di Ilvio Pannullo

Mentre dall’altra parte dell’Atlantico già si parla di primi, timidi segnali di ripresa, nella vecchia Europa si continua a navigare a vista, nel mare delle conseguenze portate in dote dalla crisi. Negli Stati Uniti l’aumento dell’8% della compravendita di abitazioni - il migliore risultato da tre anni - e l’incremento di fatturato che le società di servizi stanno registrando, in percentuali che non ricordavano dal lontano 2001, fanno ben sperare. Anche l’occupazione cresce: ultimamente si sono registrati qualcosa più di 100 mila nuovi posti di lavoro.

Ovviamente non è molto rispetto al totale di quanti il lavoro l’hanno perso o continuano ad arrancare facendo lavori occasionali e sottopagati, ma è certamente un segnale di inversione di tendenza. Il presidente Obama, infatti, ha usato quest’ultimo dato per indicare la classica luce in fondo al tunnel, la metafora di una situazione ancora drammatica ma prossima alla fine. Anche se, volendo essere realisti, confrontando queste speranze con i dati macroeconomici da sempre legati all’analisi dell’economia americana, si potrebbe interpretarli più coerentemente come una boccata di ossigeno che salva dall’ipossia, piuttosto che il segno di una nuova fase di espansione economica. Più grave è la situazione dell’Europa.

Purtroppo per noi, infatti, le cose al di qua dell’oceano non lasciano neanche la speranza di poter, un giorno, tornare a sperare. In questi ultimi giorni stampa e televisioni “scoprono” improvvisamente ciò che si poteva agevolmente pronosticare oltre un anno fa. L’economia italiana, seconda solo a quella greca, è la peggiore dei paesi dell'Eurozona. L'inceppato meccanismo produttivo non riesce a sbloccarsi, “si è arenato soprattutto il Made in Italy”, ed arretra anche l’industria del turismo.

Rispetto ai numeri degli anni passati, solo fra i nostri connazionali oltre sei milioni hanno saltato la villeggiatura. Alla crisi dell’apparato produttivo si accoda pesantemente dunque anche quella del settore turistico con contrazioni ancora più marcate nei flussi esteri. La dubbia e timidissima ripresa economica che si cerca ora di accreditare ad ogni costo e strombazzata a ogni stormir di fronda, per ammissione delle stesse fonti ufficiali risulta in ogni caso molto al di sotto di quella avviata nei Paesi europei nostri concorrenti e questo contribuisce ancor più a divaricare la forbice delle rispettive velocità economiche.

In questi ultimi anni i blasonati economisti sia di area governativa che d'opposizione hanno fatto dunque cilecca. La progressiva rivalutazione dell’Euro rispetto al dollaro, la sistematica e prolungata riduzione del TUS americano - che ha preceduto di molto quella dell'Euro - la sistematica riduzione della circolazione monetaria nel mercato nazionale interno e nel pur vasto mercato europeo, la forsennata liberalizzazione dei mercati internazionali, doveva far comprendere immediatamente ai nostri fini politici e ai loro brillanti consiglieri economici, che il nostro paese sarebbe stato esposto ad una pressione costante e crescente, che non sarà in grado di sopportare ancora per molto.

Gli effetti di questa terapia, si sono infatti puntualmente verificati: improvvisa perdita di competitività sui mercati internazionali, Made in Italy in particolare, crollo dei flussi turistici internazionali, fuga delle aziende produttive dal nostro territorio. La manovra è stata assecondata con il fattivo apporto della BCE, l'unica ad avere competenza e capacità decisionali in materia monetaria a causa dell'insipienza/connivenza delle forze politiche europee e nostrane, colposamente responsabili della sottoscrizione del trattato di Maastricht. In questo scenario le aziende vanno, si de-localizzano, si trasferiscono all’estero e le nostre maestranze restano a guardare, a casa.

Il tutto in silenzio assordante da parte di associazioni di categoria, sindacati, partiti di governo e d'opposizione: nessuno deve parlare o affrontare simili spiacevoli argomenti. Le schiene incurvate dei media sono ovviamente allineate su queste posizioni. Il motivo ufficiale e ricorrente è, come al solito, solo quello economico: abbattere i costi con ogni mezzo per essere competitivi. Tutto risulta lecito: sacrificare per continuare a far incassare ai banchieri il pizzo sugli artificiosi indebitamenti, sia pubblici che privati, e le loro tangenti imposte al mercato su ogni movimento e su tutte le operazioni bancarie, divenute tra le più care al mondo. Disperazione per perdita di posti di lavoro, fallimenti a catena, suicidi per insolvenza, sono solo considerazioni fastidiose e conseguenze fisiologiche necessarie per fare avanzare globalizzazione e omologazione a tutti i costi. Dobbiamo essere tutti uguali, come in nuova visione, più eccentrica e sottile, dell’egualitarismo sovietico, ma del tutto priva di poesia e di speranza.

Pensare al futuro dell’Italia, potendo peraltro osservare quanto accade alla vicina Grecia, aggiunge nubi ad uno scenario già di per sé già tetro. Come già scritto precedentemente, osservare la Grecia di oggi aiuterà a capire l’Italia di domani, vista l’identità dei problemi e la triste somiglianza delle stesse soluzioni utilizzate. Pare, infatti, che alla fine l'Europa troverà un accordo su come salvare la Grecia dalla bancarotta. Anche se le istituzioni comunitarie continuano a muoversi in ordine sparso, con la sola Germania fare da guida.

Il consiglio europeo del 25 marzo, dove si sono riuniti i capi di Stato e di governo dei paesi membri (tra cui anche Silvio Berlusconi), ha raggiunto l'intesa su una bozza di piano di salvataggio. Si parla di un pacchetto di aiuti da 23 miliardi di Euro che dovrebbero prendere la forma di "prestiti bilaterali coordinati involontari" e a tasso agevolato (cioè da uno stato all'altro, senza mediazione comunitaria e senza alcun obbligo). Un piano di emergenza pronta scattare nel caso le aste del debito pubblico greco previste per maggio andassero deserte. Meno chiaro è cosa succederà se il governo di Atene fallisse nel tentativo di imporre un dimagrimento del deficit dal 12 all'8% in un anno che sta già causando tensioni sociali difficili da gestire.

Tutto a posto, quindi? Per nulla. Perché l'ipotesi che nel salvataggio sia coinvolto il Fondo Monetario Internazionale - istituzione considerata di matrice americana, anche se diretta da un francese - ha fatto perdere a Jean-Claude Trichet il suo abituale aplomb da presidente della Banca centrale europea. Il ricorso alla FMI, dice Trichet, è "molto, molto negativo". Sottinteso: la Banca Centrale Europea ha già dimostrato di saper gestire le crisi interne all'eurozona e può essere più efficace degli americani, per esempio annunciando (come ha recentemente affermato pubblicamente) che continuerà ad accettare come garanzia i declassati titoli del debito greco.

Ma questa non è la sola cosa che ha fatto infuriare Trichet. Non è una sorpresa che la cancelleria tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy abbiano ipotizzato di trasformare il consiglio europeo in un "governo economico" dell'Unione, che eserciti un ruolo maggiore nella "sorveglianza economica". Adesso però l’idea viene ripresa anche da altri - non ultimo il nostro Giuliano Amato - e la cosa certo non fa piacere al comandante in capo del Sistema Europeo di Banche Centrali. Una simile iniziativa significa, infatti, quasi soltanto maggiori pressioni sulla BCE, che vedrà ridursi il proprio spazio di autonomia, visto che per ora non c'è alcuna intenzione di elevare a livello europeo la politica fiscale o emettere quegli euroBond, titoli di debito europeo, che da anni invoca il ministro Giulio Tremonti.

Rimane quindi la speranza che da questa crisi esca un Europa più politica e più coordinata nella gestione del governo dell’economia, più forte dunque nell’affermare la propria voce sui desiderata dei banchieri. Forse è vero che non tutti i mali vengono per nuocere.


 

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