di Ilvio Pannullo

L’Irlanda è salva, ma i suoi cittadini sono spacciati. Si parla tanto di salvataggi ultimamente, ma di chi? Questa è la prima vera domanda da porsi. Siamo al secondo salvataggio in Europa. Al secondo salvataggio delle banche tedesche. Ma chi ne ha beneficiato? Cui prodest, come direbbero i saggi latini? Come nel caso della Grecia, chi sicuramente ha guadagnato dalla soluzione della crisi irlandese sono i creditori. Che vedono scongiurato il rischio di non vedersi restituiti i soldi incautamente prestati alle banche ed allo Stato irlandese.

E anche adesso, come per la Grecia, tra i primi creditori ci sono le banche tedesche: allora in compagnia delle banche francesi, adesso in coppia con le banche inglesi. Solo e unicamente per questo motivo anche l’odiata Gran Bretagna si è detta infatti disponibile a partecipare al salvataggio, con buona pace dei nazionalisti irlandesi.

Considerando che l'esposizione del Regno Unito sull’Irlanda è di ben 188 miliardi di euro e quella tedesca di "appena" di 184 miliardi, si capisce come nella realtà dei numeri quello che si è appena concluso non è stato di certo un atto di solidarietà tra pari, quanto piuttosto un aiuto interessato. Ma a pagarlo sarà l’Europa - quindi tutta indistintamente - e la ripartizione del debito avverrà facendo riferimento alle quote azionarie della BCE possedute da ogni Banca Centrale nazionale. Nella sostanza un ottimo affare per i banchieri tedeschi e inglesi.

Il secondo aspetto da sottolineare - non ci stancheremo mai di ripeterlo - è che sono i cittadini a pagare la crisi delle banche. Nel caso del paziente irlandese, quello che è avvenuto è chiarissimo. Riepilogando in ordine cronologico la storia della tigre celtica si capisce chiaramente l’ingiustizia subita dai cittadini: 1) il Governo inizialmente decide di salvare le due maggiori banche del paese, travolte dalla crisi immobiliare e vicinissime al fallimento, con iniezioni di capitale per decine di miliardi di euro; 2) l’intervento provoca l’esplosione del deficit pubblico ( l'ammontare della spesa pubblica non coperta dalle entrate), che schizza al 32% su base annua, mentre il limite previsto dal trattato di Maastricht è  pari al 3%, imprimendo così una tremenda accelerazione al debito pubblico; 3) per fronteggiare l’impennata del debito pubblico e il conseguente peggioramento del parametro debito\PIL vengono assunte, sempre dal medesimo Governo, misure di austerity così feroci da precipitare il paese in deflazione (ossia una diminuzione generale del livello dei prezzi dovuta alla debolezza della domanda di beni e servizi).

Che succede arrivati a questo punto? Che la crisi economica del paese e del settore bancario si approfondisce anche, se non soprattutto, per questo motivo: servono dunque altri soldi per evitare il fallimento del paese, soldi che lo Stato irlandese non è grado di pagare. Si chiude allora la partita, si spengono le giostre e si alza il sipario: le condizioni macroeconomiche del paese peggiorano al punto da rendere indispensabile la necessità di un soccorso internazionale stimato in circa 95 miliardi di euro, un terzo dei quali destinato alle banche, a fronte di una severissima manovra di bilancio su quattro anni che prevede tagli alla spesa pubblica e ai servizi sociali per 15 miliardi di euro.

In soldoni: 25.000 impiegati pubblici a casa e i neoassunti con uno stipendio del 10% inferiore rispetto ai loro colleghi. Conclusione: il governo irlandese salva le banche dal fallimento, i cittadini irlandesi pagano il conto con i loro diritti economici e sociali, presenti e futuri.

Le tasse alle imprese restano invece bassissime, agli attuali livelli: il 12,5% degli utili dichiarati. Il motivo è presto detto: su questa tassazione irrisoria delle imprese si è basato il successo della tigre celtica, per diversi anni indicato come modello anche per noi. Nei fatti l’Irlanda faceva dumping fiscale, spalancando le porte a tutte quelle società europee intenzionate a pagare meno tasse rispetto a quelle pagate nel proprio paese. Proprio questa possibilità di fare arbitraggio fiscale è, infatti, una delle cause principali degli attuali problemi dell'Europa.

Perché senza una tassazione uniforme non può esistere una seria politica economica comune, e senza una politica economica comune la moneta unica non basta. In caso di crisi questa può anzi diventare un peso insostenibile per chi l'ha adottata. Ma a quanto pare il dumping fiscale non ha portato fortuna neanche all'Irlanda: la bolla immobiliare che è scoppiata travolgendo le banche, e ora anche lo Stato, è stata alimentata proprio dagli investimenti delle imprese straniere, ansiose di monetizzare l’irrisorio trattamento fiscale.

Altro aspetto interessante è la valutazione degli stress test: molto semplicemente un fallimento, se non proprio una bufala. "Allied Bank e Bank of Ireland hanno i requisiti patrimoniali richiesti e non hanno bisogno di ulteriori aumenti di capitale": così la Banca Centrale irlandese, lo scorso 23 luglio, annunciò i risultati degli stress test condotti a luglio sulle banche europee. Per la verità, che quei test fossero taroccati l'avevano sospettato in molti, soprattutto quando si è appreso che i titoli di Stato posseduti dalle banche non erano considerati un fattore di rischio (e questo dopo la crisi greca!). Se i test si rifacessero dando il giusto peso a questa variabile, ben pochi grandi banchieri in Europa dormirebbero sonni tranquilli.

Un po' come dire che le dichiarazioni ufficiali degli istituti finanziari nazionali ed internazionali sono tutte finalizzate alla ricostruzione di quel bene comune da troppo tempo sovra-sfruttato da tutti gli attori economici: la fiducia dei consumatori. Finché c’è qualcuno che ancora crede a quello che dicono, costoro (coerentemente dal loro punto di vista) vanno avanti. Dunque ogni parola, ogni gesto, ogni comunicato non ha valore in sé perché non ha credibilità, non mirando ad affermare ciò che è vero, ma semplicemente a ricostruire quella fiducia necessaria agli investitori per tornare a spendere i propri soldi sui mercati internazionali. E questo è possibile solo se si nasconde per l'appunto ciò che è vero: la reale situazione in cui versano oggi gli Stati e le imprese, ossia gli enti economici pubblici e privati che producono quei beni e quei servizi necessari ai cittadini.

Questo il quadro dell’Europa. A ciò si aggiunge, tuttavia, un’ulteriore ansia, uno spettro vero e proprio: una Germania irresponsabile. Oggi, purtroppo, dire Europa significa dire Germania. Bisogna capire che la Germania da questa crisi ci guadagna tre volte: in primo luogo le sue banche, sovraesposte sui titoli di Stato irlandesi, ora sono al sicuro; in secondo luogo, le attuali difficoltà europee, aggravate dalle dichiarazioni terroristiche della stessa cancelliera Merkel, fanno crollare la quotazione dell'euro rispetto al dollaro, spingendo le esportazioni tedesche diventate così più competitive; infine, i titoli di Stato tedeschi sono più che mai un rifugio sicuro e possono quindi essere venduti anche a fronte di rendimenti risibili.

È quindi decisamente singolare che il governo tedesco si possa ergere a giudice degli altri paesi "meno virtuosi”, gli stessi paesi cioè che comprando i prodotti tedeschi ne sostengono l'economia: non si ricorderà mai abbastanza che il commercio estero dei paesi dell'Unione Europea è infatti per la sua quota maggiore interno alla stessa Unione Europea. L'impressione è che, con la sua arroganza dei suoi ricatti, l’establishment tedesco stia tagliando il ramo su cui è (comodamente) seduto: ossia l'euro. E’ un gioco molto pericoloso. Un gioco che potrebbe ritorcersi proprio contro la stessa Germania.

 

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