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di Tania Careddu
Centotredici i Paesi a cui l’Italia destina fondi. Tremiladuecentottantasette le iniziative e i progetti nel mondo. 2.980.351,00 di euro il totale dei soldi impegnati nel 2013. Per la cooperazione allo sviluppo. Riassunta nel decreto Missioni. Che stanzia, su base annuale o semestrale, parte delle risorse dedicate alle missioni militari e alle iniziative di cooperazione. Negli ultimi dieci anni sono stati approvati fondi pari, in media, a 1,3 miliardi di euro: diminuita progressivamente la spesa per le missioni militari, sensibilmente cresciuta, anche se inferiore alla prima, quella per la cooperazione, passando dal 9,4 al 12,7 per cento.
Annualmente, l’ammontare approvato rappresenta poco più del 4 per cento dell’investimento totale dell’Italia per le forze armate e per la cooperazione allo sviluppo: se per le missioni militari, con il provvedimento, si eroga circa un 1,3 miliardi di euro, la spesa militare totale è di ventitre miliardi. Stesso funzionamento per la cooperazione: per una spesa totale poco sotto i tre miliardi di euro, il decreto in oggetto ne stanzia solo centotrentasei milioni, cioè il 4,57 per cento.
Oltre il 76 per cento degli sforzi di cooperazione allo sviluppo da parte del nostro Paese vengono fatti per via indiretta, ossia attraverso il trasferimento di fondi a organizzazioni sovranazionali, per un ammontare, nel 2013, di più di 2,2 miliardi di euro. Ripartiti fra le organizzazioni internazionali di cui il Belpaese fa parte, che si occupano di impiegarli per svolgere attività a favore dei Paesi in via di sviluppo. Quindi, un miliardo e mezzo - pari al 68 per cento - è andato all’Unione europea, oltre trecento milioni all’Agenzia internazionale per lo sviluppo e centosettantadue alle Banche regionali di sviluppo.
I restanti spiccioli di quei quasi tre miliardi, pari a poco più di seicentonovanta milioni, cioè il 23 per cento, rimane sotto la gestione diretta delle nostre istituzioni. Di questi, il 43 per cento non ha mai varcato i confini nazionali per far fronte all’emergenza rifugiati politici dentro lo Stivale. E’ la tipologia d’aiuto più corposa: le risorse (queste) vengono altresì destinate alle infrastrutture e servizi sociali e agli aiuti per i settori produttivi, le altre (quelle oltralpe) per l’azzeramento del debito, gli aiuti umanitari e la costruzione di infrastrutture per attività economiche destinati a quei centotredici paesi sopracitati, dei quali i più sostenuti sono l’Albania con oltre ventotto milioni, l’Afghanistan con quasi ventotto milioni e l’Etiopia con circa diciotto.Ma lo spostamento di tutti questi euro nonché l’importanza della questione, non trova un’adeguata risonanza nelle aule delle Camere. In nessuna pagina dell’agenda degli ultimi quattro esecutivi. Derubricato a una semplice prassi, al decreto Missioni è stato, da sempre, riservato l’iter di conversione più veloce. Solo ventitre ore di discussione e quaranta giorni di dibattito, viaggiando in una corsia preferenziale, raggiungendo tempi record di approvazione.
Sarà perché il suo consenso è sempre stato bipartisan - durante l’ultimo Berlusconi il PD ha votato a favore pur stando all’opposizione, e sotto il Governo Renzi, FI non ha votato contro il provvedimento - sarà (o forse proprio perché) non è più così centrale nella definizione della politica estera italiana.
Tanto che nella classifica delle priorità dei Governi ha sempre navigato in posizioni molto basse: ventisettesima nel Governo Berlusconi IV, quarantanovesima nel Governo Monti, quarantasettesima in quello Letta, e, finalmente, quattordicesima nell’esecutivo Renzi. Ad maiora.
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di Michele Paris
La stessa Corte Suprema degli Stati Uniti che venerdì scorso era stata celebrata dai “liberal” americani per avere decretato la legalità dei matrimoni gay in tutto il paese, all’inizio di questa settimana ha emesso una nuova sentenza sull’ammissibilità della pena di morte, sanzionando di fatto il diritto dello stato a giustiziare i detenuti con metodi cruenti, cioè in aperta violazione del dettato costituzionale.
Il caso “Glossip contro Gross” riguarda tre detenuti nel braccio della morte in Oklahoma che ritenevano incostituzionale la procedura di condanna a morte tramite la somministrazione di un sedativo, il midazolam. Quest’ultimo dovrebbe appunto rendere incoscienti i condannati prima dell’azione di un secondo farmaco che interrompe le funzioni vitali.
Inizialmente, i querelanti erano quattro ma uno di essi, il detenuto Charles Warner, è stato giustiziato il 15 gennaio scorso in seguito a una macabra manovra della Corte Suprema. Una maggioranza ristretta dei giudici aveva infatti respinto la richiesta dei suoi legali per una sospensione della condanna anche se, una settimana dopo la morte di Warner, la stessa Corte avrebbe accettato di esprimersi sul caso e bloccato l’esecuzione degli altri tre detenuti.
La sentenza definitiva di lunedì della Corte Suprema ha dato il via libera all’uso del midazolam nelle condanne a morte, nonostante la storia degli ultimi mesi autorizzi a considerare il metodo attualmente usato dall’Oklahoma e da altri stati USA una “punizione crudele e inusuale”, proibita dall’Ottavo Emendamento alla Costituzione americana.
Il primo detenuto a essere messo a morte con una procedura che include il midazolam era stato William Happ in Florida nell’ottobre del 2013. Secondo i testimoni, durante l’esecuzione Happ aveva evidenziato insoliti e affannosi movimenti del corpo prima di perdere conoscenza.
Decisamente più raccapriccianti erano state altre esecuzioni con l’uso del midazolam, tra cui quelle di Dennis McGuire in Ohio, di Clayton Lockett in Oklahoma e di Joseph Wood in Arizona, avvenute tra gennaio e luglio del 2014. Lockett, in particolare, si era risvegliato in preda a dolori atroci svariati minuti dopo essere stato apparentemente sedato. La morte sarebbe alla fine sopraggiunta per attacco cardiaco dopo quasi tre quarti d’ora dall’inizio della procedura.
La sentenza appena pronunciata dai cinque giudici della maggioranza appare estremamente inquietante e scritta appositamente per giustificare l’omicidio di stato con qualsiasi metodo a disposizione delle autorità. L’autore del verdetto, il giudice ultra-conservatore Samuel Alito, ha affermato che i detenuti non sono stati in grado di dimostrare che l’utilizzo del midazolam comporti il “rischio sostanziale” di provocare un dolore intenso.
In maniera ancora più assurda, Alito ha sostenuto che gli stessi querelanti non hanno identificato un farmaco più efficace e reperibile da utilizzare nelle loro stesse esecuzioni. Il ricorso al midazolam si è reso necessario negli ultimi anni vista l’impossibilità da parte degli stati di acquistare i farmaci tradizionalmente usati in precedenza a causa del boicottaggio messo in atto dalle aziende produttrici, soprattutto europee.La Corte Suprema, in sostanza, dalla premessa della costituzionalità della pena di morte, ha decretato che praticamente qualsiasi metodo di esecuzione possa essere adottato, così che, in assenza di alternative migliori, quello attuale deve essere dichiarato legale. L’onere di individuare un metodo adatto alla propria morte dovrebbe inoltre spettare non alle autorità, bensì ai condannati stessi.
L’incredibile tesi sostenuta da Alito e appoggiata dagli altri giudici di estrema destra, Clarence Thomas, Antonin Scalia e John Roberts, nonché dal “centrista” Anthony Kennedy, è stata criticata aspramente dall’opinione dissenziente del giudice Sonia Sotomayor.
Quest’ultima ha sottolineato come la maggioranza della Corte abbia fissato, “in maniera del tutto inedita, l’obbligo da parte dei condannati di indentificare un metodo disponibile per la loro esecuzione”. Secondo tale logica, ha aggiunto correttamente la Sotomayor, “non ha importanza se uno stato intenda usare il midazolam o se invece i detenuti vengano… squartati, torturati lentamente o bruciati vivi”.
Per il giudice Alito, al contrario, “il rischio di provare dolore è intrinseco a qualsiasi metodo di condanna a morte” e “la Corte Suprema ha stabilito che la Costituzione non impone di evitare ogni rischio” di questo genere. Insistendo sul sofismo della differenza tra “dolore” e “rischio di dolore”, Alito ha poi aggiunto che, “dopo tutto, mentre la maggioranza degli uomini si augura una morte senza dolore, molti non hanno questa fortuna.
Sostenere che l’Ottavo Emendamento richieda essenzialmente l’eliminazione di ogni rischio di provare dolore metterebbe di fatto fuori legge la stessa pena di morte”. Cosa che un sistema giudiziario barbaro e vendicativo come quello avallato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti non può in nessun modo tollerare.
Uno dei quattro giudici dissenzienti ha in ogni caso redatto un’opinione relativamente insolita sul caso, giungendo quasi a dichiarare incostituzionale la pena di morte. Stephen Breyer, assieme al giudice Ruth Bader Ginsburg, ha invitato a smettere di “curare le ferite legali della pena di morte una alla volta”, sollecitando al contrario a interrogarsi su una questione fondamentale, vale a dire “se la pena di morte violi o meno la Costituzione”.
Il parere di Breyer, contrario a quello della maggioranza, afferma come “sia altamente probabile che la pena di morte violi l’Ottavo Emendamento”, ricordando come ci siano molti casi di persone innocenti giustiziate, ma anche come molti detenuti nel braccio della morte siano stati scagionati, come le sentenze capitali vengano talvolta emesse in maniera arbitraria e l’intero sistema sia macchiato da discriminazioni razziali.
Per il 77enne giudice nominato da Bill Clinton nel 1994, inoltre, il fattore di deterrenza della pena di morte sarebbe annullato dai lunghissimi tempi previsti dall’applicazione delle sentenze, mentre gli Stati Uniti sono ormai un’eccezione tra i paesi “avanzati” a prevedere ancora questo genere di punizione.
L’intervento del giudice Breyer non è in realtà l’unico a essere stato pronunciato in maniera così netta contro la pena di morte alla Corte Suprema. Considerazioni molto simili erano state espresse, ad esempio, già nel 1994 dal giudice Harry Blackmun e da John Paul Stevens nel 2008.
Le posizioni più retrograde su cui è attestata buona parte della classe dirigente americana sono state però sostenute dalla maggioranza della Corte Suprema nel caso “Glossip contro Gross”, con il giudice Scalia che ha bollato come “assurdità” le posizioni contro la pena di morte del collega Breyer.A confermare il carattere reazionario del più alto tribunale degli Stati Uniti, sempre nella giornata di lunedì è arrivata anche un’altra sentenza a dir poco discutibile. Anche in questo caso con una maggioranza di 5-4, la Corte Suprema ha giudicato illegale un’iniziativa dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) volta a limitare le emissioni inquinanti delle vecchie centrali elettriche a carbone.
I giudici di maggioranza hanno nuovamente insistito su un cavillo, sostenendo che l’EPA non aveva valutato in maniera esplicita e all’inizio del processo di regolamentazione i costi che le centrali dovrebbero sostenere per applicare le misure in questione. L’EPA, in maniera illegale, secondo la Corte avrebbe fatto piuttosto un bilancio di questi costi solo una volta implementate le nuove regole, intraprese esclusivamente sulla base dei benefici per l’ambiente e la salute dei cittadini.
Il caso potrebbe comunque risolversi ancora a favore dell’EPA, visto che la decisione della Corte Suprema non ha fatto altro che rimandarlo a una corte inferiore per essere riesaminato. La sentenza, tuttavia, manda un segnale molto chiaro all’agenzia ambientale americana, messa in guardia per il futuro dall’adottare misure eccessivamente penalizzanti per i profitti delle compagnie private.
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di Emy Muzzi
LONDRA. A volte la giustizia agisce con un tempismo eccellente: proprio nel giorno del summit fallito sull’emergenza immigrazione a Bruxelles, l’Alta Corte della Gran Bretagna ha sospeso con effetto immediato la reclusione in centri di detenzione e rimozione degli immigrati illegali ai quali è stata rifiutata la richiesta d’asilo. I centri sono vere e proprie carceri per rifugiati ai quali vengono concessi solo sette giorni per appellarsi all’asilo negato dal Ministero degli Interni britannico e tentare di restare nel paese evitando il rimpatrio nei paesi d’origine, dove nella maggior parte dei casi rischiano la morte.
Contro il verdetto dell’Alta corte il ministero, guidato da Theresa May, si era appellato, ma il ‘fast–track’ anti-rifugiati è stato infine dichiarato un procedimento illegale.
Nel regno di sua maestà i ‘bunker d’accoglienza’ sono 14. Nei loro racconti i reclusi li definiscono ‘peggio di un carcere’, dove gli internati non hanno alcuna libertà individuale, non possono interagire o comunicare con l’esterno, dove trattamento, cibo e condizioni igieniche sono drammatici.
L’isolamento dall’esterno è totale e alla stampa non viene dato accesso; le rare testimonianze sono state raccolte per telefono con speciale autorizzazione. Molti ricordano ancora la tragica protesta nel campo di Harmondsworth, nel Middlesex dove i gli internati dell’ ‘immigration removal centre’ avevano scritto nel cortile la parola ‘HELP’ con asciugamani e vestiti perché la disperata richiesta d’aiuto venisse ripresa dai media.
Se da una parte lo scandalo dei centri di detenzione è finito, almeno nel Regno Unito, dall’altra il governo Cameron ha ottenuto l’esenzione dalla lista (ancora ignota) dei paesi che dovranno accogliere nei prossimi mesi 40mila richiedenti asilo. L’opportunità per il Regno Unito di chiamarsi fuori dalla scomoda lista è prevista dal Trattato di Lisbona, un opt-out sottoscritto anche da Polonia, Danimarca e Repubblica Ceca nella fase di accesso al Trattato.
Infatti, fallita l’opzione quote, con giusto furore dell’Italia che sta fronteggiando, ancora da sola, un’emergenza storica, l’Unione europea procede adesso a tentoni seguendo il principio random del ‘caso per caso’ e tentando una possibile ridistribuzione di migliaia di profughi in maggioranza siriani, afghani, iracheni e kossovari.Il caso dell’Ungheria e dei 60mila richiedenti asilo nel 2014 (dati Eurostat) ed altri 60mila quest’anno (dati del governo ungherese) è stato archiviato subito con la stessa arbitraria bonarietà con cui Jean Claude Juncker è solito accogliere il dittatore magiaro Victor Orban a Bruxelles con un simpatico e provocatorio schiaffetto sulla guancia ed amichevole stretta di mano, invece di riservare ad un neonazista la freddezza e la distanza che merita.
Lo stesso verdetto dell’Alta corte britannica contro i centri di detenzione dovrebbe essere un monito anche per i giudici ungheresi in giorni in cui ‘il dittatore’ propone il lavoro forzato per i rifugiati detenuti in attesa d’asilo e spinge fuori dal territorio ungherese verso gli altri stati membri migliaia di rifugiati.
Regno Unito ed Ungheria sono due casi limite di una leadership europea inesistente e del malfunzionamento (sia esso voluto o meno) del sistema giudiziario internazionale. Basti pensare alla mancata adesione dell’Unione Europea alla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo: l’adesione comporta un conflitto tra la Corte di Giustizia Europea e la Corte Europea per i Diritti Umani (EctHR) che immobilizza il sistema giudiziario a livelllo europeo in termini di garanzia dei diritti umani.
La fase di stallo di questo processo d’integrazione fa sicuramente comodo a qualche membro dell’Unione: primo fra tutti la Gran Bretagna che punta ad una carta dei diritti umani fatta in casa.
L’enigma su quali stati si faranno carico dei 40mila rifugiati e sulla garanzia del rispetto dei loro diritti è sintomatico di una Unione che si affida all’arbitrarietà della politica, del ‘caso per caso’, e non alla coerenza della legge.
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di Michele Paris
Il raggiungimento di un accordo definitivo sul nucleare iraniano sembra dovere slittare almeno di qualche giorno rispetto alla scadenza originariamente fissata per la mezzanotte di martedì 30 giugno. Il prolungamento delle discussioni in corso a Vienna è dovuto alle difficoltà nell’arrivare a un’intesa su una manciata di questioni ritenute cruciali dai governi occidentali che fanno parte del gruppo dei P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), anche se la laboriosità delle trattative indica soprattutto l’assenza della volontà politica da parte americana di riconoscere la piena legittimità delle aspirazioni di Teheran, non solo nell’ambito del nucleare.
Il fine settimana appena concluso ha fatto registrare fitti incontri tra il capo della delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, con i rappresentanti di USA, Francia, Gran Bretagna, Germania e Unione Europea. Lo stesso diplomatico iraniano è poi tornato a Teheran nella giornata di domenica per consultazioni con il governo e l’entourage della guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ma sarà di ritorno a Vienna già martedì.
Il segretario di Stato USA, John Kerry, è rimasto invece nella capitale austriaca, mentre i suoi omologhi Laurent Fabius (Francia), Philip Hammond (GB) e Frank-Walter Steinmeier (Germania) torneranno nelle ore immediatamente precedenti la scadenza, assieme ai ministri degli Esteri di Russia e Cina.
Domenica, la responsabile della politica estera UE, Federica Mogherini, aveva affermato che vi erano speranze sul rispetto del termine del 30 giugno, anche se molti giornali hanno riportato i preparitivi delle varie parti per prorogare le trattative e delineare un accordo nei giorni successivi.
I punti sui quali sono arenati i negoziati riguardano in particolare le modalità e i tempi con cui dovrebbero essere cancellate o sospese le sanzioni che gravano sulla Repubblica Islamica e la natura delle ispezioni internazionali nei siti nucleare iraniani. Particolarmente controverse sono poi le ispezioni presso le installazioni militari, teoricamente utili per verificare ipotetici programmi condotti dall’Iran in passato per giungere alla costruzione di armi nucleari.
Il governo francese si è fatto carico nei giorni scorsi di “proporre” condizioni più stringenti in questi due ambiti, nonché di imporre limiti alle attività iraniane di ricerca e sviluppo sul nucleare. Come hanno spiegato molti analisti, l’iniziativa di Parigi è stata chiaramente coordinata con gli Stati Uniti e Israele.
Singolarmente, tutte queste condizioni erano state respinte da Khamenei nel corso di un discorso pubblico tenuto la scorsa settimana e destinato in larga misura a placare i timori degli oppositori dell’accordo sul fronte domestico.
L’ayatollah, il quale ha dato tempo fa la propria approvazione ai negoziati, era ricorso a una retorica combattiva, criticando gli Stati Uniti - sostanzialmente in maniera corretta - per volere la “resa” dell’Iran, escludendo tra, l’altro, l’accettazione di restrizioni alla propria attività nucleare per un periodo di “10 o 12 anni”.Khamenei, inoltre, ha invocato la fine di tutte le sanzioni economiche, sia quelle imposte dal Consiglio di Sicurezza ONU sia quelle del Congresso USA o della Casa Bianca, immediatamente dopo la firma dell’accordo, mentre le altre - cioè in ambito energetico o militare - potrebbero essere smantellate in un periodo di tempo ragionevole. Washington, al contrario, intende imbrigliare l’Iran in un lungo processo di graduale allentamento delle sanzioni, le quali potrebbero in ogni caso essere riapplicate automaticamente in caso di mancato rispetto dell’accordo.
Qualsiasi ispezione dei siti militari, infine, è stata esclusa da Khamenei, vista anche la risaputa fragilità delle presunte prove presentate in passato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) circa gli esperimenti iraniani sul nucleare in questo settore.
L’insistenza degli Stati Uniti e dei loro alleati su condizioni che difficilmente possono essere accettate dal governo di Teheran senza capitolare e subire pericolosi contraccolpi interni riflette in parte le pressioni esercitate da più parti sull’amministrazione Obama per fare marcia indietro sull’accordo o, quanto meno, per constringere l’Iran a fare concessioni ancora maggiori.
Alle manovre del Congresso di Washington e all’isteria di Israele continuano ad aggiungersi voci esterne, come quelle di cinque ex consiglieri del presidente americano, i quali hanno messo in guardia dal firmare un accordo che non conterrebbe nemmeno gli standard minimi fissati dal governo USA per sventare la minaccia nucleare iraniana.
Da parte sua, Obama intende finalizzare un accordo nel più breve tempo possibile, sia pure cercando di ottene il massimo da Teheran. Un eventuale sforamento della scadenza prevista dall’intesa preliminare raggiunta il 2 aprile scorso a Losanna dovrebbe essere al massimo di pochi giorni, anche perché se la Casa Bianca non presenterà un accordo al Congresso per ottenerne l’approvazione entro il 9 luglio, il periodo di tempo a disposizione di quest’ultimo per analizzarlo passerà da 30 a 60 giorni.
Ciò è quanto previsto da una legge recentemente approvata dal Congresso stesso e firmata da Obama come compromesso per superare le resistenze di deputati e senatori di entrambi i partiti ai negoziati con la Repubblica Islamica.
Il calcolo di Obama appare dunque parzialmente differente da quello dei “falchi” di Washington, interessati in maniera pura e semplice al cambio di regime a Teheran. La Casa Bianca, puntando sulla disponibilità della leadership “moderata” in Iran e sul desiderio di veder cessare le sanzioni economiche punitive, auspica un accordo che preservi un meccanismo volto a fare pressioni sul regime anche nei prossimi anni, sia attraverso la minaccia della reimposizione delle stesse sanzioni o la richiesta dell’apertura dei siti militari alle ispezioni internazionali.In questo modo, gli Stati Uniti contano di ottenere concessioni utili ai propri interessi strategici in Medio Oriente o di limitare l’integrazione economico-politico-militare dell’Iran con la Russia e la Cina, veri obiettivi di Washington nella guerra per l’egemonia planetaria. Parallelamente, sulla politica iraniana di Obama agiscono anche gli interessi economici del business americano, stimolato, come i propri rivali europei, a tornare su un mercato enorme e in un paese con ingenti risorse energetiche.
La disposizione all’accordo dell’amministrazione Obama per risolvere una crisi fabbricata e dai contenuti quasi esclusivamente politici non ha perciò nulla a che vedere con il rispetto dei diritti dell’Iran a sviluppare un programma nucleare pacifico e a giocare un ruolo di spicco su scala regionale.
Infatti, anche durante le trattative dei mesi scorsi non sono mai mancate le minacce militari da parte americana nei confronti della Repubblica Islamica e, nel caso un accordo definitivo dovesse uscire dall’ultimo round di negoziati a Vienna, c’è da scommettere che non mancheranno nemmeno in futuro.
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di Carlo Musilli
La strage della settimana scorsa al resort Riu Imperial Marhaba di Sousse, in Tunisia, porta con sé due insegnamenti. Il primo riguarda la strategia dell'Isis contro l'unico Paese nordafricano in cui la Primavera araba abbia prodotto uno Stato laico e democratico, spesso citato come modello dalla comunità internazionale. Il secondo ha invece a che vedere con il lato oscuro della stessa rivoluzione tunisina, che si è rivelata incapace di dare una risposta convincente a molti aspetti della crisi socioeconomica che affligge il Paese.
Innanzitutto, la carneficina dell'albergo (38 persone freddate in spiaggia a colpi di kalashnikov fra cittadini inglesi, tedeschi, belgi e irlandesi, più altri 36 feriti) arriva a poco più di tre mesi dalla strage del museo del Bardo di Tunisi, in cui morirono 24 persone, di cui 21 turisti. Prima la cultura, poi le bellezze naturali.
Lo Stato islamico, che ha rivendicato entrambi gli attentati, punta dritto al cuore economico della Tunisia, il turismo. Prima dei due massacri, il settore valeva 1,5 miliardi l'anno, pari al 7% del prodotto interno lordo tunisino, una quota ancora lontanissima dal 15% dell'epoca prerivoluzionaria, ma comunque in (lenta) ripresa. Ora, invece, la curva è tornata a scendere.
Secondo un'indagine pubblicata la settimana scorsa, nella prima metà del 2015 il numero dei turisti in Tunisia è calato del 28% su base annua, mentre rispetto al 2010 il conto si è dimezzato in termini assoluti. Se restringiamo l'indagine alle sole presenze di italiani e francesi - fino a pochi anni fa i clienti più affezionati delle spiagge tunisine - il crollo arriva al 62%. E' facile prevedere che questi dati peggioreranno ulteriormente nei prossimi mesi, quando l'effetto della strage nel resort si farà sentire sul turismo di massa. Un impatto che produrrà conseguenze pesanti sul mondo del lavoro, aggravando una situazione già drammatica in termini di occupazione.
Ma la linearità del rapporto causa-effetto non aiuta a comprendere la situazione generale, anzi. Il legame fra gli attentati dell'Isis e i risultati della primavera araba tunisina è duplice e apparentemente contraddittorio. Da una parte, i terroristi puntano ad affossare il turismo per distruggere l'economia del Paese e allontanarlo dall'Europa, con l'obiettivo di erodere le fondamenta del nuovo Stato laico e, parallelamente, di allargare la base di consenso del Califfato. Dall'altra, sono proprio le molte promesse non mantenute dalla rivoluzione ad aver alimentato il consenso di cui oggi gode lo Stato Islamico. Il punto è che la rivolta iniziata cinque anni fa, pur non essendo degenerata al pari di quelle in Libia o in Egitto, non è stata affatto una storia di successo. I problemi che oggi affliggono il Paese sono gli stessi che nel 2010 lo hanno portato in piazza contro Ben Ali: corruzione dilagante nelle istituzioni, tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30%, frattura socioeconomica drammatica fra Nord e Sud per la carenza d'investimenti nel meridione. Proprio la mancata risposta a questi aspetti della crisi ha spianato la strada alla propaganda del terrorismo fondamentalista.
La Tunisia è il Paese che ha prodotto il maggior numero di conversioni alla causa della jihad, con migliaia di persone arruolate da volontarie prima nelle file di Al Qaeda, poi in quelle dell'Isis. Proviene dalla Tunisia la maggior parte dei miliziani inviati in Siria e in Iraq: circa 3mila individui secondo le intelligence internazionali, generalmente addestrati in Libia.
Si tratta quasi sempre di ragazzini (o comunque di uomini sotto i 30 anni), provenienti dalle realtà più povere e spediti al macello, a farsi usare come carnefici e vittime sacrificali su ogni fronte della "guerra santa". Chi ha la fortuna di sopravvivere, naturalmente, torna a casa, ma ormai non si pone nemmeno il problema di cercare un'alternativa. Continua la jihad nei musei e nei resort.