di Ilvio Pannullo

Che l'incidenza delle tasse sull'economia italiana fosse tra le più alte all'interno della comunità europea è cosa nota a tutti. Di pubblico dominio è anche la notizia che la pressione fiscale sia sostenuta, nella sua quasi totalità, dai dipendenti pubblici e dai pensionati. Si capisce dunque il perché la riduzione delle tasse sia un argomento tanto caro a tutti gli italiani, siano essi evasori conclamati ovvero onesti contribuenti. È questo, infatti, il dato da cui si deve partire per comprendere quanto l’idea di una riforma fiscale possa solleticare la fantasia dell’intero elettorato italiano. Urge, dunque, un bagno di realismo per comprendere quante balle sono state dette e quante ancora ne verranno spacciate in campagna elettorale.

Attualmente la situazione dell'economia internazionale, aggravata dalla crisi, non fa che peggiorare una situazione di per sé già insostenibile: l'incidenza fiscale, risultato del rapporto tra quello che il contribuente paga allo Stato ed il reddito totale prodotto dal sistema paese, facendo la crisi precipitare il reddito totale, non potrà che aumentare. In un paese come il nostro, dove il debito pubblico oramai tocca i 1800 miliardi di Euro, un ipotetico taglio delle tasse avrebbe dunque necessariamente margini ristrettissimi. La ripresa economica appare quindi come una condizione necessaria per qualsiasi piano che volesse seriamente affrontare il problema.

Ora, però, è necessario essere realisti nell'analizzare l'economia italiana e l'incidenza che la crisi internazionale ha avuto su di essa: nel 2008 la capacità produttiva del paese è diminuita del 5.2%, dato che indica il netto peggioramento di una realtà che, già in passato, aveva ampiamente dimostrato la propria scarsa capacità di crescita. È dunque quantomeno fuori luogo l’euforia del Ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, quando si sbraccia per ricordare che, per il 2009, è prevista una crescita del Pil pari all'1%. Il principe dei condoni dimentica volutamente, infatti, che per tornare alla situazione di cui sopra, e cioè ad una situazione già scarsamente competitiva, saranno necessari ben cinque anni. Un'età geologica in termini economici.

Ecco dunque spiegato il perché di tante promesse, poi rimaste puntualmente disattese: se da una parte l’argomento paga a livello elettorale, dall’altra sono le casse dello Stato a non poter pagare il prezzo di simili riforme. Ma andiamo con ordine. Si comincia dalla campagna elettorale del 2008, quando, il 12 aprile, nell'ultima sfida televisiva con Walter Veltroni, il Cavaliere annuncia: "Abolirò il bollo per le auto e per le moto". Con quali soldi? Usando il famoso tesoretto del governo Prodi oppure "i risparmi" di spesa. Ovviamente non accadde nulla.

Promessa mantenuta, invece, quella di abolire, almeno per la prima casa, l’ICI, l'imposta comunale sugli immobili. Detto fatto. A guardare bene, però, si scopre che nella finanziaria 2010, appena varata dal Parlamento, vengono stanziati 900 milioni di Euro in due anni per risarcire gli enti locali per la perdita subita. L'unica tassa davvero federale passa quindi sotto il controllo di Roma, ma la pressione fiscale non cambia. La lega in tutto questo rimane in silenzio aspettando il suo federalismo.

C'è poi il capitolo dell'Irap. Il 21 ottobre, B. annuncia un taglio immediato all'assemblea di Confartigianato,  salvo poi cambiare idea: non è facile trovare i 38 miliardi di Euro che l'imposta sulle imprese porta nelle casse dello Stato e che servono a finanziare la spesa sanitaria. Il ministro Claudio Scajola, probabilmente non una cima quando si tratta di numeri, voleva utilizzare i soldi provenienti dallo scudo fiscale, che però ammontano ad appena 4-5 miliardi di Euro e che serviranno verosimilmente a coprire metà della finanziaria 2010.

Nell’immobilismo dovuto alla ritrosia a tagliare le spese, il solo intervento fiscale che ha prodotto qualche risultato è stata la celeberrima Robin Tax. L'introduzione di una nuova tassa non era certo quanto si aspettava l'elettorato del PdL, anche se a pagare il conto sono stati  soprattutto petrolieri e produttori di energia. Il gettito, appena superiore al miliardo di Euro, doveva servire a pagare quella social card con cui il governo sperava di salvare la faccia davanti alla parte più povera del paese. Il legame tra le due misure, tuttavia, non venne stabilito come promesso. Fu così che la Robin finì a finanziare un po' tutto.

C'è poi chi sperava che almeno una finanziaria da tempo di crisi fosse l'occasione per razionalizzare la spesa. Anche questi purtroppo hanno dovuto capitolare. Si credeva, infatti, che un governo della destra potesse almeno snellire la burocrazia elefantiaca del nostro paese. Purtroppo anche i liberisti hanno dovuto rassegnarsi a veder ricomparire la "legge mancia", con i suoi 165 milioni di Euro di micro spese in tre anni, oltre all'ennesimo rinvio della riforma nei finanziamenti pubblici ai giornali, ben 200 milioni di euro utilizzati per spuntare l’obbiettività del già strisciante quarto potere italiano. Nascosto tra le pieghe della legge di bilancio, poi, c'è il taglio degli interessi legali: chi è in credito con il fisco non riceverà più il 3% di interessi, ma soltanto l'uno. Una norma che fa imbufalire molte imprese che aspettano i pagamenti dalla pubblica amministrazione. Imprese generalmente medio piccole, ossia l'elettorato forte del centro destra in versione tricolore.

Stando così le cose il governo Berlusconi, probabilmente per non perdere completamente la faccia, proverà a confondere le aliquote, le modalità di pagamento e i rimborsi in modo da poter nascondere meglio un inevitabile aumento della pressione fiscale. Conoscendo i precedenti del personaggio, il suo governo non toccherà le rendite finanziarie, non farà una lotta senza quartiere all'evasione fiscale e probabilmente trasformerà l'entrata in vigore della riforma nell'occasione per l’ennesimo condono generale. Qualsiasi cosa pur di far cassa, sempre a spese di coloro che le tasse le pagano veramente. Nella speranza che l'opposizione almeno questa volta abbia il coraggio di fare veramente gli interessi del Paese, rifiutando la logica del compromesso e dell'imbroglio fiscale.

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