di Michele Paris

La storica visita di questa settimana negli Stati Uniti del segretario del Partito Comunista del Vietnam, Nguyen Phu Trong, ha segnato un passo avanti forse fondamentale nell’evoluzione dei rapporti tra i due paesi, esattamente a vent’anni dalla normalizzazione delle relazioni bilaterali avvenuta durante la presidenza Clinton. Significativamente, Obama ha ricevuto il leader vietnamita nello Studio Ovale, di solito riservato per discussioni con personalità straniere che ricoprono ufficialmente la carica di Capo di stato.

Al centro del faccia a faccia di martedì ci sarebbero state principalmente due questioni, entrambe legate al riallineamento strategico in Asia degli Stati Uniti in funzione di contenimento della Cina. La prima è quella del trattato di libero scambio denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP), a cui il Vietnam dovrebbe aderire assieme a una decina di altri paesi asiatici e del continente americano.

Obama ha da poco ottenuto dal Congresso di Washington il via libera a una sorta di corsia preferenziale per l’approvazione del TPP, dando un impulso decisivo alle trattative con gli altri paesi coinvolti. Le difficoltà principali dei negoziati con il Vietnam riguardano non tanto aspetti come il diritto dei lavoratori a creare associazioni sindacali indipendenti, quanto lo smantellamento - o, per lo meno, il ridimensionamento - delle aziende di proprietà dello stato e altre delicate questioni legate al commercio.

Ad esempio, in cambio dell’ulteriore apertura del mercato americano ai prodotti “made in Vietnam”, gli Stati Uniti avrebbero chiesto al regime, una volta entrato in vigore il TPP, di interrompere l’importazione di materie prime tessili dalla Cina, con tutte le difficoltà logistiche che ne deriverebbero. Gli approvvigionamenti destinati a un settore cruciale dell’economia del Vietnam dovrebbero giungere invece da altri paesi facenti parte del TPP.

L’altro tema di rilievo trattato a Washington è legato poi alle dispute territoriali in atto nel Mar Cinese Meridionale, dove Cina e Vietnam sono sembrate essere ai ferri corti nella primavera del 2014 in seguito al posizionamento da parte di Pechino di una piattaforma petrolifera in un’area rivendicata da Hanoi.

Se la Cina non è mai stata citata esplicitamente durante la conferenza stampa di Obama e Trong, l’obiettivo di alcune dichiarazioni di entrambi i leader è apparso sufficientemente chiaro. Il presidente americano ha così invitato i paesi del sud-est asiatico a risolvere le dispute all’interno di “accordi internazionali”, laddove la Cina ha sempre sostenuto di volere chiarire le divergenze con i propri vicini sul piano bilaterale e senza interferenze.

L’apparente neutralità di Washington sulle dispute nel Mar Cinese Meridionale nasconde in realtà una posizione decisamente anti-cinese. Contese che si trascinano da tempo senza particolari conseguenze si sono riaccese in questi ultimi anni proprio in concomitanza con la cosiddetta “svolta” asiatica degli USA, i quali hanno più o meno apertamente incoraggiato paesi come Vietnam o Filippine a promuovere le rispettive rivendicazioni.

Nel 2014, le Filippine avevano sottoposto una richiesta di arbitrato a un tribunale internazionale a L’Aia per contestare le rivendicazioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale. Il tribunale ha tenuto la sua prima udienza sul caso proprio questa settimana e, nel decidere se esprimersi sulla vicenda, si baserà anche su un parere legale presentato a dicembre dal Vietnam in appoggio all’istanza filippina.

La posizione vietnamita è stata d’altra parte ribadita martedì a Washington, quando il segretario Trong ha affermato, avendo in mente la Cina, che “attività recenti nel Mar Cinese Meridonale sono essere in disaccordo con il diritto internazionale” e “possono complicare la situazione”.

Lo stesso leader del Partito Comunista del Vietnam ha poi definito “cordiale, costruttiva, positiva e franca” la discussione avuta con Obama, sottolineando l’estrema importanza dell’evoluzione dei rapporti tra i due paesi, passati da “ex nemici ad amici e partner”, anzi “partner a tutto tondo”. Trong ha inoltre invitato il presidente americano a visitare il suo paese, cosa che quest’ultimo sembra avere accettato di buon grado.

Obama, da parte sua, ha parlato di un rapporto di “mutuo rispetto” con il Vietnam, anche se persistono diversità di vedute riguardo “la filosofia politica” e “il sistema politico” dei due paesi. Come hanno ricordato i media e vari esponenti politici americani, il Vietnam continua a essere carente sul fronte dei diritti umani e della libertà di religione.

La questione dei diritti umani viene però come al solito usata da Washington come una delle armi a disposizione della propria politica estera per mascherare la persecuzione pura e semplice dei propri interessi strategici. Nel caso del Vietnam, la necessità di creare una partnership con l’obiettivo di limitare l’influenza della Cina ha finito per avere la precedenza su qualsiasi scrupolo democratico e umanitario.

Il governo USA ha ritenuto sufficiente citare presunti “miglioramenti” della situazione interna in Vietnam e, ad ogni modo, soprattutto in relazione a questo paese, devastato dal tragico incontro con l’imperialismo americano, Washington non è nella posizione di dare lezioni su democrazia o diritti umani.

La visita di Trong di questa settimana è comunque il coronamento di un percorso che ha portato alla costruzione di un rapporto tra Vietnam e Stati Uniti impensabile due decenni fa. Solo negli ultimi mesi, i due ex rivali hanno siglato importanti intese, soprattutto in ambito militare. Ai primi di ottobre dello scorso anno, ad esempio, gli USA avevano eliminato parzialmente l’embargo sulla vendita di armi al Vietnam.

Questa proibizione era stata introdotta ufficialmente dall’amministrazione Reagan nel 1984 e un decennio più tardi, con la normalizzazione dei rapporti bilaterali, Washington avrebbe iniziato a utilizzarla come leva per ottenere dapprima l’apertura dell’economia vietnamita al capitale americano e più recentemente per attrarre il paese del sud-est asiatico nella propria orbita strategica.

Il via libera alla vendita di armi “letali” ha riguardato in primo luogo quelle da impiegare nella “sicurezza marittima”, inequivocabilmente legata alla “minaccia” cinese. Allo stesso tempo, la fine dell’embargo è utile agli Stati Uniti per provare a insidiare il ruolo della Russia di tradizionale primo fornitore di armi del Vietnam.

Poco più di un mese fa, il ministro della Difesa di Hanoi, Phung Quang Thanh, e il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, avevano poi sottoscritto nella capitale vietnamita una dichiarazione congiunta sui rapporti bilaterali in ambito militare, sulla base di un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore della “difesa” già firmato nel 2011.

Il più recente vertice di Washington e gli sviluppi delle relazioni tra USA e Vietnam non sembrano però comportare un allineamento esclusivo di Hanoi all’ex nemico, almeno per il momento. La politica estera vietnamita appare da tempo come una sorta di esercizio di equilibrismo, dettato dalla necessità storica di mantenere una certa indipendenza dall’ingombrante vicino cinese, con il quale questo paese ha tra l’altro combattuto una breve guerra nel 1979.

La Cina è però anche il primo partner commerciale del Vietnam e di questa realtà la leadership stalinista al potere a Hanoi è ovviamente cosciente. Prima della visita a Washington, infatti, lo scorso aprile il segretario del Partito Comunista si era recato a Pechino su invito del presidente, Xi Jinping, in occasione dei festeggiamenti per i 65 anni di relazioni diplonatiche tra i due paesi vicini.

Il Vietnam ha poi intensificato i legami con altri paesi della regione alleati di Washington, come il Giappone e le Filippine, anche se, come già ricordato, il rapporto con la Russia, che dura dai tempi della Guerra Fredda, continua a essere piuttosto solido.

Ciononostante, è innegabile che l’avvicinamento agli Stati Uniti sia il dato più significativo della politica estera vietnamita di questi anni. All’interno del regime ci sono sezioni che spingono indubbiamente per una rottura ancora più netta con la Cina e per riorientare il paese verso gli Stati Uniti e i loro obiettivi strategici in Asia orientale, con la conseguente accelerazione delle “riforme” di libero mercato sul fronte interno.

Un’altra fazione, al contrario, auspica scelte più prudenti ed equilibrate, invitando a mantenere rapporti amichevoli sia con Washington sia con Pechino, vista soprattutto l’importanza della Cina per l’economia domestica.

Come per altri paesi asiatici che si trovano a fare i conti con un dilemma simile, tuttavia, anche per il Vietnam sarà sempre più problematico conservare l’equilibrio attuale in un quadro segnato dalla crescente aggressività degli USA nei confronti della Cina. Di questa difficoltà sembra essere ben consapevole la leadership di Hanoi, tanto che la cordialissima vista appena conclusa di Nguyen Phu Trong a Washington potrebbe avere segnato la strada per le future scelte di politica estera del regime vietnamita.

di Michele Paris

L’aggressione militare contro lo Yemen da parte della coalizione araba guidata dall’Arabia Sadita ha fatto registrare negli ultimi giorni una drammatica impennata del numero di vittime civili in seguito all’intensificarsi dei bombardamenti aerei, condotti da oltre tre mesi a questa parte per piegare i “ribelli” Houthi e le milizie loro alleate. La giornata di lunedì è stata in particolare la più sanguinosa dall’inizio del conflitto, secondo la Reuters con quasi 180 morti civili. Incursioni nella provincia settentrionale di Amran hanno ucciso 63 persone, tra cui una trentina a causa di una bomba caduta su un mercato.

Un altro mercato di bestiame si è trasformato in una scena raccapricciante nella città meridionale di al-Foyoush, dove hanno perso la vita altre 60 persone. Sempre nella provincia di Amran, invece, circa 20 tra civili e militanti Houthi sono stati uccisi nei pressi di un check-point a 50 chilometri dalla capitale, Sanaa.

Una postazione dei “ribelli” sciiti è stata presa di mira anche poco lontano da Aden, la seconda città yemenita per importanza, e nel raid sono state massacrate 30 persone, di cui 10 militanti.

Gli scontri tra gli Houthi e i guerriglieri appartenenti ai clan che a questi ultimi si oppongono proseguono poi senza sosta. Nella provincia desertica centrale di Marib, ad esempio, i combattimenti e altre incursioni aeree saudite sono costati la vita a 20 membri delle forze “ribelli”.

Nonostante la sostanziale indifferenza dei media e della “comunità internazionale” per la sorte della popolazione yemenita, la situazione nel più povero dei paesi arabi appare talmente disastrosa da avere spinto negli ultimi giorni vari esponenti del regime saudita e membri del governo “in esilio” a Riyadh del deposto presidente, Abd Rabbu Mansour Hadi, a riconoscere apertamente l’opportunità di un cessate il fuoco.

La coalizione guidata dall’Arabia Saudita non intende tuttavia fermare la propria offensiva senza una sostanziale resa degli Houthi, dopo avere fallito nel raggiungimento di questo obiettivo con le armi. Gli Houthi, da parte loro, non sono disposti ad accettare alcuna condizione se non verrà riconosciuta la loro integrazione nel sistema politico dello Yemen, teoricamente in rappresentanza della minoranza sciita prevalente nel nord del paese.

In questo clima, le trattative per un possibile stop temporaneo ai bombardamenti nel corso del Ramadan erano crollate precocemente, mentre sarebbero ancora in corso le discussioni per implementare una tregua umanitaria a partire dal 17 luglio, in concomitanza con la festività islamica di Eid al-Fitr che segna la fine del periodo di digiuno. Una precedente interruzione delle ostilità era avvenuta nel mese di maggio, consentendo l’ingresso in Yemen di aiuti di vario genere ma senza alleviare significativamente la crisi in atto.

Martedì, in ogni caso, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, è giunto a Sanaa per cercare di riportare le parti in conflitto al tavolo delle trattative e gettare le basi almeno per un cessate il fuoco. Un portavoce degli Houthi ha però già annunciato che gli attacchi sauditi di lunedì hanno assestato un colpo molto pesante agli sforzi diplomatici.

La popolazione dello Yemen sta pagando a carissimo prezzo la guerra criminale scatenata dall’Arabia Saudita per cercare di mantenere la propria influenza sul paese vicino. Le vittime totali di questi mesi di bombardamenti, secondo i dati ONU, sarebbero più di tremila, anche se il numero reale è probabilmente molto più alto.

I civili sono puntualmente presi di mira malgrado l’obiettivo dichiarato di Riyadh e della coalizione sia quello di “liberare” lo Yemen dalla minaccia degli Houthi. Varie organizzazioni a difesa dei diritti umani nelle scorse settimane avevano pubblicato rapporti che documentavano come le bombe saudite avessero frequentemente colpito siti e abitazioni civili senza alcun legame con possibili attività militari degli Houthi.

Oltre ai bombardamenti, lo Yemen continua a patire anche il blocco navale e aereo quasi totale imposto dall’Arabia Saudita che limita drasticamente l’ingresso di aiuti e beni di prima necessità come cibo, medicinali e carburante. Prima dell’inizio della guerra, lo Yemen importava il 90% dei beni alimentari consumati e l’80% dei farmaci.

Secondo le Nazioni Unite, a giugno quattro quinti della popolazione yemenita - su un totale di circa 25 milioni di abitanti - necessitava di una qualche forma di assistenza umanitaria. Il già fragile sistema sanitario del paese è inoltre allo sbando, con casi di febbre dengue e malaria in rapido aumento, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha messo in guardia dal pericolo del ritorno della polio, malattia dichiarata ufficialmente debellata in questo paese nel 2006.

La guerra in Yemen è stata lanciata dall’Arabia Saudita per fermare l’avanzata dei “ribelli” Houthi dopo che dall’autunno dello scorso anno avevano iniziato una marcia inarrestabile nel paese, fino a determinare la rimozione del governo-fantoccio dell’Occidente e di Riyadh presieduto dal presidente Hadi. Ad appoggiare le milizie sciite sono anche una parte delle forze armate yemenite fedeli all’ex presidente, Ali Abdullah Saleh, costretto alle dimissioni nel 2012 in seguito alle proteste esplose l’anno prima nel paese e al piano di transizione mediato da USA e Arabia Saudita.

Per la monarchia saudita, gli Houthi sarebbero sotenuti finanziariamente e militarmente dall’Iran, anche se Teheran continua a negare di avere stretti rapporti con i “ribelli” sciiti in Yemen. La guerra contro gli Houthi è ritenuta perciò di importanza vitale dall’Arabia Saudita, per la quale l’eventuale perdita dello Yemen a favore dell’Iran rappresenterebbe un rovescio letale per i propri interessi.

Tale minaccia - reale o percepita - appare a Riyadh tanto più concreta alla luce dell’inquietudine della stessa minoranza sciita che vive entro i confini del regno e dell’eventualità che la Repubblica Islamica torni a giocare un ruolo di spicco nelle vicende regionali in seguito al probabile accordo sul nucleare nelle fasi finali di negoziazione.

L’intervento dell’Arabia Saudita, oltre a provocare la devastazione in Yemen, ha favorito anche l’espansione di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), da tempo propagandata in Occidente come la più pericolosa emanazione dell’organizzazione fondamentalista creata da Osama bin Laden e contro la quale fino a pochi mesi fa avevano combattuto strenuamente proprio gli Houthi.

La guerra in corso in Yemen, infine, è sostanzialmente appoggiata dagli Stati Uniti. Se a Washington sembrano sussistere non pochi malumori per l’avventura bellica saudita, soprattutto a causa delle conseguenze negative sulle relazioni con l’Iran, l’amministrazione Obama continua a fornire un supporto logistico e d’intelligence cruciale all’alleato saudita.

I militari USA hanno così creato un centro di comando congiunto a Riyadh per coordinare le incursioni aeree, per le quali gli americani forniscono informazioni sugli obiettivi da colpire, mentre le forniture di armamenti sono state intensificate in modo da sopperire alla diminuzione delle scorte di materiale bellico impiegato nelle ripetute stragi tra la popolazione yemenita.

di Michele Paris

A pochi giorni dalla decisiva sentenza della Corte Suprema americana che ha salvato i sussidi federali destinati agli acquirenti di polizze sanitarie private, come previsto dalla riforma “Obamacare”, moltissime compagnie di assicurazioni stanno richiedendo pesantissimi aumenti dei premi pagati dai loro clienti.

La ragione principale della probabile impennata del costo delle polizze sarebbe l’errore commesso dalle compagnie private nello stimare l’importo dei rimborsi da erogare per i servizi sanitari di cui hanno usufruito i sottoscrittori. In Minnesota, la società Blue Cross and Blue Shield ha ad esempio perso 135 milioni di dollari nel 2014 sulle proprie polizze individuali, visto che i rimborsi pagati hanno rappresentato il 115% del totale delle entrate derivanti dai premi assicurativi.

Molte compagnie si sono trovate in questa situazione dopo avere accertato che i loro nuovi clienti erano in media più malati del previsto, mentre troppo bassa è risultata la quota dei sottoscrittori di polizze generalmente sani. Poiché la riforma prevede che agli individui con “condizioni pre-esistenti” non possa essere più negata l’assicurazione sanitaria, ciò ha determinato le proposte spesso sostanziose di aumento dei premi per il prossimo anno.

Secondo la riforma Obamacare o, ufficialmente, Affordable Care Act (ACA), aumenti dei premi superiori al 10% stabiliti dalle compagnie di assicurazioni devono essere dichiarati pubblicamente e passare attraverso un processo di revisione del governo federale tramite apposite commissioni. Tuttavia, non esiste un vero e proprio meccanismo che consenta di bloccare gli aumenti e le commissioni stesse appaiono spesso fin troppo ben disposte verso gli assicuratori.

Emblematico è il caso dello stato dell’Oregon, dove la commissione incaricata ha concesso in alcuni casi aumenti dei premi molto più alti di quanto richiesto da alcune compagnie private. Health Net aveva richiesto rialzi pari in media al 9% e ha ottenuto un 34,8%; Health Co-op, invece, aveva chiesto un 5,3% di aumento e ha finito col ricevere un’autorizzazione per far salire i premi fino al 19,9%.

La già citata Blue Cross and Blue Shield, una delle principali compagnie private americane operanti nel settore sanitario, ha richiesto aumenti molto più ingenti, tra cui in media del 23% in Illinois, del 25% in North Carolina, del 31% in Oklahoma, del 36% in Tennessee e addirittura del 51% in New Mexico e del 54% in Minnesota.

Questa e altre compagnie di assicurazioni private si sono ritrovate con un fiume di nuovi clienti grazie alla riforma sanitaria del 2010. L’ACA ha stabilito tra l’altro che tutti gli americani al di sopra di un certo reddito sono costretti ad acquistare una polizza sul mercato privato, se non dispongono di una qualche copertura tramite il loro datore di lavoro o uno dei programmi federali.

A coloro che non hanno sottoscritto una polizza, pur essendo obbligati per legge, viene applicata invece una sanzione, il cui importo aumenta di anno in anno. Questi ultimi sono in larga misura gli americani più sani che, con la loro scelta, avrebbero determinato l’aumento dei premi degli assicurati.

La decisione di non acquistare una polizza privata è dettata però talvolta dalla necessità, visto che, nonostante i sussidi garantiti dal governo, spesso i rimborsi della copertura sanitaria acquistata prevedono franchigie che possono ammontare anche a varie migliaia di dollari.

Per il ministro della Sanità americano, Sylvia Burwell, l’impatto dell’aumento dei premi potrebbe essere ridotto ricercando annualmente sui mercati delle polizze private (“exchanges”), creati dai singoli stati o dal governo di Washington, il prodotto più conveniente o adatto a ogni acquirente.

Secondo una ricerca indipendente, però, il cambiamento dei piani assicurativi comporta il rischio della perdita della possibilità di continuare a essere visitati dai propri medici di fiducia e, prevedibilmente, premi più bassi significano meno servizi a disposizione e una scelta più limitata di medici e ospedali dove ricevere assistenza.

Questo aspetto appare cruciale nell’impianto della riforma voluta da Obama, dal momento che una delle conseguenze dell’ACA è e sarà quella di giungere a un vero e proprio razionamento dell’assistenza sanitaria, ovviamente non per coloro che possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi migliori.

Un altro fattore che sta determinando l’aumento vertiginoso dei premi delle polizze, secondo alcuni, è poi una disposizione prevista dall’ACA e propagandata da Obama come un’iniziativa favorevole agli assicurati. Essa consiste nell’obbligo imposto alle compagnie di spendere almeno l’80% dei premi incassati in servizi sanitari offerti ai loro clienti.

Se, tuttavia, i margini di profitto delle compagnie risultano troppo bassi, questa norma finisce per produrre aumenti dei premi, sui quali, come già ricordato, il governo svolge solo opera di supervisione. Tutto quello che il presidente americano ha potuto dire sulla questione è stato invitare i sottoscrittori di polizze a fare pressioni sulle commissioni statali chiamate a valutare le richieste di aumenti per ridurli al minimo possibile.

Gli aumenti annunciati in questi giorni rivelano così ancora una volta il vero carattere della riforma di Obama, scritta sostanzialmente per favorire una riduzione dei costi sanitari e gli interessi economici delle compagnie private. Ciò è stato riconosciuto in maniera indiretta qualche giorno fa anche dal New York Times, solitamente strenuo difensore dell’ACA, il quale in seguito all’impennata dei premi è giunto a interrogarsi apertamente sulla stessa “efficacia della legge sanitaria”.

Le scosse di assestamento nel settore sanitario USA determinate dall’avvento dell’ACA si stanno facendo sentire infine anche ai vertici delle compagnie assicurative private, sotto forma di fusioni. Una di esse è stata annunciata proprio la scorsa settimana e, se approvata come previsto dal governo, promette di essere la più importante di sempre nel settore sanitario.

Aetna Inc. e Humana Inc., rispettivamente la terza e la quarta più grande compagnia americana per fatturato in ambito assicurativo sanitario, dovrebbero diventare nei prossimi mesi un’unica compagnia con più di 33 milioni di clienti e ricavi per circa 115 miliardi di dollari. La fusione darà vita a una singola entità destinata a diventare il secondo operatore USA in questo settore, dopo United HealthGroup.

Secondo l’amministratore delegato di Aetna, Mark Bertolini, a dare l’impulso alla fusione sarebbe stata l’ACA e i cambiamenti che la riforma ha determinato in questo settore, a cominciare dal drastico allargamento del mercato delle polizze individuali, a discapito di quelle garantite agli americani dalle aziende per cui lavorano.

I giganti del settore “healthcare”, soprattutto, stanno manovrando per conquistare la fetta più grande possibile del nuovo mercato ancora fluido aperto dalla riforma di Obama. In ogni caso, come di consueto, nonostante gli annunci le fusioni porteranno con ogni probabilità ristrutturazioni delle compagnie coinvolte con conseguenti tagli dei costi e dei posti di lavoro.

Quella tra Aetna e Humana è solo la più recente operazione in un’ondata di fusioni e acquisizioni nel campo delle assicurazioni sanitarie seguita all’entrata in vigore dell’ACA nel 2010. Solo nei primi sei mesi del 2015, infatti, sono già state registrate operazioni di questo genere negli Stati Uniti per un valore stimato di quasi 300 miliardi di dollari.

di Fabrizio Casari

Un risultato straordinario e da nessuno immaginato quello che ha riconfermato ieri la Grecia di Tsipras al timone del paese. Oltre il sessanta per cento dei greci hanno detto un fragoroso NO alle minacce europee contenute nel terzo memorandum che gli strateghi tedeschi dai canini sporgenti avevano proposto. Alexis Tsipras ha così dimostrato di avere lungimiranza politica e abilità tattica, incassando un plebiscito che rafforza enormemente la sua vittoria elettorale di cinque mesi prima.

Le trattative con l’Unione Europea e con il complesso delle istituzioni internazionali politiche e finanziarie riprenderanno ora con un governo ellenico forte del consenso ottenuto e con un mandato a trattare di maggiore ampiezza rispetto a qualunque altro governante europeo.

L’Unione Europea ha subito una sconfitta cocente su due aspetti fondamentali. Il primo è quello meramente politico, visto che l’azione negoziale di Bruxelles e aggregati da sei mesi a questa parte è stata improntata dapprima nel provare ad d’impedire l’arrivo al governo di Syriza, e successivamente dal tentativo di far cadere il governo Tsipras.

Si voleva stabilire a suon di minacce fruscianti che un governo di sinistra non può avere legittimità in Europa e che comunque, ove succedesse, la coerenza tra quanto promesso in programma elettorale e gli atti di governo non è tollerabile. Lo schema è semplice: i governi nazionali non hanno più nessuna sovranità e sono governati dalla Commissione Europea, a sua volta governata da Berlino.

Il secondo aspetto è che l’impotenza politica si è accompagnata all’inconcludenza propagandistica, visto che il terrorismo mediatico scatenato contro la democrazia greca si è rivelato sterile, controproducente persino.

Il referendum, come ogni consultazione elettorale, ha fornito insieme al dato di merito un indirizzo politico chiaro. Atene non vuole uscire dall’Euro così come non è nemmeno immaginabile uscire dall’Europa, dove ci sta per storia, cultura e territorio e non per gentile concessione degli euro burocrati.

La ripresa dei negoziati non potrà non avere al centro la vera questione che giace sullo sfondo: l’insostenibilità, l’immoralità e l’illegittimità del debito greco. La richiesta di ulteriori aiuti attraverso il fondo salva stati ha come ovvia necessità quella di garantire la liquidità del sistema creditizio e la sostenibilità dei flussi correnti nel breve e medio termine, ma non comporta l’accettazione di quanto già rifiutato precedentemente.

Oggi si riuniranno Merkel e Hollande, che decideranno la strada da intraprendere, stretti tra la rabbia per la sconfitta patita e la necessità di fronteggiare le possibili tempeste sui mercati azionari e valutari e di non peggiorare ulteriormente agli occhi degli europei la percezione della Ue. Difficile immaginare se prevarranno i sentimenti di vendetta o la regionevolezza, propria dell'arte di governo, ma il rischio Grecia, ormai, riguarda forse più Bruxelles che Atene.

Perché quali che siano le opinioni sul voto referendario greco, è evidente che da ieri le ragioni di chi ritiene questo modello di Europa incompatibile con la ripresa economica e la sostenibilità sociale, oltre che il recupero della vocazione federalista del Vecchio Continente. Dal rigore di bilancio al fiscal compact, gli strumenti e i fini di una Europa a trazione tedesca e a vocazione bancaria non sono più tavole bibliche. Questo modello finanziario, fintamente ottuso ma in realtà dagli obiettivi precisi, ha cominciato, da ieri, a scricchiolare seriamente.

In fondo il significato del voto greco è qui: si può rischiare di morire ma non inginocchiarsi. Messaggio chiaro e forte che potrà essere udito anche dalla Spagna prossima al voto. La dignità può manifestarsi in forma epidemica. L’Europa pensava di piegare la Grecia, ma è la Grecia che ha cominciato a cambiare l’Europa.


di Michele Paris

Il Dipartimento della Difesa americano ha pubblicato questa settimana la nuova Strategia Militare per fronteggiare le “minacce” presenti e future con cui gli Stati Uniti sono chiamati a confrontarsi su scala globale. Il documento di 24 pagine è stato redatto dal capo di Stato Maggiore uscente, generale Martin Dempsey, e prospetta il possibile utilizzo di tutto il potenziale distruttivo a disposizione dei militari USA per contrastare qualsiasi resistenza alla propria egemonia nel pianeta.

Già dall’introduzione al rapporto appare evidente il cambiamento di prospettiva adottato dal Pentagono e dalla classe dirigente americana, dopo oltre un decennio speso a propagandare l’integralismo islamico come principale nemico da combattere. Il documento strategico diffuso mercoledì, pur continuando a riconoscere la minaccia rappresentata dalle cosiddette “organizzazioni estremiste violente”, individua rischi ancora maggiori derivanti da “stati potenzialmente avversari”.

Il rapporto propone un’assurda suddivisione del mondo tra quegli stati, che costituiscono la maggioranza, “sostenitori delle istituzioni costituite e dei processi dedicati alla prevenzione dei conflitti, che rispettano la sovranità e promuovono i diritti umani”, e gli altri che, al contrario, “cercano di modificare aspetti chiave dell’ordine internazionale e agiscono in modo tale da minacciare gli interessi della nostra sicurezza nazionale”.

Contrariamente a quanto suggeriscono la logica e la realtà storica, gli Stati Uniti si auto-includono nella prima delle due categorie. Washington calpesta infatti regolarmente ogni norma del diritto internazionale, viola la sovranità di vari paesi e agisce nel totale disprezzo dei diritti umani se ciò è necessario per il perseguimento dei propri interessi.

Anche se non sono impegnati in occupazioni o guerre, a finire nella seconda categoria sono invece altri paesi, come Russia, Iran, Corea del Nord e Cina, il cui crimine è soltanto quello di non piegarsi al volere e agli interessi della prima potenza mondiale.

Leggendo le colpe di cui si sarebbero macchiati questi quattro paesi è impossibile mancare l’ironia involontaria del Pentagono, il quale assegna a ognuno dei suoi principali rivali comportamenti illegali o da condannare attribuibili in misura ben maggiore proprio agli Stati Uniti.

Così, ad esempio, i vertici militari di un paese che ha operato un lunghissimo elenco di invasioni illegali, sostengono che la Russia “non rispetta la sovranità dei suoi vicini ed è disposta a ricorrere all’uso della forza per raggiungere i propri obiettivi”. Washington, ovvero di gran lunga la prima forza destabilizzatrice del pianeta, condanna inoltre Mosca per avere “compromesso la sicurezza regionale” e “violato numerosi trattati… internazionali”.

Il paese che detiene il maggior numero di armi nucleari e da tre decenni utilizza il fondamentalismo jihadista come prolungamento della propria politica estera critica poi l’Iran per avere condotto ricerche su armi atomiche in violazione di risoluzioni ONU e sponsorizzato gruppi terroristi in vari paesi.

L’accusa di avere lavorato alla costruzione di ordigni nucleari è rivolta anche alla Corea del Nord, paese costantemente sotto la minaccia militare americana, mentre in relazione alla Cina l’approccio del Pentagono è parzialmente diverso. Nonostante gli USA sostengano di incoraggiarne la crescita e di volerne fare un “partner per la sicurezza internazionale”, la Cina è colpevole di creare tensioni in Estremo Oriente. Il riferimento americano è in particolare alle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale, dove la stessa amministrazione Obama sta manovrando con vari paesi alleati per alzare il livello dello scontro con Pechino.

Il documento strategico del Pentagono ammette in ogni caso che nessuno di questi quattro paesi intende cercare un conflitto militare con gli Stati Uniti o i loro alleati, anche se “ognuno di essi pone serie preoccupazioni per la sicurezza” della comunità internazionale.

Ben lontani dal nutrire inquietudini per la stabilità della comunità internazionale, gli USA temono in realtà per la propria declinante superiorità militare ed economica. Più avanti, il documento del Pentagono asserisce che “gli Stati Uniti sono il paese più potente del pianeta, godono di vantaggi unici nell’ambito della tecnologia, dell’energia, delle alleanze e in quello demografico”. Oggi, però, “questi vantaggi sono minacciati”.

In sostanza, per gli Stati Uniti la stabilità, il rispetto della democrazia, dei diritti umani e del diritto internazionale sono concetti che servono a garantire un ordine planetario in cui è Washington a dettare le regole, mentre qualsiasi entità che non intende sottomettersi a esso viene identificata come una “minaccia” alla sicurezza mondiale e quindi esposta al rischio di trasformarsi in un bersaglio militare.

Sempre da questa prospettiva deriva poi la strategia delle alleanze, perseguita in funzione di accerchiamento di paesi come Cina e Russia. Nell’area “Asia-Pacifico”, in particolare, il Pentagono sanziona la cosiddetta “svolta” asiatica promossa da Obama, fondata tra l’altro sul ridispiegamento qui della maggior parte delle forze navali americane e sul “rafforzamento” dell’alleanza con Australia, Giappone, Corea del Sud, Filippine e Thailandia, ma anche sulla partnership con Nuova Zelanda, Singapore, Indonesia, Malaysia, Vietnam e Bangladesh e sul consolidamento delle relazioni con l’India.

Scenari relativamente secondari, almeno in prospettiva, sembrano dover diventare quelli di Europa e Medio Oriente. Nel primo caso, comunque, il pilastro della strategia USA rimane “il fermo impegno nei confronti degli alleati NATO”, alla luce della “recente aggressione della Russia” contro l’Ucraina. In Medio Oriente, invece, il riferimento è sempre Israele e la garanzia della sua superiorità militare sui vicini. “Partner vitali” restano anche varie dittature arabe, come Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi e Qatar.

Per il Pentagono, ad ogni modo, “a tutt’oggi le probabilità di un coinvolgimento degli Stati Uniti in una guerra con un’altra potenza planetaria sono poche sebbene in crescita”. Se ciò dovesse però accadere, “le conseguenze sarebbero immense”. Gli USA sono cioè pronti a scatenare anche una guerra nucleare per cercare di annientare i propri rivali.

Nel documento si legge infatti che, “in caso di attacco, le forze armate americane risponderebbero infliggendo un tale danno da costringere l’avversario a cessare le ostilità o impedire un’ulteriore aggressione”. Per questa ragione, e forse anche per il motivo non detto che paesi come Cina e soprattutto Russia dispongono sempre più di capacità belliche in grado di competere con quelle americane, “una guerra contro un avversario potente richiederebbe la mobilitazione totale di tutti gli strumenti della sicurezza nazionale”.

La Strategia Militare elaborata dal Pentagono quest’anno, a fronte dell’ostentazione di forza in essa contenuta, conferma l’inesorabile declino della posizione internazionale degli Stati Uniti, minacciata precisamente dalla crescita di alcuni dei paesi individuati come “pericoli” per la sicurezza globale.

La decadenza dell’impero, riflesso inevitabile della perdita di influenza del capitalismo a stelle e strisce, non comporta tuttavia un minore rischio di guerra nelle aree più calde del pianeta. Anzi, come conferma il documento appena diffuso dal Dipartimento della Difesa, gli USA sono pronti a mettere a repentaglio la stessa esistenza dell’umanità per cercare di difendere la propria posizione dominante in un mondo che tende sempre più al multipolarismo.


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