di Michele Paris

Una giuria composta da dodici membri ha giudicato il 22enne di origine cecena, Dzhokhar Tsarnaev, colpevole di tutti e 30 i capi d’accusa a suo carico per avere fatto esplodere assieme al fratello deceduto, Tamerlan, due bombe artigianali sulla linea del traguardo della maratona di Boston il 15 aprile 2013. Il verdetto era ampiamente prevedibile, anche alla luce della strategia difensiva, ma, in maniera altrettanto prevedibile, il breve processo svoltosi nella metropoli del Massachusetts ha sorvolato sui numerosi punti oscuri di una vicenda culminata con la morte di tre persone e il ferimento di altre 264.

Tsarnaev è stato condannato anche per l’omicidio di un agente della polizia del Massachusetts Institute of Technology, avvenuto durante il tentativo di fuga dei due fratelli tre giorni dopo l’attentato. 17 dei 30 capi d’accusa formulati dalla procura federale comportano l’esecuzione capitale come pena massima.

Nello stato del Massachusetts non è in realtà contemplata la pena di morte ma il processo a Tsarnaev è stato intentato nel circuito federale che invece continua a prevederla. L’entità della pena disposta nei confronti del giovane ceceno verrà decisa al termine della seconda fase del processo che dovrebbe avere inizio già nei prossimi giorni e durare un paio di settimane.

La pena capitale è appoggiata da una minima parte della popolazione nel nord-est degli Stati Uniti. Tuttavia, in fase di selezione i dodici membri della giuria sono stati obbligati a giurare di essere pronti a emettere una sentenza di condanna a morte se i fatti presentati in aula fossero stati sufficientemente gravi.

Agli avvocati della difesa, in ogni caso, basterà convincere anche uno solo dei giurati che non vi sono gli estremi per una sentenza capitale, così da risparmiare il patibolo al loro assistito. Su questo obiettivo minimo, e sulla ricerca di una condanna all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionata, si è basata d’altra parte la strategia difensiva durante la prima fase del processo.

Il verdetto di colpevolezza non era mai apparso in dubbio, visto che l’avvocato difensore Judy Clark aveva ammesso durante la propria arringa d’apertura che non vi erano dubbi sul fatto che Dzhokhar avesse partecipato all’attentato. Quest’ultimo, però, era stato a suo dire interamente influenzato dal vero ideatore del piano, il fratello maggiore Tamerlan, convenientemente ucciso dalla polizia il 18 aprile del 2013 durante una spettacolare caccia all’uomo che aveva di fatto determinato la sospensione per alcune ore delle libertà democratiche di milioni di persone nell’area di Boston.

Il piano scelto dalla difesa ha lasciato così ampio spazio alle tesi dell’accusa nel corso del dibattimento, con ben 92 testimoni sfilati davanti ai giurati, inclusi vari sopravvissuti all’attentato. In aula sono stati descritti nel dettaglio molti particolari raccapriccianti dei momenti seguiti all’esplosione, così come è stata mostrata la piccola imbarcazione privata in cui Dzhokhar si era nascosto per sfuggire inutilmente alla cattura e sulla cui parete, malgrado il buio e gli spari degli agenti di polizia, avrebbe scritto in maniera perfettamente leggibile alcune frasi di odio contro gli Stati Uniti per il trattamento riservato ai musulmani in molte parti del pianeta.

La difesa, da parte sua, ha convocato solo quattro testimoni e non ha praticamente mai contro-interrogato quelli dell’accusa. Secondo alcune stime, il tempo complessivo utilizzato dalla difesa durante il dibattimento è stato di appena cinque ore.

La colpevolezza di Dzhokhar Tsarnaev nella pianificazione e nell’esecuzione della strage di Boston sembra in ogni caso chiara, come avevano confermato anche i filmati di sorveglianza che lo hanno ritratto nei momenti precedenti e successivi alle esplosioni.

Sull’intera vicenda pesano tuttavia interrogativi irrisolti e, anzi, frequentemente oscurati dalle autorità, talvolta anche con il ricorso a metodi estremi. Quest’opera di insabbiamento è stata possibile anche grazie alla collaborazione dei media ufficiali, ben attenti a non sollevare le questioni più delicate collegate a uno dei fatti di terrorismo più gravi accaduti negli USA dopo l’11 settembre 2001.

Per cominciare, la notizia ampiamente diffusa delle segnalazioni inviate dalle autorità russe all’FBI e alla CIA nel 2011 e nel 2012 sui contatti di Tamerlan Tsarnaev con ambienti terroristici ceceni non è mai stata approfondita né spiegata in modo convincente.

L’FBI ha sostenuto di avere condotto indagini su Tamerlan ma di non avere trovato informazioni che meritassero una maggiore attenzione, così che nel 2012 gli sarebbe stato possibile effettuare indisturbato un viaggio di sei mesi nelle repubbliche caucasiche russe della Cecenia e del Daghestan, entrando probabilmente in contatto con ambienti jihadisti notoriamente sostenuti dalla CIA.

Ciò appare ancora più sconcertante alla luce dei sospetti che la polizia americana doveva avere sul coinvolgimento di Tamerlan in un triplice omicidio avvenuto l’11 settembre 2011 in un appartamento di Waltham, nel Massachusetts, tra le cui vittime figurava un suo amico intimo.

Dopo l’attentato alla maratona, inoltre, i familiari dei due fratelli Tsarnaev avevano dichiarato in varie interviste che l’FBI aveva interrogato più volte Tamerlan, così come la sua abitazione era stata perquisita in più occasioni. Secondo la madre, poi, gli agenti federali non avevano nascosto i propri timori sulla pericolosità dello stesso Tamerlan.

L’FBI, la CIA e il dipartimento della Sicurezza Interna erano quindi a conoscenza delle attività e delle inclinazioni dei responsabili degli attentati del 2013 ma non hanno mai informato gli altri membri della task force congiunta per l’anti-terrorismo nell’area di Boston, cioè le autorità locali di polizia. Questa mancanza da parte delle agenzie federali è stata sempre definita come un semplice errore o la conseguenza dello scarso coordinamento tra i vari organi della sicurezza nazionale.

Almeno su una parte di queste oscure vicende avevano provato a fare luce i legali di Dzhokhar Tsarnaev, quando lo scorso anno nelle fasi preliminari del processo avevano rivelato il tentativo da parte dell’FBI di reclutare Tamerlan come informatore. Gli avvocati avevano così chiesto alla corte federale distrettuale la consegna di tutti i documenti del “Bureau” relativi al più anziano dei fratelli Tsarnaev. L’istanza è stata però respinta dopo che il governo si è appellato alla necessità di proteggere la “sicurezza nazionale”.

Un’altra rivelazione aveva contribuito ad alimentare i dubbi sugli oscuri rapporti tra le agenzie federali americane e la famiglia Tsarnaev. Uno zio dei due fratelli, Ruslan Tsarni, era stato identificato come il fondatore nel 1995 del cosiddetto Congresso delle Organizzazioni Internazionali Cecene (CCIO), da molti considerato uno strumento della CIA per fornire armi ai ribelli della repubblica autonoma russa nel Caucaso.

La sede del CCIO risultava essere presso un indirizzo di Rockville, nel Maryland, corrispondente all’abitazione di Graham Fuller, vice-direttore del Consiglio per l’Intelligence Nazionale della CIA durante la presidenza Reagan e agente segreto operativo in molti paesi, tra cui Afghanistan, Yemen e Arabia Saudita, prima di lasciare ufficialmente l’agenzia nel 1988 a causa del suo coinvolgimento nello scandalo Iran-Contras. A conferma dei legami tra Tsarni e Fuller, entrambi avevano confermato che la figlia di quest’ultimo era stata sposata con lo zio dei fratelli Tsarnaev negli anni Novanta.

Sempre l’FBI aveva infine messo a tacere poco più di un mese dopo l’attentato di Boston un possibile testimone delle vicende legate ai fratelli Tsarnaev. Il 27enne ceceno Ibragim Todashev, amico di Tamerlan, era stato infatti ucciso nel corso di un interrogatorio nella sua abitazione di Orlando, in Florida, in circostanze a dir poco dubbie.

Il resoconto della morte di Todashev fatto dall’FBI era stato smentito clamorosamente dai rapporti dell’autopsia e da indagini giornalistiche indipendenti che hanno mostrato come il giovane immigrato non aveva tenuto alcun comportamento minaccioso nei confronti degli agenti che lo stavano interrogando.

Nessuna delle questioni suddette è stata dunque sollevata durante il processo a Dzhokhar Tsarnaev, tanto meno dalla difesa di quest’ultimo. Il procedimento in aula si è risolto così in uno spettacolo attentamente coreografato, con l’obiettivo di tenere nascosta la verità dietro alle bombe di Boston e di servire una condanna già pronta da tempo all’unico imputato della strage.

di Fabrizio Casari

Il Vertice delle Americhe che comincia oggi a Panama, che tutti si augurano possa offrire passi avanti sul terreno delle relazioni tra America latina e Stati Uniti, non è iniziato nel migliore dei modi. Alla vigilia dell’inaugurazione dei lavori, le delegazioni cubane e venezuelane presente al Foro della società civile si sono trovate a dover assistere alla presenza di agenti della CIA di origini cubana spacciati come rappresentanti della società civile dell’isola.

La reazione dei rappresentanti autentici delle organizzazioni sociali cubane è stata immediata e, dopo aver chiesto l’allontanamento dei mercenari alle autorità panamensi, hanno abbandonato l’inaugurazione come reazione alla presenza di terroristi e mercenari cui il governo di Panama ha permesso di accreditarsi nei diversi Fori previsti al margine dei lavori istituzionali.

Per solidarietà con i cubani, anche la delegazione venezuelana ha abbandonato i lavori dell’inaugurazione. A caratterizzare ulteriormente l’autentica fede della gusanera, tra mercoledì e giovedì l’ambasciata cubana a Panama City e il pullman che ospitava la delegazione cubana, sono stati oggetto di provocazioni che hanno obbligato la polizia di Panama ad intervenire per evitare guai peggiori.

Tanto la delegazione cubana come quella venezuelana ovviamente parteciperanno al Foro, non avendo intenzione di lasciare i lavori di quello che poteva essere un primo, positivo incontro tra le diverse organizzazioni delle società civili latinoamericane e c’è da scommettere che non sarà semplice per i mercenari assistervi.

Se per i diversi paesi presenti, i rispettivi settori della società civile hanno, in qualche modo, la legittima rappresentanza di settori popolari, nei confronti di L’Avana e Caracas il Dipartimento di Stato USA ha deciso di forzare le maglie “molto amichevoli” del governo panamense per provare a mettere in scena la provocazione.

L’arrivo a Panama di cotanta immondizia è infatti una mossa degli Stati Uniti, che hanno tentato un’operazione di accreditamento internazionale dei loro manutengoli di stanza in Florida. Non si capisce quale dovrebbe essere la loro rappresentazione della società civile cubana, giacché la maggior parte vivono a Miami e quei pochi che risiedono a Cuba sono stipendiati dal governo statunitense per costruire dall’interno campagne di destabilizzazione. Cavallo di Troja delle attività sovversive degli Stati Uniti, sebbene ignoti ai cubani, sono però notissimi agli amministratori dei fondi statunitensi contro l’isola.

Come svelarono i documenti pubblicati da Wikileaks riguardanti le comunicazioni tra Washington e l’Ufficio d’interessi USA a L’Avana dal 2008 al 2010, il convincimento del Dipartimento di Stato è che “il movimento dissidente a Cuba è completamente sconnesso dalla realtà dei cubani” e che i loro membri siano “viziati dall’avidità e dall’ego personale”. Dunque persino Washington sa di che pasta sono fatti i componenti della colonna interna delle truppe mercenarie impiegate nella guerra contro il governo dell’isola, che non sembrerebbe essere il principio-guida su cui nascono le organizzazioni della società civile.

E nonostante l’ordine di grandezza sia ridicolo, non c’è sigla che non abbia sollecitato e ricevuto denaro per la loro attività cospirativa. Benché siano incapaci ricevono denaro a sufficienza, perché spargere menzogne è un lavoro che non ha bisogno di particolari abilità professionali.

Ma il fatto che – come gli stessi Stati Uniti ammettono – non abbiano il benché minimo seguito nell’isola, ha un’importanza relativa ai fini del loro utilizzo. La campagna anticubana che gli USA finanziano con decine di milioni di dollari all’anno ha bisogno di poter dimostrare che qualcuno si arruola, non fosse altro per evitare che l’anno successivo i fondi diminuiscano e la giostra s’interrompa. Sarebbe la fine della cuccagna dei fondi senza controllo sui quali mettono le mani a Miami.

Ma che c’entrano i mercenari con la società civile? A che titolo essi possono parlare a nome della società civile di Cuba? Personaggi come Costa Morua, Elisardo Sanchez, Berta Soler, Yoani Sanchez, Guillermo Farinas e altri tolgono ogni credibilità al Foro, e la presenza di Felix Rodriguez Mendeguita ha addirittura seppellito la pubblica decenza.

Felix Rodriguez, agente CIA e socio di Posada Carriles, il “bin Ladin delle Americhe”, oltre ad essere colui che guidò i soldati boliviani al nascondiglio di Ernesto Guevara, è stato al centro di ogni attività terroristica ella CIA in America Latina ed è noto il suo coinvolgimento nell’Iran-Contras-gate, l’operazione di finanziamento illegale della CIA ai terroristi Contras in Nicaragua finanziato con i proventi della vendita di armi (sotto embargo) all’Iran.

Il Vertice presenta comunque aspetti politici di assoluto rilievo rispetto ad altri nel passato. Vede il rientro di Cuba dopo che per decenni era stata esclusa per volontà del governo degli Stati Uniti. Una novità resasi inevitabile viste le pressioni di Brasile, Argentina, Venezuela, Ecuador, Bolivia e Nicaragua, giunti in diversi momenti a minacciare di disertare i lavori se Cuba non fosse stata riammessa. Peraltro, il dialogo tra Washington e L’Avana sembra proseguire lentamente ma decisamente: ieri il Dipartimento di Stato ha chiesto alla Casa Bianca di togliere Cuba dalla “black list”, ovvero la lista dei paesi che gli USA ritengono “patrocinatori del terrorismo”.

Ovviamente Cuba niente aveva a che vedere con il sostegno al terrorismo, esclusiva degli alleati di Washington nel Golfo Persico e in Medio Oriente, ma la misura è politicamente importante, dal momento che la “black list” è sempre stata utile premessa per embarghi, minacce ed invasioni verso i suoi componenti. Quella della rimozione di Cuba dalla “black list” era una delle richieste inderogabili che L’Avana aveva posto per proseguire il dialogo su basi serie e non solo per effetti propagandistici e che alla vigilia del Vertice delle Americhe gli USA diano visto bueno è certamente un passo avanti nella giusta direzione.

Novità anche per quanto riguarda le minacce rivolte al Venezuela. Il presidente Obama, in una intervista durante una visita-lampo in Giamaica, ha affermato che “il Venezuela non è una minaccia alla sicurezza nazionale degli USA e gli USA non sono una minaccia per il Venezuela”. Una decisa retromarcia, dunque, da quanto da lui stesso firmato in calce al Decreto Presidenziale dello scorso Marzo, dove il Venezuela veniva invece catalogato come “minaccia”.

Probabilmente Obama ha compreso l’errore strategico di un atto che ha compattato il popolo venezuelano e quasi tutta l’America Latina con il governo di Nicolas Maduro, ben oltre le differenze politiche pure esistenti, vedi il caso della Colombia di Santos.

Tra provocazione allo stato puro e barlumi di aperture politiche, gli Stati Uniti sembrano comunque voler giocare ancora una volta una partita aggressiva, riconfermando alla destra latinoamericana come qualunque novità nel subcontinente, per quanto dotata di maquillage, non comporterà un sostanziale cambio di approccio tra il gigante del nord e quello che si ostina a ritenere “il giardino di casa”.

Le aperture a Cuba e i passi indietro nei confronti del Venezuela si accompagnano all’aumento della pressione politica e del dispiegamento di militari lungo tutto il continente. Il Vertice si concluderà domenica e solo la dichiarazione finale dirà se prevarranno gli aspetti innovatori o quelli più imperiali nel proseguimento delle relazioni tra Centro-Sud e Nord America. E’ lecito non farsi soverchie illusioni: la dottrina Monroe è ancora vigente, diversamente i mercenari sarebbero rimasti a Miami.





di Mario Lombardo

Il campo profughi per i rifugiati palestinesi di Yarmouk, in Siria, è da qualche giorno teatro di intensi combattimenti in seguito al controllo quasi totale di esso assunto dallo Stato Islamico (ISIS). Prima dell’inizio della guerra, l’insediamento situato a una manciata di chilometri dal centro di Damasco ospitava più di centomila palestinesi, ma le sanguinose battaglie di questi ultimi anni hanno lasciato circa 16 mila persone intrappolate nel campo, di cui almeno 3.500 bambini.

Ad aggravare le condizioni dei residenti rimasti a Yarmouk è stato l’arrivo la scorsa settimana dei guerriglieri dell’ISIS. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, entro la giornata di sabato lo Stato Islamico deteneva il controllo del 90% del campo, anche se il responsabile per la Siria dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Anwar Abdel-Hadi, ha affermato martedì che Yarmouk è ora solo per il 60% nelle mani dell’ISIS.

Gli scontri all’interno del campo stanno avvenendo principalmente tra l’ISIS e i combattenti palestinesi, in primo luogo quelli affiliati ad Aknaf Beit al-Maqdis, un gruppo anti-Assad molto vicino ai Fratelli Musulmani ma opposto alle truppe del califfato.

Il conteggio dei morti causati dagli scontri dei giorni scorsi appare piuttosto incerto, anche se varie fonti hanno riferito di decine di vittime accertate e di molti corpi abbandonati per le strade a causa dell’intensità della battaglia in atto.

Fonti palestinesi pro-Assad all’interno del campo hanno descritto svariati massacri per mano dell’ISIS e della formazione affiliata ufficialmente ad al-Qada in Siria, il Fronte al-Nusra. Numerosi abitanti di Yarmouk sarebbero stati rapiti e 5 persone decapitate.

Per Roger Hearn di Save the Children, “i palestinesi residenti in Siria hanno cercato di non farsi coinvolgere nel conflitto” e proprio per questa ragione sono ora “sotto assedio, bombardati, affamati e massacrati”.

Le Nazioni Unite e le associazioni umanitarie hanno lanciato appelli alle parti in conflitto a Yarmouk per consentire l’accesso al campo degli operatori e l’evacuazione dei civili. Il commissario generale per i rifugiati palestinesi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione (UNRWA), Pierre Krähenbühl, ha avvertito lunedì che l’attuale situazione dei profughi nel campo è la più grave dall’inizio della guerra in Siria.

I residenti rimasti, già provati da due anni di assedio, sono privi di cibo, acqua e medicinali, visto che la UNRWA è impossibilitata a portare assistenza a Yarmouk. La questione del campo è stata sollevata al Palazzo di Vetro di New York questa settimana nel corso di una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza.

La situazione dei civili a Yarmouk sarebbe aggravata anche dall’intensificarsi negli ultimi giorni dei lanci delle cosiddette “barrel bombs” ad alto tasso di distruzione da parte delle forze del regime di Assad nel tentativo di colpire le postazioni dell’ISIS.

Il fronte all’interno del campo alle porte di Damasco è in ogni caso complicato dalla presenza di varie fazioni che sostengono il regime e altre che lo combattono, pur essendo allo stesso tempo rivali dell’ISIS.

Martedì è andato in scena però a Damasco un vertice tra il vice-ministro degli Esteri, Faisal Mekdad, e una delegazione dell’OLP, i cui membri hanno rivelato come le autorità siriane “siano pronte a sostenere i combattenti palestinesi in vari modi, incluso quello militare, per espellere l’ISIS” da Yarmouk.

Il capo della missione palesinese a Damasco, Ahmed Majdalani, ha affermato invece all’agenzia di stampa AFP che l’incontro ha prodotto un accordo tra le varie fazioni palestinesi nel campo profughi per unire le proprie forze e coordinare con il regime la lotta all’ISIS.

A conferma di ciò è arrivata anche la dichiarazione del numero uno del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Comando Generale, Ahmed Jibril, legato al regime di Assad, secondo il quale il leader politico di Hamas, Khaled Meshal, avrebbe chiesto al suo gruppo di “assistere” i combattenti di Aknaf Beit al-Maqdis nella battaglia di Yarmouk. I vertici di Hamas si erano sganciati da Damasco dopo l’inizio della guerra in Siria, appoggiando apertamente la causa dei “ribelli”.

Le immediate prospettive per il campo di Yarmouk non sono comunque rosee, al di là delle forze che riusciranno eventualmente a prevalere. Un intensificarsi degli scontri è infatti molto probabile, anche in seguito alle dichiarazioni rilasciate mercoledì dal ministro siriano per la Riconciliazione, Ali Haidar.

Citato dalla AFP, Haidar ha ipotizzato un impegno da parte del regime più incisivo di quello tenuto finora. Vista la “priorità di sconfiggere ed espellere militanti e terroristi dal campo”, ha avvertito il ministro di Assad, “nelle circostanze attuali sarà necessaria una soluzione militare”.

Il controllo di Yarmouk da parte dell’ISIS è d’altra parte di grande importanza strategica. Il campo rappresenta cioè una possibile base per accedere al centro di Damasco, mentre la presenza dello Stato Islamico vicino alla capitale potrebbe facilitare l’afflusso dei propri membri e il reclutamento di nuovi combattenti.

Come hanno spiegato alcuni commentatori arabi, inoltre, l’area in cui si trova Yarmouk è caratterizzata da accese rivalità tra vari gruppi “ribelli”, così che l’ISIS potrebbe rappresentare ancora una volta un formidabile polo di attrazione per i militanti frustrati dall’impotenza delle formazioni minori di cui fanno parte.

L’espansione dell’ISIS nei pressi di Damasco rischia così di assestare un altro colpo alle forze del regime, già provate qualche giorno fa dalla conquista dell’importante città nord-occidentale di Idlib da parte di alcuni gruppi jihadisti guidati dal Fronte al-Nusra.

di Michele Paris

Due settimane di bombardamenti aerei condotti dalle forze armate dell’Arabia Saudita e di una decina di altri regimi sunniti stanno provocando una vera e propria catastrofe umanitaria nello Yemen, paese già considerato alla vigilia del conflitto come il più povero e socialmente arretrato del mondo arabo. I morti a causa della nuova guerra, secondo alcune stime, sarebbero finora più di 500, migliaia risultano invece i feriti, mentre la situazione sanitaria è in piena crisi a causa della distruzione delle infrastrutture e del blocco delle forniture deciso da Riyadh.

L’aggressione ai danni dello Yemen ha ricevuto da subito l’appoggio degli Stati Uniti e, come tutte le guerre avviate da Washington, anche quella in corso nella penisola araba sta provocando il caos più totale assieme a un aggravamento delle tensioni settarie interne.

Com’è noto, le monarchie oscurantiste del Golfo Persico hanno lanciato un’azione militare coordinata contro lo Yemen per fermare i cosidetti “ribelli” sciiti Houthi, la cui avanzata dall’autunno scorso ha provocato il dissolvimento dell’impopolarissimo regime del presidente-fantoccio Abd Rabbuh Mansour Hadi.

Quest’ultimo era stato installato da Arabia Saudita e Stati Uniti nel 2012 in seguito a un’elezione in cui non vi erano altri candidati, mettendo fine, almeno temporaneamente, alla crisi del sistema statale yemenita provocata dalle manifestazioni di protesta nell’ambito della “Primavera Araba” per chiedere l’allontanamento dell’allora presidente-autocrate, Ali Abdullah Saleh.

Hadi aveva garantito la totale collaborazione del suo governo con Riyadh e Washington, in particolare nella lotta al “terrorismo”, in questo caso rappresentato principalmente da al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

In realtà, l’importanza dello Yemen è determinata dalla sua posizione strategica sulle rotte commerciali che collegano il Mediterraneo all’Oceano Indiano, nonché dalla possibilità che la destabilizzazione di questo paese possa contagiare i paesi del Golfo - a cominciare dall’Arabia Saudita - ovvero i bastioni della reazione in Medio Oriente e, dunque, degli interessi americani.

Le attività della sezione yemenita di al-Qaeda erano state comunque ridotte dai successi militari degli Houthi ma la guerra scatenata dall’Arabia Saudita ha prevedibilmente invertito questa tendenza, consentendo ai jihadisti di tornare a guadagnare terreno.

Secondo le notizie provenienti dallo Yemen, qualche giorno fa AQAP avrebbe tra l’altro conquistato la città di Mukalla, costringendo le forze governative a fuggire e lasciando grandi quantità di armi - provenienti dagli Stati Uniti - nelle mani dei fondamentalisti.

Se AQAP era fino a pochi mesi fa la giustificazione dell’intervento militare (droni) e finanziario-strategico rispettivamente degli USA e dell’Arabia Saudita in Yemen, oggi sia Washington sia soprattutto Riyadh, vedono quasi certamente questo gruppo affiliato ad al-Qaeda come una forza utile nella loro battaglia contro gli Houthi. Tutte le forze impegnate in Yemen dalla parte della coalizione sunnita, nonostante la retorica della “guerra al terrore”, temono infatti maggiormente lo scivolamento di questo paese nell’orbita iraniana (sciita) rispetto al rafforzamento di al-Qaeda.

La galassia fondamentalista viene utilizzata d’altra parte da tempo come alleato o forza d’urto contro governi sgraditi agli Stati Uniti e ai loro alleati in Medio Oriente, come è accaduto in Libia o in Siria, mentre il proliferare del jihadismo offre puntalmente la giustificazione per intervenire miltarmente o per prolungare l’occupazione di un determinato paese.

Nel caso yemenita, la minaccia che Riyadh intenderebbe sventare è rappresentata invece dall’Iran e dalla presunta interferenza della Repubblica Islamica nelle vicende mediorientali a discapito degli interessi del regime saudita. Il timore di un’espansione dell’influenza di Teheran nella regione è così la preoccupazione principale dell’Arabia Saudita, al di là del reale grado di collaborazione tra l’Iran e gli Houthi. In questa prospettiva, appare tutt’altro che casuale che l’inaugurazione della campagna militare in Yemen sia avvenuta nell’immediata vigilia della sottoscrizione a Losanna dell’accordo preliminare sul programma nucleare iraniano.

Un Iran riconciliato con la comunità internazionale potrebbe infatti tornare a far sentire il proprio peso in Medio Oriente, minacciando la posizione di un’Arabia Saudita che, oltretutto, ospita sul proprio territorio una vivace minoranza sciita, localizzata soprattutto in aree con importanti giacimenti petroliferi.

Il senso di minaccia fortemente percepito dai regimi che stanno combattendo in Yemen con l’appoggio americano ha prodotto quindi una coalizione araba piuttosto insolita, a testimonianza in primo luogo dell’intenistà delle scosse causate dal possibile riassetto strategico derivante dall’intesa sul nucleare di Teheran.

Se è l’Arabia Saudita a guidare e coordinare le operazioni belliche, paesi come Bahrain, Qatar, Emirati Arabi, Marocco, Giordania, Kuwait e, addirittura, Sudan contribuiscono alle incursioni in Yemen con i propri aerei da guerra. L’Egitto ha invece prevalentemente garantito forze navali, mentre il Pakistan, se pure ha promesso un qualche impegno, ha assunto nel concreto una posizione più cauta, viste le implicazioni relative agli equilibri settari interni e alle relazioni con l’Iran.

L’efficacia della coalizione potrebbe inoltre essere testata in caso di invasione di terra in Yemen, un’eventualità che i vertici militari sauditi hanno detto non essere imminente ma chiaramente allo studio per fermare gli Houthi e reinsediare Hadi alla guida del paese.

Lo scenario collaborativo venutosi a creare in Yemen ha moltiplicato così in varie capitali arabe gli appelli alla formazione di un’alleanza militare sunnita modellata sull’esempio della NATO, con tutte le implicazioni rovinose del caso visti i precedenti di quest’ultima.

Un’analisi pubblicata questa settimana dal quotidiano in lingua inglese degli Emirati Arabi, The National, ha affermato minacciosamente che “la complessità delle operazioni in Yemen sono simili ad altre che potrebbero essere intraprese in Medio Oriente e in Nordafrica nel prossimo futuro”. “Entro un anno”, ad esempio, la Libia potrebbe essere oggetto di un intervento militare da parte di “un’alleanza araba”.

L’uso delle forze aeree per “ottenere obiettivi stategici e tattici” in Yemen, continua il pezzo del giornale governativo, è d’altra parte ispirato alle operazioni degli Stati Uniti e della NATO. Se una nuova alleanza militare dovesse nascere tra i paesi arabi sunniti, Riyadh ne ospiterebbe inevitabilmente il quartier generale, come Bruxelles ospita quello della NATO.

Ancor prima della guerra in Yemen, spiega infine The National, alcuni dei paesi che fanno parte della coalizione avevano partecipato a esercitazioni militari bilaterali e multilaterali, “specialmente all’indomani della Primavera Araba”.

Quest’ultimo riferimento appare estremamente significativo, visto che, assieme al contenimento dell’Iran, il ruolo principale della sorta di versione araba sunnita della NATO che potrebbe sorgere dalla devastazione dello Yemen sarebbe di natura prettamente contro-rivoluzionaria, così da mantenere intatti gli equilibri favorevoli alle dittature ultra-reazionarie del Golfo e, di riflesso, dei loro alleati americani.

di Fabrizio Casari

Con la novità della presenza di Cuba, si aprirà venerdì, a Panama, il Vertice dell’Organizzazione degli Stati Americani. Arriveranno tutti o quasi i presidenti del continente americano, ma quello venezuelano, Nicolas Maduro, porterà con se un bagaglio particolare, contenente oltre dieci milioni di firme in ripudio alle minacce statunitensi che hanno definito il Venezuela una “minaccia costante alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

Gli USA, da parte loro, provano ad uscire dall’angolo in cui si sono messi con le minacce imperiali, sostenendo che sarebbe la presunta repressione applicata dalle autorità venezuelane nei confronti delle manifestazioni violente organizzate dalla destra ciò che preoccupa gli Stati Uniti e che li spinge ad adottare sanzioni contro il governo venezuelano.

Certo, sentire Obama che si preoccupa della repressione in Venezuela, mentre la polizia statunitense uccide un innocente al giorno, colpevole solo di avere un colore della pelle diverso, o ascoltarlo spacciare il Venezuela come “minaccia incombente alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti” mentre a Langley si organizzano colpi di Stato contro Caracas, è veramente paradossale. Ma non si tratta solo di questo.

Ciò che ha causato la sfuriata yankee contro il Venezuela è stata la scoperta e lo smantellamento del colpo di Stato organizzato dagli USA, cui sono seguiti gli arresti dei militari traditori, tra i quali il sindaco di Caracas, che figurava tra gli organizzatori principali. E’ così fallito il più recente (ma non l’ultimo, ci si può scommettere) tentativo di Washington di rovesciare violentemente il governo venezuelano.

Organizzare colpi di stato mentre si accusano presunte limitazioni ai diritti umani é paradossale. Ma è proprio il paradosso la cifra con la quale si evidenzia l’arroganza politica e mediatica di chi si sente il padrone del mondo e, senza battere ciglio, afferma l’insostenibile assegnandogli valore di verità. Come in una pagina rovesciata, la verità non è quella che si legge ma quella che ti legge chi detiene il libro. Dal Golfo del Tonchino a Caracas, sono decenni che gli Stati Uniti difendono i loro interessi politici con campagne mediatiche generalmente prive di sostanza e riscontri.

La scelta di porre il Venezuela come obiettivo dell’aggressività statunitense indica però come Washington non riesca ad elaborare una linea politica verso il subcontinente ed abbia nell’automatismo minaccioso verso ogni paese non obbediente la prima e spesso unica relazione dialettica e politica. Il greggio a 45 dollari al barile, che comporta una maggiore fragilità di Caracas sul piano economico-finanziario, deve aver tratto in inganno Washington circa la capacità di utilizzare la crisi economica come grimaldello politico per mettere alle corde il governo bolivariano.

La signora Jacobson, sottosegretaria di Stato per l’America Latina, si è detta “delusa” dalla mancanza di appoggio agli Stati Uniti nella posizione espressa contro il Venezuela e questo, più di ogni altra cosa, conferma come il personale politico-diplomatico statunitense non sia assolutamente in grado di comprendere, analizzare ed interpretare la realtà centro e sudamericana.

Come poteva pensare, la signora Jacobson, che la rete dei paesi democratici latinoamericani potesse in qualche modo condividere i proclami imperiali contro Caracas? Che conoscenza hanno alla Casa Bianca, dell’intera rete latinoamericana che attraverso Alba, Petrocaribe, Unasur e Celac tiene insieme radici, progetti, cooperazione e futuro dei paesi latinoamericani?

Probabilmente, la signora Jacobson ha letto frettolosamente un report sul continente elaborato da qualche testa d’uovo del Miami Herald o delle organizzazioni terroristico-mafiose cubano americane e venezuelane che si rosolano al sole della Florida mentre progettano politiche criminali contro i loro stessi paesi. Ammalati di nostalgia, sono tink-tank ignoranti, imbottiti di odio ideologico e rancori personali, angosciati per il venir meno dei loro business speculativi e ansiosi di vendette impossibili da cogliere. Affidarsi nelle valutazioni alle diagnosi riferita dai fuoriusciti reazionari di ogni paese e trasformarle in linea politica, è stupido, prima che sbagliato.

E se sul piano internazionale l’attacco frontale e smisurato al Venezuela, lungi dall’ottenere le adesioni a livello continentali auspicate dalla Casa Bianca, ha prodotto una presa di posizione immediata e netta dei paesi latinoamericani, a livello interno ha addirittura ulteriormente ricompattato il popolo venezuelano in chiave indipendentista e a difesa della sovranità nazionale del Paese e, quindi, del governo Maduro.

Addirittura il Presidente colombiano Santos ha duramente criticato Obama: “Abbiamo sempre detto che le sanzioni unilaterali risltano controproducenti ed è per questo che le rifiutiamo”. In una intervista al quotidiano El Tiempo, Santos ha auspicato che il vertice di Panama “possa fornire l’occasione perché si produca una distensione tra USA e Venezuela”. In una sola occasione, così, gli Stati Uniti hanno determinato un rifiuto netto sul piano interno venezuelano e su quello internazionale al reflusso di guerra fredda. Ad evidenziare quanto siano state controproducenti parole e toni contro il Venezuela, ci sono state anche le prese di posizione di alcuni analisti politici statunitensi, che hanno invitato la Casa Bianca a tornare sui suoi passi.

Tra questi, nelle ultime ore, si è distinta Cynthia Arnson, direttrice del programma per l’America Latina del Woodrow Wilson International Center for Scholars, un centro di analisi di Washington, che ha definito “linguaggio antiquato e fuori luogo” quello utilizzato dalla Casa Bianca. E non sono certo sufficienti a correggere il tiro le parole di Michael J. Fitzpatrick, ambasciatore degli USA presso l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), che da Washington si è detto convinto che “la redazione del Decreto sia stata mal interpretata se si pensa che gli USA vogliono invadere il Venezuela”.

Conscio delle critiche generali che la sua Amministrazione si prepara ad incassare al Vertice OEA, Obama corre quindi ai ripari; se, ovviamente, non può rimangiarsi il Decreto antivenezuelano, dovrà comunque cercare di ridurne l’impatto e la centralità al vertice di Panama. Il rientro di Cuba nell’OEA e le aperture al dialogo recenti, rischiano di passare in secondo piano a causa della verbosità imperiale, riportando di nuovo gli USA nel ruolo dello Yanqui.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy