di Michele Paris

A pochi giorni dal voto del Congresso americano sull’accordo per il nucleare iraniano, raggiunto a Vienna lo scorso mese di luglio, i leader democratici e l’amministrazione Obama stanno producendo il massimo sforzo per raccogliere i consensi necessari all’interno della delegazione del loro partito e neutralizzare gli effetti di un voto contrario praticamente certo da parte della maggioranza repubblicana.

La Camera e il Senato di Washington dovrebbero esprimersi sull’intesa che ha sbloccato lo stallo attorno al programma nucleare della Repubblica Islamica pochi giorni prima dell’ultima data utile, prevista per il 17 settembre.

L’accordo, siglato dagli USA e dagli altri paesi che formano il gruppo dei P5+1 (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania), non è in realtà un trattato formale sul quale il Congresso USA è chiamato per legge a dare la propria approvazione. Il voto di settembre è invece la conseguenza di un compromesso raggiunto mesi fa tra il presidente Obama e la leadership repubblicana, fortemente contraria all’accordo e ben decisa a rivendicare il diritto di bocciarlo o ratificarlo in cambio dell’astensione al boicottaggio dello sforzo diplomatico promosso dalla Casa Bianca.

Anche se molti deputati e senatori non hanno ancora manifestato pubblicamente la propria intenzione di voto, i numeri sembrano al momento essere favorevoli a Obama e, quindi, alla sostanziale ratifica dell’accordo. L’approvazione del testo negoziato a Vienna difficilmente potrà però risparmiare un imbarazzo politico al presidente.

La maggioranza del Congresso respingerà infatti l’accordo sul nucleare, il quale verrà salvato soltanto dal veto di Obama o, tutt’al più, da un consolidato ostacolo procedurale previsto dalle regole del Senato (“filibuster”).

In quest’ultimo caso, l’imbarazzo per Obama sarebbe tutto sommato relativo, visto che formalmente non ci sarebbe un voto contrario, anche se saranno necessari almeno 41 voti su 100 a favore dell’accordo. Dal momento che tutti i senatori repubblicani dovrebbero votare contro e che i democratici occupano 46 seggi alla camera alta del Congresso, la Casa Bianca può permettersi di perdere cinque senatori e riuscire comunque a impedire la bocciatura dell’accordo.

Se i repubblicani dovessero invece spuntarla e far passare una risoluzione di condanna in entrambe le camere, privando il presidente dell’autorità di sospendere le sanzioni contro l’Iran approvate dal Congresso, come già ricordato Obama sarà costretto a ricorrere al veto e la Casa Bianca dovrà garantirsi l’appoggio di almeno 34 senatori per evitare che esso venga annullato con un voto dei due terzi dei membri di Camera e Senato.

Finora, solo due senatori democratici hanno dichiarato pubblicamente di voler votare contro l’accordo: il probabile prossimo leader del partito al Senato, Chuck Schumer (New York), e Robert Menendez (New Jersey). Tra i favorevoli spicca invece il leader di minoranza, Harry Reid (Nevada), la cui decisione annunciata domenica scorsa potrebbe incoraggiare altri colleghi a seguirne l’esempio.

Come ha spiegato martedì il New York Times, la garanzia di un voto favorevole all’accordo data recentemente da senatori democratici provenienti da stati dominati politicamente dai repubblicani – come Joe Donnelly dell’Indiana o Claire McCaskill del Missouri – ha fatto aumentare sensibilmente le probabilità di un esito positivo per la Casa Bianca.

Le attenzioni sono concentrate in larga misura sul Senato, poiché alla Camera, dove non è prevista la clausola del “filibuster”, gli equilibri sembrano ormai consolidati. Qui, la netta maggioranza repubblicana assicurerà la bocciatura dell’accordo sul nucleare ma le possibilità di mettere assieme il numero di voti necessari a cancellare il veto presidenziale appaiono attualmente piuttosto scarse.

Ai repubblicani servirebbero 146 voti di deputati democratici, ma qualche mese fa ben 150 membri del partito di Obama alla Camera avevano sottoscritto una lettera aperta a favore dell’accordo. A tutt’oggi, da questo gruppo non si segnalano defezioni, mentre una manciata di altri deputati democratici ha nel frattempo dichiarato il proprio appoggio all’intesa raggiunta a Vienna.

I timori che i vertici democratici nutrono in vista del voto di metà settembre sono legati per lo più alla possibilità che i repubblicani possano collegare alla risoluzione relativa all’accordo con l’Iran alcuni emendamenti politicamente difficili da respingere, come la richiesta che Teheran riconosca Israele o che vengano liberati alcuni cittadini americani detenuti nelle carceri della Repubblica Islamica.

Eventuali emendamenti relativi a Israele risulterebbero problematici per vari senatori che tradizionalmente sono molto legati alla lobby ebraica, protagonista in questi mesi a Washington di un’accesa quanto dispendiosa campagna contro l’accordo.

Alcuni senatori ufficialmente ancora indecisi, perciò, sembrano intenzionati a chiedere rassicurazioni alla Casa Bianca, al fine di garantire la superiorità militare di Israele in Medio Oriente o la difesa dell’alleato da una fantomatica minaccia militare iraniana.

Le prospettive di sopravvivenza dei frutti di una trattativa diplomatica internazionale durata anni non sono ad ogni modo legate soltanto alle manovre o ai calcoli aritmetici dei membri del Congresso americano. I contrasti osservabili a Washington su un accordo dalle potenziali conseguenze strategiche enormi riflettono piuttosto le divisioni esistenti all’interno della classe dirigente d’oltreoceano circa l’approccio da tenere nei confronti dell’Iran e, ancor più, sulle prospettive del declinante imperialismo statunitense.

Se il Partito Repubblicano, spostato sempre più a destra, continua a rappresentare in larghissima misura i sentimenti irriducibilmente guerrafondai dell’apparato militare e dell’intelligence, nonché del mondo degli affari che ruota attorno ad esso, buona parte di quello democratico predilige un atteggiamento parzialmente diverso.

Questa inclinazione risulta prevalente all’interno dell’amministrazione Obama e, pur non escludendo in nessun modo il ricorso all’aggressione militare, almeno per quanto riguarda l’Iran prevede per ora il tentativo di percorrere la strada della diplomazia come opzione più idonea alla difesa degli interessi americani.

In questo modo, e senza comunque escludere minacce o la reintroduzione delle sanzioni una volta revocate, permette teoricamente di evitare nel breve periodo il ripetersi delle conseguenze destabilizzanti provocate dalle disastrose avventure belliche promosse dagli Stati Uniti nell’ultimo decennio.

di Michele Paris

I colloqui tra i rappresentanti della Corea del Nord e della Corea del Sud sembrano avere dato alcuni frutti nella giornata di lunedì, fermando l’escalation delle tensioni tra i due paesi rivali, riesplose la settimana scorsa in seguito ad alcune presunte provocazioni da parte del regime di Pyongyang lungo la cosiddetta Zona Demilitarizzata che segna il confine nella penisola dell’Asia nord-orientale.

Le due parti si erano incontrate nella serata di sabato per un primo round di negoziati per poi riprendere le discussioni nel pomeriggio di domenica. Il vertice era avvenuto alla scadenza di un ultimatum emesso dalla Corea del Nord per imporre entro 48 ore lo stop alla diffusione di materiale audio di propaganda da altoparlanti situati appena oltre il confine meridionale.

Quest’ultimo provvedimento era stato preso dal governo di Seoul per la prima volta in undici anni in seguito all’esplosione il 10 agosto scorso di alcune mine lungo un percorso di pattugliamento nella zona di confine. Il posizionamento dell’esplosivo era stato attribuito alla Corea del Nord e aveva causato il ferimento di due soldati sudcoreani. Settimana scorsa, poi, erano stati registrati scambi di colpi di artiglieria, sia pure senza vittime.

Pyongyang, da parte sua, aveva respinto ogni responsabilità in relazione alle esplosioni del 10 agosto e pretendeva la fine delle trasmissioni di propaganda dalla Sud Corea, minacciando possibili azioni militari. Lo scorso fine settimana, la Corea del Nord aveva inoltre dichiarato un “semi-stato di guerra”.

Nei colloqui e nelle dichiarazioni ufficiali da Seoul, il governo sudcoreano aveva chiesto al regime di Kim Jong-un le scuse ufficiali per l’accaduto. A ribadirlo era stata anche la presidente, Park Geun-hye, la quale lunedì aveva minacciato “misure adeguate” e il proseguimento della diffusione di materiale propagandistico tramite altoparlanti se dal nord non fossero giunte scuse e la promessa di astenersi da ulteriori provocazioni.

La stampa delle due Coree ha alla fine annunciato il raggiungimento un’intesa, con il Nord che avrebbe accettato di scusarsi per il ferimento dei due soldati di Seoul e il Sud che fermerà le trasmissioni di propaganda a partire da martedì. Ulteriori colloqui bilaterali sono poi previsti a breve e andranno in scena nelle due capitali.

L’esito del più recente conflitto è arrivato dopo che Seoul aveva fatto forti pressioni sulla Corea del Nord, in particolare attraverso ripetuti comunicati di esponenti del governo e dei vertici militari sulla presunta mobilitazione delle forze armate di Pyongyang.

Lunedì, ad esempio, fonti militari sudcoreane avevano segnalato il movimento di una decina di mezzi anfibi da sbarco nordcoreani, diretti verso una base navale situata a una sessantina di chilometri dalla “linea di confine settentrionale” che separa i due paesi nel Mar Giallo.

Il giorno precedente, invece, un altro esponente delle forze armate di Seoul aveva avvertito che più di 50 dei 70 sottomarini in dotazione alla Corea del Nord avevano abbandonato le proprie basi, mentre era raddoppiato il contingente di truppe di artiglieria posizionate lungo il confine di terra, con il comando in stato di massima allerta.

Le mosse di Pyongyang e le minacce, puntualmente indirizzate verso Seoul durante i momenti di crisi, sono in realtà in larga misura vuote e hanno l’obiettivo di far guadagnare al regime un qualche vantaggio nei colloqui. Esse finiscono tuttavia per offrire alla Corea del Sud e agli Stati Uniti l’opportunità di imporre la propria versione dei fatti all’opinione pubblica locale e internazionale, così da dipingere la Corea del Nord come unico “aggressore” e come “minaccia” a un governo al contrario interamente animato da sentimenti pacifici come quello di Seoul.

Le iniziative vere o presunte di Kim Jong-un, così come quelle dei suoi due predecessori, sono per lo più determinate dalla situazione quasi disperata in cui si trova la Corea del Nord sia dal punto di vista strategico che economico, a causa principalmente della concreta minaccia americana e sudcoreana.

Le provocazioni dei due paesi alleati risultano evidenti, nonostante siano generalmente riportate in una luce positiva dalla stampa occidentale e sudcoreana. Seoul e Washington sono infatti nel pieno della massiccia esercitazione militare annuale - anche se sospesa qualche giorno fa - che si tiene nel periodo estivo e che vede impegnati ben 80 mila soldati. Inoltre, sabato scorso quattro aerei da guerra americani F-16 e altrettanti F-15K sudcoreani avevano volato nei pressi del confine con la Corea del Nord simulando un bombardamento.

Secondo la stampa sudcoreana, infine, Seoul e Washington stavano discutendo il dispiegamento di un bombardiere B-52 e di un sottomarino nucleare in Corea del Sud, ufficialmente come “deterrente” anche se evidentemente volto a provocare la reazione di Pyongyang e a giustificare ulteriori misure per la militarizzazione della penisola di Corea.

Gli Stati Uniti avevano d’altra parte già agito in un modo simile nel 2010 e nel 2013, quando avevano rispettivamente inviato in Corea del Sud la portaerei nucleare George Washington e bombardieri B-2 e B-52 nel corso di precedenti situazioni di crisi.

Da parte nordcoreana, peraltro, la retorica bellicista nasconde la volontà di raggiungere un qualche accomodamento con Washington, alla luce soprattutto delle gravi difficoltà economiche che minacciano la stabilità del regime.

Non a caso, malgrado lo scontro con Seoul, Pyongyang non aveva decretato la chiusura, sia pure temporanea, del complesso industriale di Kaesong, situato in territorio nordcoreano ma operato da aziende del Sud. Questi impianti permettono infatti al regime di ricavare preziosa valuta estera a fronte del quasi totale isolamento internazionale del paese.

Gli Stati Uniti persistono però nel mantenere una linea dura nei confronti della Corea del Nord e, di fatto, nell’impedire la ripresa dei colloqui con le altre potenze regionali, incoraggiati invece da Pechino, ovvero il principale se non unico alleato del regime. L’accordo siglato lunedì non offre in ogni caso alcuna garanzia di distensione tra i due paesi, visti i precedenti e le implicazioni strategiche della crisi tra le due Coree.

Le ragioni del perenne stallo nella penisola di Corea, così come del periodico riesplodere delle tensioni tra Seoul e Pyongyang, sono in sostanza da ricercare nelle manovre strategiche degli USA in Estremo Oriente. Nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica, l’amministrazione Obama intende cioè continuare ad alimentare ogni rivalità o motivo di scontro, in modo da mantenere alto il livello di pressione esercitata sulla Cina.

di Michele Paris

L’anniversario dell’uccisione del 18enne di colore Michael Brown da parte di un agente della polizia di Ferguson, nel Missouri, ha innescato a partire dallo scorso fine settimana nuove manifestazioni di protesta nella cittadina alla periferia di St. Louis. Le dimostrazioni contro l’impunità garantita ai membri delle forze dell’ordine responsabili di violenze ai danni della popolazione sono rapidamente sfociate in scontri con la polizia, spingendo lunedì il “county executive” della contea di St. Louis a dichiarare lo stato di emergenza preventivo.

A surriscaldare ulteriormente gli animi è stato il ferimento sempre da parte della polizia di un altro giovane afro-americano nella serata di domenica in circostanze poco chiare. Secondo le autorità, il 18enne Tyrone Harris faceva parte di un gruppo di persone che aveva aperto il fuoco sulla polizia durante una delle manifestazioni pacifiche andate in scena nel week-end.

Gli eventi di queste ore a Ferguson hanno puntualmente riproposto le immagini viste in numerose occasioni durante gli ultimi dodici mesi, caratterizzati da proteste in varie città d’America contro la brutalità della polizia e il degrado economico e sociale in cui è costretta a vivere buona parte della popolazione americana, non solo di colore.

Le forze di polizia sono infatti intervenute in assetto da guerra per disperdere i manifestanti in larghissima misura pacifici, contro i quali hanno usato gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Gli arresti sono stati finora più di cento, mentre lo stato di emergenza ha assegnato poteri ancora maggiori ai vertici della polizia della contea di St. Louis per le operazioni in corso a Ferguson, dove sono giunti rinforzi dalle città circostanti.

In maniera inquietante anche se non inedita, lo stato di emergenza decretato dal direttore amministrativo della stessa contea, Steve Stenger, servirebbe a “prevenire crimini”, nonché “danni alle persone e alle proprietà”. Se si pensa che le proteste di questi giorni sono state in gran parte pacifiche e gli episodi di violenza provocati proprio dalla polizia, è facile comprendere il carattere fortemente anti-democratico del provvedimento.

Un’identica dichiarazione dello stato di emergenza preventivo, assieme alla mobilitazione della Guardia Nazionale, era stata peraltro annunciata lo scorso mese di novembre dal governatore democratico del Missouri, Jay Nixon, poco prima che un “Grand Jury” rendesse nota la propria decisione di non incriminare l’agente responsabile della morte di Michael Brown.

Per quanto riguarda il ferimento di Tyrone Harris nel fine settimana, la famiglia di quest’ultimo ha duramente smentito la ricostruzione ufficiale dei fatti proposta dalla polizia. Il giovane manifestante, secondo il padre, era cioè disarmato e stava partecipando a una veglia per ricordare la morte dell’amico Michael Brown.

Due testimoni avrebbero riferito che Harris era stato coinvolto in una disputa tra due gruppi di giovani e, quando i membri di uno di questi ultimi si erano messi a sparare, aveva cercato di mettersi al riparo. A questo punto la polizia avrebbe aperto il fuoco, colpendo Harris tra le otto e le dodici volte.

Per la polizia, al contrario, il giovane era armato ed era una delle sei persone che avevano sparato nella tarda serata di domenica. Dopo avere tentato la fuga, Harris sarebbe stato raggiunto da un’auto senza insegne della polizia con a bordo quattro agenti in borghese.

Lo stesso Harris avrebbe allora fatto fuoco sul veicolo e i suoi occupanti si sarebbero messi all’inseguimento a piedi sparando al giovane e ferendolo in maniera grave. Nessuno dei quattro agenti ha invece riportato ferite in seguito alla presunta sparatoria.

Il padre di Harris ha contestato che il figlio fosse in possesso di una pistola calibro 9, come affermato dalla polizia, visto che a suo dire sull’arma non sarebbero state trovate le sue impronte digitali. I quattro agenti che hanno inseguito Harris non indossavano microcamere né una normale videocamera era installata sulla loro auto, come previsto dalla legge.

Attualmente ricoverato in condizioni critiche, Tyrone Harris è stato incriminato lunedì con dieci capi d’accusa, mentre i quattro agenti che lo hanno colpito sono stati sospesi.

Il degenerare della situazione a Ferguson non è stato ad ogni modo casuale né inaspettato, visto che è dovuto interamente alla reazione preparata dalle forze di polizia a manifestazioni pacifiche e animate dal desiderio di commemorare la morte di Michael Brown. Come è ormai consueto per la polizia delle città americane, gli agenti dispiegati per il controllo dell’ordine nella cittadina del Missouri erano equipaggiati in maniera pesante e supportati da veicoli da guerra.

La militarizzazione delle forze di polizia americane è perfettamente coerente con il livelli di violenza che le caratterizza. Michael Brown è stato infatti solo una delle oltre 1.100 vittime della polizia nel 2014, mentre dal primo gennaio al 10 agosto di quest’anno i morti per mano di agenti delle forze dell’ordine negli Stati Uniti, secondo il sito web killedbypolice.net, sono stati ben 720.

I poliziotti incriminati o, tantomeno, condannati per questi omicidi sono stati al massimo una manciata negli ultimi anni, visto che i loro superiori, i politici e la giustizia USA continuano a fare di tutto per garantire loro la più o meno totale impunità.

Parallelamente, il governo di Washington, oltre a condurre una politica estera criminale e violenta che si riflette inevitabilmente sul fronte domestico, opera un programma di forniture di equipaggiamenti militari destinati ai dipartimenti di polizia locale negli Stati Uniti, tanto che molti di questi ultimi assomigliano sempre più a reparti dell’esercito incaricati di reprimere manifestazioni di protesta e altre forme di dissenso pacifiche contro il sistema.

di Fabrizio Casari

Alla veneranda età di 86 anni, sebbene con molto ritardo rispetto all’auspicabile, è morto nell'ospedale militare di Santiago del Cile Manuel Contreras, l’ex capo della DINA, la polizia segreta del dittatore Augusto Pinochet che insanguinò il Cile dal 1973 al 1977, quando venne chiusa su pressioni del Presidente USA Jimmy Carter. Aldilà della carica formale, che ricoprì per 4 anni, i più terribili per il Cile, nella sostanza e per tutto il periodo della dittatura pinochettista, Contreras fu il primo macellaio del regime, l’uomo che s’incaricò di realizzare la “pulizia sociale” attraverso assassinii, torture, detenzioni arbitrarie e desaparecidos, che restano il lascito concreto ed incancellabile del regime di Pinochet.

Icona del regime, rappresentazione orrorifica della crudeltà umana, l’ex capo della DINA, riproposizione cilena della Gestapo, viene da sempre citato ad esempio quando si parla di terrorismo di stato. Mai pentito, il boia Contreras rivendicò con assoluta, ferma indecenza, la sua azione criminale ed il suo ruolo nella “battaglia contro il marxismo”.

Nel momento migliore della sua vita - ovvero l’altro ieri, quando la morte è arrivata a fargli visita - si trovava in prigione, dove scontava la pena inflittagli dal Tribunale per 58 condanne, cumulate in oltre 500 anni di carcere. La Commissione per la verità e la riconciliazione aveva assegnato alla diretta responsabilità della DINA diretta da Contreras più di 1500 omicidi.

Formatosi in una scuola militare statunitense, Contreras fu la contabilità ordinata dell’orrore, la macellazione trasferita nella politica, l’odio e il rancore elevati ad ideologia, lo specchio riflesso di un regime criminale che si reggeva sul sangue dei cileni e sui dollari degli Stati Uniti.

Sebbene scaricò Pinochet, del ruolo dei suoi padroni statunitensi e di quanto con loro condiviso non ha mai voluto parlare, portandosi nella tomba i segreti più inconfessabili insieme alle mostrine di generale, che a causa degli inevitabili compromessi della riconciliazione nazionale post-dittatura, aveva mantenuto anche da detenuto.

D’altra parte, gli Stati Uniti non avrebbero certo gradito rivelazioni che, comunque, non avrebbero salvato Contreras da condanne a centinaia di anni di carcere. Ma il Cile non fu l’esclusivo perimetro dell’azione criminale di Contreras, che programmò e fece realizzare omicidi mirati in diversi altri paesi, con la collaborazione della CIA ed il ruolo attivo di alcuni dei fuoriusciti cubani agli ordini di Luis Posada Carriles e Orlando Bosh, quest’ultimo fatto oggetto del perdono presidenziale di George Bush padre, ex Direttore della Cia prima di divenire vicepresidente con Reagan.

Tra gli assassini all’estero, quello di Carlos Prats, ex Ministro della Difesa del governo di Unidad Popular guidato da Salvador Allende, assassinato insieme a sua moglie con una bomba collocata sotto la sua auto a Buenos Aires, dove si era rifugiato.

Identica sorte per Orlando Letelier, ex Ministro degli Esteri di Allende. Il 21 settembre del 1976, Letelier venne assassinato insieme alla sua assistente, la statunitense Ronnie Moffit. E anche Roma vide all’opera le squadracce assassine della DINA, quando l’ex dirigente della Democrazia Cristiana cilena, Bernardo Leighton, scampò ad un attentato contro di lui.

Il ruolo attivo, comunque consenziente dell’intelligence Usa nelle attività criminali di Contreras in quegli anni è cosa provata, non si tratta di ipotesi politiche che pure godrebbero di credibilità. Dal 1975 al 1977 Contreras era regolarmente stipendiato dalla CIA, come hanno rivelato i documenti declassificati statunitensi.

In questa veste partecipò con un ruolo di primo piano nell’Operazione Condor, il piano di cattura e sterminio sistematico degli oppositori latinoamericani concordato e realizzato unitariamente dai servizi segreti delle dittature militari di Cile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Paraguay e Brasile.

Contreras è vissuto tenendo insieme la crudeltà personale e l’odio ideologico, in una miscela che ha rappresentato il core business delle dittature militari latinoamericane volute e sostenute fin che ciò fu possibile da Washington. Una vita spesa a procurare dolore e morte, si è finalmente esaurita. Spesso la morte di un boia disegna una soddisfazione nei volti dei giusti. Questo è uno di quei casi.




di Michele Paris

La strategia statunitense in Siria sta a poco a poco mostrando il vero obiettivo della campagna militare scatenata ormai quasi un anno fa. Dietro la facciata della guerra contro lo Stato Islamico (ISIS), Washington e i suoi alleati in Medio Oriente stanno infatti preparando un’intensificazione dell’offensiva in questo paese, diretta a rovesciare il regime di Bashar al-Assad.

In questo senso va intesa la recente autorizzazione fornita dall’amministrazione Obama alle forze aeree americane, le quali potranno ora entrare in azione per difendere la manciata di “ribelli” siriani addestrati dal Pentagono e dalla CIA, non solo se attaccati dall’ISIS o da altri gruppi estremisti, ma anche dalle forze di Damasco.

L’ordine della Casa Bianca è stato accompagnato dalle inutili rassicurazioni circa la natura essenzialmente “difensiva” della misura appena adottata e dalla conferma che gli Stati Uniti “non sono in guerra con il regime di Assad”. In realtà, l’autorizzazione a bombardare obiettivi legati al governo siriano, sia pure a scopi teoricamente difensivi, comporta una pericolosa escalation del conflitto, rendendo solo una questione di tempo lo scontro diretto tra Damasco e gli USA. Tanto più che le forze governative sono attive nella provincia settentrionale di Aleppo, dove operano i mercenari addestrati da Washington.

La decisione resa nota a inizio settimana giunge pochi giorni dopo l’umiliazione patita dagli stessi “ribelli” appoggiati dagli USA in seguito a un attacco del Fronte al-Nusra, ovvero l’organizzazione fondamentalista che rappresenta ufficialmente al-Qaeda in Siria. Il Fronte aveva rapito il comandante del gruppo di uomini inviati nel paese dopo essere stati addestrati dagli americani, assieme ad altri sei membri di questo modestissimo manipolo di combattenti.

Per stessa ammissione del Pentagono, i 500 milioni di dollari stanziati dal governo di Washington per addestrare migliaia o decine di migliaia di uomini per combattere l’ISIS hanno dato finora un risultato irrisorio, con appena una sessantina di uomini rispediti in Siria, inevitabilmente impreparati ed esposti agli assalti dei ben più potenti gruppi jihadisti.

L’effetto di questo episodio è stato devastante per il governo e i vertici militari americani, i quali - come i loro stessi uomini in Siria - ritenevano probabilmente che il Fronte al-Nusra e le formazioni ad esso legate potessero agire da alleati di fatto dei guerriglieri sotto la loro protezione.

Questa ipotesi di alleanza o collaborazione resta comunque reale, vista l’inconsistenza dei mercenari di Washington. In tal caso, se anche il regime di Damasco dovesse decidere di non colpire direttamente questi ultimi, un’offensiva contro le forze jihadiste armate potrebbe fornire la giustificazione di una risposta da parte americana, essendo i loro uomini integrati con queste ultime.

Organizzazioni come il Fronte al-Nusra e altre di ispirazione fondamentalista continuano d’altra parte a ricevere assistenza più o meno clandestina da parte degli alleati di Washington, come Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi.

In ogni caso, il gruppo di combattenti addestrati dagli USA appare talmente inefficace da rendere virtualmente indistinguibile la natura offensiva o difensiva di un eventuale operazione in cui esso potrebbe trovarsi coinvolto. Il ruolo delle poche decine di uomini spediti in Siria, perciò, sembra essere precisamente quello di provocare un attacco delle forze del regime per stabilire una sorta di casus belli che giustifichi l’offensiva americana diretta contro Assad.

Tutti i segnali delle ultime settimane indicano d’altra parte un’evoluzione del conflitto in Siria verso una nuova guerra aperta per il cambio di regime. In particolare, l’ennesima svolta strategica americana in Medio Oriente ha accelerato i preparativi in questo senso. L’amministrazione Obama ha cioè scaricato i guerriglieri curdi, che fino ad ora avevano rappresentato il partner principale nella lotta all’ISIS, per ottenere l’ingresso nelle ostilità della Turchia.

Ankara, com’è noto da tempo, vede con maggiore preoccupazione la formazione di un’entità autonoma curda nel nord della Siria e la permanenza al potere di Assad che non l’espansione dell’ISIS. A questo scopo, il governo del presidente Erdogan e del premier Davutoglu spinge per la creazione di una no-fly zone oltre il proprio confine meridionale, sia per scongiurare il consolidamento di uno stato curdo di fatto indipendente sia per organizzare al meglio un’offensiva contro le forze di Damasco.

Tramite il recente accordo con la Turchia, gli Stati Uniti hanno da parte loro avallato questo progetto illegale, il quale, assieme alla decisione di questa settimana di rispondere agli attacchi del regime siriano, segna una tappa fondamentale nella guerra contro Assad, scatenata ormai più di quattro anni fa.

Sul nuovo impulso alla guerra in Siria deciso dalla Casa Bianca hanno influito ragioni sia di politica interna sia gli eventi che hanno segnato recentemente la scena mediorientale. Sul fronte interno, Obama continua a essere esposto alle pressioni dei “falchi” che chiedono da anni un impegno diretto dei militari USA per chiudere definitivamente con Assad, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze.

Nel secondo caso, invece, non è solo l’insistenza a farla finita con Assad da parte della Turchia e delle monarchie assolute del Golfo a costituire un fattore decisivo sulle sconsiderate scelte di politica estera del governo USA, ma anche probabilmente i nuovi scenari aperti dall’accordo sul nucleare iraniano.

L’intesa siglata il mese scorso a Vienna, almeno nei calcoli di Washington, dovrebbe rendere cioè improbabile una reazione di Teheran a un’offensiva diretta contro l’alleato Assad, poiché trascinerebbe la Repubblica Islamica in un conflitto di vaste proporzioni in Medio Oriente, spegnendo sul nascere le ambizioni della propria classe dirigente a rientrare a pieno titolo nei circuiti del capitalismo internazionale.


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