi dell’Europa - i diritti acquisiti - è, secondo molti economisti contro, un dato di fatto.
Il trattato è frutto di un liberismo sregolato che agisce come un’arma a doppio taglio legata alla finanza internazionale, che scommette sul fallimento d’intere nazioni, impone profitti a scapito dell’ambiente, del lavoro, del risparmio e di un sistema basato sull’economia reale tutt’altro che obsoleta.
Ed è palese (come scrivono gli autori del pamphlet citato in apertura), il tentativo di “paralizzare completamente le politiche fiscali”, al contempo, “privare le politiche economiche di qualsiasi potere discrezionale…”, mettere in atto, cioè, l’obiettivo basilare: sbarrare la strada alle questioni nazionali che regolano i bilanci statali.
Ciascuna nazione, soprattutto nell’area del sud Europa (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, insieme a Irlanda e i paesi membri dell’Est), dovrà adottare un regime d’austerità a tempo indeterminato con misure violentemente restrittive che ledono diritti e democrazia. Ciò si traduce in diminuzione per pensioni, salari, funzioni (e funzionari) dello Stato, prestazioni sociali, ma si traduce anche, in aumento progressivo delle tasse.
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di Michele Paris
Uno dei principi non dichiarati dell’amministrazione Obama in relazione alle pratiche criminali messe in atto dalle maggiori banche d’investimenti di Wall Street prima e dopo l’esplosione della crisi finanziaria del 2008, è stato rigorosamente quello di proteggerle da qualsiasi serio procedimento legale nei loro confronti. Un’ulteriore conferma di questa attitudine è giunta pochi giorni fa anche da un ex membro dell’élite finanziaria d’oltreoceano, il truffatore condannato a 150 anni di carcere Bernard Madoff, il quale ha messo in evidenza ancora una volta la sostanziale inerzia delle autorità americane quando si tratta di perseguire i crimini delle grandi banche.
L’accusa di Madoff è avvenuta tramite l’invio di un’e-mail alla rete televisiva Fox Business e al sito web Market Watch la scorsa settimana. In essa, l’ex broker di Wall Street ha affermato che numerose banche americane erano perfettamente a conoscenza della sua frode ultra-decennale e, nonostante la sua disponibilità a denunciare il comportamento di queste ultime, l’amministratore di nomina governativa incaricato di risarcire gli investitori truffati si è finora rifiutato di prendere provvedimenti in proposito.
Il testo del messaggio di Madoff pubblicato on-line dalle due testate riporta le seguenti parole: “Sin dalla mia prima intervista con i media ho affermato che le banche erano a conoscenza [della truffa], poiché sono state complici e hanno contribuito al mio crimine. Nonostante abbia offerto al curatore fallimentare le informazioni in mio possesso che dimostrano nel dettaglio la complicità di banche come JP Morgan, Bank of New York, HSBC, Citicorp e altre, egli non sembra interessato ad agire in base alla mia offerta. Perciò, intendo fornire queste informazioni alle commissioni governative competenti, nella speranza che possano risultare utili per la futura regolamentazione degli istituti finanziari”.
La risposta ufficiale alle dichiarazioni di Madoff è stata affidata ad una portavoce dell’agenzia federale incaricata della protezione degli investitori (Securities Investor Protection Corporation, SIPC), la quale ha affermato che le informazioni in suo possesso non sono di alcun valore dal momento che la credibilità dello stesso Madoff, in quanto esecutore del più grande schema di Ponzi della storia, è “altamente sospetta”.
Bernie Madoff era stato condannato nel 2009 dopo essersi dichiarato colpevole di 11 capi d’accusa, scaturiti dall’attività della sua compagnia trasformata in una macchina dedita alla truffa su vasta scala di ignari investitori che hanno perso complessivamente oltre 50 miliardi di dollari.Il curatore fallimentare di Madoff aveva in realtà avviato un procedimento legale contro almeno una delle banche coinvolte nella truffa - JP Morgan - già nel dicembre 2010, sostenendo che questa, pur essendo a conoscenza della natura delle transazioni finanziarie del broker, aveva continuato a fare affari con la sua compagnia. Secondo il curatore, per queste attività JPMorgan avrebbe incassato un miliardo di dollari in commissioni e profitti vari, dal momento che per più di due decenni è stata la principale banca di Madoff.
Il procuratore incaricato del caso, inoltre, aggiunse che “Madoff non sarebbe stato in grado di creare il gigantesco schema di Ponzi senza questa banca”, perciò JP Morgan “dovrebbe pagare le conseguenze per avere permesso la messa in atto della frode”. Ad accompagnare la denuncia di oltre due anni fa c’era, tra l’altro, anche un’e-mail interna a JPMorgan nella quale un impiegato riferiva di come un dirigente della banca gli avesse appena comunicato che “i guadagni di Madoff facevano parte di uno schema di Ponzi”.
La truffa di Madoff, infatti, è stata condotta per anni anche grazie ad un conto aperto presso JPMorgan, sul quale venivano depositati i fondi versati dagli investitori. Nel 2008 questo conto venne azzerato più volte senza che JPMorgan muovesse un dito per avvertire le autorità competenti, nonostante su di esso fossero transitate in precedenza somme miliardarie.
Contemporaneamente alla pubblicazione della lettera di Madoff, la settimana scorsa il New York Times ha riportato la notizia di un’indagine federale in corso ai danni di JPMorgan proprio in relazione ai rapporti d’affari intrattenuti con l’ex broker ora in carcere. Complessivamente, la banca americana è attualmente indagata da almeno otto agenzie governative, tra cui l’FBI, per le sue svariate attività criminali che vanno dal riciclaggio all’occultamento di informazioni sulla propria situazione finanziaria alle autorità di regolamentazione, dalla manipolazione del tasso interbancario Libor alla frode nei confronti di sottoscrittori di mutui immobiliari.JPMorgan, così come tutte le altre grandi banche di Wall Street, continua tuttavia a condurre i propri affari indisturbata, essendo chiamata tutt’al più a pagare irrisorie sanzioni che, con ogni probabilità, vengono ormai considerate come una sorta di pedaggio da versare per poter operare liberamente e senza alcun vincolo legale sui mercati finanziari.
L’intera classe politica americana, d’altra parte, agisce in difesa degli interessi di banche come JPMorgan, tanto che il ministro della Giustizia di Obama, Eric Holder, nel corso di una recente audizione al Senato ha apertamente ammesso che questi giganti della finanza hanno raggiunto dimensioni tali che risulta “difficile per il governo sottoporli a procedimenti giudiziari”.
Un’ammissione, quella di Holder, che conferma come Washington consideri di fatto le grandi banche di Wall Street al di sopra della legge o, almeno, dell’azione di governo.
L’atteggiamento di sottomissione e la riverenza della politica d’oltreoceano per i vertici di questi colossi appare evidente a qualsiasi livello. Lo stesso presidente Obama, ad esempio, al momento dell’esplosione di uno dei numerosi scandali nei quali è coinvolta JPMorgan, lo scorso anno definì pubblicamente questa banca come “una delle meglio gestite” e il suo amministratore delegato, Jamie Dimon, “uno dei banchieri più in gamba di cui disponiamo” negli Stati Uniti.
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di Carlo Musilli
Anche nei paradisi del nord Europa capita d'incontrare serpenti diabolici. Non strisciano, non invitano a mangiar mele, ma affossano i conti delle banche e i risparmi dei cittadini. L'Eden in questione è la Danimarca, una dei pochissimi Paesi dell'Unione europea a godere ancora del magico rating AAA. Il principio primo del male - come da copione nella finanza del 21esimo secolo - sono i mutui immobiliari. Vere e proprie trappole riuscite nell'impresa di mettere in dubbio la tenuta del sistema bancario e creditizio danese.
Tutto iniziò nel 2003, quando gli istituti di credito del Paese cominciarono ad offrire ai propri clienti i cosiddetti mutui "interest-only", ovvero prestiti concessi con la formula del "preammortamento finanziario". Traduzione: per i primi 10 anni paghi solo gli interessi, poi inizi a rimborsare anche il capitale.
Se il diavolo si nasconde nei dettagli, stavolta almeno è facile da trovare: il rischio evidente in mutui di questo tipo è che con il passare del tempo diventino inesigibili, vale a dire che per molti debitori le rate "normalizzate" non siano più sostenibili. Cosa che sta puntualmente accadendo. Certo, il pericolo non sembrava difficile da prevedere, ma in tempi di crisi molte persone - specialmente le cassi meno fortunate - hanno visto negli "interest only" un'occasione irripetibile per riuscire a pagare una casa, almeno all'inizio. Una tentazione irrinunciabile che ha contribuito in modo decisivo a far impennare il debito privato danese fino al 322% del reddito delle famiglie. Ad oggi, il 56% dei mutui concessi in Danimarca è del tipo "interest only".
Tutto questo si è accompagnato dal 2008 in poi agli effetti prodotti dallo scoppio della bolla immobiliare, che ha provocato un calo dei prezzi delle case pari al 20% (-2,1% su base annua solo nel quarto trimestre del 2012). L’industria dei mutui si è svalutata del 51%, pari a 255 milioni di euro, e le banche danesi hanno dovuto sborsare 17,5 miliardi di euro come garanzie supplementari per soddisfare i requisiti normativi, oltre a 14,4 miliardi per ottemperare alle richieste degli investitori internazionali. Stando ai calcoli del Fondo monetario internazionale e dell'agenzia di rating americana Standard & Poor’s, solo gli interessi sui prestiti hanno indebolito la Danimarca di 500 miliardi dollari sul mercato dei mutui.I contratti "interest only" nascondono evidentemente dentro di sé il germe dell'insolvenza, ragion per cui sono considerati illegali in molti Paesi. Anche in quel di Copenaghen stanno pensando di vietarli, ma secondo Yingin Xiao, senior economist dell'Fmi, "sarebbe più prudente porre fine a questa tipologia di prestiti con gradualità", dal momento che risulterebbe irrealistico "chiedere alle banche di proibirli all'improvviso".
A questo punto è bene ricordare di quali spumeggianti performance sia capace l'economia danese. Le ultime notizie, a onor del vero, non sono delle più rosee, considerando che il 20 marzo la Banca centrale ha tagliato le stime sul Pil 2013 al +0,8%, dal +1,3% stimato solo tre mesi prima.
Nondimeno, per collocare i propri titoli decennali la Danimarca paga interessi dell'1,49%, oltre tre punti meno dell'Italia e appena qualche decimale più della mitica Germania. Non solo: il rapporto debito-Pil è al 45,6%, il tasso di disoccupazione fa segnare un irrisorio 4,6% e il mese scorso l'inflazione non viaggiava oltre l'1,2%. Insomma, forse non proprio l'Eden, ma qualcosa di molto vicino per chi è abituato ai numeri dell'Italia.
E' mai possibile rovinare un quadretto così idilliaco con i mutui immobiliari? A quanto pare ce la stanno mettendo tutta. Secondo uno studio pubblicato due mesi fa dalla University of Southern Denmark, i proprietari di casa che non riusciranno a ripagare i debiti sono 100 mila (su una popolazione totale di circa 5 milioni e mezzo di persone). Bisognerà aiutarli in qualche modo, altrimenti perfino nel paradiso nordico scatteranno pignoramenti in massa.