di Ilvio Pannullo

È tempo per il paese di cambiare il proprio sistema di ammortizzatori sociali. A sostenerlo, ancora una volta, è stato il presidente della Banca d'Italia Mario Draghi che, in seguito alle polemiche sollevate dopo il suo intervento tenuto in giugno, è tornato a ripetersi venerdì scorso tenendo una lectio magistralis, in occasione della laurea honoris causa ricevuta dalla facoltà di Statistica dell'Università di Padova. "Circa 1,2 milioni di lavoratori dipendenti - ha commentato il governatore - non avrebbero copertura in caso d’interruzione del rapporto di lavoro. A questi si affiancano 450mila lavoratori parasubordinati che non godono di alcun sussidio o che non hanno i requisiti per accedere ai benefici introdotti dai provvedimenti del governo". Una cifra che se paragonata ai 23,4 milioni di lavoratori censiti dall'Istat, stando ai dati diffusi nel 2008, sta a significare che quasi il 7% dei lavoratori in Italia è privo di qualsiasi tipo di protezione davanti al licenziamento.

Il sistema degli ammortizzatori sociali rischia, infatti, di assumere paradossalmente anch'esso la peculiare caratteristica, tutta italica, del privilegio, con lavoratori tutelati in caso di perdita del posto di lavoro, al fianco di poveri disgraziati abbandonati a se stessi nel momento di massimo bisogno. Da qui la necessità di una radicale riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, che porterebbe "benefici per l'efficienza produttiva, la tutela dei lavoratori, l'equità sociale.”

Sprezzante del senso del ridicolo, forse ignorando che la logica liberista è alla base dei disastri che hanno colpito recentemente le economie di mezzo mondo, il governatore tuttavia puntualizza che "essa è oggi il prerequisito per un'estensione della flessibilità del mercato del lavoro a tutti i suoi comparti". Se dunque il consiglio dato al governo si spera venga ascoltato dal responsabile di via XX settembre - quel Giulio Tremonti tanto osteggiato e fastidioso - l'obiettivo cui mirare una volta realizzata la riforma appare certamente da scongiurare.

Va detto, infatti, che il pressante invito del governatore rappresenta la cristallizzazione di un'esigenza oramai non più procrastinabile. L'attuale sistema di protezione sociale è figlio, infatti, della rivoluzione industriale e di una logica nella quale il lavoro umano era indispensabile e costituiva la parte più rilevante del processo produttivo, mentre oggi la rivoluzione tecnologica e la finanziarizzazione dell'economia aprono scenari incompatibili con la realtà vetero-industriale, imponendo una radicale rivisitazione del concetto stesso di previdenza sociale.

Il finanziamento della sicurezza sociale non può più essere posto a carico delle individuali contribuzioni agli istituti previdenziali e, per converso, il diritto alle prestazioni tende ad assumere una valenza sempre più universalistica. La garanzia dei bisogni essenziali della persona costituisce poi, oggigiorno, il compito caratterizzante dello Stato, nell'ambito del quale vanno costruite nuove solidarietà per descrivere nuovi rapporti tra la gestione della cosa pubblica e la comunità che esprime la nazione. Invenzione europea, essa ha contribuito alla stabilizzazione dello sviluppo economico e alla sua armonizzazione rispetto ai mutevoli bisogni sociali. Tuttavia, nonostante il suo indiscutibile successo storico, la protezione sociale è entrata nel suo secondo secolo di vita in condizioni di tensione e d’incertezza.

Figlia dell'età industriale dello Stato nazionale si trova, ora, alquanto disorientata nel mezzo di un nuovo contesto socio-economico caratterizzato dalla transizione verso modelli produttivi postindustriali, da una crescente globalizzazione e da rapidi mutamenti dei rapporti demografici. Le società europee della prima metà del secolo 19º, epoca del perfezionamento dei sistemi di welfare, erano infatti ormai solidamente industrializzate: la ricchezza nazionale che in esse veniva prodotta era frutto principalmente della produzione industriale, vista la progressiva perdita d'importanza del settore agricolo è la quasi totale assenza di quello che oggi viene definito settore terziario. L'occupazione era quindi prevalentemente di tipo industriale e si riteneva in questo settore potesse soddisfare le continue richieste occupazionali, garantendo così raggiungimento di un livello di piena occupazione. Oggi tutte queste condizioni sono profondamente mutate.

Il settore industriale continua a perdere peso a vantaggio del settore terziario che assicura buona parte della ricchezza nazionale prodotta; la parabola discendente delle aree geografiche a più alta densità industriale mostra come le produzioni di massa siano ben lungi dall'assicurare, attualmente, la piena occupazione. La vita lavorativa di fasce sempre più numerose di persone si è fatta discontinua e sempre più spesso ai limiti della precarietà. Il ruolo che le donne rivestono all'interno della società è poi completamente mutato, così com’é cambiato l'assetto tradizionale della famiglia, sempre più spesso con un solo componente, per lo più giovani o anziani. Sono cresciuti i gruppi maggiormente esposti al rischio di povertà ed é aumentata l'occupazione femminile di media ed elevata qualificazione. In parallelo si sono modificati i bisogni e le esigenze.

Le modifiche alla struttura produttiva richiedono dunque una parallela trasformazione del Welfare tradizionale: è evidente che un sistema di sicurezza costituitosi all'interno di una fase economica e sociale tanto diversa, stenti ad essere rispondente proprio a quelle esigenze che ne hanno determinato storicamente il sorgere. Si assiste, infatti, in questa fase storica alla paradossale situazione nella quale il welfare è finanziato dai contributi sul lavoro dei singoli, ma proprio in ragione di tale costo l'occupazione diminuisce e si assiste al fenomeno del dumping sociale e alla conseguente delocalizzazione delle imposte, alla ricerca di un basso costo del lavoro.

Diversamente da giugno - quando il presidente del consiglio derubricò l'intervento del governatore come l'impropria uscita di un non addetto ai lavori cui non si doveva prestare ascolto - questa volta il governo ha preferito rispondere con il silenzio. Il ministro dell'economia Tremonti ha, infatti, dato modo di pensare chiaramente che uno ed uno soltanto è il suo parametro di valutazione nella scelta delle politiche economiche da adottare: la tutela della finanza pubblica. "Sui conti pesa il costo del maggior debito che rappresenta poi la nuova tassa che ci viene imposta dalla crisi. Una tassa - ha detto in modo falsamente ironico il Robin Hood dei ricchi - che non possiamo evadere”.

Il ministro sembra, infatti, perseguire una linea di immobilismo locale ed affidarsi, parallelamente, alla speranza di un dinamismo globale che faccia ripartire le esportazioni, vero punto di forza dell'economia italiana. In altre parole non spendere nulla, fare cassa in ogni modo, dallo scudo fiscale al congelamento dei crediti che le aziende godono nei confronti degli ospedali e delle asl, in attesa che la ripresa economica trascini in alto anche il nostro disgraziatissimo paese.

Una speranza che sarà vana se in questa lunghissima fase recessiva, in cui sono stati precipitati tutti i soggetti economici variamente collegati all'area di influenza angloamericana, non saranno affrontati tutti quei problemi strutturali che prima della crisi facevano dell'Italia una protagonista di secondo piano nella scena internazionale. Il rischio é infatti quello di ritrovarci, al momento della ripresa, con un paese non più periferia dell'Occidente industrializzato, ma primo della classe tra gli ultimi paesi del mondo.

di Giovanni Cecini

Il Financial Times già proclama l’”Entente fiscale”, l’inedita intesa tra le due sponde della Manica in una dura e inflessibile battaglia contro chi fa lauti e ingiustificati guadagni in barba alla crisi economica, vissuta e subita per larga parte invece dai strati medio-bassi. La considerazione di partenza, già affrontata anche dall’amministrazione statunitense, è che gli istituti di credito di tutto il mondo, beneficiari di una parte consistente degli aiuti di Stato, possano continuare nelle reiterate speculazioni finanziarie, senza dare una vera ventata di rinnovamento alle economie dei Paesi. In sostanza non solo le banche starebbero per preparare le condizioni di possibili nuove turbolenze dei mercati, ma soprattutto nella spicciola quotidianità si trovano a guadagnare sulle spalle dei contribuenti, che invece combattono ogni giorno con rincari nei prezzi e tassazioni supplementari, che vanno anche in tasca ai top manager dei colossi del capitale, occupati a imbarcare profitti.

Non sembra quindi utile, oltre che opportuno, regredire in un’economia drogata - e che crea deficit nelle casse nazionali - rivolta in modo unico a rinsaldare quel circolo autoreferenziale che le banche spesso rappresentano, senza riuscire nell’intento originario dei governi: fornire il credito ai cittadini per permettere un sano rilancio dei consumi e quindi della produzione. L’alternativa a questo capitalismo onnivoro e egoista è quella di impedire, o quanto meno di far comprendere ai vertici delle banche, che il soccorso pubblico deve essere di comune utilità, non certo oggetto di speculazione aggiuntiva.

Ecco quindi l’idea di Parigi, presa a prestito da Londra, di tassare in forma consistente, fino al 50%, i bonus dei banchieri, proponendo tale misura a tutti i Paesi dell’Unione europea. Pare ragionevole che, per la filosofia di fondo, possano essere esclusi da questa drastica misura tutti coloro che ricevono un premio inferiore ai 27.000 Euro, ovvero quella parte consistente di dipendenti, che non fanno del proprio lavoro una speculazione pura e semplice.

L’iniziativa sembra premiante, se dopo le prime incertezze continentali, l’audacia britannica, che dalla forza finanziaria della City detta un po’ le regole dei mercati europei, ha aperto le danze per questo giro di valzer anticrisi ante litteram. Sta di fatto che dopo James Gordon Brown, anche Nicolas Sarkozy ha recepito la lezione, tanto da interessare anche i governi olandesi e tedesco, che già accarezzano la proposta. Al congresso di Bonn del Partito Popolare Europeo, mentre Silvio Berlusconi sparava a zero contro le democratiche istituzioni nazionali, la cancelliera Angela Merkel ha espresso un giudizio positivo, di ampia riflessione sulle tassazioni finanziarie, sia legate ai bonus aziendali che a quelle delle movimentazioni in titoli internazionali.

Una proposta quindi ampiamente condivisa, se oltre a Downing Street, all’Eliseo e alla Cancelleria tedesca anche la Commissione, presieduta da José Manuel Barroso, ha trovato la proposta giusta e condivisibile. In Italia quest’azione non sembra degna di pubblico dibattito, visto che gli interventi risolutori del Governo contro la crisi sono stati, per ora, solo lo scudo fiscale. In Parlamento la finanziaria resta blindata dietro lo spauracchio della richiesta di fiducia, dove i tagli sono così opprimenti e le risorse offerte a famiglie e a imprese così misere, che ci si chiede effettivamente in che modo Tremonti e c. possano definirla la migliore degli ultimi anni.

Sarà così se vi pare, però, mentre i manager arricchiti della fallita vecchia Alitalia sono belli paciosi, a godersi i ricchi compensi ottenuti e mai messi alla gogna per aver rovinato il comparto aereo pubblico, in finanziaria spariscono pure le norme per rimborsare i comuni risparmiatori per le azioni e le obbligazioni della storica compagnia di bandiera italiana, divenute anno dopo anno carta straccia.

 

di Ilvio Pannullo

Il 4 novembre l'EIA (Energy Information Administration), l'ente che provvede a fornire le statistiche ufficiali in materia di energia provenienti dal governo americano, ha comunicato che le scorte di petrolio convenzionale sono calate, nell’ultima settimana di ottobre, di 3,9 milioni di barili. Gli analisti avevano atteso un aumento 1,3 milioni di barili. Anche le scorte di benzina sono calate: meno 287.000 barili. Gli esperti avevano previsto un incremento di 800.000 barili. Il dato quindi appare in fortissima controtendenza, lasciando intendere che la situazione, nonostante il persistere della crisi, sia decisamente peggiore rispetto a quanto si attendeva.

I dati sono importanti, in quanto il prezzo del petrolio influenza notevolmente l'andamento delle borse, spesso addirittura segnandone pesantemente l'evoluzione. In quest’ottica, analizzando le quotazioni del petrolio negli ultimi anni, è possibile intravedere uno scenario oramai difficilmente eludibile.

Dopo essersi mosse a lungo lateralmente, infatti, le quotazioni dell'oro nero hanno iniziato verso la metà del 2004 un trend rialzista che ha registrato una forte accelerazione a partire dall'inizio del 2007. L'11 luglio del 2008 il future (il contratto, cioè, con il quale le parti si obbligano a scambiarsi alla scadenza un certo quantitativo di determinate attività finanziarie, ad un prezzo stabilito ndr)sul Light Crude, ossia il petrolio del West Texas Intermediate, raggiunse al NYMEX, la borsa di New York, un nuovo massimo storico a $147,27 al barile, mentre il future sul Brent (il petrolio del Mare del Nord) salì all'ICE di Londra fino a $147,50 al barile.

Il prezzo del petrolio fu spinto soprattuto dal forte aumento della domanda di energia nei Paesi emergenti e dalla debolezza del dollaro. La grave crisi del settore finanziario e la conseguente recessione a livello globale hanno avuto in seguito un sensibile impatto negativo sul prezzo del greggio. Il future sul Crude è risceso a New York in pochi mesi, nel febbraio del 2009, a circa $35 al barile ovvero ai livelli del 2003-2004.
Ultimamente, essendo considerata oramai alle spalle la crisi finanziaria che ha demolito le borse di mezzo mondo, il prezzo del petrolio è tornato a salire.

Tra le variabili che si devono tener presenti quando si cerca di stimare la possibile evoluzione della quotazione del petrolio, le più importanti sono certamente la quantità della produzione, decisa dal cartello dei paesi produttori, e la forza del dollaro, l'unica moneta con cui è possibile pagare la linfa vitale dell'intera economia mondiale.

Ora, se della debolezza del dollaro si è scritto recentemente moltissimo, tanto da far ipotizzare ad alcuni una sua sicura sostituzione come valuta di riferimento per la comunità internazionale, una cappa di omertà sembra invece coprire le reali stime delle riserve dei paesi produttori, oltre alla capacità estrattiva dei singoli pozzi attualmente a regime. Nuovi pozzi di petrolio, infatti, sono difficili da trovare. Nonostante gli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti delle multinazionali dell'energia come BP, Royal Ducth Shell, ExxonMobile, Lukoil, Texaco, Unocal,  sono da stimare nell'ordine di diversi miliardi di dollari, i risultati sono scarsi.

La cosa decisamente peggiore, tuttavia, riguarda la necessità di una continua ricerca di nuovi giacimenti per aumentare i profitti; profitti che vengono reinvestiti nella ricerca, creando un circolo vizioso. I profitti, infatti, aumentano solo con la crescita economica, che però impossibile senza un aumento della disponibilità energetica. Visto che la domanda mondiale di petrolio e di gas naturali continua ad aumentare in misura sempre maggiore, rispetto alla quantità di nuove risorse che vengono scoperte, i costi di esplorazione salgono vertiginosamente, con la conseguenza di un forte calo dei guadagni.

Per riuscire a mantenere una posizione di mercato competitivo rispetto alla concorrenza, le multinazionali dell'energia - i cui azionisti sono certamente da iscrivere tra i gruppi di persone più potenti al mondo – devono conservare o estendere il loro controllo su sempre maggiori quantità di giacimenti petroliferi, al fine di continuare a garantire all’azionariato profitti adeguati agli investimenti fatti, secondo il diabolico mito della crescita infinita. Per come va il mondo attualmente - con il calo delle risorse di petrolio e di gas naturali, mentre la domanda aumenta drasticamente soprattutto in virtù dell'espansione economica, comunque in atto nonostante la crisi, in India e Cina - se vogliono mantenere i privilegi e il sistema di vita americano, gli Stati Uniti  e con loro l’intero occidente dovranno necessariamente entrare in una nuova fase energetica, in termini sia di produzione che di utilizzo.

Questo sentimento venne chiaramente espresso da Domenique de Villepin, allora primo ministro francese, l'1 settembre 2005 come riportato dall’agenzia di stampa Reuters: “Dobbiamo entrare nell'era posta petrolifera. Voglio che siano chiare tutte le drammatiche conseguenze dell'attuale situazione, per poi dare un forte impulso al risparmio energetico e all'uso delle energie rinnovabili”. Da allora sono passati più di quattro anni ed una crisi finanziaria il cui impatto sull'economia reale non si è, ad oggi, ancora esaurito. Allo stato attuale, il mondo è pericolosamente vicino all'esaurimento di tutte le risorse petrolifere, cosa che fa notevolmente aumentare le possibilità di una grave crisi degli approvvigionamenti energetici, con pesanti conseguenze sulle prossime tre decadi.

Le scelte conseguenti avranno anche pesanti effetti sugli altri obiettivi della politica degli Stati Uniti d'America: il Medioriente, l'ex unione sovietica, la Cina e la lotta al terrorismo internazionale. Nello stesso tempo, per buona parte del mondo sviluppato le infrastrutture energetiche stanno venendo messe a dura prova dall'aumento della domanda di materie prime, da parte di un ceto medio in espansione all'interno delle economie emergenti dell'Asia. Questa nuova domanda coincide con il calo delle risorse e con l'inevitabile aumento dei prezzi dell'energia. Al momento, dunque, l'unica cosa certa è che le riserve continueranno a diminuire ed i prezzi ad aumentare. In queste condizioni, salvo buone notizie, un conflitto mondiale per l'accaparramento delle ultime risorse disponibili sul pianeta rappresenta una certezza.

 

di mazzetta

La crisi ha battuto un colpo e Dubai è rimasta al tappeto. Tecnicamente la richiesta di congelamento dei pagamenti da parte di una delle imprese dello sceicco regnante non è un default del paese, ma il significato per la comunità internazionale è comunque quello di un default visto che le casse dello stato si confondono con quelle dell'imprenditore e che in nessuna di queste sembra esserci il denaro per pagare i debiti.

La giostra finanziaria dell'emiro è rimasta a secco di capitali e non da oggi; sono ormai mesi che il destino dell’emirato appare segnato e oggi Dubai è nella condizione che fu dell'Argentina, non ha i soldi per pagare i debiti in scadenza. Non ce li ha perché il potere magnetico di Dubai e dei suoi investimenti immobiliari è evaporato con l'apparire della grande crisi e con lo scoppio della bolla immobiliare, che ha trovato scoperte le scommesse sul futuro dell'emiro e dei suoi soci.

Non ci sono i soldi per aprire nuovi cantieri e nemmeno per terminare quelli già iniziati, progetti immobiliari già acquistati sulla carta in giro per il mondo, caparre già pagate e mutui già accesi che stanno andando in fumo perché il valore di quelle proprietà tende a zero, visto che in gran parte non si sa quando e se saranno mai realizzate. Lo sceicco e i suoi soci vendevano allo scoperto, come con le catene di Sant'Antonio e gli ultimi investitori pagavano a prezzi drogati la realizzazione delle case di quelli che li avevano preceduti. E’ bastato che la crisi rallentasse l'afflusso e lo sceicco si è ritrovato nella situazione di un Maddof qualunque, anche se sicuramente finanziariamente più coperto di Maddof.

Per questo le azioni di numerose istituzioni finanziarie sono andate giù alla notizia del default prossimo. Molte banche europee sono esposte per decine di miliardi di euro con Dubai e con gli altri paesi dell'area che rischiano di essere accomunate dalle sventure del vicino, sono cadute le borse, è franata la Sterlina (già svalutatissima) e un brivido ha percorso veloce la finanza globale, ma l'effetto dell'annuncio di Dubai va molto oltre.

In primis è la dimostrazione, la prova provata, che i “salvataggi” finanziari non hanno salvato nessuno e sono stati solo una costosissima operazione di maquillage. Nemmeno le iniezioni di capitali da parte dei “cugini” del Golfo ha risollevato il mercato immobiliare di Dubai, che non è esattamente un mercato rovinato dai famigerati sub-prime, ma che sconta una distanza enorme tra il valore presunto degli immobili e quello che possono realizzare in questo momento. L'intervento dei vicini a coprire completamente la voragine, fosse pure l'emirato cugino di Abu Dhabi, non è cosa semplice, perché chiama in causa delicati equilibri politici per i quali non sembra praticabile che lo sceicco ceda la guida delle attività fallite, che sono carne della sua carne e il successo delle quali è legato alla visione di futuro che ha proiettato sul suo regno.

La borsa che corre, mentre tutti i fondamentali arretrano, è la conseguenza di queste mosse di trucco & parrucco: inondare i mercati finanziari di un'enorme massa di denaro, mentre negli Stati Uniti e altrove si permetteva alle istituzioni finanziarie fallite di manomettere i bilanci per rimandare il fallimento formale, ha permesso di tappare solo apparentemente la falla nei conti. Invece di correre a riempire i buchi, coperti dalla possibilità di assegnare valori di fantasia a poste di bilancio altrimenti mutilate, le grandi istituzioni finanziarie non hanno fatto altro che buttare i soldi dei bailout statali (non solo di quello americano) sul mercato finanziario, esattamente come facevano prima della crisi.

Coprire i buchi non fa guadagnare e comprare a prezzo di fallimento genera aspettative di profitti sicuramente più allettanti, ancor di più se l'iniezione di capitali ha la capacità d'inflazionare valori di mercato ormai crollati. La borsa è decollata di nuovo, ma senza che i fondamentali sottostanti migliorassero e senza che nessuno si sia curato di riempire le voragini lasciate dallo scoppio delle varie bolle; si è semplicemente sperato l'impossibile, e cioè che la risalita dei corsi azionari facesse recuperare i denari persi e anche quelli dei guadagni virtuali iscritti a bilancio. Intanto i crediti inesigibili sono cresciuti inesorabilmente, altre banche sono fallite e l'implosione dell'economia reale è proseguita imperterrita, si è erosa la massa dei consumatori e anche la base di capitale è ben lontana dall'essere ricostituita ai livelli ante-crisi.

L'unico risultato certo è che i grandi amministratori della finanza mondiale hanno guadagnato come prima della crisi, se non di più, facendo esattamente quello che facevano prima della crisi, che nella pratica significa gonfiare bolle. Altre bolle si sono segnalate ovunque, perché una buona parte dei capitali non più attratti dalla pericolosa economia statunitense hanno cercato di allocarsi nei paesi in via di sviluppo o in quei segmenti delle economie asiatiche più promettenti. Se la scarsità di capitali è un male, la sovrabbondanza provoca comunque problemi e, infatti, molti governi sembrano orientati a regolare l'afflusso di capitali per difendersi da questa alluvione ingestibile.

Le grandezze relative sono tali che una porzione minima degli investimenti dirottati dagli Stati Uniti può trasformarsi in un diluvio di denaro per un paese emergente, che spesso non ha nemmeno i mezzi per controllare certi movimenti, ma ci sono molte economie asiatiche che a loro volta registrano quotazioni irrealistiche e quindi bilanci incerti e poco affidabili. Anche la ricchezza della Cina è una grandezza sopravvalutata e nasconde opacità bancarie e sopravvalutazioni immobiliari.

La velocità con la quale le istituzioni finanziarie hanno finto di aver risolto qualcosa è funzionale alla necessità di evitare di giungere alla resa dei conti, perché se è vero che l'economia globale è dominata dal sentiment, è pur vero che i numeri hanno la sgradevole caratteristica di fregarsene del sentiment. I numeri della crisi sono stati riscritti, nella speranza che la realtà economica avesse il buon gusto di riallinearsi in fretta ai bilanci taroccati.

I numeri incorruttibili ci dicono che mentre le borse hanno ripreso a correre, tutto il resto è arretrato. Sempre più disoccupati, sempre più banche fallite, sempre meno capitale disponibile per l'economia reale. Come in passato, tutti guardano al magico calderone che dovrebbe moltiplicare i soldi e agli stregoni che presiedono a questo rito e molti piccoli investitori avranno già ributtato nel calderone quanto scampato alla crisi; ma lo stregone è sempre lo stesso di prima, quello che costruiva i derivati con una coda di Parmalat, un po' di pelo di bond Argentino e succo di Cirio.

È per questo che il denaro viaggia sempre nella stessa direzione, sarebbe ben strano che i grandi della finanza si preoccupassero di creare profitti da distribuire ai piccoli investitori o di finanziare attività non speculative per questo sconosciute. I politici che hanno sperato nella ripresa dell'erogazione del credito personale e strumentale erano illusi o conniventi, trattandosi di impieghi che generano meno profitti della roulette finanziaria.

Il botto di Dubai potrebbe riportare tutti alla realtà, il sentiment si è incrinato subito e tutti hanno capito qual è la posta in gioco. Infatti le azioni degli emirati si sono inabissate e i costi per assicurare i bond di tutti i paesi della Penisola Arabica sono schizzati verso l'alto. Una banca Saudita ha fermato un'emissione di bond in programma nei prossimi giorni e le altre economie dell'area hanno accusato il colpo, che si è allargato a cerchi concentrici fino ad increspare tutti i mercati. A poco sono servite le rassicurazioni che da Dubai sono giunte per chiarire che non si tratta di un default e che la questione non riguarda il ramo delle attività che si occupa della gestione portuale, la quarta impresa al mondo in questo campo. Il solo annuncio di Dubai ha messo molti attori in difficoltà reali e tangibili, difficoltà che ancora una volta rischiano di sommarsi a valanga.

C'è da credere che la fantomatica “ripresa” non sarà favorita dalla notizia, ma c'è anche il rischio che la crisi di Dubai rompa quel magico velo che ancora separa i mercati finanziari dalla realtà; nel qual caso c'è da tremare sul serio, perché è abbastanza evidente che non si potrà continuare per molto a negoziare titoli e valutare proprietà come se nulla fosse successo. La botta di Dubai rischia di incrinare quel che resta della fiducia di buona parte degli investitori, unendosi alla serie ormai completa dei dati economici tendenti al disastro, in particolare quelli che provengono dagli Stati Uniti.

Nessuna ripresa plausibile sarà mai in grado di neutralizzare in breve tempo le perdite reali nascoste nei bilanci e determinate con lo scoppio della crisi e nessuna ripresa plausibile è in grado di riportare a breve l'occupazione ai livelli pre-crisi. Ma il vero problema è che nessuno di questi obiettivi sembra nel mirino delle persone e alle istituzioni che dovrebbero regolare il mercato finanziario globale, tutte invece abbastanza propense a seguire ancora una volta l'istinto primario della caccia al profitto a breve termine. Per preservare questo stato di cose fino ad oggi non è stata implementata alcuna legislazione, locale o globale, che abbia come obiettivo la repressione significativa dei comportamenti leciti ed illeciti che hanno provocato la crisi.


 

di Mario Braconi

Goldman Sachs è la sola tra le banche d'affari sopravvissuta quasi indenne alla crisi finanziaria: pur non essendo la più grande del mondo (30.000 dipendenti, 11 volte di meno della Industrial and Commercial Bank of China), né quella con il bilancio più robusto (totale attività pari a circa 900 miliardi di dollari, contro i 2,4 del colosso britannico HSBC), è di gran lunga la più redditizia (222.000 dollari per addetto - la seconda in classifica, JP Morgan, arriva "appena" a 133.000). Simbolo quintessenziale del liberismo più spericolato, icona del mondo finanziario, conventicola infiltrata nelle stanze dei bottoni dell'universo mondo, c'è chi la chiama Goldmine Sachs ovvero Miniera d'oro - Sachs, chi Government Sachs, ovvero Governo - Sachs.

La banca d'affari fondata a New York nel 1869 da due ebrei bavaresi (Marcus Goldman e Samuel Sachs) è stata per quasi un secolo e mezzo oggetto di ammirazione quanto di odio: il giornalista freelance John Arlidge è riuscito a penetrare all'interno del quartier generale di Goldman Sachs, un edificio anonimo al numero 85 di Broad Street, a New York, e a raccontare la Goldman ai lettori del Sunday Times.

Arlidge intervista Lloyd Blankfein, CEO di Goldman Sachs, nato 54 anni fa nel Bronx da un postino e una receptionist, laureato ad Harvard con borsa di studio. Con una busta paga da 68 milioni di dollari (nel 2007), mezzo miliardo di dollari di azioni della sua banca nella sua custodia personale, un appartamento da 30 milioni di dollari a Central Park West e un buen retiro di 2.000 metri quadri negli Hamptons, Blankfein è uno di quelli che ha risalito la scala sociale a tre gradini alla volta. Parla da iniziato (il che non è poi così strano, visto che è il capo supremo di un'organizzazione che assomiglia più ad una chiesa laica che ad una banca) e la sua autostima è apparentemente illimitata: "Noi (le banche) siamo importanti. Aiutiamo le aziende sostenendole nel processo di reperimento di capitali. Le società creano benessere. Questo crea posti di lavoro, che stimolano nuova crescita e nuovo benessere. Abbiamo una missione sociale". Più una professione di fede che una provocazione, pare.

La situazione patrimoniale di Goldman Sachs è molto diversa da quella delle concorrenti: innanzitutto ancora esiste, cosa che non può dirsi ad esempio di Lehman Brothers (lasciata fallire e poi suddivisa tra Nomura e Barclays), della Bear Stearns (acquistata per pochi dollari dalla JP Morgan grazie anche all'aiuto delle autorità pubbliche americane); inoltre, ha subito perdite accettabili (i mutui le sono costati 1,7 miliardi di dollari), cosa che le ha impedito di fare la fine di Citi (salvata con i soldi pubblici), o di Merrill Lynch (spinta a forza tra le braccia di Bank of America). E poi, pur avendo incassato 10 miliardi di dollari dal TARP (Troubled Asset Relief Program - programma di recupero di attività di difficile liquidazione), li ha restituiti dal Governo con gli interessi (si dice di oltre il 20%). Cosa che peraltro consente alla Goldman di pagare tranquillamente bonus stellari ai suoi dipendenti anche in tempi di crisi e di grande quanto giustificata impopolarità per le banche: per quest'anno sono stati messi da parte a questo scopo 21 miliardi di dollari, pari ad un bonus medio di 700.000 dollari per ogni dipendente, dal CEO all'ultimo dei contabili.

Come ha fatto GS a passare indenne attraverso lo tsunami che ha sbaragliato tutte le sue concorrenti? Se lo si chiede ai suoi dirigenti, come ha fatto Arlidge, le risposte tenderanno all'autoincensamento. Secondo Liz Beshel, madre single quarantenne nonché tesoriera di gruppo (la più giovane nella lunga storia di Goldaman), si sono evitati i danni esplosivi sui subprime grazie ad una politica molto prudente di gestione del rischio. Tutte le posizioni in essere, continua Beshel, sono valutate quotidianamente al loro valore di mercato; quando si è visto che il portafoglio dei mutui non stava producendo la performance desiderata per più di una settimana, "quella che in altre banche sarebbe stata considerata una differenza irrilevante, o addirittura un arrotondamento, scatenò in Goldman Sachs un processo di verifiche culminato con un meeting tra i suoi grandi capi", nel quale si decise di alleggerire la posizione della banca su quel mercato. Certo, vi furono comunque perdite rilevanti, ma stiamo parlando di poco meno di 2 miliardi di dollari (si consideri ad esempio che UBS in questo modo ne ha persi quasi 60).

L'infallibilità di Goldman Sachs è uno di quei miti così pervicacemente alimentati, che metterlo in dubbio sembra quasi un'eresia. Goldman ha una sua filosofia, basata su alcuni presupposti: innanzitutto, una patologica attrazione per il denaro. Dice un ex Goldman che la cultura della banca è "completamente ossessionata dal guadagno. Mi sentivo come un asino davanti alla più grossa e succulenta carota che avessi mai immaginato. Il denaro è il metro con cui si misura il tuo successo. Se non compri una casa o una barca più grande, significa che stai rimanendo indietro". In secondo luogo, Goldman alimenta nelle sue persone il culto dell'insicurezza.

Come dice Mr. Sherwood, capo dell'ufficio di Londra, "c'è un clima di costante e profonda paranoia in tutto quello che facciamo". Si dice che i candidati per un posto di lavoro in Goldman vengano sottoposti mediamente a venti colloqui prima di essere assunti, anche se si registrano casi limite in cui le selezioni si sono concluse solo dopo la trentesima intervista. Se ci fosse ancora qualche dubbio sull'osservanza “darwinista” del dipartimento Capitale Umano (non risorse umane, "capitale umano"), è bene sapere che la regola, in GS, è "cresci o te ne vai", non c'è spazio per le mezze tacche.

Il terzo pilastro è quello delle relazioni: per inveterata tradizione, gli ex Goldman Sachs occupano poltrone rilevanti in tutti i gangli del sistema economico, finanziario, politico e mediatico, negli USA come in Europa. Hanno alle spalle una carriera in Goldman Sachs, ad esempio, il segretario del tesoro di Clinton (Hank Paulson), l'attuale presidente e il precedente direttore della Federal Reserve di New York, il capo dello staff dell'attuale Segretario di Stato (Mark Patterson), il consigliere economico di Hillary Clinton, i capi di ieri e di oggi nel New York Stock Exchange (la Borsa di New York), e perfino il capo delle operazioni della SEC (la CONSOB americana). Anche Mario Draghi, attuale Governatore della Banca d'Italia, è un ex Goldman.

Ma per capire veramente che cosa è Goldman Sachs, è necessario allontanarsi dall'ortodossia dei dogmi che essa stessa ammannisce alle folle. Innanzitutto, uno dei punti di forza della banca è quello di essere contemporaneamente advisor (consulente, non di rado dei Governi) e trader (operatore di mercato). Ciò significa che con una mano fa consulenza ai clienti in grosse operazioni e con l'altra prende posizione su mercati (azioni, obbligazioni, materie prime) sui quali si muove da maestra grazie alla sua esperienza di advisor. Ovviamente, qualsiasi Goldmanite ribatterà citando la mitica regola secondo cui i due bracci del business della banca sono separati da rigorose "muraglie cinesi"; si dice che, se un banchiere d'affari di Goldman entra nella sala operativa della sua stessa banca, verrà immediatamente interrogato dai suoi capi.

A costo di sembrare qualunquisti, questo idilliaco quadretto mostra la corda quando si tenti di rispondere alla domanda: qualora un grosso affare con ritorni da capogiro renda necessario non dico saltare, ma semplicemente anche solo sbirciare dall'altra parte della "muraglia", il tipico uomo (o donna) Goldman - praticamente un tossico del denaro - saprà resistere alla tentazione?

Inoltre, quella che viene spudoratamente  spacciata per sagacia nell'interpretazione delle tendenze dei mercati è in realtà la capacità di pompare certi settori per specularvi sopra, salvo poi abbandonarli repentinamente a missione compiuta. Non sono pochi gli analisti che attribuiscono a Goldman Sachs un ruolo essenziale nella creazione di bolle speculative (è stato così per la febbre delle dot.com, per il boom delle materie prime, e poi del mercato immobiliare) dalle quali la banca ha beneficiato con collocamenti azionari e trading sul debito - salvo poi tirarsi indietro subito dopo aver portato a casa il profitto - circa un minuto prima che tutto andasse in malora.

Un altro caso interessante è quello che ruota attorno al destino della AIG (American Investment Group), venditrice dei celebri credit default swaps, assicurazioni sul rischio di fallimento dei prenditori di fondi. Risulta che quando l'AIG, ormai decotta, fu rilevata dal Tesoro e dalla Fed, la prima, inspiegabile mossa del nuovo proprietario pubblico della compagnia assicurativa fu quella di liquidare il 100% del valore dei CDS alle banche che a suo tempo li avevano comprati, questo quando da mesi ormai AIG stava negoziando per pagare solo il 60% del loro valore facciale.

Una differenza che vale 13 miliardi di dollari in più passati direttamente dalle tasche dei contribuenti ai forzieri dei clienti di AIG (tutte le principali banche, tra cui anche Goldman Sachs). Stranamente, al timone della Federal Reserve ai tempi c'era Henri Paulson (ex boss della Goldman Sachs); stranamente Paulson, che pure aveva giurato di non farlo, ha incontrato i suoi ex colleghi del board di Goldman Sachs ad un "evento sociale" a Mosca (un luogo dove ci potrebbero essere problemi di giurisdizione); ancor più stranamente, proprio mentre Paulson lavorava al salvataggio di AIG, i tabulati telefonici provano che, in soli sei giorni, egli si sia sentito ben 24 volte con Blankfein, il nuovo CEO di Goldman Sachs.

Eppure Goldman ha avuto l'arroganza di sostenere pubblicamente che, se pure AIG fosse andata in bancarotta, la banca non sarebbe affondata, dato che era protetta da una combinazione di cassa e di garanzie. Peccato che David Viniar, CFO di GS, si sia rifiutato di rendere note le controparti di questi fantasmatiche operazioni di copertura, cosa che rende "ridicola", nonché controproducente, la sua prova muscolare. Sembra dunque che il vero volto di Goldman Sachs assomigli molto più a quello dipinto dai molti cospirazionisti che alle fattezze rassicuranti che ci propongono i suoi capi.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy