di Michele Paris

La Corte Suprema degli Stati Uniti si esprimerà entro fine mese sulla legalità di un aspetto fondamentale della riforma del sistema sanitario voluta dal presidente Obama. Il caso in discussione verte attorno alla legittimità dei sussidi federali garantiti ai cittadini americani obbligati ad acquistare una polizza sanitaria sul mercato delle assicurazioni private, in assenza dei quali l’intera fabbrica della legge approvata dal Congresso nel 2010 rischierebbe seriamente di crollare.

La vicenda legale finita all’attenzione dei nove giudici della Corte Suprema si concentra sul senso di una singola frase all’interno di un provvedimento di oltre 900 pagine. Letteralmente, la legge dice cioè che i sussidi pubblici sono a disposizione di coloro che acquistano un’assicurazione sul mercato on-line delle polizze “creato dagli stati”.

Gli oppositori della riforma sostengono che questa formulazione renderebbe illegale l’assegnazione dei sussidi in quegli stati che non hanno creato un simile mercato virtuale. In questi casi, il governo federale si è fatto carico dell’incombenza, assicurando comunque l’erogazione dei sussidi per i redditi più bassi. Per l’amministrazione Obama, lo spirito della legge prevede che chiunque sia qualificato a ricevere un sussidio lo possa ottenere, indifferentemente dal fatto che abbia acquistato una polizza sul mercato stabilito dagli stati o dal governo federale.

Secondo la riforma (ACA o “Obamacare”), gli americani che non hanno un’assicurazione sanitaria tramite il proprio datore di lavoro o programmi pubblici come Medicare e Medicaid hanno l’obbligo di ottenere una polizza dalle compagnie private, acquistandola appunto sui già citati mercati virtuali (“Exchanges”), per non incorrere in sanzioni economiche.

Ad oggi, solo 16 stati americani e il District of Columbia hanno creato questi mercati, mentre nei rimanenti 34 è stato il governo federale a occuparsene. Circa l’85% di quanti hanno già acquistato una polizza in questo modo ricevono un sussudio e, secondo i dati del ministero della Sanità, 6,4 milioni di persone potrebbero essere interessate da un’eventuale sentenza sfavorevole all’amministrazione Obama.

Il governo e i sostenitori della legge ritengono che lo stop ai sussidi farebbe aumentare considerevolmente l’importo dei premi pagati dai sottoscrittori di polizze meno abbienti, provocando una cancellazione di massa delle assicurazioni già stipulate, con effetti rovinosi per tutto il sistema creato con l’ACA.

Secondo un esempio degli effetti di una possibile sentenza contraria al governo descritto recentemente dal Washington Post, una residente 56enne della North Carolina con varie patologie e un reddito annuo di 25 mila dollari, senza sussidi vedrebbe schizzare il premio mensile pagato di tasca propria da 66 a 578 dollari.

Il caso all’attenzione della Corte Suprema è chiamato “King contro Burwell”, dai nomi rispettivamente di uno dei querelanti e del ministro della Sanità di Obama. L’ACA era già passata attraverso due sentenze del più altro tribunale americano. La prima volta, nel 2012, i giudici avevano sancito la costituzionalità dell’obbligo individuale dell’acquisto di una polizza sanitaria. Lo scorso anno, invece, un verdetto profondamente reazionario aveva stabilito che le aziende private che offrono l’assicurazione sanitaria ai propri dipendenti possono negare la copertura relativa ai contraccettivi, in teoria prevista dall’ACA, se ciò va contro le proprie credenze religiose.

Una decisione della Corte Suprema che mettesse fine ai sussidi innescherebbe una nuova probabile crisi politica a Washington. Per evitare il contraccolpo su milioni di sottoscrittori di polizze, il Congresso o la Casa Bianca dovrebbero infatti agire tempestivamente, cosa non facile vista la differenza di vedute sulla riforma.

La soluzione più semplice sarebbe l’aggiunta al testo dell’ACA di una singola frase che estenda esplicitamente l’erogazione dei sussidi a tutti gli stati, indifferentemente dal fatto che il mercato delle polizze sanitarie sia creato da questi ultimi o dal governo federale.

I repubblicani che detengono la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, tuttavia, non accetterebbero una modifica di questo genere, dal momento che rafforzerebbe una legge che da cinque anni cercano di smantellare.

Lasciare semplicemente crollare la riforma di Obama senza agire sarebbe però politicamente difficile per i repubblicani, visto che, malgrado la natura essenzialmente reazionaria dell’ACA, milioni di americani hanno per la prima volta una copertura sanitaria, sia pure privata e di qualità relativa, a un costo ragionevole grazie ai sussidi. In vista delle elezioni del 2016, essere identificati come il partito che ha fatto aumentare vertiginosamente i premi delle polizze assicurative non è esattamente auspicabile per i repubblicani.

Deputati e senatori di maggioranza si stanno dando perciò da fare per predisporre misure volte a limitare i danni di una sentenza contro il governo. Tra di esse ci sarebbero iniziative per garantire i sussidi per uno o due anni a coloro che già posseggono una polizza ma escludendoli per i nuovi sottoscrittori. In questo modo, sostiene la Casa Bianca, la morte della riforma verrebbe però solo rinviata.

Alcuni dei 34 stati che hanno delegato la creazione del mercato delle assicurazioni private al governo potrebbero invece fare marcia indietro e decidere di istituirne di propri, magari ottenendo condizioni meno vincolanti, ma molti di essi sostengono di non avere le risorse per farlo o, comunque, sono governati da republicani e non intendono agire in un modo che finisca per salvare la riforma di Obama.

Le udienze delle scorse settimane di fronte alla Corte Suprema hanno fornito pochi indizi sull’orientamento dei giudici il cui voto potrebbe risultare decisivo. Le attese maggiori erano per il giudice centrista, Anthony Kennedy, tradizionalmente l’ago della bilancia nelle sentenze più sofferte della Corte, e per il presidente, John Roberts, il quale era stato decisivo nel caso del 2012 su “Obamacare”.

Il primo ha espresso dubbi circa le posizioni dei querelanti ma ha allo stesso tempo mostrato qualche riserva sull’implementazione della legge da parte del governo. Roberts, invece, è intervenuto in rari casi durante le discussioni, lasciando intatti tutti i dubbi sulle sue intenzioni.

Se, infine, gli ultra-conservatori Antonin Scalia, Samuel Alito e Clarence Thomas dovrebbero votare quasi certamente contro i sussidi, i quattro giudici “liberal” - Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor ed Elena Kagan - sono apparsi più che persuasi dalle tesi dell’amministrazione Obama.

Significativamente, questi ultimi hanno però talvolta mostrato preoccupazione non tanto per la sorte dei sottoscrittori di polizze bensì per le compagnie assicurative che operano sui mercati on-line istituiti dal governo, a rischio di veder svanire milioni di clienti e miliardi di dollari incassati sotto forma di sussidi pubblici.

di Mario Lombardo

La conferma della condanna a morte emessa questa settimana da un tribunale egiziano contro l’ex presidente Mohamed Mursi è l’ennesima sentenza politica registrata nel paese nord-africano a partire dalla deposizione dello stesso leader dei Fratelli Musulmani nell’estate del 2013 per mano dei militari attualmente al potere.

La più recente farsa mandata in scena dalla giustizia egiziana si è risolta in nuove condanne di massa alla pena capitale che hanno interessato, oltre all’ex presidente, altri 98 imputati, di cui 93 in absentia. Il verdetto ribadisce in maniera sostanziale quanto era stato preliminarmente deciso dalla stessa corte nel mese di maggio, quando i condannati a morte erano stati 106.

Come previsto dalla legge in Egitto, dopo la sentenza il tribunale aveva chiesto consulto al Gran Mufti, la principale autorità religiosa del paese, il quale ha stabilito che le pene erano appropriate. Il parere del Gran Mufti non è in ogni caso vincolante per i giudici.

Assieme a Mursi sono stati condannati a morte anche altri esponenti di spicco dei Fratelli Musulmani, come la “guida suprema”, Mohamed Badie, il leader del partito politico affiliato al gruppo, Mohamed el-Beltagy, l’ex candidato alle elezioni presidenziali del 2012, Khairat el-Shater, e il predicatore Safwat Hegazy.

Le condanne si riferiscono ai fatti legati all’evasione dal carcere di Wadi Natroun nel febbraio del 2011 durante la rivoluzione che portò alla cacciata del presidente Hosni Mubarak. Gli imputati erano accusati di omicidio e tentato omicidio, di avere favorito la fuga di altri detenuti, di avere dato fuoco alla prigione e di essersi appropriati delle armi in essa custodite.

Secondo l’assurdo impianto accusatorio, Mursi e gli altri leader islamisti avrebbero orchestrato un complesso progetto cospirativo con l’aiuto di militanti di Hezbollah - un’organizzazione sciita, a differenza dei Fratelli Musulmani sunniti - e di Hamas. L’inconsistenza delle accuse era evidente ad esempio dal fatto che alcuni presunti complici nella fuga citati dall’accusa, secondo Hamas, al momento degli eventi erano detenuti nelle carceri israeliane.

A Mursi e ad altri 35 imputati sono state inoltre inflitte condanne all’ergastolo, ovvero a 25 anni, come previsto dal codice penale egiziano, per un altro capo d’accusa, cioè di avere complottato con “forze straniere” per destabilizzare il paese. Lo stesso ex presidente nel mese di aprile era stato anche condannato a 20 anni di carcere per incitazione alla violenza nell’ambito degli scontri avvenuti nel dicembre del 2012 di fronte al palazzo presidenziale di Ittihadiya.

Tutte le sentenze finora emesse contro Mursi saranno soggette ad appello, mentre tuttora in attesa di verdetto restano due ulteriori processi a carico dell’ex presidente. Nel primo, Mursi è accusato di oltraggio nei confronti del sistema giudiziario egiziano e nel secondo di avere passato documenti riservati al Qatar, il cui regime era stato tra i principali sostenitori del governo dei Fratelli Musulmani.

La natura dell’autorità giudiziaria che ha condannato a morte Mohamed Mursi è apparsa chiara dalle parole del giudice Shaaban el-Shami durante la lettura della sentenza. Quest’ultimo ha denunciato le mire “diaboliche” dei Fratelli Musulmani, elogiando invece il regime militare ora al potere.

Secondo Shami, l’organizzazione islamista avrebbe una storia fatta di tentativi di “conquista del potere con ogni mezzo” e si sarebbe adoperata per deporre Mubarak e “legalizzare il versamento di sangue tra i figli della nazione”. I militari, al contrario, nel deporre un presidente democraticamente eletto avrebbero garantito la “sovranità del popolo”, il quale chiedeva “la creazione di una società forte e coesa”. Simili dichiarazioni giungono da un giudice che appoggia in pieno un regime militare repressivo e violento, responsabile del colpo di stato del 2013 e di innumerevoli massacri, torture e arresti arbitrari ai danni dei suoi oppositori.

Mentre la giustizia egiziana si occupa di decimare i vertici dei Fratelli Musulmani, i militari e il governo operano nella completa impunità per soffocare qualsiasi forma di dissenso. Varie organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno denunciato i crimini del regime, a cominciare dalla strage di circa 800 manifestanti avvenuta il 14 agosto del 2013, per la quale non è stata avviata nemmeno un’indagine a carico delle forze di sicurezza.

Nei tribunali, processi manipolati in maniera macroscopica hanno portato a condanne a morte di massa e vari attivisti parlano di centinaia se non migliaia di persone sparite nel nulla dopo essere state rapite dai servizi di sicurezza.

Parallelamente alla persecuzione dei Fratelli Musulmani e degli altri esponenti dell’opposizione, Sisi e il suo regime stanno garantendo il proscioglimento di politici e uomini d’affari dell’era Mubarak, finiti agli arresti o sotto inchiesta dopo la rivoluzione del 2011. Lo stesso ex presidente ha visto svanire molte accuse nei suoi confronti, mentre il processo per l’uccisione di centinaia di manifestanti al Cairo prima delle sue dimissioni dovrà essere ripetuto.

La notizia della conferma della pena capitale per Mursi è stata seguita dalle dichiarazioni di condanna, sia pure di circostanza, dei governi occidentali. Qualche pressione il regime deve averla percepita, così che nella giornata di mercoledì Al Sisi ha annunciato un decreto di amnistia per 165 persone, quasi tutti studenti, condannate principalmente per avere violato la legge ultra-repressiva sulle manifestazioni di piazza.

L’amministrazione Obama si è detta ad ogni modo “profondamente turbata per le sentenze motivate politicamente” che “danneggiano la stabilità” dell’Egitto. I più recenti abusi giudiziari, così come i precedenti crimini di cui si è macchiato il regime di Al Sisi, non implicheranno tuttavia cambiamenti sostanziali nella politica estera di Washington, da dove l’Egitto è considerato un alleato strategico troppo importante per comprometterne i legami. Anzi, recentemente il governo americano ha deciso lo sblocco degli aiuti destinati ai militari egiziani, pari a 1,3 miliardi di dollari l’anno.

Per motivi di convenienza politica, gli USA hanno talvolta assunto atteggiamenti critici verso il Cairo, come era accaduto nel maggio scorso, quando la Casa Bianca aveva sottoposto un rapporto al Congresso, ammettendo che l’Egitto si “sta allontanando dalla democrazia, sta comprimendo la libertà di espressione e sta arrestando migliaia di dissidenti politici”, senza incriminare le forze di sicurezza responsabili di “omicidi arbitrari o extra-giudiziari”.

L’amministrazione Obama aveva però elogiato il regime per avere messo in atto una serie di “riforme” volte a migliorare “il clima economico” in Egitto attraverso provvedimenti come la riduzione dei sussidi ai beni di prima necessità che ha colpito in maniera pesante le fasce più povere della popolazione.

Nonostante il carattere dittatoriale e violento del regime instaurato al Cairo dopo la rimozione di Mursi, insomma, l’Occidente continua a essere ben disposto a chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani e civili.

Dopo gli sconvolgimenti del 2011 seguiti alla fine di Mubarak, il regime di Sisi garantisce infatti, da un lato, la difesa degli interessi strategici occidentali nella regione mediorientale/nordafricana e, dall’altro, la stabilità interna richiesta dagli investitori internazionali.

La misura della disposizione dei governi in Occidente verso lo stesso dittatore con le mani sporche di sangue è risultata così evidente dall’accoglienza ricevuta nel corso di recenti tour europei che lo hanno portato in Francia, in Italia e, solo un paio di settimane fa, in Germania.

Per quanto riguarda la condanna di Mursi, appare al momento improbabile che possa essere eseguita, se non altro per le pressioni internazionali e il pericolo di trasformare l’ex presidente in un martire. Molto più probabile sembra piuttosto l’ipotesi che Mursi possa essere tenuto in carcere e che il regime utilizzi un’eventuale revoca della pena di morte come leva per ottenere qualcosa in cambio dai governi occidentali.

I Fratelli Musulmani, intanto, hanno lanciato un appello per scatenare una “rivolta popolare” pacifica per la giornata di venerdì, anche se sono in molti a credere che la mano pesante del regime nei loro confronti possa innescare nel prossimo futuro una qualche forma di resistenza armata.

di Michele Paris

Gli sforzi messi in atto dall’amministrazione Obama per spianare la strada all’approvazione di alcuni trattati di libero scambio, ritenuti fondamentali dalle multinazionali americane, continuano a faticare a produrre risultati tangibili. A Washington sono infatti in corso frenetiche trattative tra la Casa Bianca e il Congresso per superare i nuovi ostacoli emersi in seguito a un voto della Camera dei Rappresentanti nel fine settimana scorso tutt’altro che favorevole al presidente Obama.

A larga maggioranza, la Camera aveva bocciato la cosiddetta “Trade Adjustment Assistance” (TAA), ovvero un provvedimento tradizionalmente collegato ai trattati di libero scambio sottoscritti dagli Stati Uniti con altri paesi. Questa legge, i cui effetti positivi potrebbero scadere alla fine di settembre, prevede compensazioni economiche e programmi di formazione per quei lavoratori che perdono il loro impiego a causa degli stessi trattati.

Lo stop alla TAA ha comportato la stessa sorte per un altro provvedimento ad essa collegato, la “Trade Promotion Authority” (TPA) o “Fast Track Authority”, decisamente più importante ai fini dei negoziati internazionali sui trattati di libero scambio. In caso di approvazione, la TPA assegnerebbe per cinque anni a Obama e al suo successore l’autorità per stipulare con le proprie controparti straniere dei testi praticamente definitivi dei vari trattati, dal momento che il Congresso avrebbe facoltà soltanto di approvarli o respingerli, senza poter discutere o votare eventuali emendamenti.

I due provvedimenti erano stati uniti in un unico pacchetto dalla leadership repubblicana del Senato nel mese di maggio, così da permettere ai senatori di entrambi gli schieramenti provenienti da stati già duramente colpiti dal processo di deindustrializzazione di votare per la concessione al presidente dell’autorità di negoziare in autonomia i trattati di libero scambio senza essere accusati di non avere a cuore le sorti dei lavoratori.

TAA e TPA sono state però separate alla Camera e, mentre la seconda è stata approvata di misura, la prima non ha avuto la stessa fortuna. La maggior parte dei democratici, in particolare, ha deciso di non votare per una misura che essi stessi sostengono, con l’obiettivo di impedire l’avanzamento delle trattative sui trattati di libero scambio. Anche la maggioranza dei repubblicani ha votato contro la TAA, considerata una forma di welfare e quindi sostanzialmente uno spreco di denaro pubblico.

L’importanza per la classe dirigente americana della “Fast Track Authority” è in ogni caso evidente dal fatto che tutti i principali trattati di libero scambio sottoscritti dagli Stati Uniti negli ultimi decenni sono stati approvati ricorrendo ad essa, inclusi il NAFTA (Accordo Nordamericano per il Libero Scambio) del 1994 e quelli più recenti, firmati nel 2011, con Colombia, Panama e Corea del Sud.

Il primo trattato che verrebbe probabilmente ratificato con la riapprovazione di questo procedimento accelerato è la Partnership Trans-Pacifica (TPP), in fase di negoziazione tra Washington e altri undici paesi asiatici, latinoamericani e dell’area del Pacifico. Più che un trattato di libero scambio tradizionale, il TPP risulta essere il tentativo di creare nella quasi totale segretezza un gigantesco spazio economico nel quale a dettare le regole sarebbe il capitale statunitense.

Sostanzialmente gli stessi principi di supremazia del business - in particolare di quello a stelle e strisce - stanno guidando poi i negoziati per la Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP) tra USA e Unione Europea, anch’essa potenzialmente coperta dalla TPA.

Oltre a creare condizioni favorevoli per le grandi aziende americane, questi accordi sono considerati come importanti armi strategiche, da qui l’impegno dedicato alla loro approvazione da parte della Casa Bianca. Nel TPP, da cui è esclusa significativamente la Cina, Washington vede uno strumento decisivo nella strategia di accerchiamento e contenimento di Pechino, mentre il TTIP è principalmente il tentativo di impedire l’integrazione economica tra l’Europa da una parte e la Russia e la Cina dall’altro, ancorando il vecchio continente agli Stati Uniti.

Gli stessi paesi che dovrebbero sottoscrivere questi trattati con gli USA attendono inoltre che alla Casa Bianca sia assegnata l’autorità prevista dal “Fast Track”, poiché in pochi accetterebbero di firmare un accordo che potrebbe essere modificato anche pesantemente dal Congresso.

I giornali americani hanno così parlato in questi giorni di fitte conversazioni telefoniche tra Obama e i membri del suo staff e i deputati democratici per convincerli a tornare sui propri passi e approvare la FTA.

Il presidente e lo “speaker” della Camera, il repubblicano John Boehner, sono poi in contatto per pianificare le prossime mosse. Una prima ipotesi potrebbe consistere in un nuovo voto sull’identica versione del provvedimento bocciato settimana scorsa, nella speranza che un numero sufficiente di deputati democratici ceda alle pressioni dell’amministrazione Obama. In alternativa, Boehner potrebbe cercare di convincere i suoi compagni di partito che hanno votato contro la TPA a cambiare idea, ma i circa 90 voti necessari sembrano essere al momento un ostacolo decisamente insuperabile.

Altre possibili manovre prevederebbero l’inserimento della TAA in una legge ad essa estranea ancora da approvare e che raccoglie un ampio consenso bipartisan. Tuttavia, una simile mossa rischierebbe di affondare anche quest’ultima se la resistenza ad approvare il provvedimento dovesse persistere.

Ancora, i vertici della Camera potrebbero programmare un nuovo voto solo sulla TPA e poi inviarla al Senato, dove dovrebbe essere nuovamente approvata, visto che sarebbe disgiunta dalla TAA. Al Senato, però, non ci sarebbero voti sufficienti a causa dell’assenza della misura destinata ai lavoratori penalizzati dai trattati di libero scambio. La Camera, in ogni caso, avrà tempo fino alla fine di luglio per trovare una soluzione allo stallo.

Lo scontro in atto a Washington ha comunque ben poco a che vedere con le conseguenze negative prodotte dall’approvazione del TPP o del TTIP per i lavoratori americani, nonostante a ciò facciano riferimento i politici che si oppongono alle politiche commerciali della Casa Bianca. Se scrupoli di questo genere vi sono, essi sono di natura puramente elettorale, mentre gli schieramenti venutisi a creare riflettono in realtà diversi interessi all’interno del business d’oltreoceano.

Da un lato, l’amministrazione Obama e la maggioranza dei repubblicani sembrano sposare la causa di settori come quello farmaceutico, dell’industria finanziaria e le grandi aziende esportatrici che hanno tutto da guadagnare dalla stipula dei trattati in fase di negoziazione. Dall’altro, invece, i democratici al Congresso e le associazioni sindacali sposano il punto di vista di quelle compagnie che sono state e che rischiano di essere danneggiate dalla competizione con altri paesi.

Che a Obama venga consegnata o meno dal Congresso l’autorità a gestire in autonomia le trattative sugli accordi di libero scambio, a fare le spese dell’ennesima crisi politica a Washington potrebbero essere proprio i lavoratori che hanno perso o perderanno il lavoro in seguito all’entrata in vigore del TPP o di accordi simili, visto che, in assenza di un’intesa tra democratici e repubblicani, i modesti benefit previsti dalla “Trade Adjustment Assistance” (TAA) saranno spazzati via con la fine dell’anno fiscale in corso.

di Mario Lombardo

La visita di questa settimana in Italia del presidente russo, Vladimir Putin, ha confermato come i tentativi di isolare il Cremlino appaiano efficaci solo sulle pagine dei giornali “mainstream” in Occidente. La realtà dei fatti, al contrario, evidenzia una situazione più complessa, con vari paesi europei interessati a trovare una soluzione pacifica della crisi ucraina e, soprattutto, con la gran parte della popolazione del vecchio continente decisamente poco entusiasta delle aggressive politiche anti-russe promosse dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

Quest’ultima attitudine è stata dimostrata da un sondaggio di opinione pubblicato un paio di giorni fa dall’istituto americano Pew Research Center, il quale ha condotto un’indagine su un campione di oltre 11 mila persone in otto paesi NATO in aggiunta alla Russia e all’Ucraina. I risultati sono apparsi a tratti sbalorditivi, nonostante gli evidenti sforzi dei ricercatori di formulare i quesiti in modo da ottenere risposte favorevoli al punto di vista del governo USA.

Inoltre, l’indagine è stata condotta senza che il campione di popolazione fosse informato sui rischi reali di un possibile conflitto nucleare tra la Russia e l’Occidente, così che è possibile supporre che il sentimento anti-militarista nei paesi interessati sia ancora più radicato di quanto non risulti dal sondaggio in questione.

Il punto centrale dell’indagine era in sostanza l’opportunità di combattere una guerra “difensiva” da parte dei paesi NATO contro la Russia se quest’ultimo paese dovesse aggredire militarmente uno dei membri dell’Alleanza.

Oltre al fatto che lo scenario così dipinto da Pew Research capovolge la realtà, gli intervistati nella gran parte dei paesi hanno comunque mostrato di disapprovare anche un’eventuale guerra “difensiva”. Oltre la metà dei tedeschi, dei francesi e degli italiani è ad esempio contraria a un intervento a favore di un membro NATO attaccato, con percentuali rispettivamente del 58%, 53% e 51%.

Il caso della Germania è particolarmente significativo, visto che il governo Merkel, malgrado abbia mostrato talvolta un approccio più moderato alla crisi in Ucraina rispetto a Washington, è uno dei più convinti sostenitori del nuovo regime di Kiev. Allo stesso modo, la classe politica e i media tedeschi continuano a promuovere un’accelerazione militarista e a sostenere la necessità per il proprio paese di assumere un atteggiamento più aggressivo sulla scena internazionale.

Ciononostante, solo il 38% dei tedeschi intervistati considera la Russia come un pericolo per i propri vicini e addirittura un misero 29% attribuisce a Mosca la responsabilità delle violenze in Ucraina. Ancora più basso - 19% - è poi il numero dei favorevoli all’invio di armi NATO al regime ucraino per combattere i separatisti filo-russi.

Più in generale, in Germania il sentimento militarista della popolazione si è mosso in questi anni in maniera inversamente proporzionale all’orientamento della classe dirigente, passata ad esempio da un atteggiamento relativamente neutrale circa l’aggressione alla Libia di Gheddafi nel 2011 all’appoggio del colpo di stato in Ucraina tre anni più tardi. Il sondaggio di Pew evidenzia infatti come oggi il 55% dei tedeschi veda con favore la NATO, contro il 73% nel 2009.

L’ipotesi della fornitura di armi all’Ucraina per reprimere l’opposizione nelle regioni sud-orientali è vista con estremo sospetto anche in altri paesi. In Italia i contrari sono il 65% e i favorevoli il 22%, in Francia i numeri sono attestati rispettivamente al 59% e al 40%, in Spagna al 66% e al 25% e in Gran Bretagna al 45% e al 42%.

Solo negli Stati Uniti, in Canada e in Polonia, dove l’isteria anti-russa ha toccato livelli estremi in questi mesi, è stata rilevata una percezione diversa. In Polonia, ad esempio, il 70% degli interpellati ha affermato di credere che la Russia rappresenti una grave minaccia militare e circa il 50% appoggia l’invio di armi a Kiev.

Se i dati che indicano poi una chiara diffidenza della popolazione russa nei confronti della NATO e la crescente popolarità di Putin sono tutt’altro che sorprendenti, molto meno lo sono quelli relativi all’opinione degli ucraini sul loro governo appoggiato dall’Occidente.

Circa il 47% degli intervistati nel paese dell’Europa orientale è favorevole a una risoluzione negoziata della crisi, contro il 23% che predilige l’uso della forza. Ancora, il 57% degli ucraini non condivide la gestione degli eventi nell’est del paese da parte del presidente, l’oligarca Petro Poroshenko, mentre l’altro burattino dell’Occidente ai vertici del regime golpista, il premier Arseniy Yatseniuk, ha un indice di disapprovazione pari al 60%.

Il recente sondaggio di Pew Research è dunque un’altra prova devastante della condotta dei governi occidentali, i quali in Ucraina non hanno in nessun modo sostenuto una rivoluzione democratica né si trovano costretti a fronteggiare un’aggressione da parte russa.

In realtà, il rovesciamento a Kiev di un governo democraticamente eletto, seguito dall’instaurazione di un regime fortemente contaminato da elementi neo-fascisti, è risultato in una deliberata provocazione verso Mosca, la cui inevitabile reazione a difesa dei propri interessi e delle popolazioni filo-russe in Ucraina è stata sfruttata per avanzare piani militaristi in Europa orientale allo studio da tempo.

Interessanti almeno quanto l’esito del sondaggio sono apparsi infine i commenti di molti giornali americani. Emblematico è stato quello proposto dal New York Times, il cui reporter ha caratterizzato la disposizione anti-bellica della popolazione europea come una “sfida” per i governi a superare l’opposizione dei cittadini alle politiche guerrafondaie e non, come si richiederebbe a un sistema democratico, ad abbandonare le provocazioni e la corsa al militarismo.

Lo stesso quotidiano USA ha citato l’ex ambasciatore americano presso la NATO, Ivo Daalder, il quale ha acutamente osservato che “sarà necessario un impegno serio da parte dell’Alleanza per convincere il pubblico della necessità di prepararsi, scoraggiare e, se necessario, rispondere a un attacco della Russia”.

I governi occidentali, in definitiva, agiscono contro il volere della grande maggioranza della popolazione e, invece di adeguarsi a quest’ultima, agiscono sospinti da massicce operazioni di propaganda per ribaltare la realtà dei fatti e preparare iniziative militari che rischiano sempre più di scatenare una guerra dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.

di Michele Paris

Il governo degli Stati Uniti ha deciso mercoledì un nuovo aumento del proprio impegno militare in Iraq per cercare di mettere in atto una strategia efficace nella guerra combattuta ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS). La notizia era rimbalzata già martedì sui giornali d’oltreoceano ed era stata anticipata dallo stesso presidente Obama durante il vertice dei G-7 conclusosi lunedì in Germania, dove aveva ammesso l’assenza di una “strategia americana d’insieme” nel paese mediorientale.

A distanza di un anno dalla clamorosa conquista della città di Mosul per mano dell’ISIS, l’organizzazione fondamentalista ha infatti ampliato la porzione di territorio nelle proprie mani sia in Iraq che in Siria, mentre le bombe “mirate” della coalizione guidata da Washington hanno fatto ben poco per arrestare il ritmo di reclutamento di nuovi combattenti.

Un nuovo campanello d’allarme per gli Stati Uniti e il governo di Baghdad era suonato lo scorso mese di maggio, quando gli uomini dell’ISIS erano entrati a Ramadi, la capitale della provincia occidentale di Anbar a poche decine di chilometri dalla capitale. Qui, le forze dell’esercito regolare iracheno si erano sciolte ancora una volta come neve al sole, rivelando la totale inefficacia del programma di addestramento e sostegno delle forze armate da parte degli USA.

L’amministrazione Obama e, in particolare, il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva successivamente attribuito la colpa della caduta di Ramadi e dell’avanzata dell’ISIS esclusivamente alla disorganizzazione e alla scarsa volontà di combattere dei soldati iracheni, senza assumersi alcuna responsabilità per il fallimento di un’operazione militare a cui partecipano svariati paesi.

In ogni caso, la necessità di assistere il governo dell’Iraq nel tentativo di riconquistare il territorio nelle mani dell’ISIS è ancora la giustificazione per la nuova escalation militare che si preannuncia. Washington intende occupare una nuova base militare nella provincia di Anbar, mentre nel paese giungeranno altri 450 soldati, tutti rigorosamente con l’incarico esclusivo di “addestrare” le truppe indigene.

Gli Stati Uniti hanno già più di tremila uomini in Iraq e, pur non essendo state loro attribuite funzioni di combattimento, risulta difficile credere che dietro alla strategia di Obama non vi sia uno sforzo per tornare in qualche modo a occupare questo paese, spostatosi sempre più sotto l’influenza iraniana dopo il ritiro della maggior parte delle truppe americane alla fine del 2011.

L’obiettivo immediato degli USA sarebbe quello di lanciare una campagna a breve per la riconquista di Ramadi, rimandando invece le operazioni relative a Mosul al prossimo anno. A questo scopo, ufficiali americani avevano operato una serie di sopralluoghi in basi militari nella provincia di Anbar, dove saranno appunto inviati i nuovi “addestratori”.

In questa stessa provincia ci sono peraltro già 300 marines americani, impegnati ad assistere le forze tribali sunnite che combattono contro l’ISIS. Nell’area, però, sono presenti anche alcune milizie sciite, sostenute dall’Iran, e non è chiaro se, come in altre precedenti occasioni, queste ultime saranno evacuate in seguito all’arrivo degli americani. Le milizie sciite, va ricordato, hanno rappresentato finora l’unica forza in grado di combattere con una certa efficacia contro l’ISIS in Iraq.

Il lancio di una nuova strategia USA è comunque la conseguenza dell’esito registrato finora di una campagna caratterizzata da ambiguità e contraddizioni, su cui si innestano oltretutto le pressioni contrastanti delle varie sezioni della classe dirigente americana in relazione alla promozione degli interessi di Washington in Medio Oriente.

Per il New York Times, ad esempio, i vertici del Comando Centrale USA con competenza sul Medio Oriente, vedevano come prioritario un intervento contro l’ISIS nella città di Mosul, mentre il Dipartimento di Stato ritiene fondamentale un concentramento degli sforzi nella provincia di Anbar, anche perché essa confina con due importanti alleati come l’Arabia Saudita e la Giordania.

Lo stesso capo di Stato Maggiore, generale Martin Dempsey, qualche settimana fa aveva affermato che la sorte di Ramadi, capitale della provincia di Anbar, non era determinante per il futuro dell’Iraq. Sempre Dempsey, poi, nella giornata di martedì nel corso di una visita in Israele ha avvertito che “non ci saranno cambiamenti radicali” alla strategia americana anti-ISIS.

La politica irachena e relativa all’ISIS degli Stati Uniti è ad ogni modo difficile da decifrare, risultando spesso agli occhi degli osservatori del tutto incoerente. Da un lato, l’amministrazione Obama teme realmente che i fondamentalisti possano travolgere il governo di Baghdad ma, allo stesso tempo, la loro presenza sta consentendo il ritorno in Iraq di migliaia di truppe americane.

L’avanzata dell’ISIS ha inoltre spaccato ancora una volta l’Iraq lungo le linee settarie, facendo in qualche modo gli interessi proprio degli Stati Uniti, i quali vedono da tempo con un certo favore il disgregamento dell’unità di questo paese in funzione di contenimento dell’influenza iraniana.

Una reale guerra contro l’ISIS sarebbe quindi controproducente per gli obiettivi americani, tanto più che, nonostante la retorica ufficiale, le forze del “califfo” Al-Baghdadi continuano a svolgere efficacemente il ruolo di forza d’urto contro il regime di Assad in Siria, la cui deposizione rimane l’obiettivo primario degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione.

In questo scenario caotico, quel che appare certo è che i rinforzi americani che giungeranno in Iraq non attenueranno in nessun modo il livello di conflitto attuale ma contribuiranno anzi ad alimentare un clima di violenza la cui responsabilità è da attribuire principalmente proprio al governo di Washington.

Oltre alle forze USA, poi, altri paesi alleati hanno già annunciato l’invio a Baghdad di propri soldati “istruttori”, come la Gran Bretagna o la stessa Italia, a cui dovrebbe essere assegnato un compito di primo piano nell’addestramento della polizia irachena.


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