di Ilvio Pannullo

Recentemente Silvio Berlusconi è tornato a parlare di un suo antico pallino: la riforma fiscale. Le ipotesi sul tavolo sono essenzialmente due: una riforma di ampio respiro, come vorrebbe il ministro dell'economia e delle finanze Giulio Tremonti, oppure un progetto più semplice di riduzione delle aliquote Irpef, come il reuccio di Arcore promette dal lontano 1994. Appena tuttavia si cercano informazioni più concrete sul come questa straordinaria manovra dovrebbe concretizzarsi, iniziano i problemi: l'unico documento ufficiale disponibile, infatti, è il "libro bianco" scritto proprio da Tremonti nel 1994.

Tre linee guida ne ispiravano le proposte di riforma tributaria: dalle persone alle cose, dal complesso al semplice, dal centro alla periferia. Era un’impostazione suggestiva, in un mondo in cui era diventato più difficile il controllo, più alto il costo indiretto, più pressante la prospettiva del decentramento. Purtroppo non ne fece nulla e la cosa, ovviamente, non fa ben sperare per il futuro. L'idea rilanciata dal cameleontico Giulio è questo: da una parte tagliare il peso delle imposte sulle persone fisiche; dall'altra, alzare la tassazione sulle cose aumentando l'imposta sul valore aggiunto. A questo si aggiunge l'ipotesi di una parziale tassa patrimoniale, concepita in funzione antievasiva, per tassare non soltanto il reddito ma anche il patrimonio.

Per comprendere però quanta fiducia si possa riporre in quest'ennesima promessa, fatta dal Cavaliere e spalleggiata dal suo commercialista di fiducia piazzato a Via XX Settembre, è bene fare un passo indietro ed osservare la situazione dell'economia italiana nel suo complesso, con particolare attenzione ai conti pubblici. Sottolinea da Gilberto Muraro su Lavoce.info: “Nell'Italia di oggi riforma tributaria non significa riduzione del prelievo fiscale. Significa, a parità di pressione, cambiare la distribuzione dell'onere tra tipologie di cespiti e contribuenti, nonché le modalità tecniche del rapporto tributario”. Bisogna infatti considerare che una vera riduzione del carico fiscale passa inevitabilmente per il taglio della spesa pubblica, a meno che non si voglia aggravare l'incidenza del debito pubblico sulla già precaria capacità produttiva del nostro paese. Anche considerando l'innalzamento dell'Iva e le altre coperture, per assicurare l'approvazione della riforma servirebbero, infatti, altri 20-30 miliardi di Euro, che non ci sono né ci saranno.

L'idea cara al premier, prevede infatti la riduzione dell'imposta sul reddito delle persone fisiche attraverso il passaggio dalle cinque attuali a due sole aliquote: al 23% e al 33%. Appare, tuttavia, poco verosimile che una riforma di queste proporzioni possa essere varata in un momento dove l'incidenza delle politiche economiche anticicliche risulta determinante per uscire da una crisi non ancora conclusa. Per assumere provvedimenti incisivi, è infatti necessario poter fare affidamento su di una grande quantità di risorse, per evitare l'aggravarsi di una situazione di per sé già pessima.

A dimostrazione che la crisi non è finita ci sono i dati sulla disoccupazione: l'8 gennaio di questo mese sono arrivati quelli relativi all'area Euro, dove a novembre, per la prima volta da 10 anni, si è superata la soglia psicologica del tasso del 10%, ancora in aumento rispetto al 9,9% di ottobre. In valori assoluti significa che nell’Eurozona ci sono quasi 16 milioni di disoccupati, che salgono a 22 milioni se il calcolo viene esteso all’intera Unione Europea. L'Italia se la passa appena meglio, con una disoccupazione certificata dall'Istat all'8,3% (i disoccupati sono oramai più di 2 milioni) ma i dati italiani vanno sempre presi con beneficio d'inventario, visto che non considerano le dinamiche dell'economia sommersa.

Il partito dell'amore, fortemente interessato a condurre la campagna per le regionali cavalcando i temi cari al suo elettorato, per sostenere la ragionevole possibilità di riuscire nell'impresa di tagliare le tasse - come peraltro promesso nella campagna per le politiche - si sbraccia nell'annunciare l'imminente ripresa e nel sottolineare qualsiasi indicatore economico preceduto dal segno positivo. Una ripresa tuttavia atipica, in quanto pare non assicurare alcuna diminuzione del tasso di disoccupazione. Una spiegazione per questa anomalia la suggerisce la copertina dell'ultimo numero dell'Economist, che titola "Bubble Warning”, ossia pericolo bolla finanziaria. Gran parte dell'ottimismo che circola in questo periodo, infatti, dipende dall'andamento dei mercati finanziari, e soltanto da quello. L'indice globale MSCI, calcolato dall'agenzia Bloomberg, riassume l'andamento globale dei mercati azionari: da marzo, quando ha toccato il punto più basso, è salito di 500 punti: un rialzo del 70% che indica come le borse di tutto il mondo abbiano superato il panico e siano tornate a crescere.

Purtroppo per noi, pare che la recente crisi non abbia infatti insegnato nulla ai grandi maghi della finanza. Come si legge, sempre sull'Economist ,“ il problema per gli investitori non è solo che le valutazioni di borsa sono alte rispetto ai valori storici, ma soprattutto che l'attuale combinazione di elevati prezzi dei titoli, bassi tassi di interesse e colossali deficit fiscali non è sostenibile”. Tradotto: prima o poi qualcuno dei tre elementi verrà meno e l'equilibrio si romperà con una nuova crisi. Una crisi che sarà ancor più devastante di quella ancora in atto perché causata dagli stessi problemi, che sembra di capire non possono essere risolti neanche in presenza di una chiara volontà politica. Un segnale forte diretto a tutti coloro che si ostinano nel credere ingenuamente che sia la politica a governare l’economia.

In questo scenario altamente instabile, l'Italia si trova particolarmente esposta a causa del suo ciclopico debito pubblico. Peggiorano i conti dello Stato. Appena pochi giorni fa l'Istat ha comunicato che, nei primi nove mesi del 2009, il rapporto deficit-Pil è salito al 5,2% contro il 2,8% dello stesso periodo del 2008. La pubblica amministrazione continua insomma a creare deficit. Sempre l'Istat spiega che, nel terzo trimestre 2009, le uscite sono aumentate del 4,1% rispetto al terzo trimestre dell'anno precedente. Sono cresciute anche le spese correnti (+2,2%) mentre sono diminuite le entrate a causa della contrazione dell’economia. Anche l'indebitamento al netto degli interessi passivi, cioè il saldo primario, quei pochi soldi che lo Stato può decidere di investire, è risultato negativo mentre era positivo nello stesso periodo del 2008. Va male anche il saldo corrente, cioè il risparmio al netto delle spese, passato in negativo di 940 milioni di euro nel terzo trimestre 2009 contro un valore positivo di quasi 6,5 miliardi di euro nello stesso periodo dell'anno precedente. Un bilancio disastroso per un governo a dir poco disastroso.

I dati arrivano dopo che, nei giorni scorsi, il ministro dell'economia aveva fornito le cifre, non certo brillanti, del fabbisogno annuo dello Stato. Nel 2009 si è arrivati a 85,9 miliardi di euro (dato questo provvisorio) contro i 54,3 miliardi del 2008. Dunque 31,6 miliardi in più, che sono un'enormità se si pensa che il gettito tributario, cioè le entrate del fisco, è stabile nel 2009 rispetto al 2008 e lo scudo fiscale non porterà in cassa più di 5 miliardi. Il vero nodo, come sostiene anche la Corte dei Conti, è e rimarrà ancora l'evasione fiscale. Immaginarsi, tuttavia, che questo governo decida di affrontare seriamente la questione appare immediatamente ridicolo.

Le soluzioni concretamente praticabili rimangono poche: la prima, la più verosimile, è la possibilità che il gettito proveniente dalla proroga dello scudo fiscale, ancora ignoto ma nel probabile ordine di 4-5 miliardi, venga utilizzato per un intervento una tantum a beneficio delle famiglie, da annunciare a ridosso delle elezioni regionali di primavera; la seconda prevede invece un drastico taglio alla spesa sociale che, in un momento di difficoltà tanto marcato, equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra da recapitare ai sindacati e a tutte le classi sociali più deboli. Con le regionali alle porte c’è da sperare che B. non faccia pazzie. A tanto ci siamo ridotti.

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