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di Michele Paris
Il giorno dopo la gravissima umiliazione patita dalle forze armate del regime golpista di Kiev a Debaltsevo, i quattro protagonisti dell’accordo per il cessate il fuoco raggiunto settimana scorsa a Minsk - Hollande, Merkel, Poroshenko, Putin - hanno ribadito il loro impegno per la sospensione delle ostilità in Ucraina sud-orientale. La momentanea fiducia nella tregua ribadita dai leader occidentali e da Kiev a fronte del più recente successo dei “ribelli” filo-russi conferma le condizioni disperate in cui versa il regime, scosso da una situazione militare probabilmente irrimediabile e da una crisi economica di proporzioni drammatiche.
Ufficialmente, da Washington a Parigi e da Berlino a Kiev, le “violazioni” del cessate il fuoco da parte delle forze armate delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk sono state duramente condannate, ma nessuno degli sponsor di Kiev ha ritenuto finora di dover dichiarare defunto l’accordo di Minsk.
I filo-russi, da parte loro, subito dopo Minsk avevano fatto sapere di non considerare valide le condizioni della tregua in relazione alla città di Debaltsevo, punto nevralgico che connette Donetsk e Lugansk. Per questa località, l’amministrazione Poroshenko si era rifiutata di riconoscere che i propri militari erano da tempo sotto l’assedio dei “ribelli”, escludendo perciò di fatto lo stop immediato degli scontri e prolungandoli così di qualche giorno con la perdita di un numero imprecisato di soldati ucraini.
I leader dei separatisti avevano da giorni invitato i soldati ucraini rimasti a Debaltsevo ad arrendersi e a consegnare le armi, così come aveva fatto lo stesso presidente russo, ma l’ordine del ritiro da parte di Poroshenko è arrivato solo nella giornata di mercoledì.
Con la ritirata delle truppe governative da Debaltsevo, le due parti hanno lasciato intendere che i termini della tregua cominceranno a essere implementati. L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) ha fatto sapere giovedì che i suoi osservatori non hanno ancora riscontrato alcun ritiro delle armi pesanti dalle “linee di contatto” stabilite a Minsk. Tuttavia, ciò dovrebbe iniziare non appena le ostilità saranno definitivamente cessate lungo tutta la linea del fronte. Nella giornata di giovedì, fuoco di artiglieria è stato registrato sia a Debaltsevo sia in altre località dell’Ucraina sud-orientale.
La perdita di Debaltsevo ha suggellato una campagna disastrosa fatta di sconfitte nelle ultime settimane per le forze di Kiev e, pur apparendo inevitabile, rischia di avere pesanti ripercussioni per il regime, sia dal punto di vista strategico che politico.
Per molti osservatori indipendenti del conflitto, il territorio ora in mano ai filo-russi consentirà loro di affrontare un’eventuale ripresa della guerra da una posizione di forza, rendendo probabilmente inefficaci anche possibili forniture massicce di armi a favore di Kiev da parte dei governi occidentali.
Sul fronte domestico, il presidente Poroshenko appare poi ulteriormente indebolito, con i rivali interni - a cominciare dal primo ministro Yatseniuk - che potrebbero accelerare le manovre allo studio da tempo per costringerlo a farsi da parte.
La nuova offensiva contro i “ribelli”, tentata a partire dallo scorso gennaio da parte del governo ucraino, era stata infine un tentativo per far fronte ai problemi interni con una campagna militare sanguinosa. Questa strategia si è però ritorta contro Poroshenko e ha finito per evidenziare tutte le debolezze del suo governo e, a giudicare dai risultati sul campo, la sostanziale mancanza di consenso nel paese per un conflitto fratricida alimentato dalle mire strategiche dell’Occidente.
La disperazione del presidente e dei suoi sostenitori si è manifestata anche nella richiesta avanzata mercoledì di una presenza di caschi blu dell’ONU in Ucraina sud-orientale. La supplica di Poroshenko è dettata da vari fattori, a cominciare dalla consapevolezza della fragilità delle proprie forze armate, difficilmente in grado di sostenere una nuova avanzata dei separatisti.
Parallelamente, almeno secondo le repliche dei leader di Donetsk e Lugansk, il regime di Kiev intenderebbe in questo modo sottrarsi agli impegni sottoscritti a Minsk. L’inviato della Repubblica Popolare di Donetsk presso il cosiddetto “Gruppo di Contatto”, Denis Pushilin, è stato citato giovedì sull’argomento dall’agenzia di stampa russa Tass, secondo la quale avrebbe sostenuto che il dispiegamento di “forze di peacekeeping lungo la frontiera russo-ucraina del Donbass sarebbe una violazione dell’accordo del 12 Febbraio”.
L’intesa sottoscritta la scorsa settimana richiede infatti che il governo di Kiev “negozi le questioni relative alla linea di confine con le forze di auto-difesa”, ovvero i separatisti filo-russi, “dopo elezioni municipali e riforme costituzionali” in senso federalista o autonomista.
Sempre giovedì, la richiesta di Poroshenko è stata bocciata anche da Mosca. Il portavoce del ministero degli Esteri, Alexander Lukashevich, ha ricordato che la base per una risoluzione del conflitto è rappresentata esclusivamente dagli accordi di Minsk. L’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, ha aggiunto che nell’intesa del 12 febbraio non sono previsti ruoli di garanzia per l’ONU o l’UE - bensì solo per l’OSCE - e che, di conseguenza, Kiev dovrebbe “lavorare per implementare quanto ha sottoscritto” piuttosto che proporre nuove soluzioni.
Il sempre più evidente fallimento del disegno occidentale in Ucraina per sottrarre interamente questo paese all’influenza di Mosca non comporta comunque in nessun modo il venir meno del rischio di una ripresa del conflitto tra le forze di Kiev e i separatisti o, nella peggiore delle ipotesi, di una guerra catastrofica tra potenze nucleari.
L’irresponsabilità dei governi occidentali, con Washington in prima fila, nel perseguimento dei propri obiettivi strategici non va infatti sottovalutata. Allo stesso modo, il regime di Kiev ha già utilizzato precedenti sospensioni del conflitto per riorganizzare le proprie truppe e rilanciare le operazioni militari contro i separatisti.
L’amministrazione Obama, inoltre, non sembra intenzionata a recedere dalle minacce e dalle pressioni sulla Russia. Questa settimana, ad esempio, la portavoce del Dipartimento di Stato USA, Jen Psaki, ha confermato che l’ipotesi di fornire armi al regime ucraino rimane “sul tavolo”, nonostante il cessate il fuoco e nonostante il Cremlino abbia fatto sapere che questa mossa verrebbe considerata come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale russa.
L’atteggiamento dell’Unione Europea appare invece più sfumato visti gli interessi in gioco in relazione ai rapporti con Mosca, ben maggiori da questa parte dell’oceano rispetto a Washington. Tra i paesi membri ci sono anche profonde differenze, risultate nuovamente molto chiare qualche giorno fa con la visita di Putin a Budapest, conclusasi con una critica non troppo velata da parte del premier ungherese, Viktor Orbán, alla posizione di Bruxelles sulla questione ucraina.
In ogni caso, almeno ufficialmente l’UE continua a mostrare il proprio sostanziale allineamento agli Stati Uniti, sia pure escludendo l’ipotesi di inviare armi a Kiev. La numero uno della politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, ha ribadito mercoledì che i 28 governi membri “rimangono pronti a intraprendere le misure appropriate nel caso dovessero continuare gli scontri o [verificarsi] altri sviluppi negativi in violazione degli accordi di Minsk”.
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di Michele Paris
Al fine di implementare le “riforme” di libero mercato ordinate dai centri del potere economico-finanziario e osteggiate dalla gran parte delle popolazioni, i governi europei continuano a mostrare una totale assenza di scupoli nel calpestare o, quanto meno, forzare le regole democratiche consolidate. Un caso esemplare di questa attitudine si è osservato martedì in Francia, quando il governo “socialista” del primo ministro, Manuel Valls, e del presidente, François Hollande, ha fatto ricorso a una discussa norma costituzionale per fare approvare un pacchetto di legge senza il voto dell’Assemblea Nazionale, ovvero la camera bassa del parlamento di Parigi.
La manovra si è resa necessaria in seguito alla probabile bocciatura che attendeva la cosiddetta “Legge Macron” (“Loi Macron”), contro la quale avevano dichiarato di voler votare anche svariati deputati del Partito Socialista. La legge in questione prende il nome dal ministro dell’Economia, l’ex banchiere d’investimenti Emmanuel Macron, e contiene, tra l’altro, misure per liberalizzare il mercato del lavoro e una serie di professioni, limitare alcuni diritti dei lavoratori dipendenti e privatizzare numerose aziende pubbliche.
Contro la legge, alcuni mesi fa erano state registrate varie proteste in Francia e la sua presentazione da parte del governo ha contribuito al livello infimo di gradimento goduto attualmente dal presidente Hollande e dal suo partito.
Le politiche di austerity e di liberalizzazione dell’economia perseguite dai governi “socialisti” succedutisi negli ultimi tre anni non solo hanno provocato un’esplosione del conflitto sociale in Francia ma, di riflesso, hanno aperto profonde divisioni all’interno dello stesso partito al potere. Una consistente “fronda” è infatti critica verso il nettissimo spostamento a destra del governo e minaccia costantemente di negare il proprio appoggio alle iniziative di legge d’impronta liberista presentate in Parlamento.
Nell’estate del 2014 lo scontro interno al Partito Socialista era addirittura sfociato nel licenziamento di alcuni ministri, tra cui quello dell’Economia, Arnaud Montebourg, dopo che questi ultimi avevano criticato pubblicamente la deriva reazionaria dell’esecutivo guidato da Valls.
Le difficoltà e gli espedienti anti-democratici intrapresi dal primo ministro e da Hollande per fare avanzare la propria agenda ultra-liberista sono la conseguenza della crescente impopolarità della loro azione politica. L’approvazione di iniziative come quella avanzata forzatamente questa settimana è dunque possibile solo grazie a manovre di più che dubbia legittimità, necessarie per piegare l’opposizione dalla maggior parte dei francesi.
Per quanto riguarda la Legge Macron, il governo sembrava inizialmente certo di ottenere i voti per la sua approvazione ma, con l’approssimarsi dell’appuntamento in aula, alcuni deputati della “fronda” socialista hanno manifestato l’intenzione di votare contro il provvedimento invece di astenersi, come avevano fatto finora sulle questioni più delicate per non mettere a rischio l’esecutivo.
Secondo il quotidiano Libération, Valls si è trovato di fronte al rischio di vedere bocciato il provvedimento per una manciata di voti e ha deciso così di chiedere al presidente Hollande di ricorrere all’articolo 49.3 della Costituzione transalpina. Questo articolo consente al governo di far passare un testo di legge all’Assemblea Nazionale senza un voto dell’aula e di inviarlo direttamente al Senato.
Una “mozione di censura” può essere però presentata dall’Assemblea per bloccare la legge, ma essa necessita del voto della maggioranza assoluta dei suoi membri e, in caso di esito positivo, determina automaticamente la caduta del governo.
Il calcolo di Hollande e del governo è apparso subito evidente. Mentre i deputati socialisti rivoltosi erano pronti a bocciare la Legge Macron, essi non saranno con ogni probabilità disposti a prendersi il rischio di mettere in crisi il governo e forzare nuove elezioni che penalizzerebbero severamente il loro partito, favorendo in primo luogo il Fronte Nazionale di Marine Le Pen.
Allo stesso tempo, il presidente spera di ricompattare in qualche modo la sua maggioranza, almeno momentaneamente, offrendo inoltre ai deputati “dissidenti” la copertura politica necessaria per appoggiare il governo pur mostrandosi contrari ad approvare la Legge Macron.
Una “mozione di censura” è stata comunque presentata dai deputati dei principali partiti di opposizione di centro-destra - UMP (Unione per un Movimento Popolare) e UDI (Unione dei Democratici e Indipendenti) - ma, nel dibattito previsto per giovedì, le possibilità che venga approvata risultano praticamente nulle vista la maggioranza detenuta dai “socialisti” e dal loro partner di governo (Partito Radicale di Sinistra, PRG).
La presa di posizione delle opposizioni, in ogni caso, non comporta una critica al pacchetto di legge Macron, ma è a sua volta una manovra politica per provare a far cadere il governo o, per lo meno, acuire le divisioni nel Partito Socialista.
In Francia, all’articolo 49.3 della Costituzione viene fatto raramente ricorso da parte dei presidenti. L’ultima volta fu nel 2006 con Jacques Chirac all’Eliseo e Dominique de Villepin alla guida di un governo che cercava di imporre un’altra “riforma” del mercato del lavoro nonostante le proteste di piazza. In quell’occasione, lo stesso Hollande aveva condannato duramente l’iniziativa, bollandola come “un atto di brutalità”, “la negazione della democrazia” e un modo per “impedire il dibattito parlamentare”.
I tre leader “socialisti” - Hollande, Valls e Macron - hanno ad ogni modo difeso la decisione di fare appello all’articolo 49.3, motivandola con la necessità di approvare a tutti i costi un provvedimento che servirebbe “per il bene del paese”. Il presidente ha mostrato tutte le sue inclinazioni democratiche mercoledì, affermando che il governo “non aveva tempo da perdere né rischi da prendere”. Il ministro Macron ha invece ricordato la presunta disponibilità del governo a discutere la legge che porta il suo nome, alla quale sarebbero stati accettati “più di mille emendamenti”.
Gli sviluppi di questa settimana in Francia confermano l’aggravamento della crisi in un cui si dibattono il presidente Hollande e il suo governo. La leadership “socialista” ha scelto di rischiare uno scontro frontale con i parlamentari “ribelli” del partito pur di riuscire a mandare in porto un pacchetto di “riforme” profondamente impopolari ma chieste a gran voce dai vertici europei, da Berlino e, più in generale, dagli ambienti del business domestico e internazionale.
Leggendo tra le righe di quanto ha scritto mercoledì il Wall Street Journal, risultano chiare le forze che agiscono sull’adozione di politiche di destra a Parigi come altrove in Europa. La testata americana ha ricordato come, “da anni, Hollande sia esposto alle pressioni di Germania e UE per implementare le riforme economiche”.
“Con una crescita ferma allo 0,4% negli ultimi tre anni e la disoccupazione in doppia cifra”, spiega il Journal, “la Francia è in ritardo anche rispetto alla timida ripresa economica dell’eurozona”. Il prossimo 27 febbraio, infine, “il ramo esecutivo dell’Unione Europea [Commissione Europea] dovrà decidere se applicare sanzioni contro la Francia per avere ripetutamente mancato le scadenze fissate per la riduzione del deficit di bilancio”.
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di Antonio Rei
Tra le grandi domande che l’Europa si pone, una più di altre echeggia fino a Roma: che accidenti di fine ha fatto Federica Mogherini? In teoria, l’ex ministro degli Esteri del governo Renzi è oggi Alto rappresentante della Politica estera dell’Unione europea. In pratica, di Alto c’è solo il suo livello di trasparenza. Nel musical Chicago avrebbe la parte di “Mr Cellophane”.
A giudicare dal ruolo riconosciuto all’Alto rappresentante, sembrerebbe un periodo di calma piatta sul fronte della diplomazia europea. Cosa volete che sia la guerra brutale nell’est dell’Ucraina? E l’atmosfera da Anni Sessanta fra la Nato e Mosca? E i tagliagole dell’Isis, che divorano la Libia, minacciando Italia e Europa? E la Grecia, che sfida Bruxelles sui conti, sfilacciando i rapporti diplomatici in mezzo continente? Poca roba. A quanto pare, nessuna di queste crisi richiede che l’Alto rappresentante sieda al tavolo da protagonista. E nemmeno che si renda minimamente visibile.
In fondo, che bisogno c’è di scomodare l’ex ministro italiano? A Minsk, per trattare con Putin e Poroshenko, c'erano Merkel e Hollande. D’accordo, in teoria rappresentano solo Germania e Francia, ma che l’Unione europea sia formata da 28 Stati è poco più di una favola della buonanotte: si scrive Ue, si legge direttorio tedesco-francese (e non franco-tedesco). La questione libica, invece, sarà presto affrontata a livello di Nazioni Unite, bypassando completamente le autorità comunitarie. Quanto alla Grecia, ormai, in Europa si è arrivati alla fase dell’insulto libero. Defilarsi è un riflesso comprensibile.
Un dubbio però rimane: dal momento che nessuno l’ha mai vista scendere in campo in alcuna di queste partite, di cosa si occupa, dalla mattina alla sera, Federica Mogherini? Probabilmente se lo domanda soprattutto il premier italiano, Matteo Renzi, che sulla bionda romana aveva scommesso parecchio, rifiutando poltrone europee ben più prestigiose offerte ad altri nostri connazionali (nomi ovviamente sgraditi a Palazzo Chigi, come quello di Enrico Letta), pur di piazzare la bandierina tricolore sull’Alto rappresentante. D'altronde, a Washington faceva piacere un italiano in quella casella. Siamo pur sempre la patria di Collodi, ne sappiamo qualcosa di burattini.
Ciò non toglie che, a rileggere le affermazioni di Renzi dopo la nomina di Mogherini a Lady Pesc, si venga sopraffatti da un moto di tenerezza: "Per noi si tratta del conferimento di una responsabilità importante - aveva detto il Presidente del Consiglio -. L'Europa che noi vogliamo non è solo vincoli e spread, ma Erbil, Baghdad, le relazioni tra Europa e Russia, una politica estera molto, molto importante. Oggi una nuova generazione di leader assume grandi responsabilità". Ad esempio quella di sparire dai radar mentre tutto quello che poteva andare male sta andando peggio.
A onor del vero, però, in una recente intervista-autodifesa a Il Corriere della Sera, Mogherini ha respinto con forza queste accuse, dipingendosi come la diplomatica che lavora nell'ombra al tavolo ucraino: "Dal mio punto di vista - ha assicurato - la cosa più importante non è la photo-opportunity, ma contano il gioco di squadra e la ricerca di un risultato, che c’è stato. Il successo di Minsk è di tutta l’Europa, lo abbiamo costruito insieme: in attesa del vertice non siamo stati a guardare la partita, abbiamo lavorato e discusso con Lavrov, Poroshenko, Kerry, Biden e tutti i Paesi europei per facilitare l’operazione. Ricordo anche che giovedì il Consiglio europeo ha riconfermato che questa è la politica di tutta la Ue".
Capito? Conta "il gioco di squadra". E in una squadra, si sa, a qualcuno tocca sempre la panchina.
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di Michele Paris
A sei mesi dall’inizio dei bombardamenti americani in Siria e in Iraq contro lo Stato Islamico (ISIS), il presidente Obama ha presentato al Congresso di Washington una richiesta ufficiale per la concessione, da parte dell’organo legislativo USA, di una nuova Autorizzazione all’Uso della Forza Militare (AUMF) per legittimare e proseguire una guerra senza fine in Medio Oriente e altrove.
La proposta della Casa Bianca ha subito innescato un acceso “dibattito” tra i parlamentari di entrambi gli schieramenti, con i repubblicani generalmente critici verso una richiesta di autorizzazione che, a loro dire, restringerebbe eccessivamente la libertà di manovra del presidente e, al contrario, la maggior parte dei democratici che la giudicano troppo flessibile, in quanto il presidente avrebbe facoltà di agire in totale libertà sul fronte della “guerra al terrore”.
Nella sua richiesta, Obama auspica un’autorizzazione per condurre operazioni militari contro l’ISIS oppure “persone o forze associate”, definite come chiunque “combatta per, a sostegno o a fianco dell’ISIS o qualsiasi entità a esso associata o che lo succeda nelle ostilità contro gli Stati Uniti o i loro partner di coalizione”.
Il linguaggio della richiesta di autorizzazione alla forza è ancora più vago in relazione al tipo di intervento militare consentito. L’AUMF voluta da Obama esclude cioè “operazioni di combattimento durature e di natura offensiva con forze di terra”. Questa definizione è stata attentamente studiata dalla Casa Bianca per soddisfare sia i membri del Congresso democratici, nominalmente contrari a un nuovo conflitto di lunga durata e con il pieno coinvolgimento degli Stati Uniti, sia una popolazione americana in gran parte contraria a nuove guerre all’estero.
A ben vedere, però, questi limiti all’uso della forza militare sono facilmente superabili, come dimostra l’attuale conflitto in corso in Medio Oriente e quelli scatenati dagli Stati Uniti in passato. Non solo il concetto di operazioni “durature” è di per sé molto flessibile, ma qualsiasi iniziativa bellica americana è stata e può continuare a essere definita “difensiva” anziché “offensiva” a piacimento del governo.
La dichiarata esclusione dell’uso di truppe di terra è inoltre una farsa, visto che vi sono innumerevoli definizioni con cui gli USA giustificano il dispiegamento di propri uomini sul campo con compiti sostanzialmente di combattimento. Come sta accadendo in Iraq, ad esempio, i soldati americani impegnati contro l’ISIS sono definiti “consiglieri” o “addestratori”, mentre vere e proprie operazioni di guerra sono condotte dai membri delle Forze Speciali, le quali appunto non sono regolamentate dall’AUMF richiesta da Obama.
Da notare, inoltre, che la nuova richiesta di autorizzazione all’uso della forza non comporta vincoli territoriali, mentre è del tutto risibile anche il limite di validità stabilito in tre anni. Qualsiasi paese del pianeta potrebbe dunque diventare un teatro di guerra, compreso lo stesso territorio degli Stati Uniti.
Quest’ultima ipotesi non è una semplice speculazione, come hanno velatamente prospettato nelle ultime settimane svariati esponenti di spicco dell’apparato della sicurezza nazionale USA, i quali hanno messo in guardia dal ritorno in patria di un numero indefinito di affiliati all’ISIS, ovviamente pronti a mettere in atto sanguinosi attentati terroristici.
Nel secondo caso, invece, il prolungamento dell’autorizzazione all’uso della forza militare oltre i tre anni previsti dovrebbe essere deciso da un nuovo voto del Congresso ma, visti i precedenti nell’ultimo decennio, ciò si risolverebbe quasi certamente in una pura formalità.
Un ulteriore aspetto chiarisce poi come la richiesta presentata pochi giorni fa da Obama al Congresso sia in definitiva una manovra per dare una facciata di legalità a una guerra illegale.
L’AUMF che dovrebbe essere votata nel prossimo futuro rescinderebbe cioè l’autorizzazione all’uso della forza approvata dal Congresso nel 2002, che consentì all’amministrazione Bush di invadere l’Iraq, ma lascerebbe intatta quella ben più ampia del 2001, votata subito dopo gli attentati dell’11 settembre e che servì ufficialmente per dare la caccia ai membri di al-Qaeda.
Proprio su quest’ultima autorizzazione si era basata la decisione presa la scorsa estate da Obama di scatenare una nuova guerra in Medio Oriente, questa volta contro l’ISIS, e il presidente democratico ha infatti tenuto a sottolineare che l’autorizzazione che sta chiedendo al Congresso è di fatto superflua, visto che già “le leggi esistenti mi assegnano l’autorità necessaria” a condurre la guerra.
L’interrogativo cruciale in merito al dibattito in corso sulla nuova AUMF è legato così al senso di un voto del Congresso che, anche in caso di bocciatura, non avrebbe conseguenze sulla più recente avventura bellica USA nel mondo arabo.
Secondo quanto dichiarato pubblicamente da Obama, la necessità di avere la benedizione ex post del Congresso dovrebbe servire a sanzionare l’unità delle istituzioni del paese nell’appoggio alla guerra contro l’ultima creatura del terrorismo internazionale. I giornali americani hanno inoltre sostenuto che la proposta di Obama sarebbe dettata da un desiderio di quest’ultimo di fissare alcuni limiti ai poteri presidenziali.
Come è già stato detto in precedenza, i limiti ai poteri del presidente stabiliti dalla nuova AUMF sono però solo apparenti e, oltretutto, una simile attitudine da parte di Obama sarebbe quanto meno insolita dopo oltre sei anni nei quali l’inquilino della Casa Bianca è andato nella direzione esattamente opposta. Obama ha cioè ampliato costantemente le facoltà previste dal suo incarico, andando anche oltre il suo predecessore fino a comprendere il potere di decidere personalmente l’assassinio segreto ed extra-giudiziario di cittadini americani sospettati di legami terroristici.
In realtà, la nuova autorizzazione all’uso della forza militare viene richiesta da Obama perché, dietro all’apparente limitazione dei poteri di guerra assegnati al presidente e all’esecutivo, rispetto all’AUMF del 2002 allarga drasticamente le facoltà di dichiarare guerra e condurre operazioni militari ovunque siano in gioco gli interessi USA.
Aggiugendosi all’autorizzazione del 2001, così, l’AUMF in discussione fornirebbe una base pseudo-legale formidabile per utilizzare ancora più liberamente e fuori da qualsiasi serio controllo del Congresso, e quindi della popolazione, la forza militare come strumento della politica estera americana, la cui caratteristica essenziale appare ormai lo stato di guerra permanente.
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di Michele Paris
L’atteso vertice di Minsk, andato in scena tra la serata di mercoledì e le prime ore di giovedì, si è concluso con un debole accordo per il cessate il fuoco in Ucraina sud-orientale che dovrebbe mettere fine alle ostilità tra le forze di Kiev e i “ribelli” filo-russi a partire dalla mezzanotte di domenica prossima. Il compromesso concordato tra i presidenti di Russia, Ucraina, Francia - Putin, Poroshenko, Hollande - e la cancelliera tedesca Merkel è giunto però nel pieno di un’escalation militare e delle minacce americane di fornire armi “difensive” al regime golpista ucraino, rendendo poco incoraggianti le prospettive di pace in Europa orientale.
Il successo principale delle discussioni nella capitale bielorussa starebbe proprio nella dichiarazione della tregua senza condizioni, visto che sulle questioni più delicate del conflitto l’intesa appare debolissima e i disaccordi ancora sensibili.
Le maggiori preoccupazioni erano rappresentate dalla resistenza dei rappresentanti delle cosiddette Repubbliche Popolari di Donestsk e Lugansk a cedere il territorio conquistato a partire dal “memorandum di Minsk” siglato lo scorso settembre e quasi subito violato da entrambe le parti.
Nel testo sottoscritto giovedì si è stabilito che le forze di Kiev dovranno ritirare le loro armi pesanti a partire “dall’effettiva linea di contatto”, mentre i “ribelli” avranno come riferimento “la linea di contatto” stabilita a settembre. In sostanza, questi ultimi dovranno sgombrare la porzione di territorio conquistata negli ultimi mesi ma, almeno per il momento, essa non verrà rioccupata dal governo.
Il ritiro delle armi pesanti dovrà essere completato entro 14 giorni dall’inizio del cessate il fuoco, il quale sarà monitorato sul campo dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE).
Il nuovo accordo ribadisce poi la necessità di concordare una riforma costituzionale che, pur garantendo l’integrità territoriale dell’Ucraina, preveda un “elemento di decentralizzazione” per le aree di Donetsk e Lugansk. Questa condizione è da tempo richiesta dalla Russia, anche se Mosca non ha mai cercato di imporre la struttura da dare allo Stato ucraino. Attorno ad essa rimangono profondi disaccordi, evidenziati anche dallo stesso presidente Poroshenko subito dopo il vertice di Minsk. Sulla sua pagina Facebook, il leader ucraino ha scritto infatti che il progetto di autonomia che avrebbe in mente per le regioni sud-orientali non si tradurrà in una struttura “federativa” del paese.
Un altro punto spinoso era il ristabilimento del sistema di pagamento da parte di Kievi di pensioni e stipendi pubblici nelle regioni controllate dai “ribelli”, interrotto da tempo dal governo con l’adozione di una sorta di “embargo economico”. Il documento stabilisce però soltanto che vengano decise le modalità specifiche per normalizzare la situazione in questo ambito, lasciando molti dubbi circa una soluzione rapida.
I 13 punti concordati a Minsk sono stati sottoscritti dai membri del cosiddetto “Gruppo di Contatto” - Russia, Ucraina, Repubbliche di Donetsk e Lugansk, OSCE - mentre i governi che hanno condotto le trattative a Minsk hanno emesso una dichiarazione a sostegno del lavoro svolto nella capitale bielorussa.
La Merkel e Hollande si sono recati giovedì a Bruxelles per un summit UE nel quale è prevalsa la cautela sugli sviluppi della crisi ucraina. I leader europei hanno escluso un allentamento delle sanzioni contro la Russia, in attesa, a loro dire, che l’accordo dia qualche frutto.
Le discussioni a Minsk erano state più volte prolungate a partire da mercoledì sera a causa delle divergenze tra le parti e dell’irremovibilità di alcuni partecipanti. Secondo Hollande, i rappresentanti dei “ribelli” avrebbero a un certo punto respinto la bozza di accordo, per poi fare marcia indietro. Per Putin, al contrario, la laboriosità dei negoziati sarebbe da attribuire al governo di Kiev, il quale si è a lungo rifiutato di parlare direttamente con i “ribelli”.
La fragilità dell’accordo è stata confermata anche dal leader della Repubblica Popolare di Donestsk, Aleksandr Zakharchenko, per il quale “se i termini stabiliti [a Minsk] saranno violati, non ci saranno altri vertici o memorandum”.
Il successo dell’intesa appena raggiunta dipende insomma dalla complicata applicazione di una serie di condizioni a partire già dai prossimi giorni. Soprattutto, la fragile intesa di Minsk non cambia il quadro politico e militare creatosi a un anno dal colpo di stato a Kiev, sponsorizzato dai governi occidentali.
In qualche modo, il cessate il fuoco raggiunto giovedì può essere considerato il risultato della volontà dei governi europei di ridurre le tensioni in Ucraina e segnare una certa distanza tra le proprie posizioni e quelle più apertamente guerrafondaie degli Stati Uniti. I rappresentanti di Washington erano infatti assenti a Minsk, pur avendo con ogni probabilità mantenuto costantemente i contatti con i leader europei e, soprattutto, con il presidente ucraino.
Più realisticamente, l’accordo sembra rappresentare un rallentamento temporaneo dell’escalation di provocazioni da parte degli sponsor di Kiev, dettato da un drammatico peggioramento sia della situazione militare sia di quella economica che minaccia la tenuta stessa del regime.
Non a caso, l’annuncio della tregua è coinciso con la notizia che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha accettato di sborsare 17,5 miliardi di dollari in “aiuti” per l’Ucraina, parte di un pacchetto di “salvataggio” che ammonterebbe complessivamente a 40 miliardi. L’FMI aveva sempre sostenuto di non potere intervenire in Ucraina se lo stallo militare nel sud-est del paese non fosse stato risolto.
Osservando gli sviluppi degli ultimi mesi, inoltre, è impossibile non dubitare del fatto che il regime di Kiev e i sui protettori in Occidente desiderino sfruttare lo stop ai combattimenti per riorganizzare le forze e progettare una nuova offensiva militare contro i separatisti filo-russi nel prossimo futuro. Sia l’accordo di giovedì sia quello dello scorso settembre sono giunti d’altra parte dopo pesanti perdite militari per le forze del governo e le milizie neo-naziste con cui collaborano nel reprimere la rivolta dei filo-russi.
Le pressioni su Mosca restano poi invariate, con le sanzioni economiche tuttora in vigore e le sempre più frequenti iniziative militari decise da Washington. Proprio mercoledì, ad esempio, il comandante delle forze armate USA in Europa, generale Ben Hodges, ha fatto sapere che a partire dal prossimo mese di marzo 600 soldati americani approderanno in Ucraina per addestrare le truppe locali.
La già ricordata ipotesi di trasferire armi direttamente al governo di Kiev è stata inoltre confermata questa settimana anche dal presidente Obama, dopo un incontro alla Casa Bianca con la Merkel, se la diplomazia non dovesse portare a risultati concreti, mentre la Camera dei Rappresentanti di Washington ha approvato una legge che autorizza forniture militari a Kiev per un miliardo di dollari.
L’annuncio dell’accordo di Minsk è stato infine offuscato da un’altra notizia provocatoria, quella cioè che l’aeronautica militare americana settimana prossima invierà in Europa alcuni velivoli da guerra per partecipare a un’esercitazione militare con gli alleati NATO dell’ex blocco sovietico, con l’obiettivo definito, nel consueto linguaggio orwelliano dei vertici politici e militari di Washington, di “dimostrare l’impegno degli USA per la sicurezza e la stabilità” del vecchio continente.