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di Ilvio Pannullo
Sono tornate a cantare le sirene dell’ottimismo: la crisi che non c’era è già finita. Siamo già in ripresa: si ritorna a vedere il segno positivo davanti agli indicatori che misurano la dignità e il benessere dei popoli, quindi tutto é finalmente tornano a splendere come prima ed il futuro sarà migliore del presente. Ma siamo davvero sicuri che tutto vada bene? Chi l’ha detto che la crisi è finita? Sulla base di quali dati economici poggia quest’importante affermazione? Ovviamente si guarda allo stato di salute dell’economia americana per capire cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro. Se infatti Wall Street starnutisce, a Londra generalmente il termometro punta ai 40 gradi, ma se l’economia americana ha un raffreddore, in Europa si rischia di morire per un’influenza virale.
Ecco allora il resoconto in breve di quanto è accaduto recentemente nel cuore pulsante dell’impero: la settimana si è chiusa decisamente in bellezza per la piazza azionaria americana che, a distanza di poche ore dalla flessione di giovedì, non solo è riuscita a recuperare le perdite, ma è stata capace di spingersi anche oltre. Gli acquirenti hanno assunto da subito il comando sfruttando alcune positive indicazioni arrivate dal fronte macroeconomico. Prima dell’apertura a Wall Street è stato diffuso l’aggiornamento relativo agli ordini di beni durevoli che sono scesi dell‘1,3% ad agosto, oltre le previsioni degli analisti che puntavano ad un ribasso dell’1%.
A compensare questa delusione ci ha pensato, però, il dato al netto della componente trasporti, che ha evidenziato una variazione positiva del 2%, rispetto allo 0,8% atteso. Sul versante immobiliare - vero indicatore del reale stato dell’economia americana - si segnala invece che le vendite di case nuove si sono attestate a 288mila unità, in linea con la rilevazione precedente che è stata rivista al rialzo da 276mila a 288mila unità. Il dato si è rivelato inferiore alle previsioni degli analisti che avevano messo in conto una salita a 295mila unità.
Un’indicazione questa che tuttavia non ha scalfito l’ottimismo del mercato che ha continuato a guardare con fiducia alle prospettive della ripresa economica negli Stati Uniti. Il risultato è stato quello di una vera e propria corsa all’acquisto che ha permesso ai tre listini principali di terminare gli scambi sui massimi intraday (l’indicatore finanziario creato da David Bostian che mette in relazione il movimento di prezzo con i volumi scambiati di un titolo).
ll Dow Jones e l’S&P500 sono saliti rispettivamente dell‘1,86% e del 2,12%, mentre il Nasdaq Composite si è fermato a 2.381,22 punti, in salita del 2,33%. Tutto fantastico verrebbe da pensare. Peccato però - ha ammonito il Fondo Monetario Internazionale - che America ed Europa si trovino oggi di fronte alla peggiore crisi dell’occupazione dagli anni ’30. Il rischio - dice sempre il FMI - è “un’esplosione di agitazioni sociali” a meno che non si proceda con attenzione.
Una persona mentalmente sana a questo punto potrebbe interrogarsi sul perché di una situazione tanto paradossale. Com’è possibile che le borse di mezzo mondo addirittura recuperino terreno mentre i dati sul lavoro descrivono una realtà simile a quella che poi sfociò nella Seconda Guerra Mondiale? E’ possibile un tale evidente ossimoro? Può il sole essere freddo? La risposta è una e una soltanto: sì, il sole può essere freddo e i mercati in rally possono descrivere una realtà socioeconomica che definire drammatica sarebbe un eufemismo. Questo è il quadro che ci viene descritto dalle massime autorità di vigilanza dell’economia mondiale : “Il mercato del lavoro è in gravi difficoltà. La Grande Recessione si è lasciata alle spalle una terra desolata di disoccupazione”. A dirlo è stato Dominique Strauss-Kahn a capo dell’FMI, a Oslo nel corso di un summit dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).
Strauss-Khan ha detto che una doppia recessione rimane improbabile, ma ha sottolineato che il mondo non è ancora sfuggito ad una crisi sociale ben più grave. Ha sostenuto che sia un grave errore pensare che l’Occidente sia di nuovo in salvo dopo aver barcollato così vicino all’abisso lo scorso anno. “Non siamo al sicuro”, ha detto testualmente. Nel rapporto congiunto FMI-ILO si afferma che dall’inizio della crisi sono andati perduti 30 milioni di posti di lavoro, di cui tre quarti nelle economie più ricche. La disoccupazione globale ha raggiunto il livello di 210 milioni d’individui senza lavoro.
Per non lasciare niente al caso, ha aggiunto che “la Grande Recessione ha lasciato ferite aperte. Un’alta e duratura disoccupazione rappresenta un rischio per la stabilità delle democrazie esistenti”. Si guardi a titolo di esempio alla Grecia, letteralmente strozzata dai debiti e costretta a sopportare la perdita di diritti acquisiti in secoli di lotte tra capitale e lavoro. Misure draconiane che verranno sopportate da chi ha già sopportato di tutto e che ora, non avendo più nulla da perdere, è disposto a perdere tutto pur di conservare quella dignità che spetta ad ogni essere umano. Con tutto quello che questo può significare in termini di violenza e repressione della stessa in nome di un presunto “ordine pubblico”.
Lo studio citato evidenzia poi che le vittime più giovani della recessione, sui vent’anni o poco più, riportano danni permanenti perdendo la fiducia nelle pubbliche istituzioni. Una nuova spirale è costituita da un apparente declino della “intensità dell’occupazione per lo sviluppo” perché il contraccolpo sulla produzione provoca un minore incremento del numero di lavoratori. Per questo motivo è difficile riassorbire tutti quelli lasciati fuori dal mondo del lavoro, anche se la ripresa riprende il ritmo.
Il mondo dovrebbe creare 45 milioni di posti di lavori all’anno nella prossima decade solo per stare a galla. Insomma nella migliore delle ipotesi si tratta di favole, nella peggiore di un depistaggio voluto e lasciato serpeggiare nel mainstream televisivo per distrarre le masse dal nocciolo del problema, che rimane la creazione di un mercato mondiale dei capitali e delle merci senza però che a globalizzarsi siano anche i diritti civili, politici e sociali.
Olivier Blanchard, il capo economista del FMI, ha detto che in passato la percentuale di lavoratori disoccupati è cresciuta ad ogni fase negativa, ma questa volta la cifre hanno visto un’impennata. “La disoccupazione a lungo termine è fortemente allarmante: negli USA la metà dei disoccupati è stata lontano dal lavoro per oltre sei mesi, qualcosa che non avevamo visto dai tempi della Grande Depresione”, ha detto. La Spagna ha subito il colpo più duro, con la disoccupazione vicina al 20%. Il tasso della Gran Bretagna è salito dal 5,3% al 7,8% negli ultimi due anni. Attualmente i disoccupati britannici raggiungono i 2,48 milioni.
Mr. Blanchard ha richiesto uno stimolo monetario addizionale quale prima linea di difesa se “i rischi peggiori dovessero materializzarsi”, ma ha aggiunto che le autorità non dovrebbero escludere un'altra spinta fiscale, nonostante le preoccupazioni sul debito. “Se lo stimolo fiscale aiuta a evitare la disoccupazione strutturale, effettivamente si paga da sé”, ha affermato. I Paesi più avanzati non dovrebbero, stando a quanto detto dal capo economista del FMI, dare una stretta alle politiche fiscali prima del 2011: restrizioni precoci indebolirebbero la ripresa ha dichiarato il rapporto, sgridando la Coalizione in Gran Bretagna, i falchi dell’opposizione in Germania, e i Repubblicani USA. Sotto il socialista francese Strauss-Kahn, pare, infatti, che il FMI abbia assunto un aspetto finalmente keynesiano.
Dunque non “meno Stato” come sempre veniva insegnato prima che il mondo della finanza crollasse sopra l’economia reale con le sue bolle e i suoi debiti, ma “più Stato”. Dunque non tagli alle tasse, ma una loro rimodulazione, affinché chi ha accumulato ingenti fortune in questi anni di espansionismo monetario paghi quanto dovuto, proporzionalmente al proprio reddito. Ma in America, patria della libertà, questo suona come socialismo. E l’impero - si sa - con i comunisti non discute, semplicemente li passa per le armi.
Nonostante infatti la povertà (in particolare quella estrema) abbia fatto uno straordinario balzo in avanti durante la recessione, milioni di persone abbiano perso la casa e i giovani non riescano a trovare un lavoro; malgrado ciò, le manifestazioni di collera - quella forma di rabbia che porta a paragonare il presidente Obama a Hitler, o ad accusarlo di tradimento - non la si trova tra gli americani cui toccano queste sofferenze. Ma la si trova tra quelli più privilegiati, che non hanno l’ansia di perdere il proprio lavoro, le loro case o la loro assicurazione medica, ma che sono scandalizzati ed indignati all’idea di dover pagare tasse leggermente più alte.
Questa rabbia dei ricchi monta da quando Obama è entrato in carica. All’inizio è rimasta confinata a Wall Street, ma adesso pare stia contagiando l’intero paese. Quando il miliardario Stephen Schwarzman ha paragonato una proposta di Obama all’invasione della Polonia da parte dei nazisti, la misura in questione prevedeva di sopprimere una nicchia fiscale di cui beneficiavano in particolare gestori di fondi come lui. Oggi, che si tratta di decidere della sorte delle riduzioni d’imposte stabilite da Bush - le tasse imposte ai più ricchi forse torneranno ai livelli dell’era Clinton - la collera dei ricchi si è amplificata. E da alcuni punti di vista ha cambiato natura.
Da una parte, questa collera ha guadagnato il dibattito pubblico. Una cosa è quando un miliardario si sfoga durante una cena; un’altra quando la rivista Forbes pubblica in un articolo che il presidente degli Stati Uniti tenta deliberatamente di distruggere l’America in nome di un programma “anticolonialista” venuto dal Kenia, e che “ gli Stati Uniti sono guidati secondo i sogni di un membro della tribù Luo degli anni ’50.” Quando si tratta di difendere gli interessi dei ricchi, sembra che le normali regole del civile e razionale dialogo non siano più applicabili.
Come ha puntualizzato in suo recente intervento Paul Krugman, “i ricchi hanno più influenza”. “Ciò - scrive l’autore sul New York Times - è in parte dovuto alle loro contribuzioni alle campagne elettorali, ma dipende anche dalla pressione sociale che possono esercitare sui politici. Questi ultimi passano molto tempo con i ricchi. E quando i ricchi sono minacciati di pagare un supplemento d’imposta del 3 o 4 per cento sul reddito, i politici ne hanno compassione in maniera assai più acuta rispetto a quando si confrontano con la sofferenza delle famiglie che perdono il lavoro, le case e le loro speranze”.
La verità è che una guerra di classe effettivamente c’è ed è la guerra che i grandi proprietari - quella superclasse descritta dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz in un suo famoso saggio - muove quotidianamente, con mezzi crescenti e tecniche sempre più sofisticate, non contro i poveri, ma contro quella classe media oramai in via di estinzione, ovunque nel democratico Occidente. Tocca darsi una svegliata o, presto, non ci sarà un futuro per tutti.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. I contribuenti di tutto il mondo la stanno pagando cara, ma il mondo della finanza non sembra intenzionato a cambiare davvero le regole del suo gioco. Questo nonostante la recente crisi finanziaria, alla quale i governi hanno dovuto far fronte sostenendo le banche con i soldi dei cittadini per evitare il collasso del sistema. E ora il Comitato per la supervisione bancaria di Basilea ha approvato il cosiddetto pacchetto di riforme Basilea III, con cui si promettono sicurezza e tutela per il futuro. Parole, parole e ancora parole: se il regolamento avrà degli effetti concreti non è ancora chiaro.
Per salvare le proprie banche dalla crisi finanziaria, i governi dei Paesi più industrializzati hanno impegnato finora 718 miliardi di Euro: gli istituti bancari hanno investito in titoli tossici senza valore effettivo e da questi investimenti sbagliati si sono generate enormi perdite - le famose "bolle" - cui gli istituti non hanno potuto far fronte con mezzi propri. E così numerose banche si sono ritrovate sull'orlo della bancarotta: ma il tracollo degli istituti bancari significa l'abisso anche per gli innumerevoli clienti che fanno loro capo, tra cui banche minori, piccoli risparmiatori, società, enti pubblici. Una reazione a catena dal decorso diabolico, insomma, che i governi non potevano certo permettere e che hanno dovuto impedire con ogni mezzo.
In questo modo, però, gli Stati sono stati costretti a intraprendere passi più lunghi della loro gamba. La cifra astronomica adibita alla salvaguardardia delle istituzioni bancarie è andata ad appesantire valori di debito pubblico già di per sé malati: ora ogni singolo governo si trova a fare i conti con enormi buchi da colmare il prima possibile per evitare gli effetti collaterali della “fu” catastrofe finanziaria. E l'unica misura concreta contro le spese eccessive, tanto antica quanto efficace, sembra essere il risparmio: per i governi, però, risparmio è sinonimo di tagli al sociale, quindi a sanità, istruzione e ricerca. Chi ne fa le spese, in poche parole, sono i soliti "meno abbienti". Non si hanno notizie, del resto, di strette regolamentatorie sulle attività speculative delle banche, né di misure giudiziarie a fronte di responsabilità acclarate.
Si finge solo di voler cambiare qualcosa e, come d'uso ai piani alti, lo si fa in grande stile. È questo il proposito di Basilea III, un pacchetto che dovrebbe riformare il sistema finanziario in modo da rendere più sicure le istituzioni bancarie. Basilea III punta tutto sull'aumento dei requisiti minimi di capitale per le banche. Per prevenire un'altra crisi finanziaria che coinvolga risparmiatori e governi, in sostanza, gli istituti di credito devono aumentare le dotazioni di capitale proprio rispetto alle quote di denaro investite in titoli e prestiti. Se prima il rapporto era del 4%, Basilea III propone ora di aumentare la quota di capitale proprio fino al 9%.
Teoricamente, le nuove disposizioni cambiano anche la natura del capitale proprio, che d'ora in poi prenderà in considerazione solo capitale azionario e riserve di bilancio provenienti da utili non distribuiti, e non i conferimenti di “soci taciti”, i soci che partecipano all’attività di un'impresa attraverso un conferimento che confluisce nel patrimonio del socio attivo, nonché alla distribuzione degli utili. L'obiettivo è quello di rendere il capitale netto immediatamente e effettivamente usufruibile in caso di crisi: le banche, in un certo senso, dovrebbero rendersi più autonome.
Tuttavia, nonostante l'apparente integrità dei propositi e le grosse lamentele che le maggiori banche si sono affrettate a borbottare, guardati da vicino i provvedimenti di Basilea III non sembrano essere altro che l'ennesimo bluff dei maghi della finanza. Tanto per cominciare, i tempi previsti per l'aumento di capitale degli istituti sono molto lunghi: il calendario adottato fa sì che il processo di adeguamento venga completato solo nel 2018, e questa progressione ha fatto contenti grossi azionari e le lobby dei bancari. Tempi ben diversi sono quelli che gli istituti assegnano ai piani di rientro per le esposizioni di artigiani, piccole imprese o singoli cittadini.
E anche l'aumento percentuale di capitale imposto non sembra spaventare gli istituti: basti pensare che UBS e Crédit Suisse, le maggiori banche svizzere, arriveranno probabilmente a superare di tre punti percentuali il tetto minimo previsto da Basilea III in un lasso di tempo relativamente breve. Nonostante i piagnucolii degli azionisti, quindi, le grosse banche non soffriranno particolarmente dei nuovi obblighi.
La conferma arriva da Josef Ackermann, il Chief Executive Officer della Deutsche Bank. "Basilea III è un ottimo pacchetto di riforme che sosteniamo volentieri", ha commentato Ackermann, che nel contempo è anche presidente dell'Institut of International Finance (IIF). Le sue parole vanno a riassumere il punto di vista dei veri vincitori di Basilea III, grosse banche e azionisti: il pacchetto di riforme mira prevalentemente a proteggere il buon nome delle banche centrali, ma non va a toccare i veri punti deboli della Finanza, quali i processi di gestione del rischio e della disciplina del mercato. A farne le spese sono le casse di risparmio, poiché il loro capitale è costituito per la maggior parte da conferimenti di soci taciti, quei titoli che non verranno più considerati, secondo Basilea III, come capitale proprio.
Alcuni economisti hanno definito Basiela III una decisione "bancocentrica" che non tiene conto degli errori che hanno condotto alla recente crisi. Le riforme tendono a sostenere il sistema della finanza anglosassone (che dà poca importanza al sistema bancario) basato sulla vigilanza degli istituti di emissione, e che punta tutto sulle operazioni “over the counter” e sugli operatori finanziari non bancari. Quelli che, dopo le decisioni di Basilea, continuano a essere indenni da qualsiasi regolamentazione, mentre le banche vengono messe sotto tutela. E ai quali non sembrano tremare le gambe, visto l'ottimismo che ha regnato nelle Borse in questi ultimi giorni.
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di Ilvio Pannullo
Con le manifestazioni di massa di domenica scorsa, indette contro le "barbare misure antioperaie" approvate dal governo per far fronte alla crisi, per i greci è cominciato un autunno che si annuncia molto caldo. Anche se le cose vanno meglio e il paese proprio ieri l'altro è riuscito a ottenere la seconda tranche del prestito del Fondo monetario internazionale e dell'Unione europea, pari a 8,5 miliardi di euro (2,57 dal Fmi). "Le autorità greche hanno dato una buona partenza al loro programma economico" ha detto il direttore generale aggiunto del Fondo, Murilo Portugal - l'incubo della bancarotta rimane come una spada di Damocle sulla testa dei governanti ellenici.
I dati economici segnalano un rallentamento nella riduzione del deficit pubblico a causa di un'accumulazione dei pagamenti degli interessi sul debito e una riduzione delle entrate fiscali nel mese di agosto. I consumi sono ai minimi, i licenziamenti e i fallimenti alle stelle e la recessione morde sfibrando una classe media che nei fatti non c’è più. Ieri il premier Papandreu ha assicurato che sarà rispettato l'obiettivo di riportare entro quest'anno il deficit dal 13,6% all'8,1% del Pil, ma non sembra aver convinto i greci che non saranno soltanto i poveri a pagare questa crisi.
Se l’autunno si preannuncia caldo, non ha mai smesso di essere rovente invece il clima ad Exarchia, luogo simbolo dell’anarchismo greco. Exarchia, il quartiere anarchico, è il cuore ribelle e furibondo di quanti non ci stanno ad arrendersi senza combattere, di un'Atene che brucia a colpi di molotov tra lacrime, sangue e lutti. In questa area intorno al Politecnico, dove nel '73 cominciò la rivolta contro i Colonnelli ci sono le sedi, i locali, le librerie, di una galassia di gruppi anarchici e radicali, forse una sessantina, che nel dicembre del 2008 accesero la rivolta esplosa con l'uccisione da parte della polizia del sedicenne Aleksis Grigoropoulos.
Exarchia è il quartiere che molti media si sforzano di definire il più caldo d’Europa, nugolo di anarchici e no-global. L’Exarchia la puoi riconoscere anche dalla polizia appostata nei crocicchi alberati che ne delimitano il perimetro; è il quartiere dove i reparti d’elite delle forze dell’ordine si limitano ad osservare i residenti a gruppi di tre, con la loro divisa verde, il fucile per i lacrimogeni e lo scudo antisommossa. Il tutto per dare un segnale della loro presenza o forse per provocare, ma rimane il fatto che se volessero fare anche solo una multa dovrebbero intervenire in dieci.
Già dopo il 24 giugno, giorno dell’uccisione di un funzionario del ministero degli interni per un pacco bomba, i controlli intorno al quartiere di Atene sono aumentati. Si noti bene: intorno, non dentro. Già perché nel quartiere Exarchia la polizia per intervenire deve essere scortata dai Mat, dei gruppi speciali antisommossa inclini a metodi poco ortodossi, che in verità si addentrano solo quando il governo sollecita dei raid, degli arresti mirati, di solito i giorni successivi alle grandi manifestazioni che ormai in Grecia si ripetono settimanalmente.
È necessario quindi continuare ad osservare la situazione greca e seguirne l’evoluzione perché a questo quartiere - e con esso all’intera questione ellenica - vorrebbero staccare la spina, spegnere la voce. Ci provarono con la perizia balistica sul proiettile che colpì Alexis - di rimbalzo, per difesa venne detto - e senza pensarci due volte la gente scese in strada ed appiccò il fuoco ad automobili e negozi. In pochi mesi dall’annuncio del piano di austerità imposto dall’Europa e attuato dal governo, ha scioperato ogni tipo di lavoratore: pescatori, contadini, piccoli imprenditori, impiegati, professori, ospedali, banche, uffici pubblici e si potrebbe continuare a lungo.
Gli scontri, non solo ad Atene, negli ultimi mesi si sono moltiplicati; per molti sono stati il trampolino per una nuova strategia di lotta, un passo in più verso uno scenario che nessuno si azzarda a chiamare guerra civile ma che non è poi troppo dissimile. L’ora della rivolta, il momento in cui l’amarezza cede il posto a una disperata richiesta di giustizia sembra dunque stia arrivando: finita l’estate è tempo di tornare al lavoro e se il lavoro non c’è più si scende in piazza a manifestare.
Settembre - ottobre sembra essere il termine ultimo di questa mezza tregua con il potere, settembre - ottobre come termine primo di quella rivolta che ha però la sensibilità di non compromettere l’unica azienda funzionante del paese, quella del turismo. Il tutto perché si spera che questo atteggiamento di comprensione possa garantire ai dimostranti un appoggio maggiore da parte degli isolani.
Quella che si prepara allo scontro è definita ad Atene la “generazione 700 euro” e cioè non meno del 70% dei giovani greci tra i 18 e i 25 anni che guadagna salari precari, con contratti a termine e poco gratificanti: un laureato, se non riesce a entrare nella pubblica amministrazione - che in Grecia fornisce oltre il 60% dei posti di lavoro a tempo indeterminato - può aspettare una media di sei anni per trovare un impiego stabile. Certo si tratta di un fenomeno europeo, ben conosciuto in Italia, Francia, Spagna, ma in Grecia la macchina statale affonda e il settore privato annaspa. Risultato? Le famiglie sono in difficoltà: un greco su cinque vive, secondo le statistiche, sotto la soglia di povertà.
Accade così che il quadro dei rapporti tra le forze politiche, sindacali e più strettamente sociali appare, da fuori, decisamente complicato. Ai rapporti esistenti fra i sindacati del settore privato - Gsee - e quelli del settore pubblico - Adedy - si sommano le diverse analisi della crisi e le diverse risposte fornite dall’EEK, il partito Operaio rivoluzionario greco e il KKE, il partito Comunista greco, oltre all’intera galassia dei gruppi anarchici e di chi dei gruppi anarchici è solo simpatizzante.
L’unico denominatore comune, l’unico collante nonché centro di gravità per tutte le forze sociali che cercano di accreditarsi come una possibile risposta alle richieste di giustizia sociale che vanno aumentando nel paese, rimane il disprezzo per le famiglie Papandreu e Karamanlis, i due clan che si sono alternati al potere nelle ultime decadi. L’aria brucia ad Atene e la fornace da cui si diffonde lo straziante calore si trova proprio ad Exarchia.
La scena rievoca alcune foto degli anni ’70, alcune immagini della Grecia schiacciata dal regime militare dei colonnelli. Frammenti di una storia che si ripete, di vite stroncate che si possono scorgere fra le migliaia di manifesti con cui sono tappezzati i muri del quartiere e tra i quali si può trovare anche il nostro Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso negli scontri del G8 di Genova. Tutti quei volti - basta cliccare su google per avere un’idea dei muri del quartiere - sembrano avvisare una deriva che se molti temono, altri addirittura auspicano. Da un lato e dall’altro. Già perché arrivati a questo punto c’è da aggrapparsi a qualcosa e la sommossa, anche se può uccidere, è fede e gioia. Il benessere presunto non conduce alla pace come si è scoperto, l’unica vera pace è interiore e questo tipo di benessere che si espande a orologeria non la annovera fra i suoi valori fondanti. Ma d'altronde, in cosa si dovrebbe sperare, nell’America, nella Russia, nell’ecologia?
Insomma quella che si respira è la tranquillità nervosa e malinconica dello studente prima dell’esame, perché prima o poi, a settembre-ottobre, se ne vedranno delle belle. Gli eruditi, le piattole che gridano al buon senso, gli intellettuali che dispensano consigli, i liberali che amano descrivere il mondo con parole troppo belle per essere vere, sono tutti rintanati sotto l’Acropoli e nel quartiere Kolonaki. Forse per questo la questione greca è stata cancellata dai grandi palinsesti del mainstream ufficiale: rimane per loro poco da raccontare.
Può accadere però che pensando ad Atene, culla dell’Europa democratica, patria di quella cultura che conquistò Roma e che l’impero dei Cesari contribuì a diffondere in ogni terra conquistata dalle sue legioni, di ritrovarsi ad immaginare le sale del museo archeologico nazionale: spade, maschere d’oro, collane, e poi statue di bronzo e di marmo, Agamennone e Poseidone, con l’ottimo Schliemann - che regalò alla moglie gli ori di Micene - a fare da cornice con la sua straordinaria impresa. E così si riflette davanti al peso della storia che fa apparire lampante il contrasto fra il lucente passato ed il putrido presente.
Già perché accanto a chi lotta si può trovare chi ha già perso, chi già si è arreso perché privo della volontà e della forza di reagire. Tra le strade del centro di Atene ci si può imbattere nell’inferno. Nella via Tositsa che fiancheggia le mura del museo, c’è un florido mercato di eroina e ketamina e lo stesso vale per via 3rd Septremvriou: fiumi di droghe sintetiche a basso costo per finire esistenze già piegate dal peso della vita.
Uomini e donne, ragazzini e adolescenti terrorizzati dalla realtà al punto da volersi nascondere per sempre in una mefitica solitudine. Tossici che, nonostante siano stati cacciati dagli abitanti dell’Exarchia, non fanno che aumentare con l’incancrenirsi della crisi. Così capita di vedere stracci di ragazzi, donne sfatte, spettri di cittadini bucarsi in pieno giorno, come se anche la dignità e il senso di vergogna avessero abbandonato la terra che fu di Pericle e Leonida.
Per un greco che cede c’è però un greco che resiste; per un greco che ha paura c’è anche un greco che ha fede nel proprio senso di giustizia e non è disposto a scendere a patti con un potere percepito come dispotico, iniquo ed autoreferenziale. Accanto a questi uomini e a queste donne si dovrebbero schierare tutti i cittadini della classe media europea, senza distinzione tra maiali (i famosi P.I.I.G.S.) e primi della classe (su tutti francesi e tedeschi), per difendere quelle conquiste sociali ed economiche che hanno reso grande il nostro continente e arginare sul nascere quelle politiche che vorrebbero uniformare l’Europa agli standard politici, economici e sociali del gigante cinese.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. O si mangia questa minestra o si salta dalla finestra. Sembra essere questo il refrain del padronato italiano nei confronti delle organizzazioni sindacali. La disdetta unilaterale del contratto nazionale metalmeccanici da parte di Federmeccanica, ha avuto sullo sfondo gli applausi sperticati del governo, della Cisl e della Uil e dei soliti columnist a un tanto al rigo.
La FIOM, unica sigla sindacale ad opporsi, è sotto il tiro incrociato di tutti gli specializzati nel profferire verbo che, in vita loro, mai nemmeno un minuto sono stati costretti a vivere come operai, ma ai quali però si sentono d’indicare la retta via. La crisi del settore, dicono in coro da Via Solferino a Viale dell’Astronomia, è europea e la contrazione del mercato dell’auto impone una rivisitazione dei contenuti del contratto nazionale. Ma è proprio così?
Sembrerebbe di no, visto che in Germania le diverse scelte aziendali e un diverso modello di relazioni industriali, oltre che un ruolo diverso del governo, hanno dato risultati completamente diversi. Nel 2009, infatti, il gruppo Volkswagen ha venduto oltre 6 milioni di auto in tutto il mondo, registrando un aumento dell'1.1% rispetto all'anno precedente: cifre di poco conto all'apparenza, ma un traguardo importante considerata la situazione di rosso profondo in cui versa il settore automobilistico mondiale da un paio di anni.
E mentre in Italia si chiede il ciclo continuo h24 della produzione (salvo poi non sapere dove vendere le auto), in Germania un importante fattore anticrisi è stato il consolidamento della cosiddetta "settimana corta", il meccanismo che ha permesso all'azienda Volkswagen di ridurre la produzione evitando licenziamenti di massa. Nel pieno della crisi del mercato mondiale, due terzi dei 92 mila operai Volkswagen si sono visti ridurre le ore di lavoro: il 23 febbraio 2009, Volkswagen ha chiuso alcuni settori delle sue officine sospendendo del tutto le attività, che sono riprese con il ritmo ordinario di produzione solo a inizio marzo.
La settimana corta ha evitato a Volkswagen un eccesso di capacità produttiva in tempo di crisi profonda: nel 2008 la domanda di automobili è crollata drasticamente e le sovvenzioni statali hanno favorito solo la produzione delle utilitarie più piccole, che non vengono montate in Germania. La drammaticità della situazione non ha portato comunque l'impresa a intraprendere provvedimenti estremi nei confronti dei lavoratori: con la settimana corta si sono salvati produzione e occupazione.
Subito approvata dal consiglio di fabbrica, l'iniziativa non ha creato grandi shock agli operai di Volkswagen, che hanno continuato a percepire lo stipendio di sempre. L'azienda ha retribuito loro le ore effettivamente lavorate, mentre l'Agenzia federale del lavoro ha provveduto a pagare il resto. I costi sociali della misura anticrisi, quindi, sono stati sostenuti dallo Stato, che ha dimostrato tutto l'interesse a investire i soldi dei cittadini per evitare licenziamenti di massa. In Germania, tra l'altro, non esiste la cassa integrazione.
Ma non è tutto: il terremoto economico della recente crisi si è sentito fino ai vertici Volkswagen, dove sono stati nettamente ridotti gli stipendi. I membri del consiglio di amministrazione del gruppo di Wolfsburg hanno incassato nel 2009 poco meno di 19 milioni di Euro, rispetto ai più di 45 milioni nel 2008. Secondo la relazione del bilancio annuale della casa automobilistica, il presidente del consiglio di sorveglianza e proprietario del marchio Ferdinand Piech, ha percepito 390 mila Euro rispetto ai 467mila del 2008. Il presidente del consiglio di gestione del gruppo, Martin Winterkorn, si è visto dimezzare lo stipendio, mentre il direttore finanziario, Hans Dieter Poetsch, ne ha preso solo un terzo rispetto a quello del 2008.
Volkswagen sembra essere tornata a guardare al futuro con ottimismo e ambizione. La maggiore casa automobilistica europea ha registrato nel primo semestre 2010 un aumento di immatricolazioni del 16% rispetto al 2009 e una flessione del volume d'affari del 22%, superando di gran lunga le stime degli economisti. I tempi di magra sembrano ormai dimenticati: entro il 2018 Volkswagen vuole arrivare a vendere una media di 10 milioni di auto all’anno, affermandosi come prima casa automobilistica a livello mondiale e scalzando Toyota.
Nel frattempo, invece, Fiat continua a piangere crisi e chi ne paga le conseguenze non sembra essere motivato da nessun tipo di rosee previsioni per il domani. Approfittando della situazione catastrofica dell'economia, qualche mese fa Fiat ha cercato di imporre un contratto di lavoro “capestro” ai suoi operai di Pomigliano d'Arco, in sostituzione a quello nazionale dei metalmeccanici 2008: una stipula in netta contraddizione con la direttiva europea e che nega i principi dello Statuto dei Lavoratori. In caso di mancato compromesso, Fiat minacciava di spostarsi all'estero, in quei Paesi dove la manodopera costa meno.
Per applicare il nuovo contratto senza ripercussioni legali, Fiat era pronta ad abbandonare Federmeccanica, fautrice e garante del contratto di lavoro dei metalmeccanici: un passo che si è reso ora superfluo, dato che Federmeccanica ha annunciato proprio in questi giorni l'annullamento del contratto nazionale del 2008. Nonostante la sua matrice "apolitica e senza fini di lucro", a quanto pare, l'associazione non si poteva permettere di perdere uno dei suoi membri più autorevoli e, ancor più, una ghiotta occasione per attaccare la FIOM. L’associazione riconosce dunque l’ultimo contratto siglato, nel 2009, con i sindacati che hanno accettato le loro pretese: Cisl, Uil. Peccato che in calce al contratto manchi la firma della FIOM e che i lavoratori non siano stati chiamati ad approvarlo o respingerlo attraverso il referendum, tutte condizioni invece presenti nel contratto appena disdetto unilateralmente.
Fiat parla di un contratto improntato alla modernità e alla flessibilità, ma le realtà appare ben diversa. Nel nuovo patto di lavoro, il gruppo si arroga la facoltà di non pagare ai dipendenti la parte di malattia a suo carico per evitare assenteismo e quella di comandare lo straordinario nella mezz’ora di pausa mensa per i turnisti, oltre a prevedere sanzioni per i sindacati che proclamino iniziative di sciopero e licenziamento per chi mostrasse assenze per malattia superiori alla media.
Più che modernizzazione, sembra essere di fronte all’estensione su scala industriale del caporalato, se non addirittura alla versione moderna delle piantagioni di cotone in Mississipi e Alabama pre-guerra d’indipendenza americana.
Più che modernità, le proposte Fiat sembrano andare a riaffermare il primato dell'impresa sui diritti di chi lavora; più che disegni di rinnovamento, le condizioni di Fiat sembrano un ricatto. Fiat vuole tornare a competere sul mercato internazionale con una politica di bassi prezzi di vendita riducendo i diritti fondamentali agli operai. Non punta cioè sull’innovazione di prodotto ma sulla contrazione dei costi e sceglie l’estero non come opportunità di allargamento del mercato, ma come occasione per allungare le mani sui finanziamenti europei e gli incentivi locali e come ricerca del costo del lavoro a livello più basso. Toglieteci le tasse, i vincoli e anche il costo del lavoro, queste sono le giaculatorie che echeggiano da Corso Marconi verso il sistema solare.
Davvero non si capisce, poi, quale strano, perverso gioco, animi le fantasie del PD, che corre ad allinearsi al coro antisindacale. Pare davvero che sia la FIOM e non l'incapacità gestionale della casa torinese il motivo della crisi della Fiat. Tra l'altro, il gruppo ha fatto registrare in agosto un calo delle immatricolazioni del 26.39% a 21 mila unità. Una flessione in linea con le attese, si affretta a spiegare qualcuno, poiché sono stati eliminati gli incentivi statali nel settore. Inoltre, i due terzi delle auto acquistate in Italia sono prodotte all'estero, lamentano gli analisti, quasi a giustificare l'abisso con la mancanza di patriottismo degli italiani. Che però dovrebbero acquistare auto di minor valore ed a maggior costo. La vanità di Marchionne non vale simili sacrifici.
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di Ilvio Pannullo
Il decreto legge da 24,9 miliardi di Euro, successivamente convertito in legge il 29 luglio dal Parlamento, è stato blindato dal governo con il doppio voto di fiducia nei due rami del Parlamento. I capisaldi del testo non sono stati toccati: rimane infatti il taglio netto ai trasferimenti per enti locali e regioni e il blocco del turn over per gli statali, nonostante le fortissime proteste dei rappresentanti di province, regioni e comuni che hanno addirittura minacciato - con il governatore della Puglia Vendola in testa - di rimettere allo Stato centrale le competenze attribuite loro dalla Costituzione, perché impossibilitati a farvi fronte. Ma i soldi servono e le casse dello Stato languono.
E’ per questo motivo, per fare cassa, che oltre al taglio ai trasferimenti sono state previste, nella legge voluta e blindata dal governo, nuove norme in materia di previdenza. Ecco infatti come attraverso modifiche tecniche alle "finestre" di pensionamento e al sistema di calcolo dei coefficienti, si consuma il furto ai danni dei futuri pensionati.
Per un governo che, per bocca del suo ministro del Tesoro, aveva affermato solo qualche mese fa che mai avrebbe messo mano alle pensioni, la legge rappresenta una solenne smentita. L’ennesima prova dell’inaffidabilità dei politici quando si parla di soldi. Gli interventi sul sistema pensionistico sono infatti pesanti e alcuni hanno il carattere di un vero e proprio furto a danno dei lavoratori. L’intervento iniziale del governo si limitava ad una modifica delle cosiddette finestre di uscita, ossia del periodo intercorrente tra la maturazione del diritto alla pensione e la decorrenza, cioè l’effettivo pagamento della pensione stessa.
Ma quali sono concretamente gli interventi e le conseguenze giuridiche prodotte dalla nuova manovra? Le finestre di cui sopra sono state introdotte, per la prima volta, con la legge 335/95 e hanno rappresentato un espediente per risparmiare sulla spesa pensionistica: il diritto si matura ad una certa età, ma la pensione si percepisce alcuni mesi dopo con un risparmio per lo Stato. Inizialmente erano previste solo per le pensioni di anzianità ed erano 4 all’anno con un intervallo massimo, quindi, di 3 mesi tra acquisizione del diritto e decorrenza della pensione. Le finestre sono state poi ridotte a 2 ed estese alla vecchiaia e alla pensione con 40 anni di contribuzione (legge 247/2007). Si è esteso quindi l’intervallo tra diritto e decorrenza a 3/6 mesi per la pensione di vecchiaia e per quella maturata dopo 40 anni di contributi previdenziali e a 6/9 mesi per quella, invece, di anzianità.
Con il decreto il governo porta tutte le finestre ad una misura unica di 12 mesi. Dopo il raggiungimento dei requisiti pensionistici di vecchiaia, di anzianità o dei 40 anni, la decorrenza della pensione avverrà dopo 12 mesi. In pratica la pensione di vecchiaia non sarà più a 65/60 anni, ma a 66/61, i 40 anni di contribuzione diventano 41 e i requisiti di età/contribuzione e le quote per le pensioni di anzianità si innalzano di 12 mesi. Certo, l’aumento rispetto ad oggi non è di 12 mesi, dato che le finestre erano già presenti, ma l’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento è di circa 6 mesi e produce un sensibile risparmio che la Relazione Tecnica quantifica in 0, 36 miliardi di euro nel 2011, 2,6 miliardi nel 2012 e 3,5 miliardi nel 2013.
Per l’ennesima volte l’intervento sulle pensioni serve a fare cassa con buona pace di tutti coloro che hanno sempre giustificato o richiesto un intervento sulle pensioni al fine di riequilibrare la spesa sociale. In sostanza chi va in pensione con questi sistemi a 65 anni si vede applicato un coefficiente di trasformazione calcolato in base alla speranza di vita a 65 anni. La sua pensione però inizierà a decorrere 12 mesi dopo a 66 anni. Subisce quindi una decurtazione del montante pensionistico pari ad un anno rispetto a quello a cui avrebbe diritto.
Questa “sottrazione” di monte pensionistico è poi accentuata dall’emendamento approvato in commissione bilancio del Senato. L’emendamento traduce in norma operativa, con qualche cambiamento, quanto già deciso lo scorso anno con la legge 102/2009 in merito all’adeguamento dell’età di pensionamento in base alla speranza di vita. La cadenza di modifica dell’età di pensionamento non è più quinquennale ma triennale e si specifica, fatto positivo, che la speranza di vita da prendere in considerazione è quella a 65 anni. Dal 2015 l’età di pensionamento di vecchiaia e di anzianità sarà elevata in base alla speranza di vita a 65 anni rilevata dall’Istat nel triennio precedente.
L’emendamento affronta il problema dei coefficienti nel calcolo contributivo. Aumentando l’età di pensionamento sopra i 65 anni, infatti, si pone il problema dei coefficienti per età superiori ai 65, oggi non calcolati. L’emendamento prevede che quando gli incrementi dell’età pensionabile di vecchiaia superano di almeno un’unità (12 mesi) i 65 anni debba essere calcolato il coefficiente corrispondente ai 66 anni e così via. Tenendo conto delle finestre e del ritardo nel calcolo del nuovo coefficiente il risultato sarà quello di lavoratori che percepiranno la pensione con più di 66 anni di età (fino a 66 anni e 11 mesi) con un coefficiente di trasformazione calcolato con la speranza di vita a 65 anni. Viene dunque meno per questi lavoratori la corrispondenza tra montante contributivo e montante pensionistico con la sottrazione di più di 1 anno di ratei pensionistici. Indubbiamente una bella mazzata sui denti.
Riassumendo si può dunque dire che l’intervento voluto dal governo è di certo fraudolento e questo appare palese dalla discrasia che si coglie tra ciò che si dichiara ufficialmente e ciò che poi si legge negli atti normativi blindati con il voto di fiducia; tuttavia la necessità di ripensare il modello del welfare state appare tanto storicamente necessaria da non consentire nessuna liquidazione superficiale degli interventi realizzati. Di certo quello che non può essere taciuto è la mancanza di equità nella sopportazione, tra le diverse classi sociali che compongono il paese, dei grandi mutamenti che stanno e continueranno ad interessare la vecchia Europa.