di Michele Paris

Il comitato direttivo della Federal Reserve americana ha deciso questa settimana di proseguire nell’immediato futuro con le politiche di “stimolo” all’economia dopo avere preso atto del fallimento delle stesse nel creare occupazione. Le iniziative perseguite da tempo dalla Banca Centrale guidata dal governatore uscente, Ben Bernanke, si risolvono sostanzialmente nel mantenimento dei tassi di interessi attorno allo zero e nell’immissione sui mercati di liquidità che alimenta la speculazione pari a qualcosa come 85 miliardi di dollari ogni mese.

Nove dei dieci membri del cosiddetto Federal Open Market Committe (FOMC) hanno dunque votato a favore della continuazione del “quantitative easing”, cioè l’acquisto da parte della Fed di bond dagli investitori istituzionali, senza accennare al “tapering”, ovvero l’interruzione di tali politiche che rappresenterebbe un autentico incubo per Wall Street.

L’unico membro dell’FOMC a votare contro le indicazioni di Bernanke è stata come al solito la governatrice della Federal Reserve di Kansas City, Esther George, la quale ha ribadito le proprie preoccupazioni per una possibile destabilizzazione dei mercati finanziari e un’impennata dei livelli di inflazione che rimangono comunque per ora al di sotto degli obiettivi della stessa Banca Centrale americana.

Lo “stimolo” della Fed, in ogni caso, ha ben poco a che vedere con l’economia reale o la lotta alla disoccupazione, mentre è servito soprattutto a far toccare livelli da record ai listini di borsa così come ai profitti delle corporation, superiori di quasi il 19% nel terzo trimestre del 2013 rispetto all’anno precedente.

L’annuncio di Bernanke è giunto in seguito alla diffusione dei dati sull’occupazione del mese di settembre, quando l’economia americana ha aggiunto appena 148 mila posti di lavoro, a malapena sufficienti per tenere il passo con la crescita demografica. Nella seconda metà dell’anno in corso la media mensile dei posti di lavoro creati negli USA è finora di 143 mila, contro i 195 mila dei primi sei mesi, a conferma di un rallentamento dell’economia reale nonostante la massiccia infusione di denaro sui mercati da parte della Fed.

Investitori e analisti americani prevedono che la Banca Centrale degli Stati Uniti finirà per annunciare già a dicembre un graduale rallentamento del “quantitative easing” a partire dalla prossima primavera. Già da alcuni mesi, in realtà, circolano notizie sulle intenzioni della Fed di procedere con il “tapering”, anche se i timori di Wall Street ne hanno sempre rimandato la decisione.

La stessa successione alla carica di Bernanke è stata influenzata dalle politiche di “stimolo”, visto che il candidato preferito dalla Casa Bianca - l’ex Segretario al Tesoro, Larry Summers - era stato di fatto boicottato dai mercati finanziari per la sua intenzione di interrompere precocemente il “quantitative easing”. Al posto dell’attuale governatore, così, Obama ha ripiegato sull’attuale vice di Bernanke, Janet Yellen, una delle artefici assieme al suo diretto superiore dei programmi attualmente in vigore.

A sottolineare la natura di classe che caratterizza le politiche della Federal Reserve americana, così come dell’intera classe dirigente d’oltreoceano, la decisione di continuare a garantire un flusso ininterrotto di denaro a Wall Street è coincisa mercoledì con la prima seduta di una speciale commissione del Congresso che ha tra i suoi compiti quello di ridimensionare drasticamente programmi pubblici di assistenza sanitaria su cui contano decine di milioni di persone.

Il gruppo di lavoro è composto da 29 tra senatori e deputati di entrambi i partiti ed è il frutto dell’accordo provvisorio raggiunto qualche settimana fa per mettere fine alla chiusura parziale degli uffici governativi (“shutdown”) e alzare il tetto del debito pubblico americano. Entro il 13 dicembre prossimo, perciò, questa commissione dovrebbe trovare un nuovo accordo sul bilancio federale, così da evitare una nuova “crisi” e un nuovo “shutdown” quando, non più tardi del 15 gennaio, termineranno i fondi recentemente stanziati.

Secondo i resoconti dei media statunitensi, le posizioni delineate prima dell’avvio delle trattative ufficiali vedrebbero la Casa Bianca ancora più a destra della rappresentanza democratica al Congresso. Obama, infatti, starebbe spingendo per un “grande accordo” che riduca di svariate migliaia di miliardi di dollari il deficit negli anni a venire attraverso modesti aumenti delle tasse e drastici tagli a programmi fino a pochi anni fa ritenuti intoccabili come Medicare, Medicaid e Social Security.

Questi ultimi sono nel mirino di tutta la politica di Washington, poiché rappresentano la voce di spesa più consistente e in aumento del bilancio federale e sono visti come un sostanziale spreco di risorse per settori della popolazione non in grado di produrre profitti per le élite economiche e finanziarie del paese.

Ciononostante, visto che da programmi simili dipende spesso la stessa sopravvivenza di milioni di americani, una parte dei membri democratici del Congresso ritiene il sostanziale smantellamento di Medicare, Medicaid e Social Security una questione esplosiva e potenzialmente dannosa per il proprio futuro politico.

Così, le speranze di quanti, come il presidente Obama, auspicherebbero un accordo per apportare tagli significativi potrebbero per ora rimanere deluse. Infatti, molti democratici appaiono riluttanti a cedere alle richieste soprattutto repubblicane in questo senso senza ottenere in cambio misure puramente simboliche da presentare a ciò che resta della propria base elettorale tra le fasce più deboli della popolazione.

Il Partito Repubblicano, d’altra parte, si oppone fermamente a qualsiasi ipotesi non solo di aumento delle tasse per i redditi più elevati, ma anche alle proposte democratiche di “riforma” del sistema fiscale basate in gran parte sulla soppressione di alcune scappatoie legali che consentono ai più ricchi di abbattere il proprio carico di tasse.

Se i repubblicani dovessero invece cedere su questo punto, i democratici sarebbero disponibili a negoziare la ristrutturazione dei programmi pubblici di assistenza senza alcuna riserva. La democratica Patty Murray, presidente della commissione Bilancio del Senato, ha infatti ribadito in questi giorni la posizione del suo partito, “disposto a fare concessioni su questioni difficili per raggiungere un accordo”.

L’operazione in corso a Washington attraverso questa speciale commissione - così come tutte le precedenti trattative tra democratici e repubblicani attorno alla questione del debito - consiste quindi in nuovi attacchi alle classe più disagiate, da nascondere dietro iniziative di facciata che dovrebbero teoricamente penalizzare quelle privilegiate. Se anche i programmi pubblici scaturiti dalle politiche progressiste del New Deal e degli anni Sessanta del secolo scorso dovessero essere relativamente risparmiati al termine di questo nuovo round di negoziati, la situazione attuale e quella futura appare tutt’altro che incoraggiante.

Uno dei motivi che potrebbero convincere i “congressmen” americani a rimandare per il momento altri tagli alla spesa sociale è infatti la riduzione del deficit federale per l’anno fiscale conclusosi il 30 settembre scorso, risultato dei ripetuti assalti di questi ultimi anni. In questo periodo, il deficit è stato di 680 miliardi di dollari, corrispondente al 4,1% del PIL americano.

Come hanno sottolineato in maniera entusiastica i media ufficiali negli Stati Uniti, il livello del deficit è crollato dal 10,1% del PIL nel 2009, quando il neo-eletto Obama ha iniziato a presiedere ad una serie di crisi politiche fabbricate ad arte sulla questione del debito federale, tutte puntualmente seguite da riduzioni della spesa pubblica senza precedenti in un frangente storico che continua ad essere caratterizzato da povertà, disoccupazione, disagio sociale e crescenti disuguaglianze di reddito.

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