di Emanuela Pessina

BERLINO. O si mangia questa minestra o si salta dalla finestra. Sembra essere questo il refrain del padronato italiano nei confronti delle organizzazioni sindacali. La disdetta unilaterale del contratto nazionale metalmeccanici da parte di Federmeccanica, ha avuto sullo sfondo gli applausi sperticati del governo, della Cisl e della Uil e dei soliti columnist a un tanto al rigo.

La FIOM, unica sigla sindacale ad opporsi, è sotto il tiro incrociato di tutti gli specializzati nel profferire verbo che, in vita loro, mai nemmeno un minuto sono stati costretti a vivere come operai, ma ai quali però si sentono d’indicare la retta via. La crisi del settore, dicono in coro da Via Solferino a Viale dell’Astronomia, è europea e la contrazione del mercato dell’auto impone una rivisitazione dei contenuti del contratto nazionale. Ma è proprio così?

Sembrerebbe di no, visto che in Germania le diverse scelte aziendali e un diverso modello di relazioni industriali, oltre che un ruolo diverso del governo, hanno dato risultati completamente diversi. Nel 2009, infatti, il gruppo Volkswagen ha venduto oltre 6 milioni di auto in tutto il mondo, registrando un aumento dell'1.1% rispetto all'anno precedente: cifre di poco conto all'apparenza, ma un traguardo importante considerata la situazione di rosso profondo in cui versa il settore automobilistico mondiale da un paio di anni.

E mentre in Italia si chiede il ciclo continuo h24 della produzione (salvo poi non sapere dove vendere le auto), in Germania un importante fattore anticrisi è stato il consolidamento della cosiddetta "settimana corta", il meccanismo che ha permesso all'azienda Volkswagen di ridurre la produzione evitando licenziamenti di massa. Nel pieno della crisi del mercato mondiale, due terzi dei 92 mila operai Volkswagen si sono visti ridurre le ore di lavoro: il 23 febbraio 2009, Volkswagen ha chiuso alcuni settori delle sue officine sospendendo del tutto le attività, che sono riprese con il ritmo ordinario di produzione solo a inizio marzo.

La settimana corta ha evitato a Volkswagen un eccesso di capacità produttiva in tempo di crisi profonda: nel 2008 la domanda di automobili è crollata drasticamente e le sovvenzioni statali hanno favorito solo la produzione delle utilitarie più piccole, che non vengono montate in Germania. La drammaticità della situazione non ha portato comunque l'impresa a intraprendere provvedimenti estremi nei confronti dei lavoratori: con la settimana corta si sono salvati produzione e occupazione.

Subito approvata dal consiglio di fabbrica, l'iniziativa non ha creato grandi shock agli operai di Volkswagen, che hanno continuato a percepire lo stipendio di sempre. L'azienda ha retribuito loro le ore effettivamente lavorate, mentre l'Agenzia federale del lavoro ha provveduto a pagare il resto. I costi sociali della misura anticrisi, quindi, sono stati sostenuti dallo Stato, che ha dimostrato tutto l'interesse a investire i soldi dei cittadini per evitare licenziamenti di massa. In Germania, tra l'altro, non esiste la cassa integrazione.

Ma non è tutto: il terremoto economico della recente crisi si è sentito fino ai vertici Volkswagen, dove sono stati nettamente ridotti gli stipendi. I membri del consiglio di amministrazione del gruppo di Wolfsburg hanno incassato nel 2009 poco meno di 19 milioni di Euro, rispetto ai più di 45 milioni nel 2008. Secondo la relazione del bilancio annuale della casa automobilistica, il presidente del consiglio di sorveglianza e proprietario del marchio Ferdinand Piech, ha percepito 390 mila Euro rispetto ai 467mila del 2008. Il presidente del consiglio di gestione del gruppo, Martin Winterkorn, si è visto dimezzare lo stipendio, mentre il direttore finanziario, Hans Dieter Poetsch, ne ha preso solo un terzo rispetto a quello del 2008.

Volkswagen sembra essere tornata a guardare al futuro con ottimismo e ambizione. La maggiore casa automobilistica europea ha registrato nel primo semestre 2010 un aumento di immatricolazioni del 16% rispetto al 2009 e una flessione del volume d'affari del 22%, superando di gran lunga le stime degli economisti. I tempi di magra sembrano ormai dimenticati: entro il 2018 Volkswagen vuole arrivare a vendere una media di 10 milioni di auto all’anno, affermandosi come prima casa automobilistica a livello mondiale e scalzando Toyota.

Nel frattempo, invece, Fiat continua a piangere crisi e chi ne paga le conseguenze non sembra essere motivato da nessun tipo di rosee previsioni per il domani. Approfittando della situazione catastrofica dell'economia, qualche mese fa Fiat ha cercato di imporre un contratto di lavoro “capestro” ai suoi operai di Pomigliano d'Arco, in sostituzione a quello nazionale dei metalmeccanici 2008: una stipula in netta contraddizione con la direttiva europea e che nega i principi dello Statuto dei Lavoratori. In caso di mancato compromesso, Fiat minacciava di spostarsi all'estero, in quei Paesi dove la manodopera costa meno.

Per applicare il nuovo contratto senza ripercussioni legali, Fiat era pronta ad abbandonare Federmeccanica, fautrice e garante del contratto di lavoro dei metalmeccanici: un passo che si è reso ora superfluo, dato che Federmeccanica ha annunciato proprio in questi giorni l'annullamento del contratto nazionale del 2008. Nonostante la sua matrice "apolitica e senza fini di lucro", a quanto pare, l'associazione non si poteva permettere di perdere uno dei suoi membri più autorevoli e, ancor più, una ghiotta occasione per attaccare la FIOM. L’associazione riconosce dunque l’ultimo contratto siglato, nel 2009, con i sindacati che hanno accettato le loro pretese: Cisl, Uil. Peccato che in calce al contratto manchi la firma della FIOM e che i lavoratori non siano stati chiamati ad approvarlo o respingerlo attraverso il referendum, tutte condizioni invece presenti nel contratto appena disdetto unilateralmente.

Fiat parla di un contratto improntato alla modernità e alla flessibilità, ma le realtà appare ben diversa. Nel nuovo patto di lavoro, il gruppo si arroga la  facoltà di non pagare ai dipendenti la parte di malattia a suo carico per evitare assenteismo e quella di comandare lo straordinario nella mezz’ora di pausa mensa per i turnisti, oltre a prevedere sanzioni per i sindacati che proclamino iniziative di sciopero e licenziamento per chi mostrasse assenze per malattia superiori alla media.

Più che modernizzazione, sembra essere di fronte all’estensione su scala industriale del caporalato, se non addirittura alla versione moderna delle piantagioni di cotone in Mississipi e Alabama pre-guerra d’indipendenza americana.

Più che modernità, le proposte Fiat sembrano andare a riaffermare il primato dell'impresa sui diritti di chi lavora; più che disegni di rinnovamento, le condizioni di Fiat sembrano un ricatto. Fiat vuole tornare a competere sul mercato internazionale con una politica di bassi prezzi di vendita riducendo i diritti fondamentali agli operai. Non punta cioè sull’innovazione di prodotto ma sulla contrazione dei costi e sceglie l’estero non come opportunità di allargamento del mercato, ma come occasione per allungare le mani sui finanziamenti europei e gli incentivi locali e come ricerca del costo del lavoro a livello più basso. Toglieteci le tasse, i vincoli e anche il costo del lavoro, queste sono le giaculatorie che echeggiano da Corso Marconi verso il sistema solare.

Davvero non si capisce, poi, quale strano, perverso gioco, animi le fantasie del PD, che corre ad allinearsi al coro antisindacale. Pare davvero che sia la FIOM e non l'incapacità gestionale della casa torinese il motivo della crisi della Fiat. Tra l'altro, il gruppo ha fatto registrare in agosto un calo delle immatricolazioni del 26.39% a 21 mila unità. Una flessione in linea con le attese, si affretta a spiegare qualcuno, poiché sono stati eliminati gli incentivi statali nel settore. Inoltre, i due terzi delle auto acquistate in Italia sono prodotte all'estero, lamentano gli analisti, quasi a giustificare l'abisso con la mancanza di patriottismo degli italiani. Che però dovrebbero acquistare auto di minor valore ed a maggior costo. La vanità di Marchionne non vale simili sacrifici.

 

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