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di Mario Lombardo
Un’accesissima disputa tra due dei più potenti oligarchi che controllano l’economia e la politica in Ucraina è sfociata mercoledì nel clamoroso licenziamento del governatore della regione sud-orientale di Dnipropetrovsk, Ihor Kolomoyskyi, da parte del presidente, Petro Poroshenko. I due oligarchi in questione sono ovviamente gli stessi Kolomoyskyi e Poroshenko, il cui scontro è causato da questioni politiche ed economiche, con possibili gravi ripercussioni sul regime golpista di Kiev già in profonda crisi.
Al centro del confronto tra i due imprenditori e politici ci sarebbe il controllo di un paio di compagnie semi-pubbliche del settore energetico, sulle quali Kolomoyskyi da tempo esercita la propria influenza attraverso la scelta del management, nonostante possegga quote minoritarie.
Nell’edificio di Kiev che ospita il quartier generale di una delle due compagnie - Ukrnafta -domenica scorsa hanno fatto irruzione uomini armati in tenuta militare, appartenenti probabilmente alle milizie di volontari finanziate da Kolomoyskyi che appoggiano le forze del regime nella repressione dei filo-russi nell’est del paese.
Lo stesso governatore di Dnipropetrovsk è stato avvistato nella sede di Ukrnafta a tarda ora e, come hanno spiegato i media locali e internazionali, il blitz sarebbe avvenuto in risposta alla decisione presa dal presidente Poroshenko di sostituire il numero uno della compagnia petrolifera e del gas naturale.
Il tentativo messo in atto da Kolomoyskyi per mantenere il controllo su Ukrnafta è stato subito sventato dalle autorità di Kiev. Il ministro dell’Interno, Arsen Avakov, lunedì ha rivolto al gruppo armato un ultimatum di 24 ore per restituire il controllo della compagnia al governo, mentre Poroshenko ha ordinato l’arresto degli uomini considerati al servizio dell’oligarca rivale. Il presidente ucraino, infine, nella notte tra martedì e mercoledì ha rimosso Kolomoyskyi dal proprio incarico di governatore, apparentemente dopo un incontro con quest’ultimo a Kiev.
Kolomoyskyi era considerato fino a poco tempo fa un fedelissimo di Poroshenko, dal quale era stato scelto per guidare la principale regione industriale dell’Ucraina. Dnipropetrovsk confina a est con l’autoproclamata repubblica autonoma filo-russa di Donetsk e, nel pieno del conflitto tra i “ribelli” e le forze di Kiev, il presidente aveva offerto la posizione di governatore della regione a un importante oligarca in cambio di un contributo militare sotto forma di finanziamento a milizie private per evitare il contagio della rivolta.
L’offensiva di Poroshenko contro Kolomoyskyi, come ha scritto martedì il Moscow Times, sarebbe volta a contrastare gli sforzi dell’ormai ex governatore per “allargare la propria influenza a livello nazionale” e far sentire la propria voce sulle questioni relative alla politica estera e alla difesa dell’Ucraina.
Al posto di Kolomoyskyi è stato così installato temporaneamente un uomo molto vicino a Poroshenko, il governatore della regione confinante di Zaporizhia, Valentyn Reznichenko, già a capo di un’agenzia governativa che si occupa di frequenze radiofoniche e legato per motivi d’affari al capo di gabinetto del presidente.
La rottura con Kolomoyskyi potrebbe avere ripercussioni negative per il regime di Kiev, soprattutto a causa del possibile venir meno dell’appoggio delle milizie controllate dall’oligarca licenziato. Il New York Times ha ad esempio riportato la notizia che dalle strade della città di Odessa, nel sud-est dell’Ucraina, sono sparite le milizie private che avevano contribuito al “mantenimento dell’ordine”. Il governatore di Odessa, Ihor Palytsia, sarebbe un alleato di Kolomoyskyi ed è stato un dirigente della compagnia Ukrnafta.
Proprio attorno all’eccessivo peso delle milizie armate si erano scontrati nei giorni scorsi Poroshenko e Kolomoyskyi. Lunedì, il presidente aveva pubblicato sul proprio sito web una dichiarazione nella quale esponeva la necessità di “integrare verticalmente” nell’esercito regolare i gruppi paramilitari, mentre in un precedente incontro con i giornalisti Kolomoyskyi aveva sostenuto che, con un suo ordine, duemila uomini armati avrebbero potuto arrivare a Kiev nel giro di poche ore.
Sempre Poroshenko aveva inoltre tenuto un discorso di fronte ai vertici militari, promettendo che ai governatori delle regioni ucraine non sarebbe stato permesso di continuare a disporre di proprie milizie private.
Il confronto tra i due oligarchi ha approfondito divisioni già evidenti da tempo nel parlamento di Kiev (Verkhovna Rada) e nello stesso partito del presidente. Il capo del Servizio di Sicurezza ucraino, Valentyn Nalivaichenko, lunedì ha accusato i deputati alleati di Kolomoyskyi e i membri della sua amministrazione a Dnipropetrovsk di proteggere gang criminali responsabili di rapimenti, omicidi e contrabbando.
Parallelamente, almeno cinque deputati fedeli a Kolomoyskyi hanno annunciato di volere abbandonare il partito di Poroshenko. Uno di essi, secondo il sito web d’informazione Vesti.ua, in una conferenza stampa avrebbe addirittura definito il presidente come un “assassino di civili nella regione di Donetsk”.
L’atteggiamento da tenere nei confronti delle regioni filo-russe è stato un altro fronte della battaglia tra Poroshenko e Kolomoyskyi. Alcune dichiarazioni relativamente concilianti di quest’ultimo avevano in particolare suscitato apprensione a Kiev, dove prevale decisamente la volontà di mantenere l’impegno militare contro le forze “ribelli”.
In un’intervista rilasciata alla rete televisiva di sua proprietà 1+1, Kolomoyskyi aveva definito le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk come “un fatto ormai compiuto”, invitando perciò il governo ad aprire negoziati con i loro leader.
L’agenzia di stampa ufficiale russa Itar-Tass ha inoltre citato le dichiarazioni del vice-governatore di Dnipropetrovsk, Gennady Korban, secondo il quale le autorità di Kiev avrebbero nascosto il vero numero di vittime patito dalle forze armate ucraine nel corso delle operazioni nel sud-est del paese contro i separatisti.
Un’analisi della stessa Itar-Tass ha anche cercato di far luce sui legami inestricabili tra le questioni economiche e politiche che alimentano lo scontro tra i due oligarchi ucraini e la crescente instabilità del regime filo-occidentale.
Un’analista dell’Istituto russo per i Problemi della Globalizzazione ha ad esempio sostenuto che “Kolomoyskyi ha messo le mani non solo sulla principale compagnia petrolifera e di gas naturale del paese, ma anche sulla più importante rete di oleodotti e gasdotti”, così che i suoi interessi in questo genere di business risultano “inseparabili dalla politica”.
Per questa ragione, “la questione del potere è in cima alla lista delle priorità” di Kolomoyskyi, il quale “può permettersi letteralmente di comprare la maggioranza del parlamento” e ciò, di conseguenza, “potrebbe portare al rovesciamento di Poroshenko”, magari “con l’aiuto di massicce manifestazioni di protesta”.
Il pericolo rappresentato da Kolomoyskyi per la sua influenza in un settore strategico come quello energetico e la disponibilità di un vero e proprio esercito personale privato hanno spinto dunque Poroshenko ad agire per annientare la minaccia, rivelando però nel contempo il grado di esposizione dell’Ucraina al volere di una manciata di oligarchi arricchitisi grazie al saccheggio di beni e risorse dello stato.
Per la maggior parte degli osservatori, Kolomoyskyi potrebbe alla fine desistere dai suoi obiettivi, almeno per il momento, soprattutto perché il presidente ucraino continua a godere del pieno sostegno dei padroni americani, ufficializzato nei giorni scorsi in seguito a un incontro tra lo stesso ex governatore e l’ambasciatore USA a Kiev, Geoffrey Pyatt.
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di Michele Paris
Il più recente capitolo dello scontro in atto tra l’amministrazione Obama e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha proposto questa settimana la pubblicazione negli Stati Uniti della notizia che il governo di Tel Aviv avrebbe spiato i negoziatori americani impegnati da mesi nelle trattive per giungere a un accordo sul programma nucleare dell’Iran.
A riportare la notizia è stata un’esclusiva del Wall Street Journal, il quale ha aggiunto che l’intelligence israeliana sarebbe anche entrata in possesso di informazioni relative ai negoziati attraverso “briefing americani confidenziali, informatori e contatti diplomatici in Europa”.
Se l’attività di spionaggio di Israele ai danni dell’alleato americano non è di per sé un evento nuovo né particolarmente clamoroso, a irritare la Casa Bianca è stato piuttosto l’uso che Netanyahu ha fatto delle informazioni raccolte sui colloqui attorno al nucleare iraniano.
Come per il discorso ai primi di marzo al Congresso di Washington, il premier israeliano ha tenuto in quest’ultima occasione un atteggiamento decisamente inconsueto e offensivo nei confronti del principale alleato del suo paese. Netanyahu ha cioè condiviso con i membri del Congresso degli Stati Uniti i dettagli dell’accordo in fase di discussione, così da convincerli a opporre la maggiore resistenza possibile a un’eventuale intesa con Teheran o, quanto meno, a fare pressioni sull’amministrazione Obama per ottenere umilianti concessioni dalla Repubblica Islamica.
Un anonimo esponente del governo USA ha riassunto il comportamento di Israele in una dichiarazione al Journal, affermando che Tel Aviv ha in sostanza “rubato segreti americani per usarli con i membri del Congresso e mettere a repentaglio la diplomazia” USA.
Secondo il quotidiano di Rupert Murdoch, la Casa Bianca sarebbe venuta a conoscenza delle operazioni israeliane clandestine grazie proprio all’intercettazione di comunicazioni tra membri del governo di Tel Aviv che contenevano particolari riservati relativi ai negoziati sul nucleare.
La smentita ufficiale del governo Netanyahu, come spesso accade con le attività clandestine di Israele, è probabilmente la migliore conferma della notizia diffusa dal Journal. L’intelligence israeliana sostiene in ogni caso di avere ottenuto le informazioni in questione da altre fonti, ad esempio attraverso intercettazioni dei nengoziatori iraniani e da consultazioni con paesi più disponibili degli Stati Uniti, come la Francia.
Al di là di questo aspetto, però, il dato più significativo è che l’amministrazione Obama ha dato il proprio assenso a imbeccare un giornale importante come il Wall Street Journal - non esattamente tra i sostenitori del presidente democratico - innescando una prevedibile nuova polemica nei confronti di Israele.
La rivelazione racconta di un Netanyahu e dell’ambasciatore israeliano a Washington, l’ex consulente di vari politici repubblicani negli USA, Ron Dermer, preoccupati dalla segretezza con cui l’amministrazione Obama aveva intrapreso colloqui preliminari diretti con rappresentanti della Repubblica Islamica per gettare le fondamenta di successivi negoziati internazionali.
Lo stesso Dermer avrebbe perciò avviato una campagna di “lobbying” a Washington, esponendo le ragioni del suo governo a deputati e senatori repubblicani ma, soprattutto, a quelli democratici. Gli israeliani avevano a disposizione materiale riservato proveniente direttamente dagli incontri tra i P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) e i delegati iraniani, grazie al quale hanno sostenuto la tesi che l’accordo in discussione avrebbe consentito a Teheran di liberarsi dalle sanzioni e procedere agevolmente verso la costruzione di ordigni nucleari.
In particolare, secondo la Casa Bianca, Israele avrebbe rivelato informazioni che gli USA intendevano mantenere segrete relativamente al numero e al genere di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio che l’Iran avrebbe facoltà di continuare a operare in base a un eventuale accordo.
Gli sforzi israeliani avrebbero però ottenuto l’effetto contrario, per lo meno riguardo ai membri democratici del Congresso, molti dei quali hanno immediatamente percepito la grave violazione dei protocolli diplomatici e il tentativo di scavalcare il presidente.
Su una possibile intesa tra l’Iran e i P5+1 continua comunque a pesare la minaccia del Congresso, dove la maggioranza repubblicana e parte dei democratici potrebbero approvare un provvedimento che consegni allo stesso organo legislativo americano il potere di ratificare o respingere l’accordo in discussione in Svizzera.
A giudicare da alcuni commenti rilasciati questa settimana da membri del governo di Tel Aviv, sembra prevalere però una certa rassegnazione per un accordo a portata di mano, nonostante gli ostacoli ancora da superare. Ciononostante, lunedì il ministro dell’intelligence israeliano, Yuval Steinitz, ha incontrato a Parigi esponenti del governo francese e martedì di quello britannico, ufficialmente per chiedere a interlocutori più disponibili rispetto all’amministrazione Obama l’imposizione di condizioni più rigorose all’Iran.
Oltre alla questione del nucleare di Teheran, l’altro fronte sul quale si sta consumando lo scontro tra Obama e Netanyahu è quello della Palestina, soprattutto dopo le dichiarazioni pre-elettorali del premier israeliano.
Quest’ultimo, nel tentativo di mobilitare l’elettorato di destra a favore del suo partito, poco prima del voto del 17 marzo era giunto a fare marcia indietro sulla soluzione dei “due stati” per risolvere la questione palestinese, mostrandosi risolutamente contrario. Subito dopo il successo conquistato alle urne, Netanyahu era tornato sui propri passi, dichiarandosi nuovamente a favore dei “due stati”.
La presa di posizione del premier ha però lasciato il segno a Washington. Domenica, in un’intervista rilasciata all’Huffington Post, Obama è stato protagonista di una mini-lezione sulla necessità della creazione di uno stato palestinese. Il giorno successivo, poi, il capo di gabinetto del presidente, Denis McDonough, parlando di fronte alla lobby israeliana di tendenze “liberal”, J Street, ha avuto parole ancora più pesanti per Netanyahu.
McDonough ha affermato infatti che “Israele non può mantenere indefinitamente il controllo militare su un altro popolo” e che l’occupazione della Cisgiordania “deve avere fine”. Il braccio destro di Obama ha inoltre ribadito quanto già lasciato intendere nei giorni scorsi da altri esponenti americani, cioè che la marcia indietro di Netanyahu sulla soluzione dei “due stati” non può cancellare le sue dichiarazioni precedenti.
Gli Stati Uniti, addirittura, minacciano di rivedere il proprio sostegno incondizionato tradizionalmente garantito a Israele, giungendo anche a considerare un possibile appoggio al tentativo di riconoscimento unilaterale di uno stato da parte delle autorità palestinesi, ad esempio in sede ONU.
Lo scontro in atto tra l’amministrazione Obama e il governo Netanyahu ha raggiunto dunque livelli inediti. I tentativi di sabotare i negoziati con l’Iran sono dettati dalla necessità da parte israeliana di rimettere indietro le lancette dell’orologio della diplomazia in Medio Oriente.
Attraverso le accuse - del tutto infondate - di essere sulla strada del nucleare militare, Israele cerca di mantenere l’isolamento diplomatico ed economico dell’Iran, se non di provocare una guerra per il cambio di regime a Teheran, in modo da conservare la propria superiorità miltare in Medio Oriente.
In questo frangente storico, gli obiettivi israeliani si scontrano però con quelli di Washington, dove l’amministrazione Obama sta perseguendo un accomodamento con l’Iran, sia pure non a livello paritario, nella speranza, quanto meno, di neutralizzare la minaccia alle proprie ambizioni egemoniche rappresentata da questo paese in uno scenario internazionale caratterizzato dalle rivalità crescenti con potenze di ben altro calibro (Russia e Cina).
A tale questione si intreccia infine quella palestinese, con la durissima reazione della Casa Bianca alla sostanziale liquidazione da parte di Netanyahu del “processo di pace” e della soluzione dei “due stati”.
L’atteggiamento di Washington non è motivato da scrupoli per la sorte e le legittime aspirazioni del popolo palestinese, bensì dal fatto che Netanyahu, per ragioni fondamentalmente elettorali, abbia in fin dei conti manifestato il vero punto di vista del suo governo, esponendo il cosiddetto “processo di pace” mediato dagli Stati Uniti per quello che è realmente, cioè poco più di una farsa.
Sull’impegno per un futuro stato palestinese, Washington ha costruito la propria credibilità in Medio Oriente, assicurandosi, tra l’altro, l’alleanza dei paesi arabi nella promozione dei propri interessi strategici e la garanzia della “sicurezza” di Israele.
Nel momento in cui, come ha fatto Netanyahu, viene invece rivelata pubblicamente la debolezza delle fondamenta di questo edificio, ovvero l’inutilità di un “processo di pace” che non ha migliorato di una virgola la condizione dei palestinesi, Washington perde un’arma fondamentale per preservare il proprio status nella regione.
Da qui, assieme alla questione iraniana, sembrano quindi derivare le prospettive divergenti degli Stati Uniti e di Israele, dando vita a conflitti dalla gravità raramente registrata nella storia delle relazioni tra i due paesi alleati.
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di Michele Paris
Il primo turno delle elezioni “dipartimentali” in Francia nella giornata di domenica ha confermato la profondissima avversione degli elettori per il governo del Partito Socialista e per il presidente, François Hollande, protagonisti dell’implementazione di politiche di austerity senza precedenti nel paese transalpino. I risultati finali hanno però fatto segnare alcune differenze relativamente significative rispetto ai dati proposti dai sondaggi alla vigilia del voto.
Per cominciare, l’alleanza della destra “moderata” capeggiata dai gollisti dell’UMP (Unione per un Movimento Popolare), dallo scorso anno guidato nuovamente dall’ex presidente Sarkozy, e il Fronte Nazionale (FN) di estrema destra erano dati alla pari alla vigilia della consultazione.
L’UMP e i suoi alleati hanno invece ottenuto nettamente il maggior numero di voti, cioè poco più del 36% su scala nazionale. L’FN di Marine Le Pen ha così perso lo status di primo partito del panorama politico francese, conquistato nelle elezioni comunali e nelle europee del 2014, attestandosi attorno al 25%. Per i neo-fascisti del Fronte, il risultato di domenica è comunque di una decina di punti superiore rispetto alle ultime elezioni simili, le “cantonali” del 2011.
Il Partito Socialista ha incassato una nuova batosta a partire dall’elezione di Hollande, superando di poco il 20%, cioè leggermente meglio di quanto prospettato dai sondaggi. Questo dato, assieme alla mancata prima posizione nazionale dell’FN, ha spinto i vertici socialisti a manifestare una certa soddisfazione nella serata di domenica.
Come ha fatto notare il portavoce del PS, Carlos Da Silva, la prestazione del “blocco di sinistra” nel suo insieme è stata presoché simile a quella della destra tradizionale. L’analisi puramente aritmetica di questo dato non fa altro che confermare però l’ostilità nei confronti dei socialisti. Il Fronte della Sinistra si è infatti presentato da solo agli elettori, nel tentativo di distanziarsi dal governo di un presidente impopolare e che aveva contribuito in maniera determinante a fare eleggere.
Il risultato non del tutto negativo del Fronte della Sinistra e dei Verdi (EELV), complessivamente sopra l’8%, assieme alla somma di questi voti con quelli del PS, è ad ogni modo il segnale di una certa resistenza tra i lavoratori e la classe media francese alle politiche dei gollisti e del Fronte Nazionale, nonostante lo scoraggiamento nei confronti dei socialisti. A ciò va aggiunto poi il dato dell’astensionsimo - vale a dire di coloro che non vedono la destra o l’estrema destra come possibili alternative al governo in carica - inferiore rispetto alle europee del 2014 e alle “cantonali” del 2011 ma comunque oggettivamente molto elevato (49%).
Le dimensioni della sconfitta del PS sono in ogni caso evidenti, soprattutto in quelli che erano considerati i suoi feudi. Nel dipartimento del Nord, al confine con il Belgio e governato ininterrottamente dai socialisti fin dal 1998, i candidati del partito di governo sono stati ad esempio esclusi dal secondo turno in ben 27 dei 41 cantoni che lo compongono.
Che il Fronte Nazionale non si sia confermato il primo partito francese è inoltre una magrissima consolazione per il PS e le altre forze “repubblicane”. Le politiche anti-sociali del governo del presidente Hollande e del primo ministro, Manuel Valls, hanno ormai finito per legittimare l’FN come unica formazione in grado di combattere austerity e diktat dell’UE, così che una prestazione di quest’ultimo leggermente al di sotto delle aspettative nel quadro di un’imponente avanzata decennale risulta di ben scarso conforto.
Il partito di Marine Le Pen, anche se non sembra avere sfondato, ha ottenuto praticamente lo stesso numero di voti degli appuntamenti elettorali del 2014, mentre in 43 dipartimenti (su 101) i suoi candidati hanno spravanzato quelli degli altri partiti.
Come di consueto, il Fronte Nazionale potrebbe conquistare solo una manciata di dipartimenti al secondo turno di domenica prossima, visto che gli elettori di UMP e PS sono tradizionalmente indirizzati a votare per l’uno o per l’altro partito nei casi in cui uno dei due si trovi al ballottaggio con un candidato dell’FN.
Il modello per questa sorta di “Fronte Repubblicano” risale alle elezioni presidenziali del 2002, quando Jean-Marie Le Pen eliminò clamorosamente dal primo turno il candidato socialista, Lionel Jospin, e i vertici del PS lanciarono una campagna nazionale per convincere i propri elettori a votare Jacques Chirac al ballottaggio.
In questa occasione, il primo ministro Valls ha già chiesto a “tutti i repubblicani di creare uno sbarramento di fronte all’estrema destra per il secondo turno”. Questo appello post-elettorale fa seguito alla campagna orchestrata dal premier nelle scorse settimane contro l’FN con l’obiettivo primario di distogliere l’attenzione dei francesi dalla condotta del suo governo.
Il clima politico in Francia è però estremamente cambiato rispetto agli anni scorsi e la risposta della destra “moderata” all’appello di Valls è stata tutt’altro che incoraggiante per il PS. Sarkozy ha infatti proposto una strategia che i giornali d’oltralpe hanno battezzato “ni-ni”, ovvero “né-né”.
L’ex presidente ha spiegato che “nei cantoni dove i nostri candidati non saranno presenti al secondo turno… l’UMP non farà alcun appello a votare né per il Fronte Nazionale, con il quale non abbiamo nulla in comune, né per i candidati della sinistra, le cui politiche intendiamo combattere”.
Se altri alleati dell’UMP hanno invece risposto positivamente all’appello di Valls, come il leader dell’UDI (Unione dei Democratici e Indipendenti), la posizione del partito di Sarkozy è la conseguenza delle divisioni al suo interno circa l’approccio al Fronte Nazionale, di fatto sdoganato da quasi tutti i partiti principali, protagonisti essi stessi di un drammatico spostamento a destra negli ultimi anni.
Solo poche settimane fa, la questione era esplosa nell’UMP in seguito all’elezione speciale per rimpiazzare un seggio al parlamento di Parigi nel dipartimento di Doubs, nella regione orientale della Franca Contea.
Qui, il candidato gollista era stato eliminato al primo turno e al ballottaggio erano andati quelli di FN e PS. Nella direzione dell’UMP, Sarkozy era stato messo in minoranza quando aveva chiesto al partito di votare contro il Fronte Nazionale ed era giunto a minacciare l’espulsione dal partito di coloro che avrebbero contravvenuto alle sue indicazioni. La vicenda ha lasciato evidentemente il segno nell’UMP, convincendo il suo leader a respingere l’invito del primo ministro Valls.
L’atteggiamento che i partiti sconfitti terranno al secondo turno sarà comunque prevedibilmente al centro del dibattito politico francese fino a domenica prossima. In questo modo, verranno in gran parte oscurate le questioni più importanti legate al voto, a cominciare dal fatto che tutte le amministrazioni elette sul territorio della repubblica saranno chiamate a implementare pesantissimi tagli alla spesa pubblica, determinati dalle drastiche riduzioni degli stanziamenti agli enti locali previste dal bilancio del governo socialista di Parigi.
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di Mario Lombardo
Uno scontro interno al partito Repubblicano è in atto in questi giorni al Congresso americano attorno all’approvazione del bilancio federale per il prossimo anno, con il tetto delle spese militari al centro della diatriba. Mentre la classe politica degli Stati Uniti sta cercando di trovare un qualche espediente per neutralizzare i limiti imposti per legge agli stanziamenti destinati al Pentagono, non vi è traccia di una vera opposizione ai drastici tagli che si prospettano per i programmi sanitari pubblici più popolari.
La Camera dei Rappresentanti e il Senato, entrambi a maggioranza repubblicana, hanno recentemente presentato un proprio progetto di bilancio all’insegna dell’austerity più estrema. Oltre a prevedere l’abrogazione della “riforma” sanitaria di Obama, le due proposte di legge includono misure sostanzialmente simili per far fronte a quella che viene definita la “insostenibilità” di Medicare e Medicaid, le coperture sanitarie pubbliche riservate rispettivamente agli anziani e agli americani a basso reddito, ma anche dei buoni alimentari (“food stamps”), distribuiti in questi anni di crisi a un numero crescente di persone.
Le modifiche a Medicare proposte dai repubblicani della Camera prevedono la trasformazione di questo programma in un sistema di “voucher”, con i quali coloro che, per così dire, ne beneficiano dovrebbero acquistare prestazioni sanitarie – evidentemente razionate – sul mercato privato.
La gestione di Medicaid e dei buoni alimentari passerebbe invece totalmente ai singoli stati americani, i quali dovrebbero far bastare stanziamenti federali predefiniti, anche in questo caso razionando sensibilmente i servizi offerti.
I numeri del bilancio proposto dal Senato indicano a sufficienza la devastazione che si prospetterebbe per questi programmi e le conseguenze su decine di milioni di americani delle classi più disagiate. Nei prossimi dieci anni, Medicare perderebbe 430 miliardi di dollari e Medicaid 400. Complessivamente, nello stesso periodo di tempo i tagli alla spesa sociale ammonterebbero a ben 4 mila e 300 miliardi di dollari.
Nella versione della Camera i tagli a Medicaid sarebbero addirittura di 913 miliardi di dollari, mentre anche vari programmi che garantiscono sussidi e prestiti agli studenti per l’accesso alle costosissime università americane verrebbero pesantemente penalizzati.
Le incertezze circa l’approvazione definitiva del prossimo bilancio non dipendono comunque da una qualche battaglia per salvare i programmi pubblici che potrebbero finire sotto la scure repubblicana, bensì dalla già ricordata disputa sul budget del Pentagono.
Il partito di maggioranza al Congresso, in sostanza, è diviso tra “falchi” del bilancio e “falchi” della Difesa, con i primi che intendono confermare i tagli automatici alle spese militari previsti da una legge del 2011 e i secondi che intendono invece aggirare il tetto di spesa e garantire alle forze armate USA risorse senza limiti per condurre le operazioni in cui sono coivolte all’estero.
Sulla questione, la Casa Bianca è allineata alle posizioni dei “falchi” della Difesa, visto che la proposta di bilancio di Obama prevedeva stanziamenti per 561 miliardi di dollari al Pentagono, cioè una quarantina di miliardi in più rispetto al tetto massimo, più altri 51 miliardi destinati appositamente alle operazioni “contingenti” oltreoceano.
Lo stesso presidente democratico avrebbe minacciato di esercitare il potere di veto per bloccare eventuali bilanci che intendono rispettare i limiti massimi di spesa militare. A confermarlo è stato il segretario alla Difesa, Ashton Carter, in un’apparizione alla Camera nella giornata di mercoledì.
Nessuna minaccia di veto è stata invece agitata da Obama per quanto riguarda i tagli ai programmi pubblici vitali per gli americani più poveri. Anzi, se la Casa Bianca e i democratici in genere criticano gli assalti alla spesa pubblica proposti dai repubblicani, la stessa bozza di bilancio del presidente includeva tagli per 423 miliardi di dollari a Medicare per il prossimo decennio, mentre, ad esempio, prospettava una consistente riduzione dell’aliquota fiscale da applicare alle corporation.
Il dibattito in corso sul tetto di spesa del Pentagono è però fuorviante, come quasi sempre accade nelle controversie di Washington tra i due partiti o le fazioni all’interno di essi. Infatti, anche coloro che sostengono di voler mantenere i limiti previsti dalla legge in vigore per il bilancio della Difesa hanno in realtà già pronte soluzioni per eluderli.
Il bilancio stilato dalla Camera prevede cioè un budget perfettamente in linea con il tetto (523 miliardi), ma a fianco di esso sarebbero disponibili altri 40 miliardi sotto forma di “fondi di emergenza” e quindi non soggetti ai limiti fissati per legge.
Ancora più ridicoli sono stati gli sviluppi della vicenda al Senato. Qui, i senatori della commissione Bilancio hanno ripreso i colleghi della Camera per avere sottoposto una proposta che intende aggirare il tetto di spesa, per poi adottare un provvedimento che fa sostanzialmente la stessa cosa.
L’unica differenza consiste nel definire la somma extra come un “fondo di riserva” che al momento non andrebbe a pesare sul bilancio federale, poiché non prevede stanziamenti. L’entità dell’importo aggiuntivo destinato al Pentagono, secondo la proposta del Senato, dovrebbe essere oggetto di trattative da avviare nei prossimi mesi.
Vari senatori repubblicani insistono tuttavia sull’approvazione di un bilancio che annulli in maniera pura e semplice i tagli automatici previsti alla spesa militare USA. Tra di essi figurano l’ex candidato alla presidenza, John McCain, e il senatore della South Carolina, Lindsey Graham, entrambi tradizionalmente annoverati tra i “falchi” della politica estera americana.
Graham, il quale sta valutando una candidatura nelle primarie repubblicane per la Casa Bianca del prossimo anno, in un intervento pubblico qualche giorno fa aveva sostenuto in maniera inquietante che, se fosse stato presidente, avrebbe “letteralmente” messo sotto assedio militare il Congresso di Washington per costringere i suoi membri a revocare i tagli al bilancio del Pentagono.
La vicenda descritta dimostra come le esigenze dell’imperialismo americano abbiano la priorità assoluta, non solo rispetto ai bisogni essenziali della popolazione ma anche sulle leggi approvate dal Congresso. Inoltre, sulla necessità di finanziare la macchina da guerra USA a discapito di qualsiasi altra voce di spesa esiste un sostanziale accordo bipartisan a Washington.
Per raggiungere questo obiettivo, nelle scorse settimane si sono moltiplicati gli appelli dei vertici militari, impegnati a descrivere uno scenario catastrofico per gli Stati Uniti nel caso non fossero garantite le risorse chieste dal Pentagono.
Gli Stati Uniti sono già di gran lunga il paese che spende di più per le proprie operazioni militari. La cifra complessiva stanziata annualmente da Washington in questo ambito è più alta della somma dei bilanci militari dei paesi posizionati tra il secondo e il decimo posto – o il quindicesimo, a seconda delle fonti dei dati – nella graduatoria delle spese militari.
L’insaziabile bisogno di fondi delle forze armate degli Stati Uniti deriva direttamente dal venir meno dell’influenza di questo paese sullo scacchiere internazionale. La posizione americana declinante in un pianeta tendente sempre più al multipolarismo richiede un impiego crescente della forza militare, sia per cercare di contenere le minacce rappresentate da potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, sia per appoggiare alleati e regimi fantoccio al servizio degli interessi strategici di Washington.
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di Michele Paris
Da una possibile clamorosa sconfitta per mano del moribondo centro-sinistra israeliano, il primo ministro Benjamin Netanyahu è passato martedì all’ennesima vittoria elettorale e il giorno successivo all’avvio dei negoziati per mettere assieme una maggioranza parlamentare in grado di sostenere il prossimo governo di Tel Aviv. Pur nello scampato pericolo, il premier non avrà vita facile nell’immediato futuro, dal momento che l’esecutivo che si annuncia sarà con ogni probabilità attraversato dalla medesima instabilità che sul finire del 2014 lo aveva spinto a indire elezioni anticipate.
Come è ormai ben noto, la serata elettorale in Israele era stata caratterizzata dall’errore di valutazione dei sondaggi che nelle settimane e nei giorni precedenti il voto ipotizzavano dapprima una gara equilibrata tra il Likud di Netanyahu e l’Unione Sionista di centro-sinistra e poi addirittura un lieve vantaggio per quest’ultima coalizione.
Alla fine, il Likud ha ottenuto 30 seggi sui 120 complessivi della Knesset (Parlamento), con un guadagno netto di 12 rispetto al 2013. L’Unione Sionista, invece, si è fermata a 24 seggi. Nelle precedenti elezioni, il Likud si era però presentato in una lista unica con il partito di estrema destra secolare Yisrael Beiteinu del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, conquistando complessivamente 31 seggi.
Il recupero fatto segnare dal Likud negli ultimi giorni di campagna elettorale sarebbe da ascrivere alla netta sterzata destrorsa e apertamente razzista impressa da un Netanyahu sempre più disperato. In particolare, il premier aveva spostato l’obiettivo della propria aggressività verbale dall’Iran ai palestinesi, giungendo a dichiarare la sua contrarietà alla cosiddetta soluzione dei due stati.
Se questa affermazione non ha fatto altro che ufficializzare la reale attitudine di Netanyahu circa la soluzione quasi universalmente preferita per dirimere la questione palestinese, le sue parole hanno nondimeno galvanizzato la base elettorale della destra israeliana.
Allo stesso modo, il giorno prima del voto Netanyahu aveva fatto un’insolita apparizione in un insediamento illegale a Gerusalemme Est, promettendo altre costruzioni sul territorio palestinese e denunciando sostanzialmente la popolazione araba di Israele per la probabile affluenza di massa alle urne che avrebbe fatto registrare in questa tornata elettorale.
Gli appelli del premier sembrano essere così riusciti a drenare verso il Likud un numero considerevole di voti dalle altre formazioni di destra del panorama politico israeliano, le quali hanno appunto fatto registrare flessioni più o meno sensibili rispetto al precedente appuntamento elettorale.
Oltre al già citato Yisrael Beiteinu, che ha perso 6 seggi, sono risultati in calo anche la Casa Ebraica (-4) del ministro dell’Economia, Naftali Bennett, e i partiti ultra-ortodossi Shas (-4) e Giudaismo Unito della Torah (-1). Tutte queste formazioni, nettamente indebolite, dovranno sostenere il prossimo governo Netanyahu, anche se saranno comunque necessari altri seggi per raggiungere la maggioranza assoluta alla Knesset.
Decisamente remoto appare un nuovo accordo con il partito centrista Yesh Atid dell’ex ministro delle Finanze, Yair Lapid, al centro dello scontro con Netanyahu che aveva portato al voto anticipato. Escludendo anche un governo di unità nazionale con l’Unione Sionista - formata dal Partito Laburista del candidato premier, Isaac Herzog, e da Hatnuah dell’ex ministro della Giustizia, Tzipi Livni - di cui pure si era parlato alla vigilia del voto, l’opzione più probabile è quella di un accordo con il nuovo partito Kulanu (“Tutti Noi”), fondato nel novembre dello scorso anno e in grado di ottenere 10 seggi.
Il leader di Kulanu è l’ex membro del Likud, Moshe Kahlon, più volte ministro nei governi Netanyahu e protagonista di una rottura con il premier che lo aveva portato a fondare un proprio movimento “centrista”. I rapporti tra i due non sembrano essersi eccessivamente deteriorati e durante la campagna elettorale Kahlon aveva lasciato intendere di volere sostenere chiunque sarebbe uscito vincitore dalle urne. Nei giorni scorsi, poi, Netanyahu aveva offerto l’incarico di ministro delle Finanze allo stesso Kahlon.
L’affermazione di Netanyahu, nonostante il diffusissimo senso di insofferenza in Israele nei confronti della fissazione del premier per la fantomatica minaccia iraniana e, più in generale, per i temi della sicurezza nazionale, solleva parecchi interrogativi sulla prestazione del principale raggruppamento dell’opposizione, l’Unione Sionista.
L’alleanza elettorale tra Herzog e Livni ha rappresentato da un lato una minaccia concreta per il Likud da molti anni a questa parte ma, dall’altro, non è stata in grado di capitalizzare il malcontento popolare per una situazione economica caratterizzata da enormi disuguaglianze sociali e di reddito.
Il fatto che i due leader avessero ricoperto vari incarichi di spicco in passato non ha indubbiamente aiutato, vista la scarsissima considerazione degli elettori per l’establishment poltico in generale. Soprattutto, però, il candidato premier Herzog non è stato in grado di costruirsi un’immagine solida di leader né, ancor più, di mettere in atto una campagna elettorale sufficientemente aggressiva e convincente sui temi economici, fondamentalmente per via della mancanza di un programma progressista alternativo a quello della destra al governo.
Il dato più significativo del voto di martedì è stato così probabilmente il risultato della Lista Araba Unificata, frutto dell’accordo di quattro partiti che rappresentano gli arabi israeliani. Separatamente, le quattro formazioni avevano un totale di 11 seggi nella Knesset uscente, mentre ne avranno 14 in quella appena eletta. La Lista Araba Unificata è stata perciò la terza forza uscita dalle urne, anche se i partiti arabi in Israele vengono puntualmente emarginati dalla classe politica ebraica.
Il successo di Netanyahu e la prossima inaugurazione del suo quarto mandato alla guida del governo hanno prodotto una valanga di commenti sui media israeliani e internazionali circa le intenzioni del premier e l’orientamento del prossimo gabinetto.
Molti problemi sul fronte domestico il premier li aveva dovuti affrontare a causa del peggioramento delle relazioni con l’amministrazione Obama, ulteriormente aggravate dopo il discorso tenuto al Congresso di Washington ai primi di marzo senza avere concordato l’evento con la Casa Bianca.
Su Netanyahu erano piovute accese critiche da parte di numerosi esponenti politici e dell’apparato della sicurezza, preoccupati per una possibile rottura con gli Stati Uniti e il conseguente ulteriore isolamento internazionale di Israele. Da verificare sarà perciò l’atteggiamento di Netanyahu nei confronti del principale alleato del suo paese, soprattutto in vista della scadenza per il raggiungimento di un accordo sul nucleare iraniano, visto da Tel Aviv con estrema preoccupazione.
Alla luce delle frizioni con Washington, in molti si chiedono poi se Netanyahu continuerà a respingere la soluzione dei due stati come ha fatto in campagna elettorale. Alcuni commentatori hanno ricordato la natura pragmatica o, meglio, opportunista di Netanyahu, non escludendo perciò un ritorno sui propri passi in merito alla questione di un futuro stato palestinese.
In realtà, la posizione ufficiale di Netanyahu su tale questione non comporta una gran differenza per i palestinesi, visto che, come ha spiegato un paio di giorni fa alla Reuters il capo dei negoziatori palestinesi nei colloqui di pace ormai collassati, Saeb Erekat, il premier “durante la sua carriera politica non ha fatto altro che distruggere la soluzione dei due stati”.
Se le circostanze lo dovessero costringere ad assumere una posizione più conciliante verso gli Stati Uniti, tuttavia, è probabile che Netanyahu possa tornare ad appoggiare almeno nominalmente questa soluzione, se non addirittura mostrarsi disponibile alla riapertura del “processo di pace” mediato da Washington, sia pure solo per prolungare la farsa di negoziati senza alcuna prospettiva.
Una parte dei dubbi sul futuro governo di Tel Aviv sarà sciolta dopo l’annuncio dell’accordo con i nuovi partner di governo e delle nomine ai principali ministeri. Quel che è certo, comunque, è che le contraddizioni di una società israeliana sempre più polarizzata e stanca di uno stato di guerra permanente difficilmente potranno essere risolte dalla stessa leadership che ha presieduto alla creazione dello scenario attuale.