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di Michele Paris
Le elezioni del prossimo 17 agosto per il rinnovo del Parlamento dello Sri Lanka rischiano di presentare una sgradita sorpresa al governo in carica nell’isola dell’oceano Indiano e ai suoi sponsor in India e negli Stati Uniti. L’ex presidente Mahinda Rajapaksa, dato per finito dopo l’installazione alla guida del paese di un suo ex ministro lo scorso mese di gennaio, ha infatti annunciato la propria candidatura alla carica di primo ministro, contando sul consenso che ancora raccoglie tra la maggioranza cingalese di fede buddista.
Con uno schiaffo al presidente, Maithripala Sirisena, i leader del Partito per la Libertà dello Sri Lanka (SLFP) un paio di settimane fa avevano scelto Rajapaksa come candidato premier. La decisione aveva smentito clamorosamente la presa di posizione di Sirisena, il quale solo pochi giorni prima aveva dichiarato che avrebbe impedito la nomina a capo del governo del suo rivale e predecessore in caso di successo alle elezioni dell’SLFP.
Rajapaksa e Sirisena fanno parte dello stesso partito, ma il secondo si era prestato alle manovre di una sezione della classe dirigente dello Sri Lanka e delle rappresentanze diplomatiche di India e Stati Uniti per succedere al primo nella carica di presidente. L’occasione si era presentata sul finire del 2014, quando Rajapaksa aveva indetto le elezioni con due anni di anticipo per evitare un’emoraggia di consensi a causa dei suoi metodi di governo anti-democratici e della corruzione dilagante sotto il suo regime.
Il Partito Nazionale Unito (UNP) filo-americano e l’ex presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, anch’essa appartenente all’SLFP, avevano allora promosso la candidatura di Sirisena, a sua volta dimessosi da ministro della Sanità nel governo del presidente Rajapaksa.
Cavalcando l’impopolarità di quest’ultimo, Sirisena era così riuscito a prevalere nel voto di gennaio. Rajapaksa aveva inizialmente cercato di delegittimare il risultato ma, avvertito più o meno apertamente da Washington e Delhi che la sua resistenza a farsi da parte avrebbe scatenato una rivolta appoggiata dai loro governi, aveva finito per riconoscere la sconfitta.
Le colpe di Rajapaksa agli occhi di India e Stati Uniti non erano tanto le tendenze autoritarie evidenziate durante gli anni al potere o i crimini commessi nella guerra contro le Tigri Tamil (LTTE), bensì l’instaurazione di rapporti molto stretti con la Cina. Soprattutto durante gli ultimi anni della presidenza Rajapaksa, Pechino ha concesso ingenti prestiti al governo cingalese per la realizzazione di infrastrutture, mentre in due occasioni sottomarini cinesi hanno attraccato nel porto di Colombo, suscitando le preoccupazioni di Washington e Delhi.
Il sostegno a Sirisena aveva perciò come obiettivo lo sganciamento dello Sri Lanka dalla Cina e l’allineamento di questo paese alle esigenze strategiche statunitensi e indiane. Appena eletto alla presidenza, Sirisena ha infatti ordinato la sospensione di molti progetti avviati da aziende cinesi e la revisione delle modalità di assegnazione degli appalti.
Episodi molto probabili di corruzione sono stati sfruttati politicamente sia per giustificare un allentamento delle relazioni con Pechino sia per perseguire penalmente Rajapaksa e il suo entourage, spesso fatto di membri della sua famiglia.
La stessa amministrazione Obama aveva manovrato con le Nazioni Unite per fare avanzare un’indagine sulla possibile violazione dei diritti umani nelle fasi finali della guerra contro le forze ribelli Tamil nel 2009, durante le quali furono uccisi 40 mila civili appartenenti a questa minoranza etnica.
La pubblicazione del rapporto dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani è stata rinviata alla fine di settembre e, con ogni probabilità, il documento verrà usato come arma per colpire Rajapaksa, soprattutto nel caso dovesse riuscire a diventare primo ministro.
L’ex presidente, in ogni caso, continua ad apparire in un comizio dopo l’altro e ad attaccare duramente l’attuale governo. Il suo ritorno sulla scena politica dello Sri Lanka è favorito dalle mancate promesse fatte in campagna elettorale da Sirisena, in particolare sul fronte economico e del miglioramento delle condizioni di vita di milioni di poveri e lavoratori.
Rajapaksa insiste anche sull’appello al nazionalismo cingalese, ricordando puntualmente la sconfitta inflitta dal suo governo ai “terroristi” Tamil. In maniera esplicita, inoltre, Rajapaksa promette un’inversione di rotta della politica estera del suo paese, così da tornare a guardare alla Cina, la quale aveva favorito una qualche crescita economica in Sri Lanka e, soprattutto, aveva arricchito molti tra politici e imprenditori nella cerchia dell’ex presidente.Una vittoria nelle elezioni di agosto per Rajapaksa rappresenterebbe infine una vera e propria beffa per Sirisena e le forze che lo appoggiano. Dopo l’elezione di gennaio, infatti, il nuovo governo ha implementato la promessa elettorale di ridimensionare i poteri del presidente e rafforzare quelli assegnati al primo ministro.
Se in Sri Lanka non sono stati finora diffusi sondaggi attendibili sugli equilibri politici in vista del voto, svariati analisti citati dalla stampa internazionale prevedono una possibile sconfitta per Rajapaksa e l’SLFP, con l’UNP del primo ministro in carica, Ranil Wickremesinghe, in vantaggio e favorito per la formazione del prossimo governo.
Rajapaksa aveva tuttavia perso le elezioni presidenziali di gennaio con un margine piuttosto ridotto e sembra conservare un seguito consistente nel paese. Il suo ritorno al potere in Sri Lanka potrebbe essere però ostacolato dalle divisioni che continuano a caratterizzare il suo partito, lacerato tra l’ex presidente - e le sirene cinesi - e il suo successore sostenuto da India e Stati Uniti, i cui governi sono ben decisi a mantenere la propria influenza su questo paese strategico per il controllo delle rotte commerciali nell’Oceano Indiano.
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di Michele Paris
La competizione per la leadership laburista in Gran Bretagna, dopo la sconfitta patita alle urne lo scorso mese di maggio, sta rapidamente gettando il partito in una grave crisi, provocata principalmente dal gigantesco divario esistente tra gli orientamenti dei suoi vertici e quelli della sua teorica base elettorale.
A scatenare una feroce polemica all’interno del “Labour” è stata la relativamente sorprendente ascesa del candidato della sinistra del partito, Jeremy Corbyn, a tutt’oggi il favorito nella corsa alla sostituzione di Ed Miliband. Il veterano deputato 66enne ha infatti superato nel gradimento dei possibili elettori i vari aspiranti segretari di tendenze più moderate o apertamente schierati con il “New Labour” e l’ex primo ministro, nonché potenziale criminale di guerra, Tony Blair.
Lo status di “front-runner” di Corbyn rappresenta una beffa per l’establishment laburista che teme la sua elezione a segretario, visto che la sua candidatura era stata sponsorizzata all’ultimo momento proprio da vari leader del partito contrari alle sue posizioni progressiste. Per un partito spostatosi nettamente a destra negli ultimi anni e punito severamente alle urne, molti all’interno di esso auspicavano la presenza di un candidato di “sinistra”, sia per dare l’impressione dell’apertura del Labour a tutti gli orientamenti sia, soprattutto, per dimostrare l’esiguità di un elettorato “radicale” in Gran Bretagna e giustificare perciò l’abbraccio delle politiche neo-liberiste.
Questa scommessa sembrava però poter andare a buon fine solo in caso di una candidatura debole di Corbyn e di un’inevitabile sonora sconfitta, come avevano agevolmente previsto i leader moderati del partito. L’agenda di Corbyn, fatta di misure volte a invertire le politiche di austerity degli ultimi governi laburisti e conservatori, ha al contrario suscitato una valanga di consensi e un numero inaspettato di nuovi aderenti al partito, pronti a sostenere il candidato di “sinistra” nelle prossime elezioni per la leadership.
A favorire il decollo della candidatura di Jeremy Corbyn è stata anche la modifica delle regole per l’elezione del leader del partito. A differenza del passato, in questa occasione chiunque potrà partecipare al voto, a patto che sia disposto a donare tre sterline al Partito Laburista.
Decine di migliaia di persone hanno così aderito al Labour o si sono registrate come “sostenitori” nelle ultime settimane, provocando non l’esultanza dei suoi leader ma suscitando bensì un’angoscia diffusa.
Secondo i sondaggi pubblicati in questi giorni dai media britannici, Corbyn avrebbe un margine sostanzioso sui suoi sfidanti, essendo attestato in media attorno al 40% dei consensi, contro circa il 20% degli ex membri del governo di Gordon Brown, Yvette Cooper e Andy Burnham, e poco più di un misero 10% della fedelissima di Tony Blair, Liz Kendall. Anche in un ipotetico testa a testa con Burnham o Cooper, Corbyn risulterebbe al momento il candidato vincente.Questi sviluppi hanno trasformato la sfida interna al Partito Laburista in una vera e propria farsa. Svariati parlamentari laburisti hanno infatti manifestato reazioni tra il patetico e l’isteria, denunciando le modalità con cui si dovrà tenere il voto per il leader del partito. Le nuove regole avrebbero cioè consentito l’inflitrazione di elementi “socialisti” e “comunisti” che intendono appoggiare Corbyn.
Per il deputato John Mann, il voto è a rischio sabotaggio per opera di individui di “estrema sinistra” che si sono tradizionalmente opposti ai laburisti e che ora starebbero cercando “espressamente di distruggere” il partito. Lo stesso Mann ha invitato la leader ad interim del Labour, Harriet Harman, a controllare in maniera più scrupolosa il profilo dei nuovi aderenti al partito, visto che la maggior parte di essi sembra sostenere la candidatura di Corbyn.
Per altri, addirittura, la competizione per la leadership del partito dovrebbe essere sospesa, mentre il ministro-ombra per l’Energia, Caroline Flint, ha sostenuto che “a coloro che non condividono gli obiettivi o i valori del Labour dovrebbe essere negato il diritto di voto nelle elezioni” per il nuovo segretario.
Ancora, secondo il Daily Telegraph, se Corbyn dovesse diventare il prossimo segretario del partito, importanti parlamentari laburisti starebbero già complottando per la sua deposizione, subito dopo l’elezione, prevista per settembre, o “tra un anno o due”, verosimilmente in attesa degli effetti di una campagna politica e di stampa che prenderebbe di mira fin da subito la sua leadership.
Simili denunce e minacce fanno seguito alle numerose dichiarazioni rilasciate settimana scorsa da vari leader ed ex leader laburisti, tutti preoccupati per le possibili conseguenze di un’eventuale svolta a sinistra del partito in caso di elezione di Jeremy Corbyn. Liz Kendall e Yvette Cooper avevano ad esempio affermato di non essere disposte a prendere parte al governo-ombra sotto la leadership di Corbyn, prospettando secondo molti l’ipotesi di una futura scissione nel partito.
Anche Tony Blair, senza apparente imbarazzo, era intervenuto nel dibattito, esaltando i presunti successi nel passato del New Labour e mettendo in guardia dai pericoli che comporta l’adozione da parte del partito di una “vecchia piattaforma di sinistra”.
In generale, i leader laburisti che si oppongono a Corbyn e i giornali che sostengono il partito sono impegnati a spiegare come l’unico percorso per tornare al governo passi attraverso un ulteriore spostamento a destra. Il ritorno a politiche anche solo vagamente di ispirazione progressista assesterebbe invece un colpo mortale al Labour, destinandolo all’irrilevanza politica per decenni. Secondo questa interpretazione, la sconfitta del Partito Laburista alle elezioni di maggio sarebbe stata appunto causata dalle posizioni troppo a sinistra dell’ormai ex leader, Ed Miliband.
La candidatura di un politico non particolarmente radicale e che promuove più che altro iniziative tipiche delle socialdemocrazie europee del recente passato è bastata dunque a smascherare la vera natura del Partito Laburista odierno e la profonda crisi in cui versa.
Incapace da tempo di formulare una proposta politica alternativa che vada incontro alla diffusissima richiesta tra lavoratori e classe media di invertire le devastanti politiche anti-sociali dei conservatori - e degli stessi precedenti governi laburisti di Brown e Blair - il Labour rischia di implodere di fronte alla sola prospettiva di una leadership teoricamente disposta a fare una reale opposizione nel Parlamento britannico.
La popolarità di Jeremy Corbyn - al di là delle sue reali intenzioni e dell’effettiva disponibilità a sfidare l’establishment del partito - testimonia come un’ampia fetta della popolazione britannica sia attestata su posizioni molto più progressiste, se non “radicali”, di quanto ritengano o vogliano far credere i politici laburisti. Questi ultimi vivono in una realtà parallela a quella della maggioranza dei loro connazionali e i rapporti che li legano ai poteri forti della società impediscono loro di comprendere o ammettere come i presunti punti deboli di Corbyn siano i motivi stessi del suo inaspettato successo.Mentre la leadership laburista solo pochi giorni fa ha ordinato ai propri deputati l’astensione in Parlamento durante il voto sull’ultima dose di austerity imposta dal governo Cameron, dopo averne sposato in gran parte i principi, la maggioranza dei britannici continua ad avere opinioni e a nutrire aspettative diametralmente opposte.
Mercoledì, ad esempio, il Belfast Telegraph ha opportunamente ricordato un sondaggio del mese di marzo condotto da YouGov, nel quale gli interpellati esprimevano opinioni favorevoli, e con maggioranze schiaccianti, al controllo pubblico di servizi in mano privata o in fase di privatizzazione, dagli ospedali alle carceri, dalle scuole alle ferrovie, dalla posta all’elettricità e all’acqua.
Proprio la ri-nazionalizzazione dei servizi privatizzati in questi anni è uno dei punti centrali della piattaforma con cui Corbyn si sta candidando alla guida del Partito Laburista. La sua proposta politica parte dal presupposto che il Labour rischia una crisi di consensi irreversibile se non sarà in grado di opporsi all’austerity dominante in Gran Bretagna e nel resto dell’Europa.
Gli altri punti cruciali della sua agenda includono infine l’aumento delle tasse per i redditi più alti, la riduzione delle agevolazioni fiscali per le grandi aziende e un piano di investimenti pubblici per la realizzazione di progetti di infrastrutture, tutte proposte viste con orrore dai suoi sfidanti nel partito.
Se la popolarità di queste e altre iniziative appare evidente dal gradimento raccolto finora da Corbyn, tutto un altro discorso è invece la possibilità che anche una sola di esse possa essere effettivamente implementata all’interno di un partito sclerotizzato e al servizio delle élite economico-finanziarie britanniche.
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di Mario Lombardo
Con un discorso al quartier generale dell’Unione Africana nella capitale dell’Etiopia, Addis Abeba, martedì si è chiuso il viaggo in Africa orientale del presidente americano, Barack Obama. Prima dell’intervento che ha chiuso l’attesa trasferta, l’inquilino della Casa Bianca aveva visitato il Kenya, paese natale del padre, e successivamente incontrato il primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn.
Il punto centrale dell’intervento di martedì è stato l’invito ai leader africani a rispettare le norme costituzionali dei loro paesi e a farsi da parte una volta esaurito il mandato assegnato dagli elettori. Il riferimento immediato è stato il caso del Burundi, dove una grave crisi politica è scoppiata lo scorso mese di aprile in seguito alla decisione del presidente, Pierre Nkurunziza, di candidarsi alla guida del paese per la terza volta.
La mossa di Nkurunziza aveva provocato accese proteste popolari e un tentativo di colpo di stato da parte di una sezione delle forze armate, dal momento che la Costituzione del Burundi prevede un massimo di due mandati. Nonostante le pressioni internazionali, il presidente ha però partecipato al voto di settimana scorsa, conquistando un nuovo mandato.
Nel discorso di Obama non sono inoltre mancati i riferimenti ai diritti umani, alla corruzione che pervade i sistemi di governo africani e alla necessità di combatterla, principalmente per creare un clima favorevole agli investimenti internazionali.
Nelle ore precedenti l’apparizione alla sede dell’Unione Africana, invece, il presidente USA aveva visitato una fabbrica etiope che opera nel settore alimentare, dove ha presentato una serie di iniziative del suo governo destinate teoricamente ad alleviare la fame nel continente.
Piuttosto controverso era stato poi l’incontro con il premier etiope, il cui governo - definito da Obama come “democraticamente eletto” - il presidente USA ha ringraziato per essere un partner fidato nella “guerra al terrore”. Le parole di Obama hanno suscitato parecchie critiche anche tra gli stessi sostenitori della sua amministrazione.
Il partito al potere in Etiopia - Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo (EPRDF) - nel mese di maggio aveva conquistato ogni singolo seggio in palio nelle elezioni parlamentari, universalmente considerate irregolari. Ben poco democratico è anche il sistema politico e la società dell’Etiopia, caratterizzati dalla regolare repressione degli oppositori e dalla censura dei mezzi di informazione indipendenti.Obama ha comunque provato a lanciare qualche critica benevola a Desalegn, esortando il suo regime a tollerare il dissenso, ammettendo che in Etiopia resta ancora “parecchio lavoro da fare” sul fronte democratico ma riconoscendo le sfide e le difficoltà che questo paese deve affrontare dopo un lungo periodo di dittatura.
Al di là delle diatribe sulle questioni dei diritti umani e delle pressioni che Obama ha fatto o avrebbe potuto fare ai leader di Kenya ed Etiopia, entrambi i paesi visitati in questi giorni rappresentano partner strategici importanti degli Stati Uniti in un’area cruciale del continente africano.
I temi della sicurezza e della lotta al terrorismo islamista sono stati ampiamente discussi sui media di tutto il mondo, con al centro l’impegno dell’amministrazione Obama a sostenere lo sforzo di Kenya ed Etiopia soprattutto contro le milizie di al-Shabaab in Somalia.
Un’altra questione sull’agenda di Obama nel corso della visita di cinque giorni in Africa è stata poi la guerra civile che da oltre un anno sta insanguinando il Sudan del Sud, paese creato pochi anni fa su iniziativa degli Stati Uniti per indebolire il Sudan, importante produttore di petrolio il cui regime ha stabilito profondi legami con la Cina.
Il conflitto in corso ha provocato una vera catastrofe umanitaria e Obama ha cercato di rinvigorire gli sforzi diplomatici per una soluzione pacifica, mettendo però in guardia fin dall’inizio circa l’improbabilità di giungere a risultati concreti durante la sua presenza in Africa.
Se la visita dei giorni scorsi è stata promossa sui giornali ufficiali come una sorta di ritorno a casa per Obama o, tutt’al più, un tentativo disinteressato di consolidare la guerra al terrorismo, quest’ultimo aspetto nasconde in realtà ancora una volta la volontà americana di mantenere ed espandere il controllo su un’area strategicamente importante del globo.I paesi dell’Africa orientale rappresentano infatti il punto d’incontro tra una vasta area ricca di risorse del sottosuolo e vie d’acqua attraversate da rotte commerciali vitali per l’economia mondiale, in particolare sul fronte delle forniture petrolifere.
Sia in questa regione che, più in generale, nell’intera Africa, gli Stati Uniti stanno cercando infine di contrastare l’espansione della Cina, la quale ha da tempo abbondantemente superato gli USA come primo partner commerciale del continente. I segni della presenza cinese in Africa sono ormai ovunque, inclusa la stessa Etiopia, e dal punto di vista economico è difficile pensare che Washington possa scalzare Pechino nel breve o medio periodo.
Per questa ragione, in Africa come altrove, gli Stati Uniti cercano di compensare l’influenza e il peso economico perduti a favore della Cina incrementando la propria presenza militare, giustificata da necessità di “stabilizzazione” e dall’infinita “guerra al terrore”.
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di Michele Paris
La decisione adottata lo scorso fine settimana dal governo turco di prendere parte attiva alla campagna bellica guidata dagli Stati Uniti ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS) rappresenta una svolta strategica significativa e potenzialmente in grado di cambiare le sorti del conflitto in Siria. Ankara rimane però prigioniera delle contraddizioni prodotte dalla sua stessa politica estera, mentre le conseguenze delle proprie azioni potrebbero facilmente portare a un’ulteriore destabilizzazione dell’intero Medio Oriente.
Dopo i primi bombardamenti condotti dai jet turchi contro le basi dell’ISIS nel nord della Siria nella giornata di venerdì, le incursioni oltre confine si sono ripetute nella notte di domenica. In questo caso, come era parzialmente successo due giorni prima, le bombe hanno però colpito postazioni del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nel nord dell’Iraq, in risposta a una serie di attentati registrati in Turchia nei giorni scorsi e, da ultimo, un attacco nella serata di domenica risoltosi in due soldati turchi uccisi nella località di Diyarbakir.
La nuova intraprendenza turca è scaturita dall’accordo siglato sempre settimana scorsa con gli Stati Uniti, da tempo impegnati a convincere il governo del presidente, Recep Tayyip Erdogan, e del primo ministro, Ahmet Davutoglu, a partecipare all’azione contro l’ISIS in territorio iracheno e siriano. Washington ha inoltre ottenuto l’utilizzo di almeno due basi militari in Turchia, tra cui quella di Incirlik, da dove prenderanno il volo gli aerei da guerra impegnati nella campagna contro i fondamentalisti islamici.
Gli aspetti cruciali dell’intesa sembrano essere però le concessioni fatte dall’amministrazione Obama al governo di Ankara, anche se non ancora riconosciute ufficialmente, come la riapertura delle ostilità con il PKK dopo la tregua che durava dal 2012. Gli Stati Uniti hanno appoggiato pubblicamente l’iniziativa della Turchia, citando il diritto di questo paese all’autodifesa e ricordando come anche Washington consideri il PKK un’organizzazione terrorista.
Il crollo del processo di pace tra il governo turco e il PKK ha tuttavia delle implicazioni ben più ampie, visto che questa organizzazione armata curda ha stretti legami con il Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo-siriano e il suo braccio armato, le Unità di Protezione Popolare (YPG). Sia il PYD sia l’YPG sono stati finora in prima linea nella lotta contro l’ISIS in Siria, fungendo di fatto da alleati della coalizione guidata dagli USA.
Gli sviluppi di questi giorni suggeriscono perciò che la Turchia abbia ottenuto il via libera dagli americani per colpire la presunta minaccia curda oltre i propri confini meridionali in cambio dell’impegno - la cui intensità sarà tutta da verificare - di partecipare all’offensiva contro l’ISIS. Ankara, d’altra parte, vede con maggiore nervosismo la formazione di un fronte unitario curdo che non l’espansione dell’ISIS in Siria, la cui avanzata è stata anzi sostenuta più o meno attivamente per favorire la caduta di Bashar al-Assad.
Proprio la fine del regime di Damasco è senza dubbio al centro dei pensieri di Erdogan e Davutoglu, come conferma l’altra importante concessione con ogni probabilità fatta dagli Stati Uniti ad Ankara. La Turchia avrebbe cioè ottenuto l’OK per la creazione di una “zona di sicurezza” lungo il proprio confine in territorio siriano.
Da quello che hanno riportato i giornali americani e turchi, l’amministrazione Obama intende evitare di chiamare quest’area con il proprio nome - “no-fly zone” - visto che ciò renderebbe fin troppo evidente come il vero obiettivo della campagna condotta da quasi un anno in Siria sia il regime di Assad. Quindi, Ankara e Washington parleranno di “area di sicurezza” o “area protetta”, anche se il risultato sarà comunque quello di istituire un territorio da assegnare al controllo dell’opposizione siriana “moderata” per organizzare non tanto la battaglia contro l’ISIS ma contro le forze di Damasco.
Con una certa ironia quasi certamente involontaria, domenica il Washington Post ha ricordato come gli Stati Uniti e la Turchia abbiano però pareri differenti circa i gruppi armati di opposizione in Siria da considerare “moderati”, alla luce soprattutto della spregiudicata politica di Ankara a favore di organizzazioni jihadiste violente, utilizzate come forza d’urto per cercare di rovesciare Assad.In ogni caso, l’impatto di un impegno diretto della Turchia in Siria minaccia di produrre una frattura nella coalizione nominalmente anti-ISIS, poiché i leader curdi siriani, i quali non senza ragioni accusano da tempo Erdogan di appoggiare questa stessa organizzazione, hanno espresso preoccupazione per il possibile ingresso delle truppe di Ankara in Siria. Un eventuale scontro tra la Turchia e le forze dell’YPG metterebbe nelle mani di Washington una nuova questione spinosa sul fronte siriano, sia pure anche in questo caso derivante dalla dissennata politica estera americana.
Che le intenzioni di Erdogan siano quelle di colpire principalmente i curdi sul proprio territorio è comunque evidente anche dalla netta prevalenza dei militanti appartenenti a questa minoranza tra le centinaia di arresti in varie operazioni di polizia condotte negli ultimi giorni.
Anche se ufficialmente motivata dall’attentato suicida di una settimana fa nella città di Suruç, commesso da un membro dell’ISIS, e dalle azioni del PKK, la svolta strategica e militare di Ankara a cui si sta assistendo era in preparazione da tempo.
Una serie di fattori sembra avere contribuito alla svolta decisa da Erdogan e Davutoglu, tutti più o meno riconducibili alla crisi politica del loro partito (AKP) e al ridimensionamento della posizione della Turchia sullo scacchiere regionale, ugualmente conseguenza delle politiche del governo.
Innanzitutto, la decisione di partecipare in maniera diretta alla guerra contro l’ISIS, come dimostra anche l’enorme interesse suscitato tra i media di tutto il mondo, consente in qualche modo alla Turchia di tornare a svolgere un ruolo di primo piano nelle vicende mediorientali.
Se Ankara aveva partecipato attivamente alla guerra clandestina per abbattere Assad, appoggiando fin dall’inizio del conflitto in Siria i gruppi armati fondamentalisti, l’esplosione e l’avanzata in Iraq dell’ISIS avevano finito per produrre una coalizione tra gli USA, i paesi arabi sunniti e le formazioni curde irachene e siriane, a discapito appunto di una Turchia rimasta relativamente isolata.
La partecipazione tardiva alla campagna anti-ISIS e l’offensiva contro il PKK sono così il tentativo di recuperare una certa influenza in Medio Oriente, coerentemente con le ambizioni da potenza regionale nutrite dal governo dell’AKP.
L’altro fattore, in parte collegato al precedente, ha a che fare invece con la situazione politica interna turca. Com’è noto, l’AKP ha perso per la prima volta da quando è al potere la maggioranza assoluta in Parlamento nelle elezioni dello scorso mese di maggio, soprattutto a causa della conquista per la prima volta di un certo numero di seggi da parte della formazione curda HDP.
Vista la difficoltà nel mettere assieme un gabinetto di coalizione che, in ogni caso, ridurrebbe gli spazi di manovra di Erdogan e Davutoglu, i due leader dell’AKP puntano a nuove elezioni tra pochi mesi per tornare a governare in autonomia. A questo scopo, il presidente e il primo ministro intendono alimentare i sentimenti nazionalisti e anti-curdi in Turchia, così da recuperare una parte dei consensi finiti all’HDP nell’ultima tornata elettorale.Ugualmente, colpendo o dando l’impressione di colpire l’ISIS, il governo turco proverà a neutralizzare le accuse che molti anche sul fronte interno gli rivolgono di avere sostenuto l’organizzazione fondamentalista o, quanto meno, di avere tollerato le operazioni e il transito verso la Siria dei suoi membri, con il risultato di avere destabilizzato la stessa Turchia.
Questa scommessa non è tuttavia priva di rischi per Erdogan, visto che le decisioni dei giorni scorsi minacciano di trascinare ancor più la Turchia in un conflitto su due fronti – siriano e curdo – decisamente impopolare tra la popolazione. Gli ostacoli che si prospettano per il governo sono in definitiva di sua stessa creazione, essendo il rafforzamento dell’ISIS e delle formazioni curde la diretta conseguenza delle manovre messe in atto per indebolire il regime di Assad in Siria.
La Turchia, ad ogni modo, ha chiesto per martedì la convocazione di una riunione straordinaria della NATO, secondo il ministero degli Esteri di Ankara per “informare gli alleati sulle operazioni in corso contro l’ISIS in Siria e il PKK nel nord dell’Iraq”. Il vertice, in realtà, potrebbe essere l’occasione per dare una qualche legittimità alle incursioni iniziate nei giorni scorsi e per ottenere l’appoggio alla creazione di una no-fly zone a tutti gli effetti in territorio siriano.
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di Emy Muzzi
Londra. Il comunicato stampa con cui il Foreign Office britannico ha annunciato il via libera, con le debite precauzioni, ai cittadini britannici che volessero visitare l’Iran, ha aperto uno squarcio nel cielo grigio e piovoso di uno dei tanti sabati londinesi. Sì è vero, non è altro che l’estensione diplomatica dell’accordo di Vienna per la non proliferazione del nucleare, eppure la decisione ha il suo peso e il suo senso nel marcare quella che è senza dubbio una vittoria della diplomazia che segna la travagliata storia dei rapporti Iran-Occidente.
L’agreement voluto da Obama, Kerry, Rouhani e il ministro degli esterni iraniano Javad Zarif, apre una nuova fase che, se le 111 pagine del trattato saranno rispettate da Tehran, avrà sviluppi politico economici notevoli.
Ma i limiti restano: se da una parte i ‘Brits’ potranno apprezzare la maestosità dell’Impero Persiano a Tehran o a Persepoli, in caso di necessità non ci sarà ancora un’ambasciata britannica a dar loro sostegno.
L’attacco del 2011 contro la sede diplomatica del Regno Unito a Tehran è ancora storia recente. Ci vorrà tempo perché la Union Jack sventoli di nuovo a Tehran, ma il ministro degli esteri Philip Hammond fa capire, tra le parole, che se la riduzione delle sanzioni da una parte e l’abbandono del programma nucleare a fini bellici dall’altra funzioneranno, l’ambasciata potrebbe anche riaprire.
Per il momento i cittadini britannici dovranno evitare i confini con Pakistan, Afghanistan e Iraq e fare riferimento all’ambasciata svedese. Fatta eccezione per queste aree di crisi il capo del Foreign Office ha dichiarato che “In altre aree dell’Iran il rischio per i cittadini britannici è cambiato, e questo in parte è dovuto alla riduzione dell’ostilità sotto il governo del presidente Rouhani”.
La mossa sullo scacchiere della diplomazia internazionale accende su Londra quella luce che nelle settimane scorse a Vienna era stata oscurata da John Kerry e dalla sua dialettica decisa che se da una parte viene regolarmente smentita dalla malafede della ‘necessità’ di una guerra in Siria, dall’altra ha il pregio di aver imposto dei limiti all’Israele oltranzista di Netanyahu che ha tentato, come sempre, di monopolizzare e strumentalizzare il Congresso Usa ai suoi fini.
La smaccata indipendenza delle dinamiche Usa, e (moderatamente di riflesso) anche Britanniche, dalla violenta opposizione di Israele all’accordo con Tehran è il passo in avanti verso quella marginalizzazione del potere di Benjamin Netanyahu che riequilibra, in parte, l’asse internazionale.
A cosa si deve questa svolta? A chi fa, o faceva comodo, un Iran nemico del mondo, minaccia internazionale e minaccia incombente di morte per Israele? Ai conservatori in Usa e Israele sicuramente, all’industria e commercio legale e illegale di armi, e sul fronte politico alla Russia rispetto al margine d’influenza e strumentalizzazione del mondo islamico in funzione anti occidentale in una fase in cui il conflitto in Ucraina ha inaugurato il ‘revival’ della guerra fredda.Inoltre c’è una cosa che ha cambiato l’ottica dei Democratici Usa su Israele: la vendita illegale delle armi tecnologiche ‘made in Usa’ alla Cina (su cui pende il bando). Questa porcata gli americani non l’hanno dimenticata e, qui ricordiamo, che la strategia di marginalizzazione di Russia e Cina è la strategia a lungo termine che tiene alta la bandiera filo iraniana.
Nel pur necessario scetticismo, bisogna riconoscere che l’accordo è un passo serio, positivo. Una delle conseguenze immediate risuona nella parola chiave comprensibile in tutte le lingue, anche in persiano: ‘business’.
Se il Regno Unito nel ricostruire il business con Tehran procede ancora con cautela, è Berlino a fare il salto in avanti. Pochi giorni fa Bloomberg ha lanciato la notizia: “Il gruppo Basf sta pianificando la ricostruzione del suo business in Iran”. La potente multinazionale chimica tedesca è pronta a fare affari.
Reduce da una visita, (non turistica) nel regno dell’antica Persia assieme al vice della Merkel, Sigmar Gabriel, il ceo della Basf Kurt Bock ha detto entusiasta in una trionfale conferenza stampa: “La tecnologia, la qualità del lavoro e l’attendibilità tedesche sono altamente apprezzate in Iran, per questo abbiamo grandi possibilità di ricucire e sviluppare vecchi legami”.
Oddio! Ma la Basf non era multinazionale criminale che costruiva elementi chiave per la costruzione di armi chimiche? Speriamo che l’accordo di Vienna non si risolva in una riconversione dell’industria bellica iraniana dal nucleare al chimico....