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di Mario Braconi
Goldman Sachs è la sola tra le banche d'affari sopravvissuta quasi indenne alla crisi finanziaria: pur non essendo la più grande del mondo (30.000 dipendenti, 11 volte di meno della Industrial and Commercial Bank of China), né quella con il bilancio più robusto (totale attività pari a circa 900 miliardi di dollari, contro i 2,4 del colosso britannico HSBC), è di gran lunga la più redditizia (222.000 dollari per addetto - la seconda in classifica, JP Morgan, arriva "appena" a 133.000). Simbolo quintessenziale del liberismo più spericolato, icona del mondo finanziario, conventicola infiltrata nelle stanze dei bottoni dell'universo mondo, c'è chi la chiama Goldmine Sachs ovvero Miniera d'oro - Sachs, chi Government Sachs, ovvero Governo - Sachs.
La banca d'affari fondata a New York nel 1869 da due ebrei bavaresi (Marcus Goldman e Samuel Sachs) è stata per quasi un secolo e mezzo oggetto di ammirazione quanto di odio: il giornalista freelance John Arlidge è riuscito a penetrare all'interno del quartier generale di Goldman Sachs, un edificio anonimo al numero 85 di Broad Street, a New York, e a raccontare la Goldman ai lettori del Sunday Times.
Arlidge intervista Lloyd Blankfein, CEO di Goldman Sachs, nato 54 anni fa nel Bronx da un postino e una receptionist, laureato ad Harvard con borsa di studio. Con una busta paga da 68 milioni di dollari (nel 2007), mezzo miliardo di dollari di azioni della sua banca nella sua custodia personale, un appartamento da 30 milioni di dollari a Central Park West e un buen retiro di 2.000 metri quadri negli Hamptons, Blankfein è uno di quelli che ha risalito la scala sociale a tre gradini alla volta. Parla da iniziato (il che non è poi così strano, visto che è il capo supremo di un'organizzazione che assomiglia più ad una chiesa laica che ad una banca) e la sua autostima è apparentemente illimitata: "Noi (le banche) siamo importanti. Aiutiamo le aziende sostenendole nel processo di reperimento di capitali. Le società creano benessere. Questo crea posti di lavoro, che stimolano nuova crescita e nuovo benessere. Abbiamo una missione sociale". Più una professione di fede che una provocazione, pare.
La situazione patrimoniale di Goldman Sachs è molto diversa da quella delle concorrenti: innanzitutto ancora esiste, cosa che non può dirsi ad esempio di Lehman Brothers (lasciata fallire e poi suddivisa tra Nomura e Barclays), della Bear Stearns (acquistata per pochi dollari dalla JP Morgan grazie anche all'aiuto delle autorità pubbliche americane); inoltre, ha subito perdite accettabili (i mutui le sono costati 1,7 miliardi di dollari), cosa che le ha impedito di fare la fine di Citi (salvata con i soldi pubblici), o di Merrill Lynch (spinta a forza tra le braccia di Bank of America). E poi, pur avendo incassato 10 miliardi di dollari dal TARP (Troubled Asset Relief Program - programma di recupero di attività di difficile liquidazione), li ha restituiti dal Governo con gli interessi (si dice di oltre il 20%). Cosa che peraltro consente alla Goldman di pagare tranquillamente bonus stellari ai suoi dipendenti anche in tempi di crisi e di grande quanto giustificata impopolarità per le banche: per quest'anno sono stati messi da parte a questo scopo 21 miliardi di dollari, pari ad un bonus medio di 700.000 dollari per ogni dipendente, dal CEO all'ultimo dei contabili.
Come ha fatto GS a passare indenne attraverso lo tsunami che ha sbaragliato tutte le sue concorrenti? Se lo si chiede ai suoi dirigenti, come ha fatto Arlidge, le risposte tenderanno all'autoincensamento. Secondo Liz Beshel, madre single quarantenne nonché tesoriera di gruppo (la più giovane nella lunga storia di Goldaman), si sono evitati i danni esplosivi sui subprime grazie ad una politica molto prudente di gestione del rischio. Tutte le posizioni in essere, continua Beshel, sono valutate quotidianamente al loro valore di mercato; quando si è visto che il portafoglio dei mutui non stava producendo la performance desiderata per più di una settimana, "quella che in altre banche sarebbe stata considerata una differenza irrilevante, o addirittura un arrotondamento, scatenò in Goldman Sachs un processo di verifiche culminato con un meeting tra i suoi grandi capi", nel quale si decise di alleggerire la posizione della banca su quel mercato. Certo, vi furono comunque perdite rilevanti, ma stiamo parlando di poco meno di 2 miliardi di dollari (si consideri ad esempio che UBS in questo modo ne ha persi quasi 60).
L'infallibilità di Goldman Sachs è uno di quei miti così pervicacemente alimentati, che metterlo in dubbio sembra quasi un'eresia. Goldman ha una sua filosofia, basata su alcuni presupposti: innanzitutto, una patologica attrazione per il denaro. Dice un ex Goldman che la cultura della banca è "completamente ossessionata dal guadagno. Mi sentivo come un asino davanti alla più grossa e succulenta carota che avessi mai immaginato. Il denaro è il metro con cui si misura il tuo successo. Se non compri una casa o una barca più grande, significa che stai rimanendo indietro". In secondo luogo, Goldman alimenta nelle sue persone il culto dell'insicurezza.
Come dice Mr. Sherwood, capo dell'ufficio di Londra, "c'è un clima di costante e profonda paranoia in tutto quello che facciamo". Si dice che i candidati per un posto di lavoro in Goldman vengano sottoposti mediamente a venti colloqui prima di essere assunti, anche se si registrano casi limite in cui le selezioni si sono concluse solo dopo la trentesima intervista. Se ci fosse ancora qualche dubbio sull'osservanza “darwinista” del dipartimento Capitale Umano (non risorse umane, "capitale umano"), è bene sapere che la regola, in GS, è "cresci o te ne vai", non c'è spazio per le mezze tacche.
Il terzo pilastro è quello delle relazioni: per inveterata tradizione, gli ex Goldman Sachs occupano poltrone rilevanti in tutti i gangli del sistema economico, finanziario, politico e mediatico, negli USA come in Europa. Hanno alle spalle una carriera in Goldman Sachs, ad esempio, il segretario del tesoro di Clinton (Hank Paulson), l'attuale presidente e il precedente direttore della Federal Reserve di New York, il capo dello staff dell'attuale Segretario di Stato (Mark Patterson), il consigliere economico di Hillary Clinton, i capi di ieri e di oggi nel New York Stock Exchange (la Borsa di New York), e perfino il capo delle operazioni della SEC (la CONSOB americana). Anche Mario Draghi, attuale Governatore della Banca d'Italia, è un ex Goldman.
Ma per capire veramente che cosa è Goldman Sachs, è necessario allontanarsi dall'ortodossia dei dogmi che essa stessa ammannisce alle folle. Innanzitutto, uno dei punti di forza della banca è quello di essere contemporaneamente advisor (consulente, non di rado dei Governi) e trader (operatore di mercato). Ciò significa che con una mano fa consulenza ai clienti in grosse operazioni e con l'altra prende posizione su mercati (azioni, obbligazioni, materie prime) sui quali si muove da maestra grazie alla sua esperienza di advisor. Ovviamente, qualsiasi Goldmanite ribatterà citando la mitica regola secondo cui i due bracci del business della banca sono separati da rigorose "muraglie cinesi"; si dice che, se un banchiere d'affari di Goldman entra nella sala operativa della sua stessa banca, verrà immediatamente interrogato dai suoi capi.
A costo di sembrare qualunquisti, questo idilliaco quadretto mostra la corda quando si tenti di rispondere alla domanda: qualora un grosso affare con ritorni da capogiro renda necessario non dico saltare, ma semplicemente anche solo sbirciare dall'altra parte della "muraglia", il tipico uomo (o donna) Goldman - praticamente un tossico del denaro - saprà resistere alla tentazione?
Inoltre, quella che viene spudoratamente spacciata per sagacia nell'interpretazione delle tendenze dei mercati è in realtà la capacità di pompare certi settori per specularvi sopra, salvo poi abbandonarli repentinamente a missione compiuta. Non sono pochi gli analisti che attribuiscono a Goldman Sachs un ruolo essenziale nella creazione di bolle speculative (è stato così per la febbre delle dot.com, per il boom delle materie prime, e poi del mercato immobiliare) dalle quali la banca ha beneficiato con collocamenti azionari e trading sul debito - salvo poi tirarsi indietro subito dopo aver portato a casa il profitto - circa un minuto prima che tutto andasse in malora.
Un altro caso interessante è quello che ruota attorno al destino della AIG (American Investment Group), venditrice dei celebri credit default swaps, assicurazioni sul rischio di fallimento dei prenditori di fondi. Risulta che quando l'AIG, ormai decotta, fu rilevata dal Tesoro e dalla Fed, la prima, inspiegabile mossa del nuovo proprietario pubblico della compagnia assicurativa fu quella di liquidare il 100% del valore dei CDS alle banche che a suo tempo li avevano comprati, questo quando da mesi ormai AIG stava negoziando per pagare solo il 60% del loro valore facciale.
Una differenza che vale 13 miliardi di dollari in più passati direttamente dalle tasche dei contribuenti ai forzieri dei clienti di AIG (tutte le principali banche, tra cui anche Goldman Sachs). Stranamente, al timone della Federal Reserve ai tempi c'era Henri Paulson (ex boss della Goldman Sachs); stranamente Paulson, che pure aveva giurato di non farlo, ha incontrato i suoi ex colleghi del board di Goldman Sachs ad un "evento sociale" a Mosca (un luogo dove ci potrebbero essere problemi di giurisdizione); ancor più stranamente, proprio mentre Paulson lavorava al salvataggio di AIG, i tabulati telefonici provano che, in soli sei giorni, egli si sia sentito ben 24 volte con Blankfein, il nuovo CEO di Goldman Sachs.
Eppure Goldman ha avuto l'arroganza di sostenere pubblicamente che, se pure AIG fosse andata in bancarotta, la banca non sarebbe affondata, dato che era protetta da una combinazione di cassa e di garanzie. Peccato che David Viniar, CFO di GS, si sia rifiutato di rendere note le controparti di questi fantasmatiche operazioni di copertura, cosa che rende "ridicola", nonché controproducente, la sua prova muscolare. Sembra dunque che il vero volto di Goldman Sachs assomigli molto più a quello dipinto dai molti cospirazionisti che alle fattezze rassicuranti che ci propongono i suoi capi.
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di Mario Braconi
"Non è accettabile che nel settore finanziario i benefici del successo vengano attribuiti ad una minoranza mentre i costi del fallimento siano messi in conto a tutti noi. I mercati finanziari globali vanno guidati verso una maggiore aderenza ai valori condivisi dalla stragrande maggioranza dei cittadini: duro lavoro, senso di responsabilità, integrità e correttezza. Dobbiamo ideare un contratto sociale ed economico più efficiente tra istituzioni finanziarie e il pubblico, che si basi sulla fiducia reciproca e sulla equa distribuzione di rischio e rendimento." Non è la citazione di un militante no-global: è un estratto del discorso con cui il premier britannico, Gordon Brown, si è rivolto ai colleghi del G20 dello scorso fine settimana, tenutosi a St. Andrews (Scozia).
Brown fa sapere al mondo che desidera mettere in riga le banche, cioè quelle efficienti istituzioni che, secondo una stima di Bloomberg, sono costate ai cittadini dei paesi occidentali qualcosa come 500 miliardi di dollari tra iniezioni di capitale a copertura delle perdite, garanzie ed altre forme di salvataggio dal fallimento. Brown non ha una ricetta ben definita: potrebbe infatti trattarsi di costringere le banche a pagare il premio di una specie di "polizza assicurativa" a fronte del diritto ad usufruire del sostegno pubblico in caso di necessità (ipotesi sponsorizzata dagli Americani); ovvero della costituzione di un fondo speciale; o dell'emanazione di regole transitorie in materia di capitale da allocare a fronte degli impegni assunti; oppure ancora - teniamoci forti - di una tassa globale sulle movimentazioni di tipo finanziario (operazioni in cambi e derivati).
Brown ha tirato fuori la Tobin Tax dal cassetto in cui stava ammuffendo dagli Anni Novanta, e oggi sembra che le sue opinioni in tema di tassazione dei capitali non differiscano molto da quelle di Attac, la ONG che ha fatto della "tassa Tobin" uno dei suoi cavalli di battaglia. Una mossa che ha spiazzato politici e commentatori, anche perché tassare le transazioni finanziarie è considerata un'idea un po' estremista ai limiti del socialismo reale. Senza contare che ogni volta che è uscita dalle accademie per finire dentro qualche programma politico, ha avuto vita breve (e difficile).
L'ultimo caso si è verificato la scorsa estate in Gran Bretagna, quando Lord Adair Turner, capo della Financial Services Authority (la CONSOB del Regno Unito) in una intervista al mensile Prospect, ha sostenuto che per rimettere in sesto il settore finanziario britannico si rendono necessari interventi talmente drastici da far sembrare la polemica sui bonus dei banchieri "una digressione populista"; Turner ha poi sparato a zero sulla City, la quale, lungi dall'essere il fiore all'occhiello dell'economia d'Oltre Manica, ne costituisce invece l'elemento destabilizzante per eccellenza. Impagabile il passaggio dell'intervista in cui Lord Turner si duole del fatto che la finanza in questi anni ha risucchiando alcuni dei migliori talenti del Paese per aggiogarli a lavori "socialmente inutili". Turner conclude il suo intervento incendiario dichiarando che una eventuale tassa globale sulle transazioni finanziarie è un modo accettabile per contenere gli attività e profitti del settore finanziario, ormai fuori controllo.
Il numero di Prospect con la sua intervista è appena uscito dalle rotative e Turner è costretto a difendersi da una lapidazione mediatica: le questioni relative alla tassazione non sono materia del Ministro delle Finanze, non del capo di un'Authority, che invece dovrebbe occuparsi di regolamentare il mercato, gli si fa notare freddamente; l'idea di una tassa sui movimenti finanziari è roba per malati di mente - quasi impossibile da applicare e gravemente dannosa della principale attività del Paese, la finanza (60% del PIL della Gran Bretagna). Dettaglio interessante: in quell'occasione, il governo non si affretta (anzi) a difenderlo mentre sul suo capo solenne piovono incudini dai piani alti di Canary Wharf.
Guardandola dal punto di vista della politica interna, la boutade di Brown va inserita nel contesto dei risultati disastrosi del suo mandato e costituisce l'estremo tentativo del premier di guadagnare qualche consenso progressista dicendo qualcosa talmente "di sinistra" da essere inapplicabile. Questa è anche l'interpretazione (forse un tantino ingenerosa) che dell'uscita di Brown fa Vincent Cable, portavoce del Liberaldemocratici: "Una Tobin Tax è una buona idea, lo è stata da decenni, ma i governi ancora non hanno mai trovato modo di applicarla. Brown farebbe meglio a sfruttare il breve periodo che lo separa dal termine del mandato per introdurre misure più pratiche, quali l'incremento delle imposte sulle banche che sono troppo grandi per poter fallire." Eppure, l'idea sviluppata dall'economista premio Nobel nei primi anni Settanta (mettere "un po' di sabbia tra gli ingranaggi della finanza" per limitare i movimenti speculativi) è tuttora valida, e probabilmente non merita di essere cestinata senza qualche approfondimento.
A prescindere dalle questioni di cucina laburista, come sottolinea William Hunt sul Guardian, la provocazione di Brown è "perfetta". In effetti essa non è che un modo per rispondere alla domanda che molti cittadini si stanno ponendo in questi mesi: la relazione tra la Grande Finanza e i cittadini tassati è simmetrica e corretta? Non sembra proprio. Inoltre, non è vero che un'eventuale tassa Tobin sarebbe complicata da applicare e ridurrebbe la liquidità del sistema: al contrario, se dovesse passare la proposta americana, che prevede scambi centralizzati per una gran quantità di transazioni finanziarie, la tassa potrebbe essere applicata in modo assai agevole. Ma soprattutto è assurdo sostenere che la possibile riduzione del volume transato sui mercati in conseguenza della tassazione sarebbe un danno in senso assoluto, come argomentano molti nemici della Tobin tax.
Hunt ricorda che il volume delle transazioni che circolano sui mercati finanziari vale 10 volte il PIL mondiale: "Le dimensioni dei mercati finanziari sono esplose; essi sono dominati da banche-portaerei in grado di prendere in prestito migliaia di miliardi di dollari che, in caso di crisi di fiducia, possono buttar giù intere economie. Un modello efficiente solo per i singoli banchieri, i quali sono messi in condizioni di guadagnare fortune, ma inefficiente per tutti gli altri."
Secondo uno modello sviluppato di recente dall'Istituto Austriaco di Ricerca Economica, una tassa Tobin dello 0.05% su tutte le transazioni in divisa, in azioni e in derivati, produrrebbe un gettito di 360 miliardi di dollari l'anno; ma anche un gettito di 36 miliardi l'anno, corrispondente ad un'aliquota pari ad un decimo dello 0.05% (cioè dello 0.005%) produrrebbe un gettito interessante (36 miliardi). Max Lawson, consigliere anziano della ONG Oxfarm, non nasconde il suo entusiasmo: "Sarebbe un passo significativo nel processo di risanamento dopo il disastro provocato dall'avidità sfrenata dei banchieri. Ogni minuto, cento persone nel mondo vengono gettate nella povertà estrema a causa della crisi economica. Il denaro ricavato dalle transazioni finanziarie potrebbe cambiare radicalmente le loro vite."
Purtroppo a freddare gli entusiasmi di Brown e dei fan della Tobin Tax arrivano i rappresentanti di USA e Canada. In particolare, Geithner, in un'intevista a Sky News, ha dichiarato: "Questa tassa non è tra le misure che siamo pronti a sostenere, ma ritengo che tutti condividiamo il basilare interesse a governare un sistema in cui i cittadini che pagano le tasse non siano esposti ai rischi ed in cui le istituzioni finanziarie subiscono le conseguenze dei loro errori." Secondo Alastair Darling, che è subito corso in aiuto di Brown, la relativa freddezza di Geithner sul progetto di una tassa sulle transazioni finanziarie non esclude che anche gli USA stiano pensando a qualche strumento diverso che abbia comunque per oggetto il settore finanziario.
Non è escluso che quella di Darling sia la difesa d'ufficio di un autorevole compagno di partito e di governo di Brown; ma è difficile dare torto al collaboratore di Brown intervistato dal Guardian quando sostiene che anche i salvataggi statali delle banche e il condono del debito dei paesi in via di sviluppo fino a pochi anni fa erano considerati idee astratte ed invece hanno finito per guadagnare consenso in patria e all'estero. Ora la palla è nel campo americano.
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di Mario Braconi
Riferisce il quotidiano Times che in una recente circolare interna, stilata in un inglese esilarante quanto incomprensibile, uno dei grandi capi della banca d’affari giapponese ha ribadito una volta per tutte le regole di etichetta che la Casa impone ai suoi dipendenti (in particolar modo a quelli di sesso femminile). Smalto per unghie di colori accesi, pantaloni al di sopra della caviglia, camicie di tessuto lucido, o con le maniche più corte della metà del bicipite, colpi di sole sui capelli: tutte queste cose sono sintomo di scarsa serietà e pertanto non sono coerenti con i rigidi canoni del dress code imposto dal vertice aziendale.
Sembra che i principali bersagli polemici dell'ignoto censore siano i dipendenti di Lehman Giappone, acquistata da Nomura a setttembre del 2008, dopo il fallimento della casa madre: è possibile che alla Lehman, negli USA come nel Paese del Sol Levante, le donne tendessero a godere (almeno in apparenza) di pari diritti rispetto ai loro colleghi maschi, un fatto che ai vertici di Nomura proprio non pare vada giù. La circolare-monstre citata dal Times è solo il caso più eclatante del conflitto intestino, quasi epico, che si sta consumando tra i due segmenti della attuale Nomura giapponese, quello originario e quello ex Lehman. Non si parla (solo) di uno "scontro di civiltà" tra il Medioevo contemporaneo giapponese e la (talora ipocrita e certamente incompiuta) modernità occidentale. Il modo di fare business, le strutture organizzative, i processi decisionali, i metodi di incentivazione del personale delle due banche non potrebbero essere più diversi e questa grave disomogeneità costituisce un'ipoteca importante sull'integrazione.
Non è un mistero che Nomura abbia fatta propria la visione tradizionalista giapponese, secondo cui la donna deve essere sottomessa al maschio: anche in una sala cambi, le si chiede di interpretare con toni quanto più possibile sobri la sua “naturale” funzione ornamentale e di servizio all’uomo. Gli esempi non mancano: le Risorse Umane di Nomura hanno ritenuto di suddividere i neo assunti per sesso e di far seguire loro corsi separati. Al gruppo delle ragazze, tra cui si contavano anche laureate ad Harvard (assunte da Lehman prima che fallisse) è stata somministrata una formazione un po’ speciale, grazie alla quale le giovani hanno avuto la possibilità di apprendere come sistemarsi i capelli, preparare il tè e vestirsi in modo modesto ed appropriato alla stagione e al contesto, nozioni assolutamente necessarie a fare buoni affari sui mercati finanziari. Ancora: dopo l’acquisizione, gli indirizzi di posta elettronica delle ex dipendenti Lehman sposate sono stati modificati d’ufficio, sostituendo al loro cognome da nubili quello del marito; si dice che lo stesso sia accaduto alle dipendenti di Bear Stearns dopo l’acquisizione da parte della (ugualmente americana) JP Morgan.
Da un punto di vista strategico, Nomura ha sempre avuto un gran bisogno di espandersi all'estero. E’ in quest'ottica che va letta la scelta di spedire fuori dal Giappone due pezzi da novanta dell'organizzazione: il capo del settore Investment Banking Hiromi Yamaji - a Londra - e lo "zar" dell'Azionario Naoki Matsuba, a New York. "Se non guardasse all'estero, la sua natura di casa di brokeraggio indipendente renderebbe Nomura vulnerabile a scalate azionarie ostili, orchestrate da una megabanca giapponese o, se è per questo, anche da chiunque altro abbia un qualche peso nel mercato internazionale", ha dichiarato qualche mese fa al Wall Streeet Journal Takumi Shibata, COO (Chief Operating Officer) di Nomura da marzo 2008.
Il sogno di Nomura è sempre stato quello di conquistarsi un posto al sole negli Stati Uniti. I primi tentativi con le cartolarizzazioni ed i prodotti strutturati sui mutui sono stati dolorosi per il bilancio (perdite per oltre 600 milioni di dollari) e per l'orgoglio. In questi mesi, però, con le banche americane ancora debilitate dal febbrone scatenato dalla crisi subprime, pare che Nomura stia finalmente "sfondando": lo scorso luglio è stata infatti inclusa nella lista ufficiale dei dealer sul mercato primario dei titoli di Stato americani, mentre prosegue con la sua politica aggressiva di assunzioni di persone strategiche da altre banche (Bank of America). Non a caso, i suoi dipendenti negli USA si avvicinano al migliaio, contro i 650 dell'anno precedente.
Un tema delicato è quello delle retribuzioni: mentre un capo della Nomura guadagna 250.000 dollari l'anno, un executive di Lehman era in grado di portare a casa anche decine di milioni di dollari. Nel tentativo di trattenere in azienda gli ex-Lehman, Nomura ha dovuto garantire ai dirigenti della banca USA livelli retributivi simili a quelli cui erano abituati, multipli rispetto a quelli tradizionalmente erogati. Risultato: costo del personale raddoppiato in un trimestre, con effetti negativi sul corso del titolo azionario, ma anche sul morale dei dipendenti Nomura, i quali (e giustamente) promettono battaglia.
Con l'arrivo di Lehman, inoltre, Nomura si è spinta a licenziare personale, una misura che per le aziende giapponesi è un vero tabù. Eppure gli ex-Lehman, apparentemente inconsapevoli di rappresentare un modello di gestione marcio e tossico, non contenti di pretendere retribuzioni scandalose che creano imbarazzo e rabbia nei loro colleghi, continuano a piantar grane: si lamentano del fatto che, non avendo Nomura acquistato il ramo USA di Lehman, è difficile fare business laggiù. Non tollerano di essere affiancati da colleghi giapponesi che sono "gli occhi e le orecchie" dei boss di Tokyo; sono talmente spudorati da fare la lagna perché il "processo di approvazione delle operazioni - in cui Nomura mette a rischio il suo capitale per supportare i clienti - è più lento e faticoso di quanto fosse in Lehman" (come se non si fosse visto dove ha condotto la disinvoltura e la velocità con cui in Lehman si prendevano le decisoni!).
Quando poi più di un cliente è interessato ad un'operazione di M&A (acquisizione e fusione di società), gli ex Lehman si scontrano regolarmente con i loro capi della Nomura: mentre i primi tendono a privilegiare i clienti che pagano le commissioni più elevate, i giapponesi considerano anche altri criteri, ad esempio la lunghezza della relazione. Insomma, sembra proprio che la smisurata arroganza dello stile Lehman sopravviva al fallimento della banca. E che si appresti a fare altri danni.
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di Ilvio Pannullo
È proprio il caso di dirlo: tutto scorre, tutto cambia nel Belpaese. Basta attendere il tempo necessario - spesso neanche troppo - per assistere ai cambiamenti più impensabili, cambi di strategia che generalmente maturano nel tempo, ma che in Italia si materializzano in pochi istanti. L’ultimo in ordine di tempo arriva da quel genio di coerenza politica che è Giulio Tremonti, ministro dell’economia e delle finanze. D’un colpo, come un fulmine a ciel sereno, il Robin Hood dei ricchi stordisce quanti erano presenti al convegno, promosso dalla Bpm, sulla partecipazione dei lavoratori all'azionariato delle imprese, tornando ad elogiare il tanto vituperato posto fisso al punto da individuarlo come "la base della stabilità sociale". Ad ascoltarlo tra i tanti erano presenti anche i segretari generali dei tre sindacati confederali: Cgil, Cisl e Uil.
"Non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale". Parole che sembrerebbero uscite dalla bocca di qualche sindacalista. A pronunciarle in un pubblico dibattito è invece il ministro dell’economia Giulio Tremonti e il discorso, ovviamente, assume un peso diverso. Cambia al punto che si potrebbe gridare alla rivoluzione se non fossimo in Italia, un paese dove dal dopoguerra in poi le rivoluzioni non si sono mai fatte, ma sempre e solo annunciate. S’impone così una riflessione su quest’ennesimo annuncio dal retrogusto giacobino, un ragionamento che abbia come base la presa di coscienza dell’attuale natura schiavistica del mercato del lavoro.
Appare infatti paradossale che a pronunciare queste parole sia stato proprio quel Giulio Tremonti, titolare del dicastero dell’economia italiana in ogni legislatura del Polo prima e della Casa delle Libertà poi. Se tra i fedelissimi di Silvio Berlusconi sono pochi, infatti, quelli che hanno potuto mantenere ruoli di rilevanza politica nel corso degli ultimi governi di destra, di certo uno di questi è proprio Tremonti. Presenza irrinunciabile per Berlusconi dal 1994 ad oggi, il divino Giulio ha ricoperto l’incarico di Ministro dell’Economia in ogni legislatura del Biscione, seguendo un percorso professionale difficile a causa di due dimissioni e dell’abbandono anticipato del ruolo in seguito alla crisi di governo nel 1996. Ciò nonostante si può certamente affermare che è stato uno dei primi responsabili dell’attuale situazione in cui versa l’economia italiana, avendo avuto la responsabilità di governare per quasi dieci degli ultimi 16 anni.
Anni in cui il mercato del lavoro è stato letteralmente sabotato in nome della flessibilità e della mobilità dei lavoratori. Il tutto per rendere - si diceva - più competitivo il paese. Peccato solo che alla flessibilità si sia sostituita la precarietà, il tutto realizzato sulla pelle dei lavoratori di colpo trasformati da esseri umani a capitale umano da gestire, con i soli bilanci dei padroni a trarne qualche giovamento. Quella flessibilità che, secondo il ministro, sarebbe figlia della globalizzazione che "non ha trasformato il quantum di lavoro ma la qualità di lavoro, passato da fisso a mobile. Era inevitabile - dice - fare diversamente". Un po’ come dire che lui, poverino, non poteva fare nulla di diverso da quello che fece. Dopotutto, allora, era solo il responsabile del ministero dell’Economia. Adesso, par di capire invece che le intenzioni sono cambiate e, con esse, anche le politiche che s’intende adottare per il futuro. Il tempo dell'elogio della mobilità e dell'esempio americano sembrano passati di moda. L’Italia che lavora ringrazia, nella speranza che il nuovo orientamento culturale descriva la sensibilità dell’intero governo e non magari la personalissima idea del ministro.
È un uomo misterioso Giulio Tremonti, imperscrutabile per via della sua capacità di dire tutto ed il contrario di tutto molto velocemente e senza temere alcuna smentita. Va detto che difficilmente lo si vede scendere in proclami accompagnati da logiche di plenario ottimismo; l’inderogabile attività economica e finanziaria lo pongono sopra le logiche mediatiche, aggrappandosi alla gravità di tecnicismi che lo trattengono scostato dagli assetti politici più attinenti al pubblico riscontro. Nonostante questo, data la lungimiranza espositiva di questi anni, perfino il poco telegenico immobilismo di Tremonti ha saputo adattarsi alle esigenze televisive, divenendo presenza frequente nei più noti salotti d’attualità politica.
Su tutti lo studio di Vespa, oramai divenuto esso stesso simulacro del potere. Ed è proprio attraverso i meccanismi mediatici che ha potuto affinare le tecniche di abbordaggio pubblico, dove le parole si frantumano in peso indifferenziato ma costante, ed i significati giungono sottoforma di percezione. Il ricordo di quanto si è fatto sfuma, perde d’importanza e lascia il posto ad un camaleontico personaggio privo della più elementare forma di coerenza.
Si compie così il miracolo. L’ideologo del condono edilizio permanente, l’autore di tre scudi fiscali, il sostenitore della privatizzazione delle coste per ragioni di cassa, l’importatore nostrano della finanza creativa anglo-americana, magicamente si trasforma nel paladino della costituzione repubblicana, arrivando a giudicarla "ancora valida", ma "non del tutto applicata". Secondo Tremonti, nella nascita della Costituzione c'era "il confronto fra le tre diverse culture chiave che animavano lo spirito di quel tempo: quella cattolica, quella comunista e quella liberale e la sintesi di queste diverse visioni sta nell'articolo sulla proprietà industriale. Quel passaggio - ha aggiunto il ministro - dove si dice che la Repubblica tutela, regola e disciplina il risparmio, identificando nell'industria del credito una realtà che favorisce l'accesso alla proprietà, all'azionariato popolare, ai grandi complessi produttivi del Paese, è fondamentale".
“Se la Costituzione diceva questo - ha continuato il ministro, senza il minimo accento autocritico - la sua applicazione e la legislazione hanno detto l'opposto. Si è organizzato per un decennio un sistema che in qualche modo ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito quelli di debito. Giusto criterio per cui la grande proprietà industriale doveva essere in qualche modo controllata dal sistema bancario. Credo che un ritorno alla Costituzione - ha concluso - possa portare a concrete e non poche remote riflessioni".
Ovviamente non si è fatta aspettare la risposta dei sindacati. Luigi Angeletti, leader della Uil, ha chiosato l’intervento affermando: "Dalle cose che ha detto, è come se fosse un nostro iscritto”. Sulla stessa linea Raffaele Bonanni, leader della Cisl: “Le parole di Tremonti sull'esigenza di avere posti di lavoro stabili sono sicuramente condivisibili. E' un obiettivo che inseguiamo anche noi”. Ne esce insomma un’immagine del ministro che da riciclatore di stato, agevolatore di evasori e fornitore di condoni ad ogni dove, si trasforma in sindacalista difensore dei lavoratori. Caustico, ma sempre meno di quanto occorrerebbe, il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che alle affermazioni del ministro ha risposto seccamente: "Le farei commentare a Confindustria". Una nota di realismo in un paesaggio da favola.
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di Mario Braconi
Matthew Tannin e Ralph Cioffi, ex manager dell’hedge fund di Bear Stearns, sono stati arrestati il 18 giugno del 2008: resteranno ben impresse nell'immaginario collettivo, non solo americano, le foto che li ritraggono, nei loro eleganti completi, con le manette ai polsi tra gli agenti del FBI. Il caso Tannin - Cioffi è cosa diversa da quello della banca che controllava il Fondo, la Bear Stearns, appunto, il cui destino era scritto nel bilancio che presentò a fine 2007: attività per 395 miliardi di dollari contro un patrimonio netto di poco più di 1 miliardo, con ricorso alla leva finanziaria pari a 35,5 a uno. Una autentica follia, destinata ad esplodere in faccia algli "strateghi" della finanza che l'avevano permessa e anzi benedetta, non appena si fosse materializzata una stretta sulla liquidità con conseguente corsa allo smobilizzo.
Un disastro, per una banca piena di attività improvvisamente divenute illiquide, quando non carta straccia; ma anche una grande occasione per JP Morgan: grazie al generoso contributo della Federal Reserve - trenta miliardi di dollari prelevati dalle tasse dei contribuenti americani - si è aggiudicata a prezzo di saldo una delle case più antiche e prestigiose (?) della finanza USA (la Bear Stearns fu fondata nel 1923 e sopravvisse onorevolmente alla Grande Crisi).
Cioffi, gestore di fondi, e Tannin, avvocato con mansioni di COO (Chief Operating Officer) dello High-Grade Structured Credit Strategies Enhanced Leverage Master Fund, controllato dalla banca d'affari, non sono accusati di aver procurato il fallimento della controllante, quanto piuttosto di avere deliberatamente mentito agli investitori pur conoscendo la drammatica situazione di mercato e i rischi gravissimi cui erano sottoposti i loro clienti.
Il processo ai due è iniziato ieri, 13 ottobre 2009 a Brooklyn, New York, davanti ad una corte federale. Per quanto incredibile, il procedimento giudiziario a carico di Cioffi e Tannin è l’unico caso in cui i direttori delle banche fallite (o quasi) in conseguenza della crisi dei subprime subiscono un procedimento penale: entrambi sono accusati di associazione a delinquere, truffa su titoli mobiliari, e di un reato tipico dell'ordinamento americano che potremmo tradurre truffa elettronica (cioè, truffa perpetrata mediante comunicazioni effettuate per via telematica).
Se venissero riconosciuti colpevoli del reato più grave, truffa su titoli mobiliari, potrebbero finire in prigione per venti anni. A Cioffi viene inoltre contestato il reato di insider trading, per aver ritirato 2 milioni dei suoi risparmi personali da uno dei fondi che gestiva, utilizzando in modo improprio (cioè, prima dei suoi clienti) informazioni riservate. In teoria Cioffi e Tannin dovrebbero essere essere preoccupati, se si pensa che il caso è nelle mani dello US Attorney di Brooklyn, Benton Campbell, ex membro della Task Force del Dipartimento di Giustizia che si occupò della Enron, il cui compito, chiosa l’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg, è quello di organizzare processi contro i responsabili della crisi dei subprime e di portare a casa condanne "visibili": “gli imputati non sono chiamati in responsabilità per il collasso della Bear Stearns” ha dichiarato Campbell; “essi però avevano dei doveri nei confronti dei loro investitori, e hanno violato la loro fiducia: di questo oggi dovranno rispondere”.
Tutto vero, come negarlo? Eppure l’entusiasmo di Benton suona un po’ stridente, anche se è innegabile che funzioni bene dal punto di vista politico-sociale, fornendo un apparente e superficiale ristoro alla diffusa sete di giustizia made in USA conseguente alle scottature provocate da un modello del tutto illogico, anche se molto profittevole per privati, banche ed aziende. Anche perché se il crack della finanza di carta dietro agli eccessi del subprime ha provocato al sistema quasi 400 miliardi di dollari di perdite, ad oggi si sono individuati solo due presunti criminali, Cioffi e Tannin, appunto, i quali sono sotto scrutinio per danni di “soli” 1,4 miliardi. Domandarsi se i due non siano capri espiatori da esporre alla pubblica esecrazione come simbolo dei mali di un sistema di cui erano solo un ingranaggio, a questo punto, non pare un esercizio di garantismo peloso.
Sia come sia, da un punto di vista strettamente tecnico, la giustizia americana sembra dotata di pugno di ferro solo per i politici. Infatti, per riuscire a provare l’associazione a delinquere, il Governo deve dimostrare un accordo tra due o più persone; che, insomma, vi sia stata "un’intenzione collettiva di violare la legge”, come sostiene l’avvocato O’Callaghan dello studio Nixon Peadoby; “di solito in questi casi il governo si basa su testimoni o, meglio, sulle deposizioni di un corresponsabile poi ‘pentitosi’ o di qualcuno che conosceva direttamente i particolari degli schemi criminali.”
Il riferimento è al caso Eric Butler, un trader di Credi Suisse NY che ha venduto alle aziende sue clienti 1 miliardo di dollari di titoli, sostenendo in modo fraudolento che essi erano strutturati sulla base di prestiti agli studenti garantiti dal Governo Federale: Julian Tzolov, compare di Butler, ha riconosciuto le sue responsabilità patteggiando la condanna, ed accusando il suo complice, fornendo alla giustizia americana gli elementi per inchiodarlo. Nel caso di Cioffi e Tannin, manca uno "Tzolov", e quindi viene meno uno strumento essenziale per comprendere le motivazioni alla base della condotta degli accusati. E quindi provare la loro colpevolezza giuridica può risultare quasi impossibile.
Sembra proprio che, a dispetto delle 532 evidenze esibite e dei 38 testimoni, il governo, per ottenere una condanna per i due manager del fondo di Bear Stearns, dovrà basarsi sostanzialmente su citazioni delle loro parole, scritte nelle email o registrate dagli investitori nel corso delle conference call di aggiornamento. La pubblica accusa è entrata in possesso anche di tutte le e-mail di un account Gmail a nome di Tannin (successivamente da lui cancellato), nel quale il dirigente riversava i suoi più intimi pensieri: un quadro a luci ed ombre, che raffigura un uomo soddisfatto di guadagnare quasi 2 milioni di dollari l’anno, ma anche devastato dall’ansia, praticamente dipendente da farmaci anti-stress e antidepressivi, e sull’orlo di una crisi religiosa (!). Lo stesso che ammetteva di avere una gran paura che “il fondo non venga gestito nel modo in cui avrei desiderato” e che ciò esponesse gli investitori a “rischi esplosivi”.
Anche se Tannin viene immortalato a dire frasi che comprovano in modo inequivocabile la sua corretta percezione della crisi (“il mercato dei CDO è bollito”, “il mercato dei sub-prime fa veramente schifo”, "se le analisi hanno un minimo di verità, dovremmo chiudere il fondo ora”) uno dei suoi avvocati spiegherà che “si trattava degli stessi discorsi che si facevano dappertutto, dalla Casa Bianca al tinello di casa, per capire dove la crisi sarebbe andata a parare. Quando sono lette nella loro completezza, le frasi hanno un significato diverso da quello che mostrano quando vengono estrapolate per rimpinguare gli atti di accusa”. Insomma, non solo Cioffi e Tannin sono i soli due manager ad affrontare un processo penale a seguito della crisi subprime, ma c'è da scommettere che, pur avendo truffato i loro clienti, se la caveranno con poco.