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di Mario Lombardo
Con la stretta finale dei negoziati sul programma nucleare iraniano sempre più vicina, le divisioni all’interno della classe politica americana circa l’approccio da tenere nei confronti della Repubblica Islamica hanno fatto registrare questa settimana un ulteriore aggravamento in seguito a un’iniziativa con pochi precedenti presa lunedì da un gruppo di membri del Congresso di Washington.
47 senatori della maggioranza repubblicana hanno cioè indirizzato una lettera aperta alle autorità della Repubblica Islamica per avvertire che qualsiasi eventuale accordo dovesse uscire dai colloqui tra Teheran e i P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania) potrebbe avere validità soltanto finché il presidente Obama risiederà alla Casa Bianca.
L’iniziativa è stata promossa dal neo-senatore dell’Arkansas, Tom Cotton, e dovrebbe servire a “illuminare” il governo di Teheran sui meccanismi costituzionali degli Stati Uniti in relazione ai “progressi sulle trattative per il nucleare”.
In definitiva, l’intenzione dei senatori repubblicani sarebbe quella di ricordare all’Iran e, forse, ancor più a Obama che un futuro accordo sul nucleare dovrà essere necessariamente ratificato dal Congresso americano. In assenza di ciò, minacciano i senatori repubblicani, tra meno di due anni l’Iran si troverebbe probabilmente a dover contare soltanto su un “accordo esecutivo” tra Obama e l’ayatollah Ali Khamenei, che un eventuale nuovo presidente repubblicano potrebbe cancellare con una semplice firma.
La mossa repubblicana contribuisce così a innalzare il livello dello scontro interno alla classe dirigente USA in seguito all’apertura del dialogo tra Washington e Teheran. Uno scontro che va ben al di là dell’eventuale accordo sul programma nucleare iraniano, del quale peraltro non esistono prove che sia indirizzato a scopi militari.
Un’intesa con la Repubblica Islamica comporterebbe infatti un drammatico riallineamento strategico degli Stati Uniti in Medio Oriente, cosa che una parte dell’establishment americano - assieme a Israele e alle monarchie assolute del Golfo Persico - intende combattere ad ogni costo.
La lettera aperta rivolta all’Iran dai senatori repubblicani riflette appunto questo timore e rappresenta un’escalation dei tentativi di far naufragare i negoziati in corso. Il Congresso USA, d’altra parte, dispone già del potere di bloccare la revoca delle sanzioni più pesanti che colpiscono Teheran, nonostante il presidente abbia facoltà di sospenderne una parte e di cancellare quelle non approvate dall’organo legislativo americano.
Una decisione così plateale come quella di sfidare il presidente e, secondo molti osservatori, di scavalcarlo nella conduzione della politica estera non può avere perciò che un significato politico ben preciso, vale a dire quello di fare pressioni sulla Casa Bianca per abbandonare il tavolo dei negoziati o per ottenere un accordo che azzeri di fatto il legittimo programma nucleare civile iraniano.
La minaccia dell’annullamento di un eventuale accordo da parte di un prossimo presidente repubblicano è inoltre piuttosto improbabile, visti i rischi politici di una simile decisione, soprattutto nel caso Teheran dovesse rispettare scrupolosamente i termini dell’intesa stessa e se i due paesi dovessero riuscire a consolidare la distensione dei rapporti bilaterali da qui al 2017.
La lettera dei repubblicani appare perciò come un gesto disperato per impedire la firma di un accordo, così come lo era stato il discorso della scorsa settimana al Congresso del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, concordato appunto con la leadership repubblicana dietro le spalle dell’amministrazione Obama.
Prevedibilmente, la notizia della lettera dei senatori repubblicani ha suscitato dure condanne da parte dell’amministrazione Obama. I toni più forti li ha usati il vice-presidente, nonché presidente del Senato, Joe Biden, il quale ha detto di sentirsi “offeso” da un’iniziativa che ha definito “al di sotto del livello di dignità di un’istituzione che rispetto profondamente”.
Biden ha aggiunto che “in 36 anni trascorsi al Senato degli Stati Uniti, non sono in grado di ricordare un’altra occasione in cui i suoi membri si siano rivolti direttamente a un altro paese - ancora meno a un tradizionale rivale - per comunicare che il presidente [americano] non dispone dell’autorità costituzionale per raggiungere un’intesa” con i suoi leader.
Obama ha sottolineato a sua volta come i firmatari della lettera abbiano fatto il gioco dei “falchi” di Teheran, i quali aspettano precisamente segnali di questo genere da Washington per ottenere lo stesso obiettivo dei senatori repubblicani, ovvero il fallimento dei negoziati.
La replica alle critiche di Obama da parte del promotore dell’iniziativa del Senato è stata estremamente significativa della disposizione mentale di una fetta consistente della classe politica USA e, nel caso specifico, dell’ignoranza abissale che la contraddistingue. Il senatore Tom Cotton, in diretta alla CNN, dopo avere escluso che la lettera possa turbare gli equilibri necessari al raggiungimento di un accordo, ha affermato con assoluta certezza che in Iran “non vi sono che falchi ed estremisti islamici”.
Da Teheran, il capo della delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, ha bollato la lettera dei repubblicani come una “manovra di propaganda”, giudicando “molto interessante” il fatto che, “mentre i negoziati sono ancora in corso e non è stato raggiunto nessun accordo, alcuni gruppi politici di pressione sono talmente spaventati anche solo all’ipotesi di un’intesa da ricorrere a metodi insoliti e senza precedenti nella storia della diplomazia”.
Lo stesso Zarif ha comunque ribadito la propria fiducia in un esito positivo delle trattive durante un’apparizione di fronte all’Assemblea degli Esperti nella giornata di martedì. Il suo ottimismo sembra essere condiviso anche dai membri delle delegazioni dei P5+1, visto che una possibile convergenza tra le parti appare vicina su una delle questioni più spinose, cioè la quantità di tempo che l’Iran avrebbe teoricamente a disposizione per sviluppare un’arma nucleare.
Il cosiddetto “break-out time” verrebbe stabilito in dodici mesi, mentre Teheran dovrebbe inoltre ridurre sensibilmente le proprie capacità di arricchimento dell’uranio e accettare un regime di ispezioni fortemente invasivo da parte degli ispettori internazionali.
Uno dei punti più controversi rimane invece quello relativo alla durata del regime restrittivo a cui sarebbe sottoposto l’Iran secondo il dettato dell’accordo. Settimana scorsa, Obama e Zarif erano stati protagonisti di uno scambio di vedute a distanza sulla questione, con il presidente americano che aveva affermato in un’intervista alla Reuters che questo periodo avrebbe dovuto essere di almeno dieci anni, mentre il suo interlocutore iraniano aveva eslcuso una simile eventualità.
Soprattutto, però, Teheran esige la cancellazione di tutte le sanzioni applicate negli ultimi anni, visto che il raggiungimento di un accordo con la comunità internazionale e il rispetto dei termini da esso stabiliti non giustificherebbero il mantenimento di misure punitive. Le modalità con cui il più o meno graduale allentamento delle sanzioni dovrebbe essere implementato risultano ancora poco chiare e su questo punto la distanza tra le parti potrebbe essere significativa.
Il più recente round di negoziati si era concluso la scorsa settimana a Montreux, in Svizzera, dove erano giunti anche il segretario di Stato americano, John Kerry, il ministro dell’Energia USA, Ernest Moniz, e da parte iraniana Zarif e il numero uno dell’Agenzia per l’Energia Atomica, Ali Akbar Salehi.
Dopo un pausa di quasi due settimane, i negoziati riprenderanno il 15 marzo, con incontri previsti tra Losanna e Ginevra. Entro il 31 marzo, le parti coinvolte dovranno definire almeno una bozza di intesa, per poi finalizzare un accordo definitivo non più tardi del 30 giugno.
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di Michele Paris
Un nuovo libro in uscita nei prossimi giorni sulle attività dell’ex primo ministro laburista britannico, Tony Blair, dopo il suo addio a Downing Street nel 2007, ha rinvigorito le accuse nei suoi confronti di avere utilizzato per i propri interessi economici l’incarico di inviato speciale in Medio Oriente del cosiddetto “Quartetto” (ONU, Stati Uniti, Unione Europea e Russia), il cui obiettivo ufficiale dovrebbe essere quello di promuovere i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi.
In particolare, i frequenti viaggi nella regione mediorientale da parte di Blair gli avrebbero permesso di negoziare una serie di contratti di “consulenza” tra la sua società, denominata Tony Blair Associates (TBA), e le monarchie assolute del Golfo Persico.
Secondo quanto riportato dal Sunday Times nel fine settimana, l’affare più ghiotto per l’ex premier sarebbe stato un contratto con il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti. Il giornale londinese ha pubblicato una “proposta”, datata settembre 2014, per una “partnership strategica” tra le due parti.
Nella prefazione di questo documento, firmata da Blair in persona, viene elogiata la “solida leadership” della dittatura degli Emirati, alla quale la TBA offre i propri servizi per costruire una rete di contatti nel pianeta e incrementare l’influenza internazionale di questo paese arabo. La TBA ricorda poi di essere già presente in 25 paesi e che “non esiste virtualmente luogo nel mondo dove non siamo in grado di operare o fornire i contatti necessari, sia politici che economici”.
Nello spiegare come la collaborazione proposta dovrebbe concretizzarsi, il documento pubblicato dal Times di Londra assicura che lo stesso Blair sarebbe coinvolto direttamente e perciò disposto a trascorrere “2/3 giorni ogni mese a Abu Dhabi”, nonché a rimanere continuamente in contatto con il regime degli Emirati. Il valore complessivo del contratto di consulenza ammonterebbe a 30 milioni di sterline, cioè più di 41 milioni di euro.
L’affare risulta perfettamente in linea con la strategia messa in atto da Tony Blair all’indomani del suo abbandono forzato della carica di primo ministro per fare soldi nella maniera più rapida possibile, cioè grazie alla posizione di governo da lui ricoperta e ai contatti stabiliti quando era al potere in Gran Bretagna.
Da un lato, Blair ha seguito l’esempio di Bill Clinton, in grado di accumulare milioni di dollari soltanto tenendo banali discorsi pubblici di fronte a organizzazioni o compagnie private in ogni angolo del pianeta. Dall’altro, la principale fonte di reddito per l’ex leader laburista è appunto l’attività di “consulenza”, spesso avvolta nel mistero a causa del ricorso a oscure strutture societarie consentite dalla legislazione britannica.
Il macroscopico conflitto di interessi tra l’incarico di inviato speciale per il conflitto israelo-palestinese e i suoi affari personali è comunque da tempo al centro di polemiche e le richieste di dimissioni si stanno moltiplicando proprio in seguito alla pubblicazione del Times.
Tanto più che le più recenti rivelazioni si aggiungono ad almeno altre due questioni che avevano sollevato seri interrogativi sul lavoro di Blair in Medio Oriente. Nel primo caso, quest’ultimo aveva fatto pressioni sul governo israeliano per facilitare lo sfruttamento di un giacimento di gas naturale al largo della costa della striscia di Gaza, i cui diritti erano detenuti da British Gas Group, società cliente di JP Morgan, di cui Blair è a libro paga fin dal 2008 con un compenso annuo stimato attorno ai 2 milioni di sterline.
L’altra vicenda riguardava invece il mercato delle frequenze telefoniche, con la compagnia Wataniya Telecom che aveva ottenuto il permesso - grazie a Blair - di operare un servizio di telefonia mobile in Cisgiordania. Questa società appartiene al gigante delle telecomunicazioni del Qatar, QTEL, anch’esso compreso nel portafoglio clienti di JP Morgan, e aveva appunto beneficiato della “mediazione” di Blair con il governo di Israele per utilizzare le frequenze necessarie.
L’insaziabile avidità di Blair comporta inoltre l’assenza di qualsiasi scrupolo nel ricercare occasioni di guadagno, come risulta evidente dalla sua collaborazione (ben retribuita) con autocrati, dittatori e assassini vari ovunque ciò sia possibile.
Un estratto del volume già ricordato - “Blair Inc.: The man behind the mask” - è apparso nei giorni scorsi su alcuni giornali inglesi ed elenca alcuni affari mandati in porto negli ultimi anni dalla società di consulenze dell’ex primo ministro.
Nel 2010, ad esempio, Blair aveva stipulato un contratto segreto con la compagnia petrolifera saudita PetroSaudi. Per 41 mila sterline al mese e una commissione del 2 per cento su ogni affare mediato dalla sua società, Blair si impegnava a favorire lucrosi contatti in Cina.
Sempre nel Golfo Persico, poi, Blair avrebbe un contratto di consulenza con il regime del Kuwait per 27 milioni di sterline e un altro più “modesto” ancora con gli Emirati Arabi, ovvero del valore di 1 milione di sterline all’anno.
Ben documentata è anche la partnership con il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, al potere dal 1991. La scorsa estate, il Daily Telegraph aveva citato una lettera scritta da Blair a Nazarbayev nel luglio del 2012, poco prima di un discorso che il presidente/autocrate kazako tenesse un discorso presso l’università di Cambridge.
Solo pochi mesi prima, nel dicembre del 2011, i servizi di sicurezza del paese centro-asiatico avevano ucciso 14 manifestanti che stavano protestando contro il regime nella città di Zhanaozen. Altre 64 persone erano state ferite negli scontri, mentre lavoratori del settore petrolifero in sciopero erano stati arrestati e torturati.
Blair, il quale aveva iniziato a lavorare per il regime proprio nel novembre del 2011, nella missiva a Nazarbayev suggeriva di fare un qualche riferimento al massacro di Zhanaozen nel suo discorso a Cambridge, così da tenere buona la stampa occidentale, precisando al contempo che la tragedia non doveva “oscurare gli enormi progressi fatti dal Kazakistan”.
Questo paese è perennemente nel mirino delle associazioni a difesa dei diritti umani, dal momento che qualsiasi forma di dissenso viene regolarmente repressa sia tramite la violenza delle autorità sia con l’implementazione di leggi fortemente lesive della libertà di espressione e di assemblea.
Lo stesso contributo allo sforzo di regimi repressivi per ripulire la propria immagine Blair lo ha dato ad esempio anche al paese africano della Guinea, questa volta tramite la cosiddetta Africa Governance Initiative (AGI), un’organizzazione con fini “caritatevoli” creata dall’ex primo ministro.
In questo caso, un documento ottenuto dalla stampa inglese aveva mostrato una serie di inziative consigliate dall’AGI al presidente guineano, Alpha Condé, per riconquistare una certa legittimità dopo l’esplosione di proteste nel suo paese tra i mesi di febbraio e marzo del 2013. Le manifestazioni erano state causate dai tentativi del presidente di manipolare le elezioni previste per il maggio successivo e l’intervento delle forze di polizia aveva causato una decina di morti.
Più recentemente, alcune intercettazioni di conversazioni che vedevano protagonisti i vertici del regime militare egiziano, diffuse da un network satellitare di base in Turchia che sostiene i Fratelli Musulmani, hanno infine confermato gli sforzi di Tony Blair nel promuovere in Occidente il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi.
Nelle registrazioni si potevano sentire alcuni membri del governo del Cairo discutere di un’imminente visita in Egitto da parte di una delegazione degli Emirati Arabi, accompagnata da Blair, il quale evidentemente appoggiava in pieno la collaborazione tra questi due paesi al fine di consolidare il regime di Sisi reprimendo nel sangue ogni traccia di opposizione interna.
Blair, d’altra parte, non ha mai fatto mistero di avere approvato il colpo di stato miltare in Egitto che nel luglio del 2013 aveva portato alla deposizione del presidente democraticamente eletto, Mohamed Mursi, sfruttando l’ondata di malcontento popolare contro il suo governo.
Per Blair, Sisi e i militari hanno riportato l’Egitto sui binari della democrazia e i paesi occidentali dovrebbero accogliere a braccia aperte l’ex generale, nonostante i massacri di sostenitori dei Fratelli Musulmani e di manifestanti di ogni orientamento politico, le condanne a morte di massa di oppositori del regime e la messa di fatto fuori legge del dissenso.
Come di consueto, le ragioni della posizione di Blair non avevano a che fare solo con le sue presunte convinzioni politiche ma anche e, probabilmente, soprattutto con gli affari personali. Il Guardian, infatti, nel luglio scorso aveva raccontato di come il mese precedente l’inviato del “Quartetto” per il Medio Oriente stava lavorando a un accordo per fornire consulenza al regime di Sisi su questioni legate alle “riforme economiche”.
Gli sforzi di Blair in questo senso erano sostenuti da una “task force” finanziata dagli onnipresenti Emirati Arabi e gestita dalla compagnia di consulenze Strategy&, facente parte del colosso del settore “advisory” PricewaterhouseCoopers, con lo scopo di attrarre investimenti esteri nell’Egitto dei militari.
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di Michele Paris
Per ben undici anni lo stato americano del New Jersey ha combattuto in un’aula di tribunale per cercare di imporre alla compagnia petrolifera ExxonMobil il pagamento di una somma pari a quasi 9 miliardi di dollari perché colpevole di avere gravemente contaminato con sostanze tossiche oltre 600 ettari di zone paludose nei pressi della località di Bayway, dove sorgono due impianti di raffinazione.
Dopo il dibattimento, durato otto mesi, la corte aveva stabilito la colpevolezza della compagnia con sede in Texas ed era pronta ad applicare una richiesta di danni retroattiva probabilmente molto pesante, secondo quanto stabilito da une legge dello stato denominata “Spill Act”. Ciò che mancava per chiudere il procedimento era solo la decisione in merito all’importo della sanzione che sarebbe gravata su ExxonMobil.
La richiesta dei procuratori dello stato ammontava a un totale di 8,9 miliardi di dollari, di cui 2,6 sarebbero serviti per bonificare l’area contaminata, mentre il resto (6,3 miliardi) era da considerarsi come puro risarcimento danni.
A questo punto, però, il giudice Michael Hogan ha ricevuto una richiesta da parte del vice procuratore generale del New Jersey per rinviare il verdetto definitivo, poiché l’amministrazione del governatore repubblicano, Chris Christie, avrebbe raggiunto un accordo con la ExxonMobil fuori dal tribunale.
A rigor di logica, una richiesta di sospensione della sentenza a questo punto del procedimento sarebbe stata motivata solo da un eventuale accordo con la compagnia petrolifera per il risarcimento di una somma vicina a quella chiesta dallo stato, vista la riduzione che avrebbe potuto essere decisa dalla corte.
Invece, il governatore, nonché probabile candidato alla Casa Bianca nel 2016, si sarebbe accordato per una somma pari ad appena 250 milioni di dollari, cioè meno del 3% di quanto richiesto complessivamente dallo stato del New Jersey o, se si vuole, meno del 10% di quanto sarebbe necessario per ripulire la zona contaminata.
Oltretutto, secondo una legge proposta da Christie lo scorso anno, solo 50 milioni di dollari del risarcimento sarebbero destinati a opere di bonifica, mentre il resto del denaro potrebbe essere dirottato ad altre voci di bilancio.
Il governatore Christie e i vertici di ExxonMobil hanno per ora evitato qualsiasi commento sull’accordo, ma le polemiche nel New Jersey sono subito esplose. Giovedì i giornali della costa orientale hanno riportato la testimonianza dell’ex numero uno del Dipartimento per la Protezione Ambientale dello stato, Bradley Campbell, il quale ha puntato il dito direttamente contro l’ufficio del governatore.
Secondo Campbell, i protagonisti dell’accordo da 250 milioni di dollari sono da ricercare nello staff di Christie e, in particolare, il primo consigliere di quest’ultimo, Christopher Porrino, “si è intromesso nel caso, emarginando il procuratore generale e gli impiegati di carriera che avevano condotto la controversia legale, così da giungere a un esito favorevole a ExxonMobil”.
Come quasi sempre accade negli Stati Uniti nei casi di vicende politiche o giudiziarie che si risolvono a favore delle grandi aziende, anche in questo caso gli indizi che spiegano la decisione di Christie sono da ricercare in questioni legate al denaro.
Se finora non sono emersi finanziamenti elettorali diretti a favore del governatore, ExxonMobil nel 2014 ha donato più di 700 mila dollari all’Associazione dei Governatori Repubblicani, il cui presidente fino a qualche mese fa era appunto Chris Christie.
Ai politici americani e, in particolare, a quelli repubblicani, l’industria petrolifera elargisce ogni anno milioni di dollari e la decisione di Christie sul caso ExxonMobil sembra essere perciò una mossa per mettersi in luce con finanziatori generosi in vista di una probabile candidatura alla presidenza degli Stati Uniti.
Quest’ultima vicenda è comunque solo l’ultima di una serie di imprevisti che stanno tarpando le ali a un politico a cui la stampa ufficiale ha offerto ampia visibilità sulla scena nazionale. I problemi che rischiano di frustrare le ambizioni di Christie sono in ogni caso determinati dalla sua più che evidente attitudine a servire gli interessi dei potenti e da un malcelato disprezzo per la gente comune, sia pure a fronte di un’immagine proprio da “uomo comune” attentamente coltivata.
Grave imbarazzo gli aveva causato ad esempio l’esplosione lo scorso anno di uno scandalo risalente a una decisione presa nel settembre 2013 da un membro del suo staff, il quale aveva ordinato la chiusura per alcune ore di due trafficatissime corsie di un ponte a Fort Lee, nel New Jersey.
Il provvedimento, secondo molti sanzionato dallo stesso Christie, aveva causato un colossale ingorgo, nonché la morte di una donna per arresto cardiaco su un’ambulanza bloccata nel traffico, e sarebbe stato preso come ritorsione contro il sindaco di Fort Lee, colpevole di non avere appoggiato il governatore repubblicano nelle elezioni del 2013.
Inoltre, Christie era stato fortemente criticato per avere gestito in maniera inadeguata la ricostruzione delle aree del New Jersey devastate dall’uragano Sandy nel 2012. Nel New Jersey continuano a essere accese anche le polemiche nei confronti del governatore a causa della situazione precaria del fondo pensioni dei dipendenti dello stato.
Una recente sentenza di un tribunale ha infatti ritenuto il governatore responsabile del mancato finanziamento che aveva promesso nel 2011 a favore di questo stesso fondo, per “salvare” il quale ha oltretutto proposto nuovi tagli ai “benefit” destinati ai pensionati.
Christie, infine, era apparso in un ritratto del New York Times ben poco lusinghiero poco più di un mese fa, nel quale venivano descritti i suoi numerosi viaggi negli Stati Uniti e all’estero, tutti all’insegna del lusso grazie al denaro di facoltosi sostenitori, spesso con interessi economici nel suo stato.
Sulla vicenda legata al disastro ambientale di ExxonMobil, ad ogni modo, l’assemblea legislativa statale del New Jersey, a maggioranza democratica, ha annunciato iniziative per provare a bloccare l’accordo voluto dal governatore. La discussione in aula al Senato statale dovrebbe inizare il 19 marzo prossimo.
L’accordo, per essere definitivo, dovrà comunque essere approvato dal giudice che presiede il processo, dopo la pubblicazione sul “Registro” ufficiale del New Jersey e un periodo di trenta giorni durante i quali verranno raccolti eventuali commenti o proposte di modifica da parte degli abitanti dello stato.
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di Michele Paris
La discussa apparizione del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, di fronte a una sessione congiunta del Congresso americano nella giornata di martedì, ha prevedibilmente aggravato le tensioni già esistenti tra la Casa Bianca e il governo di Tel Aviv. L’obiettivo principale dell’attacco frontale a Obama del primo ministro è stato l’accordo in fase di negoziazione tra l’Iran e i cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sul nucleare di Teheran, attorno al quale ruota probabilmente il futuro assetto strategico dell’intero Medio Oriente e su cui si stanno scontrando sempre più gli interessi di Stati Uniti e Israele.
Ancora prima, però, il discorso di Netanhya ha dato la conferma del livello di prostrazione a Israele e alle sue “lobbies” della gran parte del Congresso americano. Solo poche decine di deputati e senatori democratici hanno disertato l’evento, mentre i presenti hanno riservato al premier svariate “standing ovations”.
L’opinione comune dei media d’oltreoceano è che l’intervento di Netanyahu renderà ancora più difficile il compito di Obama nel fare accettare al Congresso un eventuale accordo con l’Iran, nel caso dovesse essere percepito come troppo “favorevole” alla Repubblica Islamica.
Infatti, subito dopo il discorso di Netanyahu sono giunti dal Congresso segnali della possibile ripresa in aula a breve della discussione su un pacchetto legislativo che potrebbe prevedere nuove sanzioni economiche contro l’Iran oppure l’obbligo di sottoporre qualsiasi eventuale accordo al voto di Camera e Senato.
Le notizie peggiori per Obama potrebbero arrivare proprio dai suoi colleghi di partito, alcuni dei quali, dietro insistenza della Casa Bianca, si erano recentemente impegnati a non portare in aula il provvedimento sulle sanzioni fino alla fine di marzo, in attesa degli sviluppi delle trattative diplomatiche.
Molti democratici sono d’altra parte ascrivibili alla fazione dei “falchi” in merito all’Iran e l’intervento di Netanyahu, assieme all’aggressiva attività delle “lobbies” israeliane a Washington, minaccia di far coagulare una maggioranza trasversale al Congresso, potenzialmente in grado di neutralizzare l’eventuale veto di Obama su qualsiasi iniziativa di legge che ostacoli le trattative in atto sul nucleare di Teheran.
Netanhyahu, in ogni caso, martedì non ha rivelato dettagli segreti delle trattative in atto tra Teheran e i P5+1 per fare ulteriori pressioni sui membri del Congresso, come temeva la Casa Bianca, ma ha deciso di ricorrere alla consueta propaganda anti-iraniana e a tirate islamofobe.
Apparentemente nessuno dei politici o dei giornalisti radunati al Congresso sembra poi avere notato la colossale ipocrisia del loro ospite, impegnato a dipingere un quadro apocalittico per il pianeta a causa dell’inesistente programma nucleare militare iraniano pur essendo alla guida di un paese che detiene segretamente un numero imprecisato di testate atomiche, mette in atto impunemente politiche criminali nei confronti dei palestinesi e ha condotto guerre o operazioni militari illegali contro molti dei paesi vicini.
Un’analisi pubblicta mercoledì sul New York Times ha rilevato come l’invito fatto a Netanyahu dallo “speaker” repubblicano della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, dietro le spalle della Casa Bianca sia risultato in uno spettacolo decisamente insolito, nel quale “un leader straniero ha parlato di fronte ai membri del Congresso per attaccare strenuamente le politiche di un presidente americano in carica”.
“Così facendo”, ha aggiunto il commento del Times, “Netanyahu ha sostanzialmente invitato deputati e senatori a porre la loro fiducia in lui piuttosto che in Obama per impedire all’Iran di costruire un ordigno nucleare”.
Alcuni commenti al discorso di Netanyahu provenienti da esponenti dell’amministrazione Obama hanno rilevato come quest’ultimo non abbia offerto alcuna proposta alternativa ragionevole a un accordo pacifico. Nell’ottica del premier israeliano, l’unica soluzione accettabile sembra essere piuttoto quella di ottenere una capitolazione completa da parte di Teheran e ciò comporta, inevitabilmente, la guerra o il cambio di regime.
Lo smantellamento completo del programma nucleare iraniano è d’altra parte al centro delle richieste di Netanyahu, pur sapendo che un’eventuale posizione intransigente su questo aspetto da parte di Washington determinerebbe una rottura dei negoziati e riporterebbe le lancette degli orologi indietro di almeno un paio d’anni.
La paranoia di Netanyahu nei confronti dell’Iran è legata a varie questioni, a cominciare da quella immediata di natura elettorale. Il 17 marzo prossimo si terrà in Israele il voto anticipato e per la prima volta da molti anni il Likud di Netanyahu rischia di finire all’opposizione, almeno secondo alcuni sondaggi.
L’agitazione della minaccia “esistenziale” rappresentata dall’Iran per lo Stato ebraico è dunque essenziale al fine di promuovere le credenziali di Netanyahu in materia di sicurezza nazionale. Inoltre, lo spostamento dell’attenzione degli elettori verso la situazione internazionale risulta utilissimo a un governo di destra che ha presieduto a un lungo periodo caratterizzato dal grave deterioramento delle condizioni economiche di lavoratori e classe media.
L’altro fattore principale che determina la visione catastrofica di Netanyahu in relazione a un possibile accordo sul nucleare ha a che fare con la necessità di conservare l’assoluta superiorità militare di Israele in Medio Oriente, così da consentire a questo paese di imporre con la forza i propri interessi e i propri metodi sui rivali nella regione.
L’irriducibile avversione di Netanyahu per l’Iran è perciò connessa al ruolo fondamentale che Teheran svolge nell’asse della resistenza anti-israeliana - e anti-americana - attraverso la partnership, il finanziamento e la fornitura di armi o assistenza militare al regime siriano, a Hezbollah in Libano e, sia pure tra le divergenze circa i rapporti con Damasco, a Hamas nella striscia di Gaza.
Questi obiettivi strategici di Israele si stanno scontrando però sempre più con quelli di più ampio respiro dell’amministrazione Obama in Medio Oriente. Se la minaccia di ricorrere alla forza per piegare Teheran rimane sul tavolo a Washington, almeno a parole, una parte della classe dirigente americana ha chiaramente scelto di cercare il dialogo con l’Iran, non tanto per raggiungere un accomodamento disinteressato che rispetti le ambizioni e l’indipendenza di questo paese, bensì come percorso più opportuno per promuovere i propri interessi sullo scacchiere internazionale.
In altre parole, per gli USA un confronto militare con la Repubblica Islamica risulterebbe controproducente, soprattutto alla luce delle rivalità in aumento con Cina e Russia, dal momento che finirebbe per creare ancora maggiore instabilità in una regione già infiammata dalla loro stessa dissennata politica estera. Più utile in questo momento appare invece un accordo con la leadership moderata installatasi a Teheran in seguito all’elezione del presidente Rouhani.
Una simile strategia, com’era prevedibile, sta producendo profonde divisioni all’interno dell’establishment politico americano, dove i repubblicani e una buona fetta di democratici gradirebbero un ritorno puro e semplice ai rapporti esistenti prima del 1979 tra Washington e Teheran.
La progressiva divergenza degli interessi strategici di Stati Uniti e Israele in Medio Oriente è dunque la causa della crescente freddezza, per non dire ostilità, tra l’amministrazione Obama e quella di Netanyahu, il cui discorso di martedì e tutti gli strascici polemici che ne sono seguiti appaiono soltanto come la più recente e clamorosa manifestazione.
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di Michele Paris
Almeno un paio di inconvenienti stanno preoccupando in questi giorni l’ex segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in una fase che dovrebbe precedere l’annuncio ufficiale del lancio della sua seconda campagna per l’elezione alla Casa Bianca. Il primo fastidio è stato causato dalla pubblicazione della lista di donatori della “Fondazione Clinton” che la ex first lady dirige assieme al marito, Bill, e alla figlia, Chelsea. Questa organizzazione ha scopi ufficialmente benefici e, a partire dalla sua creazione nel 2001, ha distribuito in vari paesi quasi 2 miliardi di dollari.
Scorrendo l’elenco dei benefattori si incontrano però molti governi autoritari, grandi corporations e società appaltatrici del Pentagono che, con ogni probabilità, hanno a cuore non tanto la filantropia quanto il desiderio di ottenere favori ai vertici della politica USA.
Già ai tempi della sua nomina a segretario di Stato nel 2009 era emerso il chiaro conflitto d’interessi per via della Fondazione e delle strategie di raccolta fondi di quest’ultima. Con la Casa Bianca, però, era stato raggiunto un accordo secondo il quale la Fondazione non avrebbe accettato denaro dall’estero proveniente da nuovi donatori. Un’importante eccezione era stata invece stabilita per i donatori “abituali”, i quali avevano facoltà di continuare a finanziare i progetti della Fondazione Clinton.
Dopo le dimissioni di Hillary dal Dipartimento di Stato a inizio 2013, le donazioni sono riprese a tutti gli effetti, superando in quello stesso anno i 260 milioni di dollari. Sul sito web della Fondazione i donatori sono raggruppati in scaglioni, in base alla quantità di denaro sborsato. I più generosi hanno donato “oltre 25 milioni di dollari” e tra questi spiccano la Fondazione Bill e Melinda Gates, un paio di imprenditori multimiliardari impegnati in cause “progressiste” e la Lotteria Nazionale olandese.
Passando agli scaglioni successivi, la lista si fa più interessante. Tra coloro che hanno donato tra 10 e 25 milioni di dollari figura ad esempio il Regno dell’Arabia Saudita, mentre a staccare assegni con cifre comprese tra i 5 e i 10 milioni sono stati, oltre a Michael Schumacher, il governo del Kuwait e Coca-Cola Company.
Le tre rimanenti monarchie assolute del Golfo Persico sono ugualmente presenti nella lista, con donazioni tra 1 e 5 milioni di dollari (Emirati Arabi, Oman, Qatar), così come facoltosi individui che risiedono in questi stessi paesi. Ugualmente, molto nutrita è la rappresentanza delle principali corporations e dei grandi istituti finanziari, tra cui Barclays Capital, Cisco, ExxonMobil, Microsoft, Pfizer, Procter & Gamble, Dow Chemical, Goldman Sachs, Toyota, Walmart, Boeing, Google, Chevron e molti altri.
Il caso di Boeing aiuta a comprendere la natura dei rapporti tra i donatori - o almeno parte di essi - e la Fondazione Clinton. In qualità di segretario di Stato, nel 2009 Hillary si era adoperata con il governo russo per vendere a Mosca 50 velivoli 737 della compagnia americana. Qualche mese più tardi, quest’ultima avrebbe staccato il suo primo assegno da 900 mila dollari a favore della Fondazione, destinati a finanziare il sistema scolastico di Haiti.
La stessa dinamica è riscontrabile in relazione alla compagnia General Electric (GE). Secondo il Wall Street Journal, nell’ottobre del 2012 Hillary fece pressioni sul governo dell’Algeria per appaltare a GE la costruzione di centrali elettriche nel paese nordafricano. Il mese successivo, la Fondazione Clinton chiese alla stessa compagnia una donazione per espandere un’iniziativa sanitaria. Prevedibilmente, GE staccò un assegno per un importo compreso tra i 500 mila e il milione di dollari e nel settembre del 2013 ottenne il contratto per le centrali elettriche in Algeria.
Non sempre la vera e propria attività di “lobbying” di Hillary Clinton ha dato i suoi frutti, come nel caso dei tentativi falliti di convincere alcuni paesi dell’Europa orientale a concedere i diritti di sfruttamento dei propri giacimenti di gas a ExxonMobil e Chevron.
Sempre nel 2012, poi, il gigante della distribuzione Walmart aveva promesso 12 milioni di dollari per finanziare numerose cause legate ai diritti delle donne in America Latina, compresi 1,5 milioni destinati alla Fondazione Clinton. Un mese dopo, l’allora segretario di Stato era al lavoro in India per spingere il governo a cancellare il divieto sull’apertura di mega-negozi di proprietà di compagnie straniere, a cui proprio Walmart puntava da tempo per penetrare un mercato sterminato. Gli sforzi di Hillary, tuttavia, non ebbero successo.
Un altro caso ampiamente riportato dalla stampa americana è infine quello del governo algerino, protagonista di una donazione da 500 mila dollari che, a differenza di quelle formalmente legittime di altri soggetti, avrebbe violato l’accordo sottoscritto nel 2009 tra la Fondazione Clinton e la Casa Bianca.
Il denaro arrivato da Algeri si inseriva in una campagna di “lobbying” messa in atto negli Stati Uniti per contrastare gli effetti di un rapporto del Dipartimento di Stato sui diritti umani nel mondo che puntava il dito, tra gli altri, proprio contro il governo di questo paese del Maghreb. L’elargizione assicurata alla Fondazione Clinton era superiore al resto del budget stanziato complessivamente dall’Algeria in un anno intero per questo genere di iniziative negli Stati Uniti.
Nei commenti apparsi su quasi tutti i giornali americani, i rapporti della Fondazione Clinton con potenti donatori, soprattutto stranieri, sono stati condannati o messi in discussione principalmente a causa di possibili indebiti scambi di favori, con il coinvolgimento appunto del Dipartimento di Stato e, viste le ambizioni di Hillary, potenzialmente la stessa Casa Bianca.
Da tenere in considerazione è però anche un altro aspetto che si incrocia con la tradizionale strategia del governo USA di utilizzare le questioni dei diritti umani o le apparenti battaglie per cause umanitarie al fine di promuovere gli interessi della propria classe dirigente.
In questo senso, la Fondazione Clinton sembra essere un altro strumento per raggiungere gli obiettivi della politica estera americana, come nel caso di Haiti, dove dopo il terremoto del 2010 l’ente benefico che fa capo all’ex presidente democratico ha svolto un ruolo di primo piano nella “ricostruzione”. Un processo, quest’ultimo, pilotato verso una soluzione favorevole al governo e alle corporations americane, perseguita anche attraverso la controversa elezione alla presidenza nel 2011 del duvalierista molto gradito a Washington, Michel Martelly.
Più di recente, gli intrecci della Fondazione Clinton con la politica estera USA sono riemersi in occasione del voto in Sri Lanka. Qui, gli Stati Uniti hanno manovrato dietro le quinte per giungere alla rimozione del presidente, Mahinda Rajapaksa, colpevole di avere orientato strategicamente il proprio paese verso la Cina.
A tessere la trama per Washington che ha alla fine portato alla presidenza l’ex ministro di Rajapaksa, Maithripala Sirisena, è stata l’ex presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, membro della Fondazione Clinton fin dal 2005.
L’altro grattacapo per la probabile candidata democratica alla Casa Bianca nel 2016 è scaturito infine dalla pubblicazione martedì della notizia che, durante i quattro anni trascorsi al Dipartimento di Stato, Hillary ha utilizzato esclusivamente il proprio account privato di posta elettronica per la corrispondenza legata al suo incarico.
Da alcuni anni, una legge negli Stati Uniti impone a coloro che occupano cariche federali di utilizzare account governativi, sia per motivi di sicurezza che di trasparenza, in modo da consentire la conservazione della corrispondenza che può essere messa a disposizione di storici, giornalisti o membri di commissioni del Congresso.
La scelta di Hillary di usare il proprio account privato per le comunicazioni ufficiali sembra essere senza precedenti a partire dall’approvazione della legge che regola tale questione. Inoltre, le e-mail inviate e ricevute dall’ex segretario di Stato tra il 2009 e il 2013 sono state consegnate al Dipartimento di Stato solo un paio di mesi fa e dopo una richiesta esplicita del governo.
La vicenda, perciò, minaccia di alimentare ulteriormente le polemiche mai sopite nei confronti di Hillary, ma anche del marito Bill, per una più che evidente inclinazione alla segretezza e alla mancanza di trasparenza.