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L'ottimismo sparso a piene mani da media e politici si é rivelato inutile e la crisi bussa di nuovo alle porte. Sembra ormai imminente uno shock ancora peggiore di quello dell'anno passato e non saranno certo le parole interessate dei demagoghi e di chi sta guadagnando anche dalla crisi a impedire la resa dei conti. Se c'é una certezza è che le parole non sono mai bastate a saldare i conti e lo stato dei conti non é affatto migliorato dall'anno scorso, tanto più che i massicci interventi governativi sembrano essere finiti nuovamente nelle tasche dei finanzieri, aumentando significativamente il debito pubblico nelle economie avanzate senza effetti sensibili sui conti, sulla produzione o sull'occupazione.
Uno sguardo al maggior mercato mondiale, quello americano, e alla fabbrica-mondo cinese, non lascia dubbi. In Cina le fabbriche si svuotano e basta il dato del calo del 48% dei consumi elettrici a rendere la dimensione del calo della produzione reale nascosto dietro le dichiarazioni dei dirigenti cinesi, che cercano ovviamente di limitare il panico. Negli Stati Uniti le cose sono più complesse, come si conviene a un'economia più sofisticata, ma non c'è alcun dubbio che si vada verso un altro schianto imminente. Come previsto, il massiccio intervento statale è stato incamerato dalla finanza statunitense e non poteva essere diversamente, visto che la task-force chiamata da Bush a “risolvere il problema” era composta degli stessi avidi incapaci (in realtà abilissimi) che hanno provocato il disastro.
Fidando nella copertura di un governo americano fin troppo amico e legato a doppio filo con l'elite finanziaria, i grandi player della finanza hanno incamerato gran parte dei fondi destinati al “salvataggio” dell'economia, senza mutare sostanzialmente i loro comportamenti; anche il pacchetto di “stimolo” deciso da Obama si sta rivelando funzionale agli stessi interessi (e non poteva essere diversamente). L'attuale confronto sulla riforma sanitaria ha messo in chiaro che solo la lobby assicurativa è in grado di schierare sei lobbysti per ogni deputato statunitense, produrre vagonate di spot falsi e tendenziosi e persino di sollevare discrete folle di americani arrabbiati, convinti da repubblicani e lobbysti che l'introduzione di un'opzione per la copertura sanitaria pubblica significa delegare al governo il diritto di vita e di morte sugli anziani, ai quali verrebbero negate le cure perché conviene poco curarli vista l'età.
Non diversa la reazione delle corporation dell'energia al piano “verde” dell'amministrazione, che attraverso il finanziamento dell'American Petroleum Institute (API) stanno promuovendo una resistenza analoga a difesa dei propri profitti e bombardano di falsità l'opinione pubblica americana, promuovendo assurdità come il “carbone pulito”, spargendo falsità sulle energie alternative e negando in ogni modo l'esistenza della minaccia di cambiamenti climatici determinata dalle emissioni inquinanti.
Una marea di falsità auto-evidenti che però attecchiscono come le balle di Berlusconi grazie lla complicità di media e politici legati a filo doppio agli stessi interessi. Nonostante la sanità “privata” americana, che lascia molti cittadini e molte patologie senza copertura, costi il 17% del Pil americano a confronto del 10% mediamente impiegato dai paesi avanzati per coprire tutti i cittadini e tutte le patologie, sembra che la riforma sanitaria non passerà, lasciando al paese una palla al piede incredibile e altrettanto incredibili profitti alle corporation. Non è un caso che gli Stati Uniti siano l'unico paese a continuare in questa scelta suicida. Un dato che le assicurazioni e la canea che finanziano riescono a oscurare, terrorizzando l'elettorato più ignorante e trasformando questa gente in folle di squilibrati arrabbiati che assalgono le riunioni volute dall'amministrazione per spiegare la riforma sanitaria.
Un clima che spiega benissimo come i grandi della finanza siano riusciti ad evitare le conseguenze del fallimento e siano restati saldamente in sella nel corso dell'ultimo anno. Anno trascorso a saccheggiare il saccheggiabile, attraverso le alchimie contabili ormai note e che permetterà loro, abbastanza incredibilmente, di lucrare compensi superiori a quelli degli anni passati. Un successo ottenuto socializzando parte delle perdite e investendo gli aiuti governativi in operazioni spericolate che, invece di ridurre il rischio sistemico, lo sta aumentando, come evidenzia il caso di Goldman Sachs.
Questa, dopo aver rinunciato allo status di banca d'affari e aver scelto di diventare una banca “normale” per ottenere gli aiuti governativi, sta ora operando spericolatamente in regime di “proroga”; ma non prima di aver cambiato le proprie regole contabili, “perdendo” il disastroso dicembre 2009 nel passaggio, potendo così annunciare profitti puramente teorici che ingrasseranno il management, ma non gli azionisti e nemmeno l'azienda nel lungo periodo.
Le operazioni di Goldman Sachs negli ultimi mesi hanno aumentato il rischio di sistema statunitense e i bonus dei suoi dirigenti senza altri vantaggi per nessuno. Non di meglio hanno fatto i concorrenti, che pur non potendo contare sugli ex-dipendenti nella cabina di regia dei salvataggi, hanno selvaggiamente approfittato della possibilità offerta dal governo di taroccare i bilanci valorizzando i titoli-spazzatura come se fossero buoni. Citigroup ad esempio, già “salvata” dal governo e ora de facto di proprietà pubblica, conserva oltre 83 miliardi di dollari di assetti dal valore reale attualmente prossimo allo zero e parcheggiati in un capitolo contabile denominato “Special Asset Pool”, che di speciale non ha proprio nulla. Non diversamente fanno gli altri giganti della finanza.
Non potendo riempire i buchi, il governo americano ha infatti offerto a banche e finanziarie la possibilità di coprirli virtualmente, assegnando valori di fantasia a robaccia priva di valore in attesa di tempi migliori: una soluzione che ha le gambe corte e che sta già rivelando i suoi limiti. L'unica speranza di emendare veramente i bilanci, è l'avvento di una spirale inflazionistica che deprezzi il valore reale dei debiti; e già è all'opera un robusto partito che spinge per questa scelta, per nulla preoccupato dalle conseguenze devastanti che potrebbe avere per le popolazioni.
Di buone intenzioni sono lastricate le fosse, ma anche ammesso che le intenzioni fossero buone, i falliti della finanza internazionale (non solo gli statunitensi) hanno preso i soldi pubblici e hanno continuato a fare esattamente quello che facevano prima. Se i governi speravano che l'iniezione di soldi buoni nel sistema avrebbe riaperto le dighe del credito, si sono dovuti presto ricredere: i grandi prestatori al consumo stanno taglieggiando i piccoli consumatori, spingendoli sempre di più verso la miseria e le aziende non se la passano tanto meglio.
Persino Toyota ha dovuto accettare finanziamenti molto opachi legati alla sorte dei famigerati “derivati”, che continuano a circolare perché nessuno ha il coraggio di vietarli. A vuoto anche il tentativo di regolamentare il mercato di questi titoli tossici, stante la pretesa dei loro detentori di giungere a un regime fondato sull'auto-regolamentazione. Una chiara beffa che per il momento non ha avuto sbocchi lasciando il problema sul tavolo, più esattamente spingendolo sotto il tappeto.
Al quadro già pessimo si sono aggiunti comportamenti ancora più censurabili, come la corsa al trading ad alta frequenza, un'attività resa possibile dal vantaggio di una frazione di secondo nel conoscere le operazioni di borsa che alcuni grandi operatori ottengono pagando (legittimamente, pare) il New York Stock Exchange, e che poi sfruttano con computer potentissimi, lucrando senza fatica e con nessuna utilità per il sistema sulla massa delle operazioni finanziarie.
Nemmeno gli altri fondamentali dell'economia statunitense offrono conforto. I prezzi degli immobili restano sdraiati, dopo che si è avuta conferma che la crisi non è stata determinata dai muti sub-prime e che la percentuale dei muti immobiliari in default è in aumento costante, il settore inclina al pessimismo. Ormai è accertato che i “cattivi clienti” ai quali erano stati concessi i sub-prime (comunque una percentuale risibile sul totale) rispettano i loro impegni più dei clienti ritenuti solidi e garantiti che, travolti da una disoccupazione galoppante, sono ormai giunti all'esaurimento dei risparmi e degli ammortizzatori sociali, quando ce li hanno.
I valori di borsa hanno goduto di un effimero rally al rialzo che è durato qualche mese, per lo più determinato proprio dai tagli selvaggi dell'occupazione; che notoriamente in questa economia malata aumentano i valori di borsa delle aziende (ai quali sono legati i bonus dei dirigenti); operati anche da aziende più o meno sane, ma che a loro volta determinano e amplificano l'erosione del consumo, trascinando tutto il sistema nella spirale al ribasso.
Qualche centinaio di banche americane è in lista per il fallimento e nell'anno in corso falliranno più banche che durante il precedente, anche il recente crack di un gigante come Colonial BancGroup Inc. conferma la tendenza. Fallimenti che non mancheranno di scatenare effetti a catena in giro per il mondo. Se la ricetta per la salvezza del sistema prevede la ripresa dell'erogazione del credito e il sostegno ai consumi, è fin troppo evidente che la finanza mondiale stia andando nella direzione opposta, incamerando i finanziamenti pubblici a coprire le perdite pregresse e a retribuire lautamente i maghi della finanza fin che si può. Non vi è traccia di responsabilità sociale ai piani alti dell'economia. I consumi, infatti, continuano a diminuire ovunque, anche se i media passano con la fanfara solo dati parziali che raccontano di minimi aumenti calcolati su dati già sprofondati nella tragedia.
Un'assenza di responsabilità che da diverso tempo è stata rilevata e stigmatizzata, ma alla quale nessuno sembra voler porre rimedio; difficile attendersi provvedimenti draconiani da una classe politica da tempo al soldo della grande finanza. Un'assenza di responsabilità che giunge addirittura ad intaccare l'istituto proprietario, fino al punto che negli Stati Uniti stanno lavorando attivamente per negare agli azionisti persino la possibilità di criticare le retribuzioni degli amministratori, con il risultato paradossale d'impedire ai proprietari di sindacare l'operato di quelli che, almeno formalmente, sono loro dipendenti, spesso strapagati e spesso responsabili di aver condotto le loro aziende sull'orlo del fallimento, mentre personalmente si arricchivano in misura oltraggiosa. L'immagine di un capitalismo che arriva a minacciare la proprietà privata dovrebbe preoccupare e smuovere anche i più adamantini sostenitori dell'attuale falsa economia di mercato, ma ancora non succede.
Una situazione tragica che non mancherà di esigere il conto e che è ancora in grado di travolgere e mandare a gambe all'aria l'intera economia globalizzata, costruita, come si è visto, su fondamenta di cartaccia, valori virtuali e falsità fin troppo reali. Non per niente la grande crisi del '29, alla quale si paragona l'attuale, durò anni e non lo spazio di qualche quadrimestre come commentatori e politici cercano di farci credere annunciando ormai da mesi l'arrivo della ripresa.
Nel nostro paese non andrà meglio che altrove e non abbiamo nemmeno bisogno di altri shock catastrofici per mordere la polvere nei prossimi mesi. Le sciocchezze sparse a piene mani dal gran bugiardo a capo del governo, non producono reddito e non riempiono le dispense. Il peggioramento dei conti pubblici è lì a dimostrare che il debito pubblico è destinato ad aumentare, anche se Tremonti non ha scucito un Euro a favore dei cittadini comuni ed è stato parco anche nel restituire multipli della ridicola “Robin Hood Tax” alle banche e distribuire elemosine agli imprenditori amici.
Anche in Italia tutti i dati macroeconomici volgono al peggio e la disoccupazione impennerà dall'autunno in avanti in coincidenza con l'esaurimento degli ammortizzatori sociali, che fino ad ora avevano consentito la sopravvivenza di disoccupati a cassintegrati. Previsioni pessime ed esiti inevitabili, tanto più che il ministro dell'economia non ha soldi in cassa e che il debito già enorme non consente politiche di spesa simili a quelle intraprese dai partner europei. L'ondata di mancati rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, su tutti quelli nel settore dell'istruzione, aggiungeranno benzina al rogo delle speranze dell'italiano medio.
Tempi ancora più cupi all'orizzonte, quindi, aggravati dall'evidente incapacità della classe politica di ritrovare il filo del discorso e dall'avida irresponsabilità della classe imprenditoriale e finanziaria, nel nostro paese, più che altrove dipendente dagli aiuti pubblici. Un futuro che è facile prevedere sarà caratterizzato da una sequenza di shock destinata a ripetersi nel corso dei prossimi anni senza che nessuno dei responsabili o dei cantori di un'economia malata e insostenibile abbia il coraggio di dire basta e di accettare l'evidente necessità di pesanti riforme, giacché perdurando gli attuali assetti, non saranno certo loro a pagare il terribile prezzo di questa follia.
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È di questi giorni la polemica tra il Ministro dell’economia Giulio Tremonti e il presidente della BCE Jean Claude Trichet. L’oggetto della controversia è rappresentato dall’esplicita volontà del governo italiano di voler tassare l’oro di proprietà di Bankitalia. L’atto, di per sé insignificante dal punto di vista economico, trattandosi di soli 300 milioni di euro - che nulla sono se paragonate al mare del nostro debito pubblico - molto probabilmente vuole avere un significato politico: cercare di coinvolgere altri governanti europei in una battaglia contro lo strapotere della BCE. Non nuovo a questo tipo di uscite (si ricordi su tutte l’intervista rilasciata all’ex direttore Riotta, in diretta al TG1, il 6 marzo 2009) il Ministro Tremonti, con il suo comportamento, sembra indicare dove debba indirizzarsi l’attenzione del pubblico in merito al chi abbia causato questa crisi e, dunque, sul chi debba essere chiamato a risolverla, pagando il dovuto per gli errori commessi fino ad oggi.
La proposta è di quelle che fanno tremare i polsi. Si vorrebbe far cassa aumentando la tassazione sull’oro di proprietà di Bankitalia. Quell’oro, cioè, che ingenuamente si pensa appartenere al popolo italiano, ma che nei fatti è di proprietà delle banche private proprietarie del capitale sociale dell’istituto. Diversamente il problema della tassazione neanche si porrebbe. La cosa, dunque, si fa subito seria. "Guai a tassare le riserve auree" tuona l’arcigno Trichet. Il grande usuraio è durissimo con l'Italia.
Il presidente della Bce non si fa attendere ed esprime, appena interrogato sull’argomento, una totale contrarietà all'ipotesi: “Pensiamo che una simile misura infrangerebbe i trattati comunitari". La Banca Centrale conferma ufficialmente il proprio giudizio “assolutamente e non ambiguamente negativo” sul provvedimento di tassazione delle riserve auree della Banca d’Italia, contenuto nell’articolo 14 del decreto legge fiscale varato dal governo e promulgato dal Capo dello Stato.
Il giudizio - che segue due bocciature scritte da parte della Bce - è stato ribadito dal presidente della Bce nella conferenza stampa seguita alla riunione del Consiglio direttivo che ha lasciato invariati i tassi d’interesse. “Confermo - ha detto Trichet rispondendo a una specifica domanda - che consideriamo che questo provvedimento di legge, la tassazione delle riserve auree della Banca d’Italia, fa sorgere preoccupazioni molto serie circa possibili violazioni delle normative comunitarie. E noi abbiamo un’opinione non ambiguamente negativa su questa legge. È la conferma di ciò che abbiamo già affermato”.
Trichet, comunque, almeno un po' di prudenza nelle sue dichiarazioni l'ha mostrata, affermando di non sapere se sarà fatto ricorso contro la norma italiana, visto che prevede il preventivo assenso della BCE e di Bankitalia. "Non voglio ipotizzare niente per il futuro - ha aggiunto - vedremo cosa succederà". Di fatto, affermando questo, il Governatore peraltro ricorda a se stesso come il ricorso sarebbe perso in partenza perché non potrebbe essere dimostrata la violazione dell'autonomia delle due istituzioni finanziarie, se queste devono dare il proprio assenso affinché alla norma possa essere data esecutività. Ma si sa: quando gli si tocca il bottino l’usuraio fa fatica a controllarsi. Si potrebbe dire che se, da una parte, Tremonti ci ha provato, Mister Papi, dall’altra, si è mostrato decisamente più realista, non essendo nelle possibilità di sostenere un pieno scontro con le istituzione monetarie europee.
La riunione del board Bce era stata convocata, tuttavia, per decidere sui tassi. La scelta di lasciarli invariati era quella attesa. L'attuale livello, ha spiegato Trichet "è appropriato". Il tasso sulle principali operazioni di rifinanziamento resta quindi all'uno per cento; il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginali resta all'1,75 per cento, mentre il tasso che la stessa Bce pratica sui depositi di breve termine che detiene per conto delle banche commerciali resta allo 0,25 per cento. La situazione è però decisamente meno tranquilla, da come la descrive l’attuale quiete che pare regnare in cima alla torre d’avorio da cui i banchieri decidono le sorti delle economi europee.
In Italia, ad esempio, a giugno l'indice della produzione industriale destagionalizzato ha segnato una diminuzione dell'1,2% rispetto a maggio mentre la variazione congiunturale della media degli ultimi tre mesi,a confronto con quella dei tre mesi precedenti, è pari a -3,9%. Lo comunica l'Istat, spiegando che il risultato grezzo, rispetto allo stesso mese del 2008, registra un calo del 19,7%. Depurato dagli effetti di calendario il calo tendenziale segna -21,9%. Sempre nel confronto su base annua, l'indice grezzo relativo al primo semestre del 2009 risulta in diminuzione del 22,2% mentre quello al netto degli effetti di calendario del 21,5 per cento. Sono dati che non lasciano molta speranza e disegnano un futuro nerissimo per il nostro paese. Lo stesso paventato scenario di ripresa potrebbe non riguardare l’Italia, da sempre periferia di questo nostro mondo globalizzato.
Non mancano ovviamente i soliti mantra di sempre. “La fiducia sta migliorando”, osserva Trichet, ma è meglio restare prudenti. La macchina ha infatti dimostrato di non essere perfetta e di potersi rompere con conseguenze imprevedibili o parzialmente imprevedibili anche per i più esperti del mestiere, come insegnano i grandi nomi della finanza e del mondo bancario caduti in questa grande crisi. Trichet non esclude il rischio di una "potenziale bassa crescita per un prolungato periodo" nell'Eurozona, ma non considera "giustificate" ulteriori misure di stimoli di bilancio.
In uno scenario tanto deteriorato proposte come quella del governo italiano potrebbero essere molto pericolose. Non tanto perché potrebbero portare nocumento economico alle casse degli istituti emettitori di moneta, ma piuttosto per il semplice fatto che potrebbe fungere da faro, da apripista per altre iniziative analoghe ed aumentare, di conseguenza,l’attenzione sull’argomento.
La chiamata alle armi del fedelissimo vassallo del sovrano d’Italia non ha sortito, tuttavia, effetto alcuno. Niente di niente. Il cavallo di Troia voluto da Tremonti sta lì in attesa di qualcosa che non sappiamo ancora se avverrà o meno. Ma nessuno è uscito a combattere finora e l'aria di battaglia c'è solo nella testa di qualche tifoso. Se ci sarà battaglia, questa avverrà con l'acuirsi della crisi. Perché questo è l'oggetto del contendere, come uscire da questa maledetta crisi cui dobbiamo il meno 6% del Pil rilevato oggi dall'Istat. E nonostante le rassicurazioni dell'Ocse, qui tira una brutta aria, difficile da interpretare con i comuni metodi d’indagine, che tanto sono stati fallaci nei mesi precedenti.
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Sulla strada della sua emancipazione umana attraverso la Rete, il popolo digitale si è imbattuto in Sergey Brin e Larry Page, i due Harry Potter della computer science, che in qualche modo sono riusciti a fare filtrare al loro meraviglioso giocattolo dal nome Google, più della metà (esattamente il 65%) delle domande che poniamo al grande oracolo digitale che è la Rete delle Reti. La società di Mountain View è divenuta uno dei marchi più noti del mondo grazie al suo motore di ricerca, ma è bene ricordare che dei 21,8 miliardi di dollari fatturati da Google lo scorso anno, ben 21,1 (ovvero il 97% del totale) sono generati dalla pubblicità (nel 2007 la percentuale era del 99%). Benché, almeno ufficialmente, la società si sia tenuta alla larga da tecniche particolarmente odiose e lesive della privacy (come la famigerata deep packet inspection), con DoubleClick e Google Analytics, Google è in grado di ottenere informazioni particolareggiate sulle preferenze dei suoi utenti: una brutta abitudine, che ha attirato perfino l’attenzione del Congresso.
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È buffo osservare la disputa che emerge dalle diverse rappresentazioni che vengono date dello stato dell’economia italiana. Da una parte abbiamo il sempre ottimista Tremonti, che afferma di essere soddisfatto di riuscire a mantenere lo status quo. Ci tiene a puntualizzare il suo nuovo slogan e afferma che, per lui, “in un momento straordinario mantenere l’ordinario è già straordinario”. Dall’altra, il severo Governatore della Banca d’Italia, Draghi, pone l'accento sul debito, ricordando il limite che esiste tra le parole e i fatti. Il tesoriere di Papi immagina di superare la peggiore crisi del capitalismo, mentre tutti gli altri paesi europei finanziano la spesa pubblica cercando di ripristinare la domanda aggregata oramai in caduta libera, semplicemente rimanendo immobile. Per lui questo ovviamente proverà solo che siamo circondati da irrinunciabili pessimisti.
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Nonostante l’inconcludente passeggiata al G8 dell’Aquila, fermo restando lo straordinario gusto glamour della moglie, il gelato al mirtillo delle figlie, le simulazioni delle scosse sismiche e qualche buon tiro a canestro, Mr. Obama si prepara ad affrontare una situazione che non ha precedenti nella storia degli Stati Uniti, dove dovrà dar prova di ben altre capacità che non sia quella di uccidere mosche. L’impero monetarista americano è giunto finalmente al capolinea e qualcuno, vedendolo come il liquidatore dell’impero, già immagina paragoni col Gorbaciov sovietico. A dare il felice annuncio sono una serie di segnali inequivocabili e facilmente considerabili come collegati. A tremare infatti non è più un solo settore, ma tutti gli indici di riferimento che vanno considerati se si ha intenzione di valutare lo stato di salute di un’economia.