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di Michele Paris
Segnali di divisioni tra gli Stati Uniti e alcuni loro importanti alleati in Europa e in Estremo Oriente sono stati registrati nei giorni scorsi in seguito alla decisione presa dal governo britannico di aderire a un nuovo istituto finanziario internazionale ideato dalla Cina. Dopo l’annuncio di Londra, altri paesi alleati di Washington - tra cui l’Italia - hanno lasciato intendere di essere pronti a seguirne l’esempio, nonostante la partecipazione al progetto della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB) fosse stata fortemente scoraggiata dall’amministrazione Obama.
I timori americani dipendono dal fatto che l’AIIB potrebbe sminuire il ruolo di istituzioni come la Banca Mondiale o la Banca Asiatica per lo Sviluppo, tradizionalmente dominate dagli Stati Uniti. Più in generale, gli USA vedono con estrema preoccupazione gli sviluppi dei giorni scorsi in relazione all’AIIB, poiché minacciano di ostacolare la strategia di accerchiamento e isolamento della Cina nell’ambito della cosiddetta “svolta asiatica” lanciata dalla Casa Bianca.
Secondo quanto riportato dal Financial Times, la decisione definitiva del governo Cameron di diventare membro fondatore dell’AIIB sarebbe stata presa senza consultare gli Stati Uniti, con ogni probabilità per evitare ulteriori pressioni volte a scoraggiare una simile iniziativa.
Pur sostenendo pubblicamente da tempo la propria contrarietà alla partecipazione al progetto finanziario di Pechino da parte di paesi alleati, Washington martedì ha finito col dover fare buon viso a cattivo gioco. Il sottosegretario di Stato USA, Daniel Russel, nel ribadire le perplessità americane, dalla Corea del Sud ha ammesso che la decisione finale spetta esclusivamente ai singoli governi.
In un altro sgarbo per Washington, la visita e le dichiarazioni di Russel sono giunte in concomitanza con la notizia che anche Seoul starebbe valutando l’opportunità di entrare a far parte dell’AIIB.
Per quanto riguarda la Gran Bretagna, il governo Cameron non ha accennato a scuse verso gli USA, ma, almeno a parole, alcune concessioni all’alleato d’oltreoceano sono apparse evidenti. Il Cancelliere dello Scacchiere (ministro delle Finanze), George Osborne, ha affermato che l’approccio da tenere nei confronti dell’AIIB era stato oggetto di intense discussioni all’interno del G7 alla presenza del segretario al Tesoro americano, Jack Lew, e la decisione dell’esecutivo è stata perciò tutt’altro che unilaterale.
Inoltre, Londra ha ripetuto alcune delle preoccupazioni manifestate ufficialmente dagli USA in relazione alla natura dell’AIIB. La presenza della Gran Bretagna tra i membri fondatori dell’AIIB sarebbe quindi fondamentale per garantire la trasparenza dello stesso nuovo istituto finanziario nella gestione degli investimenti verso progetti di infrastrutture.
L’auspicio di Osborne circa l’adesione di altri paesi è stato poi soddisfatto dalla notizia diffusa dalla stampa australiana che il primo ministro Tony Abbott sarebbe tornato a valutare l’opportunità di partecipare all’AIIB. Un annuncio ufficiale in proposito potrebbe anzi giungere già nei prossimi giorni.
Proprio l’esempio dell’Australia permette di comprendere come gli Stati Uniti abbiano manovrato per far naufragare il progetto cinese o, quanto meno, per limitarne l’impatto. Sul finire del 2014, l’amministrazione Obama aveva infatti avviato un’intensa opera di convincimento sul governo conservatore australiano, in modo da farlo desistere dalla precedente decisione di diventare membro fondatore dell’AIIB. Nei piani degli USA, d’altra parte, l’Australia rappresenta una pedina fondamentale nella strategia di contenimento della Cina.
Il Segretario di Stato, John Kerry, quello al tesoro Lew e lo stesso presidente Obama avevano invitato personalmente Abbott ad abbandonare il progetto, così che il ministro degli Esteri australiano, Julie Bishop, aveva alla fine ratificato la marcia indietro del suo governo.
Le motivazioni ufficiali del voltafaccia avevano a che fare ufficialmente con l’assenza dei necessari “standard di investimento” previsti dal progetto AIIB, anche se in realtà le apprensioni di Australia e Stati Uniti erano legate alla possibilità che le risorse della Banca siano destinate a finanziare progetti e infrastrutture per favorire l’espansione economica e militare cinese nel continente asiatico.
Con le nuove dichiarazioni di Abbott del fine settimana, tuttavia, l’adesione dell’Australia all’AIIB sembra essere tornata all’ordine del giorno. Evidentemente, una parte della classe dirigente e del business australiano assegna un’importanza tale ai vantaggi derivanti dall’aggancio all’iniziativa della Cina - peraltro primo partner commerciale di Canberra - da far passare in secondo piano gli avvertimenti americani.
L’AIIB dovrebbe essere inaugurata entro la fine del 2015 e gli obiettivi che si pone, come già anticipato, lasciano intravedere una concorrenza diretta con la Banca Mondiale la Banca Asiatica per lo Sviluppo. Il capitale iniziare dell’AIIB sarà di 50 miliardi di dollari che serviranno a finanziarie progetti per la costruzione di infrastrutture in settori come quelli dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni, verosimilmente senza le restrizioni previste dai due organismi in cui a prevalere è la volontà di Washington.
Al momento del lancio dell’AIIB lo scorso ottobre erano rappresentati 21 paesi fondatori, tra cui Filippine, India, Kazakistan, Malaysia, Myanmar, Pakistan, Qatar, Singapore, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam. Poco dopo anche l’Indonesia ha fatto sapere di essere pronta ad aderire, mentre il numero dei potenziali membri è salito ora a 26.
I paesi che intendono far parte dell’AIIB devono sottoscrivere un “memorandum d’intesa” entro la fine di marzo, in modo da poter partecipare successivamente ai negoziati relativi alle quote di capitale e al diritto di voto.
L’esempio britannico e l’approssimarsi della scadenza del 31 marzo hanno spinto altri paesi europei a manifestare il proprio interesse per l’AIIB. Sempre il Financial Times ha rivelato che, oltre all’Italia, anche Francia e Germania sarebbero orientate in questo senso. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha confermato martedì l’intenzione del suo governo di diventare un membro fondatore dell’istituzione. L’agenzia di stampa ufficiale cinese, Xinhua, ha a sua volta indicato Svizzera e Lussemburgo come possibili candidati all’ingresso nell’AIIB.
Se i paesi che hanno confermato il proprio interesse nel nuovo istituto finanziario promosso da Pechino dovessero farne parte a tutti gli effetti, a rimanere isolato in Asia sarebbe un altro alleato di ferro degli Stati Uniti, il Giappone. Assieme a Washington, Tokyo esercita una profonda influenza sulla Banca Asiatica per lo Sviluppo, guidata tradizionalmente da un giapponese, e quasi certamente non entrerà a far parte dell’AIIB pur essendo stato invitato a farlo dalla Cina.
Il numero uno della Banca Asiatica per lo Sviluppo, Takehiko Nakao, in un’intervista ad una rivista nipponica ha però rivelato che le due istituzioni potrebbero collaborare nel prossimo futuro e le discussioni in proposito sarebbero già state avviate.
Gli sviluppi legati alla nascita della Banca Asiatica di Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB) sta portando dunque alla luce tutte le tensioni e le fratture provocate in Asia, e non solo, dal riorientamento strategico statunitense in questo continente.
L’aggressività e le pressioni americane sui vari paesi ai fini di un riallineamento in funzione anti-cinese costringono cioè sempre più i governi interessati - inclusi quelli europei - a valutare l’opportunità di conservare un’alleanza strategico-militare con Washington col rischio di vedere svanire importanti occasioni sul fronte economico, offerte appunto dalla Cina.
Simili considerazioni devono avere pesato sulla recente decisione della Gran Bretagna, anche se, in Asia come in Europa, resta da vedere fino a che punto gli alleati degli Stati Uniti saranno disposti a spingersi senza mettere a repentaglio i loro rapporti con Washington alla luce, da una parte, di un’economia globale sempre più integrata e, dall’altra, della crescente intransigenza americana nei confronti dell’ascesa cinese.
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di Fabrizio Casari
Nel Maggio del 2013, la rivista spagnola Hola! pubblica un servizio fotografico dedicato a incrementare l’aura di consenso intorno al neopresidente messicano Enrique Pena Nieto. Lui è più simile ad un modello da grandi magazzini che ad un presidente di una delle prime 20 nazioni al mondo per PIL, ma è un prodotto del network Televisa, che in Messico l'unica cosa che non determina è il meteo. Lei, Angelica Rivera, come si conviene è una attrice di telenovelas che ama farsi ritrarre nei servizi fotografici da first lady in minigonna di pelle e figlia al guinzaglio. La classe non è acqua ma fin qui sarebbe poco.
Perché alla vanità della coppia si aggiunge l’ingenuità del loro addetto stampa che non fa bene il suo mestiere ed accetta che il servizio fotografico sia realizzato nella nuova casa dove il Presidente e sua moglie vivono. E’ una casa di ultra lusso, denominata “Casa Bianca”, regalatagli da una società – la HIGA – committente della presidenza ora e dello Stato del Messico prima, quando Pena Nieto era governatore. Valore stimato per difetto? Sette milioni di dollari.
Il servizio fotografico è ripreso anche da altri giornali (compreso D, il settimanale femminile di La Repubblica che in due occasioni ha tessuto le lodi del presidente messicano) ma la stampa messicana lo rilancia più come prodotto di gossip che altro. La notizia invece è ghiotta e non sfugge a Carmen Aristegui, che scatena la sua muta di segugi a vedere quanto e cosa c’è dietro e porta a conoscenza di tutto il paese di una storia decisamente imbarazzante per il presidente Enrique Pena Nieto.
Ovvio il conflitto d’interesse e ovvia la reazione furiosa e minacciosa della presidenza, ma altrettanto ovvio come Carmen Aristegui non cede di fronte alle minacce dirette ed indirette provenienti dagli ambienti vicini alla presidenza e al PRI. Anzi rilancia, e poco tempo dopo documenta come un’altra casa, solo appena più piccola, sia stata regalata dallo stesso gruppo HIGA anche a Luis Videgaray, ministro del Tesoro del Gabinetto di Pena Nieto.
In un colloquio tra Josè Vargas, proprietario di MVS e alcuni funzionari della Presidenza messicana, si conviene che la sola maniera per la quale il presidente non si vendichi sul gruppo editoriale è che Carmen Aristegui debba chiedere scusa per i servizi giornalistici sulla casa del Presidente. Niente da fare, Carmen rifiuta d’inginocchiarsi.
Carmen, giornalista, con un suo programma dal Messico in onda sulla CNN e autrice del suo seguitissimo sito aristeguinoticias.com, si muove a 360 gradi nel panorama informativo messicano. Considerata la migliore dal punto di vista giornalistico e ferma nei suoi convincimenti, in un paese nel quale i giornalisti non venduti sono rari Carmen Aristegui rappresenta la possibilità di credere ancora nel senso più profondo della professione. L’impegno principale è comunque il notiziario del mattino che conduce dalle sei alle dieci su Radio MVS Notizie.
Il programma è re assoluto degli ascolti e si caratterizza per le inchieste e gli approfondimenti di temi nazionali ed esteri senza nessun taglio di regime. Una delle tante prove di ciò è stata la denuncia continua delle falsità nelle ricostruzioni ufficiali sul sequestro e la scomparsa dei 43 studenti della scuola Normale di Ayotzinapa, nello Stato di Guerrero, avvenuta nel dicembre scorso.
Nonostante i contratti di collaborazione, la Aristegui ha sempre mantenuto una assoluta autonomia di espressione, salvaguardando la sua credibilità con un uso del mezzo tutt’altro che gridato, con un’accurata verifica delle fonti ed una disponibilità ad accettare il confronto, sostenendo le sue inchieste con documentazioni inoppugnabili. Autorevole perché libera, ascoltata perché autorevole.
Nei giorni scorsi, è stata annunciata la nascita di una piattaforma Internet denominata Mexicoleaks, dove s’invita chi è a conoscenza di abusi ed episodi di repressione e corruzione a porre il suo contributo affinché la legge in discussione al Senato, che prevede la fine dell’obbligo di trasparenza informativa, venga sovvertita dal basso. Inoltre, la prevista riforma delle telecomunicazioni prevede un deciso restringimento degli spazi per l’editoria minore a favore dei grandi gruppi e questo incentiva ulteriormente l’iniziativa.
A questa iniziativa editoriale sia la Aristegui che la sua squadra hanno aderito. L’iniziativa di Mexicoleaks è senza precedenti e, quale che possa essere il giudizio sulla sua praticabilità, ottiene come risultato di far saltare dalla sedia il gruppo editoriale MVS notizie per il quale Carmen e la sua squadra lavoravano.
E' infatti questa la motivazione formale con la quale MVS spiega il licenziamento di Irving Huerta e Daniel Lizárraga, quest’ultimo caporedattore del gruppo, che vengono licenziati per aver svolto inchieste senza l’autorizzazione del gruppo editoriale e per “mancanza di etica”! Ora, a parte l’ovvia considerazione per la quale i giornalisti informano i loro direttori e non gli editori delle inchieste in corso, c’è da essere sicuri che, ove l’avessero fatto, MVS avrebbe negato l’autorizzazione. In nessun caso la proprietà di MVS ha intenzione di scontrarsi con il presidente e con il suo partito, il PRI. Quanto all’etica il concetto appare stravagante: il colpevole è chi commette un abuso o chi lo denuncia?
Agli editori che gli proponevano di continuare a lavorare, Carmen Aristegui ha risposto che questo sarebbe stato possibile solo con il ritorno in servizio dei due giornalisti licenziati ed è a questo punto che, nonostante le prese di posizione a suo favore espresse in ogni luogo del web, la MVS ha deciso di licenziare anche la Aristegui.
Non è certo la prima volta che succede nella carriera di Carmen. Venne licenziata da W radio, di proprietà di Televisa e del Gruppo Prisa (spagnolo, proprietario di El Pais) nel 2008, a causa del rifiuto da parte di Carmen a farsi seppellire da sport commerciali il suo programma. Quindi, nel 2011, la stessa MVS, per la quale già allora lavorava, la licenziò per aver domandato in diretta al Presidente Calderon, un’altra macchietta della tragicomica storia politica messicana, se aveva problemi con gli alcolici (cosa risaputa in tutto il paese e nelle diverse cancellerie internazionali). Una presa di posizione massiccia da parte di colleghi e maestranze obbligò MVS a tornare sui suoi passi e riassumerla.
Il provvedimento, benchè si ritiene fosse stato preparato da tempo, sembra avere però una sua valenza preventiva, dal momento che la squadra di Carmen Aristegui stava andando a fondo con una nuova inchiesta sull’assassinio di 22 persone nella comunità di Tlatlaya, nello Stato del Messico. In un primo momento le autorità riferirono che la strage avvenne a seguito di uno scontro tra una banda di sequestratori e la polizia dello Stato, ma in seguito la Commissione Nazionale per i Diritti Umani denunciò come i 22 furono fucilati dai militari.
La squadra di Aristegui stava per rendere pubblici documenti e testimonianze che avrebbero provocato un altro terremoto nel sistema. Ardire insopportabile quello di Carmen Aristegui e della sua redazione: in Messico è consuetudine la pratica della “pulizia sociale” da parte delle autorità, ma è altrettanto consueta la pratica del silenzio. Disobbedire alla seconda, purtroppo, può condurre alla prima, come insegnano i numerosi giornalisti uccisi e scomparsi.
La giornalista ha fatto presente che ricorrerà al tribunale per l’illegittimità del licenziamento e per MVS si annuncia un periodo difficile. I contratti pubblicitari dello spazio di Carmen saranno annullati (anche se il PRI provvederà a rifondere) e l’ondata di protesta nell’opinione pubblica messicana (su change.org già 166.000 firme) ridurranno drasticamente l'immagine editoriale del gruppo.
Si potrebbe pensare che quella del gruppo MVS sia stata dunque un’operazione poco intelligente, che costerà denaro e prestigio, ma forse è stata soprattutto un’operazione in qualche modo dovuta. Perché in un paese dove quello che non è corrotto è solo perché non vale la pena corromperlo, il giornalismo che non si compra va messo a tacere. In un modo o nell’altro.
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di Michele Paris
I tre principali rappresentanti dell’apparato diplomatico-militare degli Stati Uniti sono apparsi contemporaneamente mercoledì di fronte alla commissione Esteri del Senato nell’ambito del dibattito in corso a Washington sulla nuova Autorizzazione all’Uso della Forza Militare (AUMF) richiesta dall’amministrazione Obama per proseguire la guerra contro lo Stato Islamico (ISIS) in Medio Oriente.
Il segretario di Stato, John Kerry, il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, e il capo di Stato Maggiore, Martin Dempsey, hanno risposto alle domande dei senatori americani nel tentativo di convincerli ad approvare la richiesta avanzata dall’inquilino della Casa Bianca, tenendo però a sottolineare che, con o senza una nuova autorizzazione, le operazioni militari in Iraq e in Siria proseguiranno indisturbate.
Infatti, i bombardamenti ufficialmente contro le postazioni dell’ISIS in questi due paesi proseguono dall’agosto scorso e gli Stati Uniti dispongono già di circa tremila “addestratori” in territorio iracheno. Una nuova AUMF, per lo meno ai fini operativi del conflitto in corso, appare perciò del tutto superflua, visto che Obama aveva preso la decisione di scatenare una nuova guerra in Medio Oriente sulla base di un’autorizzazione all’uso della forza già in vigore, quella approvata dal Congresso nel 2001 all’indomani degli attentati dell’11 settembre e che era servita ufficialmente per dare la caccia ai membri di al-Qaeda.
La nuova AUMF abolirebbe però una seconda autorizzazione all’uso della forza, quella del 2002 che permise all’amministrazione Bush di invadere illegalmente l’Iraq di Saddam Hussein. Nella richiesta di Obama al Congresso vengono fissati alcuni paletti all’impiego delle forze armate molto facilmente aggirabili, per quanto riguarda sia i limiti temporali - fissati in tre anni, anche se prorogabili - sia l’esclusione del ricorso a truppe di terra per “operazioni di combattimento durature e di natura offensiva”.
La posizione dell’amministrazione Obama in relazione al senso di un’autorizzazione fondamentalmente superflua è stata esposta mercoledì dal segretario Kerry, quando ha sostenuto che l’approvazione di una nuova AUMF sarebbe soltanto una dimostrazione di unità da parte delle istituzioni americane di fronte alla minaccia dell’ISIS. Inoltre, un voto del Congresso servirebbe a rassicurare gli alleati di Washington che gli Stati Uniti appoggiano interamente la guerra all’ultima incarnazionale del fondamentalismo sunnita, anche se, come ha ammesso il generale Dempsey, dal punto di vista pratico non cambierebbe una sola virgola.
Il riconoscimento da parte dei membri della commissione Esteri del Senato dell’inutilità della nuova AUMF, assieme all’ammissione di Kerry, Carter e Dempsey, rende dunque particolarmente inquietante lo scenario che si è venuto a creare negli Stati Uniti riguardo la guerra all’ISIS.
I tre uomini seduti di fronte ai rappresentati eletti del popolo americano hanno di fatto comunicato a questi ultimi che la loro opinione e il loro voto non contano nulla. Tutto ciò che il Congresso potrebbe fare in merito alla guerra in atto è avallare la decisione presa sette mesi fa dal presidente. Se, invece, la nuova AUMF dovesse essere bocciata o nemmeno sottoposta a votazione, ciò non avrebbe comunque alcun effetto sulle decisioni prese alla Casa Bianca.
Questo stato dei fatti lo ha perfettamente riassuno il presidente della stessa commissione, il senatore repubblicano Bob Corker, il quale appena prima dell’apertura dell’audizione di mercoledì ha ammesso che, “come tutti sappiamo, sia che approviamo o non approviamo una AUMF, le conseguenze su ciò che sta accadendo sul campo [in Iraq e in Siria] saranno pari a zero”.
Questa situazione, più appropriata a una farsa che a un’audizione del Senato su questioni di guerra, non giunge esattamente inaspettata, ma è la logica conseguenza del deterioramento del clima democratico negli USA a cui si è assistito nell’ultimo decennio.
Per comprendere lo stato avanzato di questo processo basti pensare al fatto che lo stesso presidente Bush si era sentito in dovere di chiedere autorizzazioni preventive al Congresso prima di lanciare le invasioni di Afghanistan e Iraq. L’amministrazione repubblicana, sia pure basando le proprie istanze su menzogne e inganni, operava cioè in uno scenario nel quale appariva necessario quanto meno il rispetto delle formalità costituzionali.
La liquidazione anche di queste apparenze rappresenta invece l’aspetto cruciale dell’amministrazione Obama, durante la quale si è assistito a un’accelerazione dello smantellamento delle garanzie costituzionali negli Stati Uniti. Nell’America di Obama, infatti, il presidente decide in maniera segreta e senza passare attraverso alcun procedimento giudiziario l’assassinio mirato di sospettati di terrorismo - cittadini USA inclusi - in qualsiasi parte del pianeta.
Allo stesso modo, sul fronte domestico è ormai all’ordine del giorno la militarizzazione delle forze di polizia che, a loro volta, hanno facoltà di uccidere impunemente cittadini disarmati e inoffensivi. Le manifestazioni pacifiche di protesta contro gli abusi del governo o delle stesse forze di polizia sono accolte spesso con metodi repressivi degni di una dittatura, mentre virtualmente ogni abitante della terra è sottoposto alla sorveglianza continua del governo americano.
Una simile deriva è determinata dal declino irreversibile della posizione degli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale, per far fronte alla quale la classe dirigente americana è costretta a ricorrere a metodi sempre più autoritari che sarebbero impossibili da mettere in atto rispettando le norme della democrazia.
Per quanto riguarda l’autorizzazione all’uso della forza militare in discussione, la sua approvazione appare oggi incerta, non perché membri del Congresso o rappresentanti dei media “mainstream” abbiano intenzione di sollevare un dibattito pubblico attorno al senso del provvedimento nell’ambito della deriva anti-democratica negli Stati Uniti.
La ragione dell’incertezza sulla sorte dell’AUMF richiesta da Obama è da ricercare piuttosto nelle opinioni contrastanti espresse da repubblicani e democratici, con i primi che ritengono l’autorizzazione troppo restrittiva dei poteri di guerra attribuiti al presidente e i secondi che, al contrario, la valutano eccessivamente sbilanciata a favore della Casa Bianca.
Anche coloro che criticano l’AUMF, in ogni caso, non sono contrari alle avventure belliche dell’imperialismo USA, bensì temono il radicalizzarsi dell’opposizione nel paese a eventuali nuove guerre su vasta scala come in Afghanistan e in Iraq. Inoltre, una parte dell’establishmenti di Washington ritiene con ogni probabilità che le risorse militari americane debbano essere utilizzate in conflitti strategicamente più importanti nel prossimo futuro, viste le crescenti tensioni con Russia e Cina.
La discussione sull’AUMF mette infine in luce ancora una volta l’indescrivibile ipocrisia del governo americano e, parallelamente, il gigantesco inganno della “guerra al terrore”. L’amministrazione Obama è infatti impegnata a chiedere l’approvazione di un provvedimento che assicurerebbe poteri di guerra pressoché illimitati, ancorché sostanzialmente già a disposizione del presidente, sfruttando la minaccia di un organismo - l’ISIS - che appare a tutti gli effetti come una creatura degli stessi Stati Uniti e dei loro alleati nel mondo arabo.
Che l’ISIS sia o sia stato uno strumento della politica estera americana oltre a risultare evidente dai fatti di questi ultimi anni è confermato in maniera più o meno diretta da vari esponenti dell’establishment di Washington.
Tra i più espliciti in questo senso era stato qualche mese fa il generale Wesley Clark, ex comandante delle forze alleate nella guerra in Kosovo, ex comandante supremo della NATO in Europa e per un breve periodo candidato alla presidenza per i democratici nel 2004. Secondo Clark, l’ISIS è stato creato e finanziato precisamente dai “più stretti alleati” degli Stati Uniti, al fine di “combattere Hezbollah” in Libano.
Gli alleati a cui accennava Clark sono le monarchie assolute del Golfo Persico, in prima fila nel fornire denaro e armi a formazioni jihadiste anche e soprattutto per rovesciare Bashar al- Assad in Siria, ma la sua ammissione tende a minimizzare, se non a occultare del tutto, il ruolo svolto dagli Stati Uniti in queste operazioni.
Un simile atteggiamento lo aveva tenuto poco dopo le dichiarazioni di Clark anche lo stesso generale Dempsey, il quale in un’audizione al Congresso aveva ammesso che i principali alleati arabi degli USA avevano finanziato l’ISIS.
A ottobre dello scorso anno, poi, il vice-presidente americano, Joe Biden, era finito al centro di una polemica per avere detto la pura verità sullo Stato Islamico, cioè che paesi come Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi avevano “riversato centinaia di milioni di dollari e migliaia di tonnellate di armi su chiunque combatteva Assad”, inclusi “elementi estremisti” come l’ISIS. Gli Stati Uniti, però, non sono stati spettatori innocenti di questo crimine, ma attori protagonisti.
Per qualcuno in Medio Oriente, quella tra Stati Uniti e ISIS sarebbe tuttora una vera collaborazione clandestina, mascherata dietro a una guerra inefficace. Nelle scorse settimane, vari giornali hanno riportato ad esempio le denunce di politici iracheni in relazione a presunti lanci di carichi di armi da parte di velivoli americani in zone controllate dall’ISIS. Per Washington, questi episodi sarebbero dovuti a errori, poiché le armi finite nelle mani dell’ISIS erano destinate alle milizie alleate nella guerra contro i jihadisti.
I sospetti restano tuttavia molto forti e accentuati oltretutto dalla piega che sembra essere sul punto di prendere la guerra in corso, soprattutto in Siria. Di ciò si è avuta indicazione proprio nell’audizione di Kerry, Carter e Dempsey nella giornata di mercoledì. A un certo punto della discussione, il senatore Corker ha chiesto se l’autorizzazione all’uso della forza militare presentata da Obama potrebbe includere la difesa dei “ribelli” siriani addestrati dagli Stati Uniti nel caso finissero sotto attacco delle forze del regime di Damasco.
Il generale Dempsey ha escluso questa eventualità, ma quando Corker ha avanzato l’ipotesi di aggiungere tale clausola all’AUMF, nessuno dei tre ha mosso una qualche obiezione. Anzi, lo stesso Dempsey e il segretario alla Difesa Carter, nel discutere del programma di addestramento di “ribelli affidabili” che sta per essere lanciato in Giordania e in Turchia - ufficialmente per preparare una forza efficace da contrapporre all’ISIS - hanno affermato che una condizione fondamentale per la sua riuscita sarà appunto il sostegno militare che a essi dovrà essere fornito dagli Stati Uniti.
Con la giustificazione di dovere difendere i “ribelli” da Assad, perciò, gli USA potrebbero a breve effettuare bombardamenti contro le forze governative oppure imporre una no-fly zone nel nord della Siria, cambiando perciò di fatto l’obiettivo del coinvolgimento militare, rappresentato fin dall’inizio, anche se non ammesso apertamente, proprio dal regime di Damasco. Il tutto grazie all’opportuna minaccia rappresentata dallo Stato Islamico.
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di Fabrizio Casari
Appare come una informale ma sostanziale dichiarazione di guerra al Venezuela, quella insita nel discorso che Barak Obama ha tenuto pochi giorni orsono. Il presidente statunitense, dopo aver lanciato accuse di vario genere e nessun senso al governo di Caracas, ha affermato come il Venezuela sia una “minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.
Il senso della misura e quello delle proporzioni difettano non poco al presidente USA, visto che in nessun momento il Venezuela ha minacciato gli Stati Uniti, mentre invece sono proprio gli Stati Uniti ad agire pubblicamente sul fronte politico, diplomatico e commerciale contro il Venezuela e, in forma coperta, con l’organizzazione e il finanziamento di ogni operazione di destabilizzazione del paese sudamericano.
Va ricordato che sono proprio gli Stati Uniti che hanno organizzato il colpo di stato poi sconfitto nel 2002 per spodestare Chavez e sono di nuovo e ancora loro ad aver organizzato il secondo tentativo di colpo di stato del Febbraio scorso, scoperto e smantellato dai servizi di intelligence del Venezuela. Quest’ultimo piano prevedeva il bombardamento del palazzo presidenziale di Miraflores e della sede del network latinoamericano Tele Sur, ma si è concluso con l’arresto dei congiurati e la publicizzazione del piano ordito dalla CIA e dall’opposizione di ultradestra.
E’ in qualche modo figlia di questa ennesima sconfitta della CIA la sortita colonialista di Barak Obama, che a fronte di misure unilaterali antivenezuelane ha dovuto incassare misure di reciprocità da parte di Caracas. In questo senso il discorsetto di Obama ha rappresentato l’ultima grave dimostrazione di come Washington cerchi con ogni mezzo di disfarsi del governo bolivariano, mettendo così in luce quali siano i reali intenti che si celano dietro la retorica dei diritti umani con la quale il loro inetto presidente ha riempito di guerre e colpi di stato tre continenti su cinque in soli sei anni, causando una destabilizzazione internazionale senza precedenti.
Ma sarebbe riduttivo imputare la sortita di Obama ad un regurgito neocolonialista; piuttosto va letto nel contesto del quadro politico venezuelano. La destra fascistoide venezuelana, sostenuta dalla Casa Bianca e dai paramilitari colombiani che rappresentano la mano armata di Washington nella regione, non riesce ad avere la meglio sul governo guidato da Nicolas Maduro e la sostanziale divisione interna dell’opposizione obbliga in qualche modo gli USA a forzare per una soluzione rapida benché cruenta.
Anche perché nonostante le oggettive difficoltà dell’Esecutivo a rimettere il Paese nella corsia di sorpasso, il consenso popolare con il governo Maduro resta alto. La crisi pesa moltissimo. La caduta per volontà statunitense del prezzo del petrolio ha inciso pesantemente nella bilancia commerciale del Venezuela, tra i primi esportatori di greggio al mondo. Inoltre, la patria di Bolivar e Chavez è fatta oggetto di una campagna internazionale speculativa e criminale, alla quale poi si sono sommati errori governativi da non occultare, ma le ultime misure adottate dal governo potrebbero davvero cominciare ad invertire la rotta e l’opposizione rischierebbe così di veder cadere nel vuoto gli appelli a cacciare i governo con l‘occupazione delle strade.
E’ una opposizione che cerca di riproporre la stagione delle “guarimbas” con le quali nel 2014 misero a ferro e fuoco buona parte del paese, lasciando un saldo pesante di morti e distruzioni, ai quali si sono aggiunti poi agguati mortali ad esponenti filogovernativi. Non era in nessun modo pensabile che il governo rimanesse a guardare e così è stato.
Le indagini della polizia e le risultanze delle inchieste della magistratura determinarono alcuni arresti, tra i quali quello di Leopoldo Lopez, autentico nazista a capo della frangia più estrema della destra, ma hanno anche prodotto una crisi interna all’opposizione che nella su quota maggioritaria ritiene l’idea della spallata in piazza al governo una pratica controproducente e destinata alla sconfitta. La stessa “mesa de dialogo”, nata su iniziativa vaticana e dell’Unasur, ha prodotto una divergenza strategica importante tra i diversi settori della destra.
Anche in seguito a questa divergenza, Leopoldo Lopez, che agisce in comproprietà con Maria Cristina Machado, il volto isterico dell’opposizione, non gode dell’appoggio politico di Enrique Capriles, uomo dell’imprenditoria e referente degli USA e della gerarchia ecclesiale, già candidato unico dell’opposizione contro Chavez prima e Maduro poi. Peraltro il tentativo di Lopez di assumere la leadership dell’opposizione non è gradito a Capriles, che ritiene le posizioni di Lopez indigeribili per buona parte della stessa opposizione al chavismo e considera lui e la Machado una via per la sconfitta sicura.
Non si tratta di divergenze superabili, di marciare divisi per colpire uniti: ci sono interessi e personaggi distinti e distanti che determinano le contraddizioni interne all’opposizione; non a caso l’ultimo appello per la cacciata del governo non ha visto le firme di Capriles a dei suoi. In questo stallo delle opposizioni e in questa tenuta del governo, gli Stati Uniti vedono il rischio che le misure adottate dal governo stabilizzino il paese e avvertono dunque il bisogno di agire subito. Come? Premendo sull’acceleratore dello scontro con Caracas, innescando un vero e proprio embargo di prodotti e delle attività finanziarie, nella speranza di determinare una rapida escalation della crisi e impedire che il governo Maduro possa - con le misure a sostegno dell’economia - portare il quadro economico del paese verso un netto miglioramento e garantirsi così il consenso elettorale alle elezioni previste per quest’anno.
L’innalzamento del Venezuela a “minaccia grave per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” non è però da sottovalutare e risponde anche ad una serie di obiettivi di politica interna del gigante del Nord. Una definizione di questa natura comporta, sotto il profilo legale, una maggiore libertà di azione per la Casa Bianca, che può rafforzare ulteriormente il sostegno di ogni tipo alle Covert Action della CIA contro il Venezuela.
Sul piano interno rappresenta il tentativo di recuperare il dialogo con i repubblicani, bruscamente interrotto dall’invito a Netanyahu al Senato e l’intenzione di offrire alla gusanerìa venezuelana negli USA un’interlocuzione diretta con la Casa Bianca che in qualche modo riequilibri lo strappo intervenuto tra l'Amministrazione Obama e comunità di latinoamericani residenti a seguito delle aperture a Cuba.
La solidarietà latinoamericana con il Venezuela non si è fatta attendere. Non solo Cuba, Nicaragua, Bolivia, Euador, Argentina, ma persino l’OEA, attraverso il suo segretario Jorge Insulza (non certo un amico di Caracas) hanno denunciato l’assurdità delle affermazioni di Obama e la grave ingerenza negli affari interni di un paese sovrano.
L’impressione diffusa è che la manifestazione di sindrome coloniale sia stata fine a se stessa, utile a sostenere misure restrittive contro dirigenti e capitali venezuelani altrimenti inspiegabili, ma c’è da dire che la capacità di Obama di trasformare in tragedia ogni dossier di politica estera spinge verso una estrema cautela e vigilanza.
Intanto, se l’intenzione di Obama era quella di intimorire il governo Maduro o allontanare il consenso popolare, il risultato è stato esattamente l’opposto, giacché sentirsi minacciati da un paese straniero ha rinvigorito il sentimento nazionalista diffusissimo nel paese, arrivando ad incrementare il consenso al governo. Se il tentativo era quello d’isolare Caracas la risposta è stata contundente: la prossima settimana l’Unasur si riunirà a livelli presidenziali per rigettare la provocazione statunitense.
Non a caso l’edizione di giovedì del New York Times, pure aveva esortato Obama a muoversi contro Caracas, ha duramente criticato il presidente, accusandolo di dilettantismo e di aver messo in moto un meccanismo che produrrà risultati opposti a quelli voluti. Praticamente un copione identico a quello recitato per 55 anni con Cuba, dal quale sembrava che Obama avesse imparato l’inutilità. Ma il riflesso di Pavlov è duro da curare.
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di Michele Paris
Gli omicidi compiuti da agenti di polizia negli Stati Uniti continuano a susseguirsi a un ritmo vertiginoso, senza che praticamente nessuno dei responsabili sia oggetto di seri provvedimenti disciplinari nonostante le vittime risultino frequentemente disarmate e relativamente inoffensive. I casi più recenti sono stati registrati all’indomani della decisione presa dal Dipartimento di Giustizia americano - cioè dall’amministrazione Obama - di non incriminare formalmente l’agente Darren Wilson della polizia di Ferguson, responsabile dell’assassinio del 18enne di colore Michael Brown lo scorso mese di agosto.
Brown era disarmato al momento della sua morte e la vicenda aveva scatenato pacifiche manifestazioni di protesta nella cittadina del Missouri, puntualmente accolte dalla reazione violenta delle forze dell’ordine.
Nuove manifestazioni contro i metodi della polizia sono andate in scena mercoledì a Madison, nel Wisconsin, dove già un paio di giorni prima alcune centinaia di persone avevano occupato la sede del parlamento statale in seguito alla morte lo scorso venerdì del 19enne Tony Terrell Robinson.
La tragedia era avvenuta in seguito a una chiamata al 911 per segnalare la presenza di un uomo di colore che stava creando una situazione di potenziale pericolo lanciandosi nel traffico delle auto in corsa. Robinson era stato allora inseguito da un agente all’interno di un’abitazione, dove è poi avvenuto uno scontro che si è concluso con l’esplosione di colpi di arma da fuoco e con la morte del giovane disarmato dopo essere stato trasportato in ospedale.
Sempre venerdì scorso, in un sobborgo di Atlanta, in Georgia, è stato registrato un altro decesso per opera della polizia. Qui la vittima è stata identificata in Anthony Hill, 27enne con problemi mentali. L’uomo era un veterano dell’aviazione militare ed era conosciuto e apprezzato dagli abitanti del suo quartiere.
Anche in questo caso all’assassinio sono seguite proteste e richieste di chiarimenti da parte dei residenti della località di Chamblee, in particolare riguardo la possibilità del poliziotto responsabile di utilizzare metodi non letali per contrastare la presunta minaccia rappresentata da Hill.
L’uomo, in stato confusionale, aveva bussato alla porta di varie abitazioni ed era stato visto contorcersi sul terreno completamente nudo. All’arrivo della polizia, Hill si trovava in un parcheggio e, secondo la ricostruzione ufficiale, avrebbe cercato di aggredire un agente, il quale ha estratto la sua arma e ha fatto fuoco uccidendolo sul colpo.
Secondo alcuni testimoni citati dai giornali americani, invece, Hill è stato ucciso mentre aveva le mani alzate e non ci sarebbe stata alcuna minaccia di contatto fisico tra lui e l’agente di polizia. Per ammissione del dipartimento della contea di DeKalb, lo stesso agente era equipaggiato con strumenti alternativi per fermare un uomo evidentemente disarmato, incluso un “taser” e dello spray urticante.
La terza vittima registrata venerdì 6 marzo è stato un altro uomo di colore, Naeschylus Vinzant, 37 anni e residente a Aurora, nel Colorado. I dettagli della sua morte non sono del tutto chiari ma sarebbe stato colpito dal fuoco di una squadra di agenti dei corpi speciali (SWAT) con l’incarico di notificare all’uomo un ordine di arresto per rapina e sequestro di persona.
Per la portavoce della polizia di Aurora, Vinzant era “armato e pericoloso”, tuttavia non è stata in grado di descrivere il tipo di arma che avrebbe avuto con sé né le ragioni che hanno portato alla sua morte.
Questi e altri episodi hanno portato il totale dei decessi per mano della polizia negli Stati Uniti dall’inizio dell’anno a ben 210, almeno secondo le statistiche raccolte dal sito web killedbypolice.net e che non fanno distinzione tra uccisioni “motivate” o per uso eccessivo della forza. Dall’uno all’11 marzo le morti sono state già 34, di cui 7 solo nel primo giorno del mese. La stessa fonte indica per l’anno 2014 un totale addirittura di 1.102 vittime della violenza della polizia USA, mentre dal primo maggio al 31 dicembre dell’anno precedente erano state 768.
Scorrendo l’elenco dei morti seguiti a un intervento della polizia appaiono innumerevoli i casi nei quali l’uso della forza appare chiaramente sproporzionato rispetto alla pericolosità della situazione. Sconcertante era stato ad esempio il caso di un senzatetto ucciso a Los Angeles il primo marzo scorso.
L’aggressione da parte di alcuni agenti di polizia ai danni di Charley Keunang, detto “Africa”, era stata ripresa da un video girato da un testimone e successivamente circolato in rete. “Africa” era stato prima ammanettato, poi scagliato a terra e colpito da una raffica di colpi di arma da fuoco.
Le indagini interne alla polizia sono ancora in corso, anche se la presenza di immagini molto chiare che descrivono l’accaduto non fanno sperare in un esito diverso dai precedenti casi, chiusi con lo scagionamento degli agenti responsabili.
Filmati girati dai testimoni di vari episodi di violenza non hanno infatti portato a nulla in passato, come nel caso di Eric Garner, un venditore abusivo di sigarette a Staten Island, New York, soffocato da un agente di polizia nel luglio dello scorso anno nel corso di un tentativo di arresto.
Un’altra ripresa di una telecamera di sorveglianza aveva poi mostrato nel mese di novembre la morte del 12enne Tamir Rice a Cleveland, nell’Ohio. Questa vicenda aveva causato parecchio scalpore non solo negli Stati Uniti. Il ragazzino di colore stava maneggiando una pistola giocattolo in un parco pubblico della città ed è stato ucciso esattamente un secondo dopo l’arrivo di un agente di polizia chiamato a intervenire con la propria auto di pattuglia.
Incredibilmente, nei documenti depositati in tribunale dalle autorità della città di Cleveland in risposta alla causa legale intentata dalla famiglia della vittima non solo veniva respinta qualsiasi responsabilità da parte della polizia, ma si sosteneva nero su bianco che lo stesso ragazzo di 12 anni era responsabile della propria morte. Tamir Rice, cioè, non aveva prestato “sufficiente attenzione al fine di evitare danni a suo carico” e, perciò, “i danni richiesti dalla sua famiglia erano stati causati dalle sue stesse azioni”, così che la città di Cleveland risulterebbe “legalmente immune” da ogni responsabilità.
I numerosissimi episodi di questo genere confermano dunque come la violenza molto spesso indiscriminata della polizia americana non sia dovuta alla semplice presenza di “mele marce” all’interno di alcuni dipartimenti del paese.
Questa versione viene propagandata dagli stessi vertici della polizia quando si verificano decessi come quelli descritti in precedenza, ma anche dall’amministrazione Obama, come è accaduto la scorsa settimana quando il Dipartimento di Giustizia ha diffuso un rapporto sugli abusi e gli eccessi del dipartimento di Ferguson, commessi soprattutto ai danni dei cittadini di colore.
Un fenomeno così diffuso e in aumento riflette in realtà una situazione sociale esplosiva negli Stati Uniti, per controllare la quale le forze dell’ordine ricorrono sempre più a metodi repressivi e sommari - sperimentati dai militari nelle avventure belliche oltreoceano - con la certezza che gli agenti responsabili saranno protetti da un sistema giudiziario fin troppo compiacente.
Le morti causate dalla polizia avvengono d’altra parte in larghissima maggioranza in località o quartieri degradati e popolati dalle classi più colpite dalla crisi economica e posizionate irrimediabilmente alla base di una piramide sociale che vede allontanarsi sempre più il proprio ristrettissimo vertice.
Il fattore razziale, infine, è indubbiamente da tenere in considerazione nell’analizzare gli assassini commessi dalla polizia, le cui vittime sono infatti prevalentemente di colore o ispanici. L’elemento più importare per comprendere l’ondata repressiva che vede protagoniste le forze dell’ordine americane rimane però un altro e molto meno discusso pubblicamente, vale a dire le colossali differenze di classe prodotte dalla crisi del capitalismo a stelle e strisce.