di Luca Mazzucato

New York. La crisi finanziaria globale colpisce l’ultimo santuario del mercato: le Isole Cayman, rese celebri da Tom Cruise nel film “Il socio.” La settimana scorsa il governo della minuscola isola dei Caraibi ha preso la sofferta decisione di aumentare le tasse, piegando il capo sotto le forti pressioni del governo britannico. Le Isole Cayman ospitano 57.000 abitanti in carne ed ossa e 9253 “hedge funds,” i celebri fondi d’investimento che hanno avuto un ruolo di primo piano nel crollo di Wall Street nel settembre dello scorso anno. Secondo Barack Obama, la Camera di Commercio della capitale, dove sono registrate 19000 aziende, è “la più grossa truffa fiscale che si conosca.” Il particolare che rende attraente quest’isoletta alle porte di Cuba è, infatti, la totale assenza di tasse.

Proprio così: per avviare il vostro fondo d’investimento alle Cayman, dovete pagare tremila dollari una tantum per l’iscrizione al registro imprese. Una volta fatto questo, non ci sarà più alcun laccio o lacciuolo ad intralciare la vostra creatività imprenditoriale. Il giro d’affari delle attività finanziarie si aggira sul trilione e mezzo di dollari, una volta e mezza il PIL italiano: tutto assolutamente, rigorosamente, incredibilmente esentasse.
Alle Isole Cayman non esiste alcuna tassa sui redditi delle persone o sui profitti delle aziende.

Il paese deve le sue entrate principalmente al turismo e alla dogana, che preleva una tassa sull'import-export di merci (ma non di denaro). Fino ad ora, questa geniale intuizione fiscale ha reso un ottimo servizio agli abitanti delle Cayman, che possono vantare il reddito pro-capite di gran lunga più elevato dei Caraibi e il dodicesimo al mondo. Ma la crisi finanziaria dello scorso anno ha messo in ginocchio il paradiso fiscale. Una combinazione di minori introiti e spese eccezionali per la costruzione di nuove scuole, ha creato una voragine nel bilancio statale pari a seicento milioni di dollari, in rapida crescita.

Le Isole fanno parte del Commonwealth britannico e il Governatore, nominato da Sua Maestà la regina d'Inghilterra, detiene il potere assoluto sulla piccola nazione. Per graziosa concessione della regina, il Governatore lascia la gestione degli affari interni al capo del governo, eletto democraticamente. Ma questa volta il governo inglese è entrato a gamba tesa nella gestione dell'isola, promettendo duecentottanta milioni di dollari in prestito, a una condizione: che le Cayman comincino ad imporre una qualche forma di tassazione.

Alcune delle rivoluzionarie misure approvate dal Parlamento delle Cayman sono: l'innalzamento della tassa d'iscrizione per i fondi d'investimento multi-miliardari, che passa dai ridicoli tremila agli altrettanto ridicoli sessantamila dollari; svariati aumenti delle tasse legate al turismo, al commercio e ai permessi di lavoro; ma soprattutto, una tassa del due percento su tutte le transazioni monetarie, che potremmo definire una sorta di Tobin Tax.

Intervistato dal New York Times, il Presidente W. Bush (omonimo dell'omologo ex-presidente americano!) ha voluto subito rassicurare gli investitori internazionali: “Non abbiamo concordato nessuna tassa diretta sui redditi.” In sostanza, le Cayman si guardano bene dallo scalfire seriamente la reputazione di paradiso fiscale. “Cinquant''anni fa - prosegue W. Bush - non c'erano macchine, non c'era elettricità. Non torneremo a vivere sotto all'albero delle noci di cocco.” La ferma opposizione degli uomini d'affari ad un reale cambiamento di rotta non lascia altra scelta al governo. Piuttosto che introdurre tasse sui redditi, le Cayman falceranno i servizi offerti ai cittadini, a partire dall'eccellente e (finora) gratuito sistema scolastico.

I finanzieri dunque non intendono pagare un centesimo, nemmeno come forma di riconoscenza verso un'isola che permette loro guadagni stellari. L'unico a chiedere un piccolo sforzo alle grandi banche è Desmond Seales, editore del Cayman Net News, giornale d'opposizione. Alla domanda se non sia preoccupato che le tasse facciano scappare via i ricchi, Seales risponde laconico: “E dove diavolo andrebbero?”

di Liliana Adamo

Sono precari i tecnici ambientali e gli scienziati impiegati nella task force sulla “nave dei veleni”, affondata al largo delle coste calabresi. Tre su sei sono a rischio licenziamento, con scadenza di contratto a breve. Tra loro, un esperto di ricerche nucleari, due dirigenti del settore “Emergenze in mare” appartenenti a ex Apat e Icram; in altre parole, a istituti di ricerca smembrati e accorpati all’Ispra, che hanno subìto negli ultimi mesi, la mannaia dei tagli sul personale, riducendosi a un solo ricercatore (uno), a tempo indeterminato.

Con una legge in vigore dal 2008, nell’intento di “snellire” gli apparati statali di ricerca, l’Ispra diventa il nuovo centro istituzionale per la protezione dell’ambiente, ma può contare, al momento, su risorse finanziarie, strumentali e di organico a dir poco irrisorie. Per i lavoratori occupati, la situazione è drammatica: il 30 giugno scorso, duecento dipendenti sono stati estromessi per il mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato e altri duecentotrenta ne saranno esclusi. Sono tutti esperti e studiosi, si occupano di cambiamenti climatici, della salvaguardia del nostro mare, della fauna selvatica, delle emissioni in atmosfera, dei rifiuti. Realtà oggettive che, evidentemente, attraggono poco il nostro governo e il Ministero dell’Ambiente; ma le ricadute si avranno a discapito dei cittadini, in argomenti come tutela della salute, difesa dei beni paesaggistici e naturalistici del nostro territorio.

Sono precari i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, INFN. Per tenerci informati delle lotte e delle iniziative, esprimere il loro disagio e la loro frustrazione, hanno predisposto un loro sito on line, “Il Buco Nero” e mai titolo appare più conforme alla condizione della ricerca in questo paese. Protagonisti di una singolare protesta nella “Notte dei ricercatori precari”, tenuta il 25 settembre scorso, sono ricercatori e docenti del Politecnico di Torino: lo stesso che, in una controversa classifica stilata dal governo, si ritiene tra i “più virtuosi d’Italia”. Ci si chiede, a fronte dei pesanti tagli ministeriali, con quali mezzi si finanzieranno offerte didattiche e produzioni scientifiche.

Sono precari e atipici i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste; precari, i ricercatori d’astrofisica dell’ISFOL, per la direzione generale del CNR. E sempre precari sono quelli del piccolo, coraggioso Osservatorio di Grottaminarda, in Irpinia, tutt’oggi operativo nonostante le ristrettezze in cui versa, grazie all’impegno e al sacrificio di ventidue giovani campani. Tutti, tranne tre, sono stati specializzati da altri precari, subentrati prima di loro e, in seguito all’emendamento del governo, non vedranno stabilizzato il loro lavoro, in pratica, saranno sbattuti fuori.

Riflettiamo su un dato non trascurabile: nel corso del 2007, sulle più importanti riviste internazionali, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia - INGV - ha pubblicato ben 490 saggi e trattatistiche d’alto valore scientifico, inerenti allo studio e alla messa in sicurezza di un territorio come il nostro, ad alto rischio sismico: il 70% di quella produzione proviene dal lavoro di quei ricercatori co co pro, con contratti a termine e bonus.

Ma il fatto più sorprendente si concentra proprio su una sezione strategica dell’INGV, l’Osservatorio Vesuviano. In rete esiste un’eccellente simulazione in 3D che riproduce gli effetti ipotizzabili di una prossima eruzione. Un lavoro rilevante, esplicativo, didattico e facilmente comprensibile anche a non esperti; ebbene, questo è solo un piccolo apporto dei lavoratori precari all’informazione generale sul rischio e la prevenzione. E immaginiamo per ciò che concerne il monitoraggio costante dei vulcani attivi, il Vesuvio, Stromboli, i Campi Flegrei, che possono generare eventi rapidi e pericolosi, investendo d’interesse cruciale le aree a maggior rischio, coinvolgendo, nel solo compartimento vesuviano, quasi un milione di residenti.

Le attività di questi precari comportano la realizzazione e il mantenimento in piena efficienza di una complessa rete strumentale, assicurano una presenza ininterrotta, con capacità tecnico-scientifiche, per organizzarsi e operare subito, in caso di circostanze particolari e anomale. Malgrado ciò, mentre gli organici dell’Osservatorio Vesuviano sono fermi al ’99, ben cinquecento di questi giovani scienziati rischiano, come gli altri, d’essere estromessi dal loro incarico, per un disciplinamento perverso del precariato adottato nella Finanziaria dello scorso anno, che non solo vieta, di fatto, l’assorbimento graduale e preclude agli enti pubblici il rinnovo del contratto a tempo determinato, ma rifiuta a priori qualsiasi possibilità d’accedere al proprio posto di lavoro, mediante concorsi pubblici. Questi sono i tagli agli sprechi messi in atto con tanta determinazione, dal governo.

Per quanto riguarda le dispute, fattive o teoriche, sugli emendamenti legislativi per eliminare “il precariato” e le sue conseguenze, che si avviino con il governo di sinistra a firma di Prodi o che confluiscano nel retaggio dispotico del governo Berlusconi, a garantire una nuova era d’efficienza ed economicità nell’apparato statale, se ne può sempre controvertere, nero su bianco. Ma quel che resta evidente è il disastro totale, risultato delle nuove leggi sul lavoro, con le loro direttive antidemocratiche e le loro visioni ultraliberiste, che si prestano, secondo i casi, ad aggiustamenti, accomodamenti e storpiature, per opportunismo o per ottenere consenso, pur restando insensate e intoccabili nei limiti che conosciamo e che spingono al fallimento, una società intera.

 

di Alessandro Iacuelli

"In Italia i numeri del PIL, della ricchezza del nostro Paese e delle entrate dello Stato, tutti i numeri dell'economia, sono falsati dall'enorme dimensione dell'attività sommersa e mafiosa". L’affermazione non è di una qualunque organizzazione antimafia presente sul territorio, ma viene direttamente da Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, intervenuta alla presentazione del libro Mafia pulita di Elio Veltri e Antonio Laudati. Nell'occasione, Marcegaglia ha sottolineato che "la guerra culturale contro ogni forma di mafia è un elemento essenziale prima di tutto per lo sviluppo sociale e civile. Se non riusciamo a coinvolgere una quota forte della popolazione non riusciremo a vincere la battaglia".

La lunga sequenza di belle parole non è certo finita qui; il massimo dirigente di Confindustria ha ricordato di aver posto un anno e mezzo fa, "come uno degli obiettivi della presidenza, il rispetto delle regole e la legalità". La presidente di Confindustria ha parlato di un giro d'affari della mafia nel mondo "di 1.000 miliardi di dollari". In Italia "il giro d'affari va da 175 miliardi di Euro, se si considerano le attività strettamente mafiose, fino a 400 miliardi di euro se si mettono assieme anche le attività sommerse". La mafia "è un cancro che avvelena la vita civile del nostro Paese e non solo, visto che grazie alla sue ramificazioni continua a crescere ed é davvero un fenomeno globale" che vale "mille miliardi di dollari". Ma in Italia la situazione "é particolarmente grave".

La Marcegaglia, seduta accanto al presidente della Camera Gianfranco Fini, che è intervenuto subito dopo di lei, ha concluso il suo intervento proponendo "un patto nazionale tra le varie forze politiche, la magistratura e le forze dell'ordine" per affrontare radicalmente il problema nell'ambito di una vera e propria "guerra culturale". La numero uno degli industriali si è rivolta anche ai cittadini, auspicando "una grande mobilitazione dal basso". E augurandosi che i cittadini comprendano che "una situazione come questa condanna tutti".

L’imprenditrice ha avvertito che i mafiosi "sono moderni e usano internet e le tecnologie più sofisticate per gestire le proprie operazioni illecite". Per combatterli, Confindustria ha deciso di voltare pagina rispetto ai "pur giusti appelli" e mobilitarsi "in prima persona", conducendo una "vera battaglia per una società e un'economia migliori".

In cosa consiste questo voltare pagina? A dire il vero non molto, oltre i soliti patti che a nulla servono se non seguono i fatti. In realtà Confindustria è rimasta sulle posizioni assunte esattamente due anni fa, quando nel settembre 2007 da viale dell'Astronomia partì lo slogan "fuori da Confindustria gli imprenditori che pagano il pizzo". Scelta sbagliata a priori. La proposta di espellere chi versa il pizzo alla mafia o alle altre organizzazioni criminali non può essere un sistema per risolvere il problema. Anzi Confindustria, essendo prima di tutto un'organizzazione di categoria, dovrebbe stare vicino all'associato che subisce un'estorsione.

Il risultato è che chi ammette di avere paura delle mafie e di pagare, vittima di estorsioni, viene espulso dalle associazioni di imprenditori, viene lasciato solo, viene ulteriormente isolato. Di conseguenza, chi paga deve anche pagare più in silenzio di prima. Non è certo di questo che c'è bisogno in Italia. Piuttosto che espellere le vittime delle mafie, sarebbe stato più opportuno espellere quegli imprenditori che con la mafia fanno affari, in tutta Italia trattandosi oramai di un fenomeno nazionale, e magari anche quelli che alla mafia devono le loro fortune.

Ovviamente di questo non se ne parla proprio. E molti di quei 400 miliardi di Euro di budget delle mafie continuano a transitare - e ad arricchire - imprenditori ed industriali che di onesto fanno solo la facciata, magari anche iscritti a Confindustria. Come non ricordare le parole dei Gian Carlo Caselli, oggi procuratore a Torino, raccontate in un'intervista all'Espresso lo scorso aprile: "La criminalità mafiosa che si fa impresa economica è il problema dei problemi. C'è il boss che fa direttamente impresa, anche usando prestanome. Quello che mette capitale in attività con altri soggetti, più o meno consapevoli. E c'è il mafioso che spolpa un'azienda già attiva e, quando l'ha svuotata, s'impadronisce del guscio e la gestisce in prima persona. Oppure continuando a lasciar apparire il vecchio titolare. In tempi di crisi e debiti crescenti, ovviamente aumentano gli spazi per spolpare e impadronirsi delle aziende".

Secondo Caselli, infatti, "con l'attuale sete di liquidità, é chiaro che questa massa di denaro, di provenienza mafiosa, garantisce vantaggi imponenti: l'imprenditore disonesto possiede capitali a costo zero, senza garanzie e senza debiti con le banche. L'azienda criminale, inoltre, non ha bisogno di produrre guadagni immediati: può puntare a conquistare nuove fette di mercato, con prezzi e condizioni che spiazzano ed espellono la concorrenza. E ancora, l'imprenditore mafioso non ha nessuna preoccupazione per i diritti dei lavoratori o per l'ambiente. Sa bene come ottenere le migliori condizioni da fornitori e dipendenti e, se ha problemi, può risolverli con la minaccia, la corruzione o la violenza". Il problema è ormai diffuso in tutto il Paese, e non solo nelle regioni del Sud a tradizionale presenza mafiosa. Già Falcone spiegava che la mafia uccide a Palermo, ma investe a Milano. Più l'investimento è lontano dall'attività illecita, più è facile passare inosservati e farla franca.

Ma tutto questo non è stato toccato neanche tangenzialmente dalla signora Marcegaglia. Confindustria continua ad accusare il Paese di essere vittima delle mafie e chiede una risposta da parte dei cittadini, quando in realtà la prima risposta alle mafie, che può solo essere il frenarle economicamente, può solo venire da chi l'economia la fa, cioè dall'industria stessa, e dalla sua organizzazione di categoria. Ma, ancora una volta, sono le parole di Caselli a dare il giusto valore a quelle della presidente di Confindustria: "C'è anche chi non vede o fa finta di non vedere. È il vecchio discorso: pecunia non olet, il denaro non ha odore. Forse ha ragione uno studioso come Salvatore Lupo: ormai c'è una richiesta di mafia anche al Nord".

 

di Ilvio Pannullo

Dopo la palese incapacità dimostrata nella crisi ancora in atto, credere alle parole del Fondo Monetario Internazionale è diventato un atto di fede. Va detto, tuttavia, che se considerate nella giusta ottica, le valutazioni della celebre istituzione finanziaria possono risultare utili per intuire quanto non viene detto. In un discorso tenuto ieri a New York, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn, forse stanco di mentire, ha affermato: “La crisi potrebbe innescare una guerra nei Paesi più poveri”. La posta in gioco sul tavolo della crisi, ha detto Strauss-Kahn, "è molto alta nei paesi a basso reddito dove la popolazione è particolarmente vulnerabile" e per i quali "le conseguenze potrebbero essere disastrose".

Marginalizzazione economica, instabilità politica e sociale e un crollo della democrazia, potrebbero sfociare in una guerra. Nulla questio sulla gravità della situazione descritta, ma quello che non viene detto è che un simile scenario potrebbe riguardare anche il cuore dell’impero, gli Stati Uniti d’America. In un momento in cui la crisi sembra attenuarsi, sullo scacchiere internazionale c’é infatti chi muove i suoi pezzi in vista della sicura resa dei conti.

La notizia è di quelle dal basso profilo e dalle imponenti conseguenze. Dopo le colossali recenti immissioni di liquidità da parte della Federal Reserve per sanare i buchi di bilancio dei colossi di Wall Street, si aspetta alla finestra l’iperinflazione che interesserà la valuta americana. Non tutti però stanno a guardare: da tempo – come si è già segnalato – il gigante cinese sta silenziosamente liquidando le proprie riserve valutarie quotate in dollari per evitare di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, quando gli effetti delle politiche monetarie americane incominceranno a manifestarsi.

La novità recentemente segnalata dal giornalista Lawrence Williams sul sito Mineweb e ripresa da gran parte della rete, è che le organizzazioni statali cinesi stanno facendo pubblicità all'idea di comprare oro e argento. Come si trattasse di sapone in polvere, la popolazione cinese, nota per il suo numero e già nella mentalità di acquisto di oro e preziosi, viene sollecitata a mettere al sicuro i propri risparmi attraverso l’acquisto del pregiato metallo. Come risultato, quest'anno o il prossimo, la Cina probabilmente supererà l'India come maggiore acquirente di metalli preziosi.

L’idea, semplice ed efficace - in piena sintonia con la saggezza tipica dei grandi generali cinesi - è quella di portare dentro i confini nazionali la maggiore quantità possibile di quell’unico valore che, nei momenti di crisi strutturale, quando tutto pare di colpo perdere valore, si rivaluta. Il tutto, però, senza allertare i mercati finanziari per evitare che la situazione precipiti prima del dovuto. Sta di fatto che la strategia cinese è chiara come il sole allo zenit ed ancor più chiare sono le conseguenze di una simile politica. Senza l’appoggio del credito cinese il valore del dollaro crollerebbe alla prima vera spallata.

La Cina nell’ultimo decennio è stato il principale finanziatore di questa politica economica. Se il dollaro verrà sostituito come moneta per gli scambi internazionali e quindi come moneta di riserva di tutti gli Stati, questi saranno costretti a cambiare i dollari in loro possesso per la nuova o le nuove monete che si utilizzeranno negli scambi internazionali; ciò determinerebbe una forte svalutazione della moneta statunitense e per conseguenza, continuare ad avere enormi quantità di dollari significherebbe ritrovarsi con una quota di riserva fortemente svalutata.

Esemplificando e semplificando quanto sopra: se oggi, i circa 2.000 miliardi di dollari in riserve cinesi ammontano a circa 1500 miliardi di Euro, domani con un dollaro svalutato ad esempio di un 50%, rispetto all’Euro, le attuali riserve cinesi passerebbero a valere circa 1.000 miliardi di Euro. Tra l’altro la svalutazione del dollaro è praticamente l’unica strada percorribile e sicuramente auspicabile dal governo USA per ridurre drasticamente l’ingente e sempre crescente debito pubblico accumulato: si comprende dunque, la necessità per i cinesi di liberarsi dei dollari accumulati o ridurre drasticamente questa cifra; maggiore sarà la riduzione, minori saranno le perdite.

Oggi la Cina è la terza economia del mondo e nel 2010, secondo stime del FMI, sarà la seconda, con un sensibile avvicinamento a quella USA; nel 2008 il PIL cinese era pari al 29% di quello USA, nel 2014, sarà pari ad oltre la metà. Fino ad ora, la crescita è stata assicurata soprattutto grazie alle esportazioni e paradossalmente il punto di forza dell’economia cinese sta nel fatto che non ha ancora un mercato interno; riprogrammare la produzione verso il mercato interno significa continuare la corsa alla crescita.

In sostanza, la Cina se in questi ultimi 20/30 anni ha fondato lo sviluppo sulle esportazioni, nei prossimi anni dovrà riprogrammare l’apparato produttivo verso il mercato interno, per stimolare il quale dovrà concederà maggiori benefici ai propri lavoratori. Non sarà ovviamente un’operazione automatica e indolore, ma questa è la strada che il gigante asiatico ha già cominciato a percorrere da qualche tempo a questa parte. Con queste premesse non si va lontano dalla verità se si afferma che la Cina rappresenta il futuro dell’attuale sistema economico. 

Al momento, all’orizzonte si profila un mondo multipolare che sostituirà progressivamente l’attuale mondo dominato dallo strapotere USA. Uno dei poli è precisamente incentrato sulla Cina e l’Asia. Gli altri poli saranno costituiti dal blocco Latinoamericano, dal blocco che fa capo alla Russia, dal mondo Arabo ed ovviamente dall’attuale occidente (USA, Canada, Europa occidentale ed Australia/Nuova Zelanda), che sia pure in declino continuerà a svolgere un ruolo importante a livello mondiale.

E’ probabile che in ognuno di questi poli si affermi una moneta di riferimento. Viste le condizioni attuali è molto probabile che il dollaro sia sostituito, almeno in una fase di transizione, non da una sola moneta, ma da un paniere di monete regionali. Una cosa è sicura: si preannuncia una fase molto interessante, un momento di redistribuzione del potere e - si sa - sono avvenimenti che non accadono mai tranquillamente. L’affabile Obama, speranza di milioni di americani e non solo, dovrà impegnare tutte le sue abilità per giocare al meglio questa partita. Una partita che gli Usa dovranno giocare senza l’alleato cinese.

di Ilvio Pannullo

Il divo Giulio difensore dei poveri ha gettato la maschera. Dopo aver incassato il 22 settembre l’approvazione in Consiglio dei Ministri della finanziaria 2010, il presunto no-global alla guida del dicastero dell’economia italiana ha pensato bene di benedire l’ultima porcata, in ordine di tempo, del governo Berlusconi. Quello che era nato come l’ennesimo regalo ai tanti evasori fiscali che ingrassano le file dei sostenitori della destra nostrana si è trasformato, dopo l’approvazione dell’emendamento proposto dal senatore del Popolo della Libertà, tale Salvo Fleres, in un vero e proprio mostro giuridico.

Non bastava sanare il comportamento illecito di quanti avevano esportato all’estero capitali che avrebbero dovuto dichiarare in Italia evitando di pagare le dovute imposte; non bastava far pagare un ridicolo obolo come premio per la condotta antigiuridica; non bastava estendere una simile misura a dichiarazioni inerenti ad anni fiscali sui quali la Guardia di Finanza ancora stava indagando. Si è dovuto andare oltre e permettere quello che mai un Governo dovrebbe permettere: il vilipendio dell’ordine legale e costituzionale del paese.

Lo chiamano «Scudo ter». È infatti questa la definizione con cui si indica lo scudo fiscale varato quest'anno, dopo quelli del 2001 e del 2003, e che consente di far riemergere capitali e patrimoni che si trovavano all'estero fino al 31 dicembre 2008 e non erano in regola con le norme sul monitoraggio dei capitali, né erano riportati nelle dichiarazioni dei redditi. L’infame scudo immaginato dal paladino Tremonti proteggerà i più furbi tra tutti i contribuenti italiani non solo da tutti i reati fiscali e societari commessi al fine di evadere il fisco e trasferire il denaro all'estero, ma anche dai delitti di frode fiscale, emissione e utilizzazione di false fatture, falso in bilancio e persino le cosiddette ''frodi carosello''. Reati che potranno dunque essere ''sanati'' con il pagamento di una somma pari al 5% dell'imposta evasa.  

"Il diritto penale richiede certezza ed effettività della pena, e non può tollerare un così frequente ricorso ad amnistie o sanatorie, in particolare nel settore delicatissimo dei reati economici e fiscali". Questa la posizione dell'Associazione nazionale magistrati che esprime "preoccupazione" per l'allargamento dello scudo fiscale. ''Si tratta – continua l'Anm – di reati oggettivamente gravi, puniti con una pena massima di sei anni di reclusione, per i quali lo Stato rinuncia alla punizione, in tutti i casi e indipendentemente dall'importo non dichiarato''. E poteva andare anche peggio. Fortuna infatti che nel pomeriggio di quello stesso tristissimo giorno le commissioni di Bilancio e Finanze del senato avevano modificato il testo dell’emendamento, che nella sua versione originale prevedeva l’estensione della sanatoria anche ai procedimenti in corso.

Lo stesso Luigi Zanda, senatore del Partito Democratico non nuovo ad emendamenti lampo di questo tipo(si ricordi su tutte la questione poi scoperta dalla trasmissione Report riguardante un presunto emendamento alla prima finanziaria del governo Prodi che prevedeva di fatto una norma salva Parmalat), tuona indignato: “Per fortuna lo scudo non è stato esteso ai procedimenti penali in corso, ma resta molto grave. Della portata di queste modifiche ce ne accorgeremo con il tempo, scoprendo quante e quali persone si nasconderanno dietro lo scudo fiscale per evitare di dover rispondere di falso in bilancio una volta scoperte”.

Ancora più diretto è il commento della presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, che dopo aver definito il provvedimento sullo scudo fiscale ampliato «una vera porcata» incalza: «Era più onesto il cartello di Medellin. Si è presentato con i suoi capi, con nome e cognome, al Governo colombiano per offrirgli di far rientrare i capitali dall'estero e aiutare così il bilancio pubblico. Il Governo colombiano non accettò. Ma da noi no. In violazione di tutte le norme si fanno rientrare capitali sulla cui costituzione nessuno indagherà mai e si garantisce l'anonimato». Un’allusione simile a quella sbandierata dal partito di Di Pietro che direttamente nell’aula del Senato dà luogo ad una protesta che ha il sapore dell’amara verità non raccontata. Una decina i cartelli comparsi fra i banchi dei senatori con slogan alternati: «Governo antitaliano» e «Mafiosi e evasori ringraziano». Il fedele tributarista del papi italiano non può, però, essere tacciato di incoerenza: se le grandi banche internazionali derubano gli Stati sovrani, che anche i cittadini furbi siano messi nelle condizioni di rubare. Un ragionamento che sarebbe un ossimoro ovunque, ma non in Italia.

La situazione è, infatti, più che critica, quasi pietosa. Se tre indizi non fanno una prova aiutano certo a farsi un’idea della reale situazione dei conti pubblici. L’ultimo in ordine di tempo è la benedizione all’emendamento Fleres, quello appunto che stringe i tempi dello scudo e ne allarga i confini. Il primo è invece contenuto nell’obbligo stabilito a gennaio per la Sace – un gruppo finaziorio di assicurazione del credito, protezione degli investimenti, cauzioni e garanzie finanziarie – di garantire i crediti nei confronti delle amministrazioni statali: una brillante trovata per non far pesare fino al 2011 l’extra-debito degli enti locali sul rapporto defecit - Pil. Il secondo indizio è l’emessione lampo da 2 miliardi di BPT (scadenza 2025), effettuata il 18 settembre a poche ore da una conference-call con le banche d’affari.

Ora questo scudo a caccia di soldi ”pochi, maledetti e subito”, dopo un’intera estate passata a fare da moralizzatore del sistema bancario. Tutto lascia presagire tempi cupi. Ma gli italiani possono stare tranquilli: il governo non metterà le mani nelle loro tasche. Il Robin Hood dei ricchi le tasse non le aumenta. È disposto a trasformare questo paese in una latrina del terzo mondo ma le tasse non le aumenta.


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