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di Michele Paris
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha inaugurato lunedì il suo nuovo anno giudiziario, durante il quale una serie di casi delicati saranno ancora una volta sottoposti all’attenzione dei nove giudici. L’apertura dei lavori del tribunale costituzionale americano giunge nel pieno di una discussione interna al Partito Repubblicano decisamente insolita nell’ultimo decennio, relativa cioè alle credenziali conservatrici del presidente della Corte (“Chief Justice”), John Roberts, nominato da George W. Bush nel 2005.
La polemica su Roberts è sintomatica del consolidarsi delle posizioni di estrema destra tra i repubblicani, con riflessi preoccupanti su tutto il panorama politico USA. Il malcontento nei confronti del presidente della Corte Suprema è stato espresso in maniera particolare da vari candidati alla nomination repubblicana, tra cui soprattutto il senatore del Texas, Ted Cruz, e l’ex governatore dell’Arkansas, nonché fondamentalista cristiano, Mike Huckabee.
Inoltre, decine di attivisti conservatori hanno recentemente sottoscritto una lettera aperta del giurista Edwin Meese, già ministro della Giustizia durante la presidenza Reagan, per invitare il prossimo presidente degli Stati Uniti a nominare giudici della Corte Suprema con un orientamento ideologico simile a quello che caratterizza gli attuali membri più a destra della Corte, tra i quali non figura il presidente Roberts.
Per una parte della destra americana, la colpa di quest’ultimo consiste nell’avere votato assieme alla maggioranza della Corte in un caso del 2012 che aveva sostanzialmente confermato la costituzionalità della riforma sanitaria di Obama (ACA). Per il resto, comunque, Roberts può vantare un curriculum all’insegna della reazione, visto che, come ha scritto domenica il Washington Post, negli anni scorsi “ha votato per restringere il diritto all’aborto, smantellare le restrizioni ai finanziamenti delle campagne elettorali, garantire il diritto al possesso di armi…”.
In quella che può essere considerata una Corte Suprema tra le più reazionarie della storia americana, nonostante qualche “successo” attribuito alla minoranza progressista, Roberts “ha mostrato di essere uno dei giudici moderni più impegnati nella difesa dei diritti del business”, mentre è considerato un fermo sostenitore della pena di morte.
Il suo voto a favore della riforma sanitaria non ha in ogni caso rappresentato un gesto progressista o una qualche conversione, ma è stato semplicemente una presa d’atto della natura in gran parte regressiva della legge, salvata perché sostanzialmente gradita a una parte dei grandi interessi economici. Grazie a Obamacare, compagnie assicurative e grandi aziende private possono infatti contare rispettivamente su milioni di nuovi clienti e su una drastica riduzione delle spese sanitarie per i loro dipendenti.
Solo negli ultimi mesi, d’altronde, la Corte Suprema di John Roberts, pur avendo dichiarato legale in tutti gli Stati Uniti i matrimoni gay, ha dato prova della propria natura reazionaria. A partire da giugno, ad esempio, è stata confermata la costituzionalità delle condanne a morte per iniezione letale tramite un sedativo di dubbia efficacia, ha invalidato le regolamentazioni sulle emissioni inquinanti delle fabbriche stabilite dall’Agenzia federale per la Protezione dell’Ambiente (EPA) e ha garantito al governo la possibilità di negare arbitrariamente il permesso di residenza per ragioni di “sicurezza nazionale” a individui che ne avrebbero tutto il diritto, come i coniugi di cittadini americani.
La Corte Suprema guidata da Roberts e da una maggioranza composta di altri tre giudici ultra-conservatori – Samuel Alito, Antonin Scalia, Clarence Thomas – e da Anthony Kennedy, teoricamente centrista ma spesso in sintonia con i colleghi di estrema destra, si appresta così a iniziare un altro anno giudiziario che minaccia di essere segnato da nuovi gravi attacchi ai diritti democratici negli Stati Uniti.
Per cominciare, un nuovo colpo alla separazione tra stato e fede religiosa appare pressoché scontato. Una sentenza del 2014 della stessa Corte Suprema nel caso “Burwell contro Hobby Lobby” ha infatti generato quasi automaticamente un nuovo caso relativo al diritto dei lavoratori dipendenti di ricevere strumenti contraccettivi nell’ambito dell’assistenza sanitaria fornita dai loro datori di lavoro.
Con il parere espresso lo scorso anno, i giudici del supremo tribunale USA avevano ribaltato il principio della libertà religiosa, garantendo a un’azienda privata la facoltà di non rispettare l’obbligo di fornire contraccettivi ai propri dipendenti nel caso in cui i proprietari di essa affermino che ciò vada contro i principi della loro fede.
Il nuovo caso che verrà discusso nei prossimi mesi riguarda organizzazioni e istituti affiliati a una chiesa o a una fede religiosa, come ospedali o università, i quali, grazie alla disposizione dell’amministrazione Obama a piegarsi di fronte al fondamentalismo religioso, possono già negare l’accesso ai contraccettivi per i loro dipendenti, ma sono tenuti a notificare al governo il loro rifiuto. Assurdamente, questa sola condizione violerebbe i loro principi religiosi, anche perché in tal caso sarebbe il governo stesso a garantire il diritto dei lavoratori a una copertura sanitaria completa.Una questione collegata in parte a quest’ultima che la Corte Suprema prenderà probabilmente in considerazione riguarda poi il diritto all’aborto, ugualmente minato in maniera sensibile negli ultimi anni in America. Una sentenza della Corte Suprema del 1973 (“Roe contro Wade”) riconosce la legalità dell’interruzione di gravidanza come libera scelta finché il feto non sia in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero o, anche di là di questo limite, nel caso in cui sia in pericolo la salute della madre.
Di fronte a questo ostacolo legale, gli oppositori dell’aborto stanno mettendo in atto da qualche tempo una strategia diversa, adottando cioè in vari stati regolamentazioni eccessivamente stringenti che rendono quasi impossibili le attività delle cliniche che praticano le interruzioni di gravidanza.
Molte strutture hanno infatti già cessato le operazioni negli ultimi anni, costringendo soprattutto le donne a basso reddito a rinunciare all’aborto, viste le difficoltà nel sostenere ingenti spese per raggiungere cliniche molto lontane, spesso al di fuori dei confini del loro stato.
La costituzionalità di queste leggi potrebbe essere così giudicata dalla Corte Suprema, la quale dovrebbe discutere quelle approvate in Texas nel 2013. Da allora, in questo stato più grande della Francia quasi la metà delle strutture che praticano aborti ha chiuso i battenti, causando quello che la legge USA considera “un onere eccessivo” per le donne che intendono valersi di un diritto fondamentale riconosciuto.
In un altro ambito, la Corte Suprema potrebbe prendere nuovamente di mira i sindacati, già al centro di attacchi anche in molti stati a maggioranza repubblicana. Nel caso “Friedrichs contro California Teachers Association” verrà messa in discussione una pratica comune fin dal 1977 negli Stati Uniti, secondo la quale, una volta che la maggioranza dei lavororatori del settore pubblico in una determinata categoria o realtà locale scelga di essere rappresentata da un sindacato, quest’ultimo può esigere il pagamento di una quota anche dai non iscritti come riconoscimento dei benefici che essi godono grazie alle trattive contrattuali.
Se più di un membro della Corte vanta un’attitudine marcatamente anti-sindacale, giudici come Roberts o Kennedy potrebbero allinearsi in questo caso con i quattro colleghi “liberal” – Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg, Elena Kagan, Sonya Sotomayor – e assicurare il flusso di denaro a organizzazioni che svolgono sempre più il ruolo di sicuri alleati dei vertici aziendali o, nel caso del settore pubblico, della classe politica.
Molto dibattute in America, infine, sono altre due questioni su cui con ogni probabilità si esprimeranno i giudici. La prima riguarda le modalità con cui delimitare i distretti elettorali. Secondo la pratica corrente, i vari distretti devono avere grosso modo lo stesso numero di abitanti, ma una causa in corso ha messo in discussione questo principio, ipotizzando invece una suddivisione basata sul numero di coloro a cui è riconosciuto il diritto di voto.
La diatriba appare del tutto politica, poiché una revisione delle regole favorirebbe il Partito Repubblicano. Infatti, in questo modo verrebbero penalizzati i distretti più urbanizzati, generalmente più propensi a votare per il Partito Democratico e popolati da un numero consistente di immigrati senza residenza e diritto di voto.L’altro caso è “Fisher contro University of Texas at Austin”, già considerato nel 2013 dalla Corte Suprema e rinviato ai tribunali inferiori. Qui, a essere messa in discussione è la cosiddetta “affirmative action” in ambito accademico, ovvero quell’insieme di pratiche adottate dalle università per garantire un equilibrio razziale tra i loro iscritti.
Lo scorso anno, una corte d’appello aveva confermato la legittimità dei metodi con cui l’università di Austin, nel Texas, considera la razza come uno dei fattori per decidere l’ammissione di un certo numero di candidati. Il fatto che la Corte abbia deciso di accettare nuovamente il caso potrebbe indicare una volontà di liquidare la “affirmative action”.
A complicare gli scenari, tuttavia, vi è il fatto che tale pratica non ha a che fare soltanto con il razzismo, visto che essa dagli anni Sessanta viene utilizzata dalla classe dirigente americana per cooptare al proprio interno un certo numero di individui soprattutto di colore, così da creare l’apparenza di un sistema che offre chances di successo a chiunque, contenendo di conseguenza le tensioni sociali provocate da una segregazione di fatto ancora presente in molte parti degli Stati Uniti.
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di Michele Paris
L’ennesimo gravissimo “danno collaterale” dell’occupazione statunitense dell’Afghanistan è stato registrato nelle primissime ore di sabato contro un ospedale gestito da Medici Senza Frontiere nella località di Kunduz. Nella città settentrionale del paese centro-asiatico da oltre una settimana sono in corso duri combattimenti tra l’esercito di Kabul, le forze di occupazione NATO e i Talebani, i quali erano riusciti a conquistare questo importante centro urbano, il primo dall’invasione del 2001.
In uno scenario raccapricciante che ha ricordato le stragi dell’alleato israeliano a Gaza durante l’aggressione militare dell’estate 2014, l’attacco dell’aviazione militare USA ha assassinato 19 persone presenti nella struttura. 12 vittime risultano essere membri dello staff dell’ospedale, mentre sette sono i morti tra i pazienti, di cui tre bambini. I feriti a seguito del bombardamento, trasferiti in volo a Kabul, sono invece una quarantina.
Di fronte gravità dell’accaduto, i vertici militari americani hanno dovuto subito ammettere la loro responsabilità. Il Pentagono ha fatto però ricorso alle consuete dichiarazioni di circostanza, parlando appunto di “danno collaterale”, avvenuto nel corso di un’operazione che aveva come obiettivo combattenti talebani che “stavano minacciando” l’esercito afghano e le Forze Speciali USA dispiegate a Kunduz.
L’orrore descritto dai sopravvissuti è simile a quello provocato innumerevoli volte dalle azioni contro la popolazione civile da parte delle forze americane e degli altri paesi NATO impegnati in Afghanistan. Alcuni infermieri che prestavano servizio nell’ospedale hanno raccontato di colleghi e pazienti bruciati vivi in seguito agli incendi scatenati dalle bombe.
A sottolineare la criminalità dell’azione americana c’è poi il fatto, riferito da Medici Senza Frontiere, che il bombardamento è continuato per una mezz’ora dopo che le forze armate di Afghanistan e Stati Uniti erano state informate che l’attacco aveva preso di mira un ospedale. Inoltre, la stessa organizzazione umanitaria francese aveva chiaramente fornito le coordinate satellitari relative alla precisa collocazione dell’ospedale e delle strutture annesse.
Dipendenti di Medici Senza Frontiere hanno anche affermato che nell’ospedale non erano presenti Talebani, né avevano notato combattimenti nelle immediate vicinanze. Per un portavoce della polizia di Kunduz, al contrario, alcuni combattenti talebani erano entrati nell’ospedale, utilizzato come postazione di fuoco. Il New York Times, tuttavia, ha riferito che le forze di sicurezza afghane nutrivano da tempo del risentimento nei confronti di Medici Senza Frontiere, poiché nella struttura della città e altrove l’organizzazione presta assistenza ai feriti che combattono da entrambe le parti del conflitto.Della strage ha dovuto parlare nel fine settimana anche il presidente Obama, il quale ha presentato le proprie condoglianze alle vittime e ha definito l’accaduto un “tragico incidente”. In realtà, l’unico scrupolo è rappresentato dai riflessi negativi tra l’opinione pubblica in Afghanistan e nel resto del mondo per il nuovo massacro indiscriminato di civili condotto da una forza che dovrebbe ufficialmente combattere la barbarie fondamentalista.
Più aderente all’attitudine dei vertici politici e militari americani è stata la reazione del comandante delle forze di occupazione USA in Afghanistan, generale John Campbell. In un comunicato ufficiale, quest’ultimo ha di fatto giustificato l’attacco, poiché portato a termine nel quadro di un’offensiva contro gli “insorti” che, nei pressi dell’ospedale, stavano prendendo di mira soldati americani e afghani.
Episodi come quello registrato sabato a Kunduz non rappresentano semplici “errori”, “incidenti” o tragiche “fatalità” di una guerra giusta. La morte violenta di migliaia di civili provocata direttamente dal fuoco di forze armate che dovrebbero proteggerli o liberarli dalla minaccia dell’insurrezione talebana è invece la logica conseguenza di un’occupazione illegale e di una guerra criminale condotta per motivi riconducibili soltanto agli interessi strategici di Washington.
Allo stesso modo, i livelli di violenza generati dalle politiche legate alla proiezione del potere della classe dirigente USA, sia sul fronte estero ma anche domestico, come dimostra l’ennesima strage in una scuola americana solo poche ore prima dei bombardamenti sull’ospedale di Kunduz, sono inestricabilmente connessi al declino dell’influenza internazionale di questo paese e del suo sistema economico.
L’evoluzione del pianeta verso il multipolarismo comporta una reazione sempre più aggressiva da parte della potenza americana declinante, la quale ricorre in maniera drammaticamente frequente alla forza militare per conservare la propria supremazia nelle aree strategicamente più delicate del globo. Da qui, il ripetersi di interventi militari, con le annesse inevitabili violenze e stragi di civili, condotti in maniera diretta o per procura, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria.
Ciò trova conferma soprattutto in Afghanistan, dove in questi anni si sono susseguiti gli annunci dei ritardi e dei rinvii del ritiro del contingente di occupazione. Le operazioni di combattimento da parte delle forze NATO sono ufficialmente terminate il 31 dicembre 2014, anche se la battaglia in corso per Kunduz sembra smentirlo, mentre il ritiro delle truppe di occupazione americane – a tutt’oggi poco meno di 10 mila – potrebbe slittare addirittura alla fine del 2017.Alla strage dell’ospedale di Medici Senza Frontiere sono comunque seguite le consuete condanne delle Nazioni Unite, con il Segretario Generale, Ban Ki-moon, che ha peraltro sollevato questioni di opportunità non molto diverse da quelle che stanno con ogni probabilità discutendo i vertici politici e militari americani. L’ex diplomatico sudcoreano ha invitato Washington a valutare come le vittime civili provochino “l’ostilità della popolazione afghana” e mettano a repentaglio “le relazioni con il governo” di Kabul.
Sia Ban Ki-moon che l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, il principe giordano Zeid Ra’ad al-Hussein, hanno chiesto una “indagine imparziale” sulla strage, così come Obama ha fatto riferimento a quella in corso all’interno del Dipartimento della Difesa nel suo intervento pubblico di sabato. In entrambi i casi, come è accaduto puntualmente in passato, qualsiasi sforzo in questo senso risulterà inutile, se non nella misura in cui garantirà, come sempre, l’occultamento delle responsabilità dell’imperialismo a stelle e strisce.
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di Fabrizio Casari
Putin non scherza affatto. I raid aerei dell’aviazione russa in Siria colpiscono le postazioni islamiste e permettono all’esercito lealista di ricompattare i reparti. Obiettivo dei Sukhoy di Mosca sono sia l’Isis, che controlla la zona ad Est di Homs, sia le bande di Al-Nusra, frazione dissidente di al-Queda, addestrate dalla CIA, come ammette il senatore McCain. McCain sa di cosa parla, non solo per essere stato candidato alla presidenza USA, ma per essere l’incaricato di Obama per sovrintendere le operazioni di intelligence e militari in Siria.
Capziosa la presunta distinzione che Washington propone tra ISIS e Al-Nusra, le cui bande sono state protagoniste sin dall’inizio della guerra in Siria. L’irruzione dell’Isis sullo scenario siriano e iracheno ha certamente ridimensionato la centralità militare e politica degli islamisti al soldo della Casa Bianca, messa ulteriormente in crisi dalle frizioni interne al sottobosco islamista.
Ma questa dinamica, tutta interna al teatro di guerra, non modifica l’essenza della partecipazione di Al-Nusra nel conflitto, così come quella del cosiddetto Esercito libero siriano. Quest’ultimo, che non è un esercito (conta pochi aderenti) non è libero (dipende in tutto dall’occidente) e non è siriano, dal momento che vi operano diversi altri attori manovrati dall’Arabia Saudita) è stato un’invenzione politico-militare, così come l’Osservatorio sui diritti umani in Siria, con sede a Londra e foraggiato dal Mi-5 britannico, è stato il suo portavoce. Sono nomi diversi e frazioni diverse di una rete islamista voluta e sostenuta dall’Occidente per scalzare il governo siriano.
Per certi versi bizzarra la protesta di Washington che lamenta l’attacco agli uomini addestrati e pagati dalla CIA, come se Langley fosse un caposaldo dei diritti umani e della legittimità internazionale. Ma il frastuono che Francia (che bombarda senza ricevere proteste) e Stati Uniti alzano contro ipotetici oppositori siriani che verrebbero colpiti da Mosca allo scopo di rafforzare Assad, ha comunque il pregio di ricordare la verità sull’origine del conflitto.
Che si dimostra voluto, organizzato e finanziato da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e dalla monarchia saudita. Così come avvenuto in Libia e in Iraq, il rafforzamento delle organizzazioni terroristiche di stampo sunnita è stato il cuore dell’iniziativa politica e diplomatica di diverse capitali occidentali. Lo scopo era l’accerchiamento di Teheran e le vie per le quali si è proceduto sono state diverse, tutte destinate ad azzerare la catena di alleanze di Teheran in Medio Oriente; ovvero la Siria di Assad, gli Hezbollah libanesi, Hamas a Gaza, il governo sciita a Baghdad.
Obiettivo ultimo era quello di assegnare a Ryad il comando politico e militare sul Golfo e in Medio Oriente, che nella sconfitta sciita vedeva sia affermarsi la leadership religiosa sul mondo islamico che – più prosaicamente - quella economica, dal momento che l’isolamento di Teheran, la fine della Libia di Gheddafi, garantivano al petrolio delle monarchie del Golfo la supremazia assoluta sui mercati.
Il saldo positivo dell’operazione ha riguardato solo l’Irak, mentre sia Hezbollah che la Siria si sono dimostrati ossi decisamente duri da rodere. Il mutare dello scenario, che ha visto l’Isis, inventato a tavolino dagli Stati Uniti all’identico scopo rendersi autonomo e in qualche modo rivoltarsi contro il suo creatore (cosa già successa peraltro in Afghanistan con Mujaheddin e al-Queda).
Il progetto di califfato, sostenuto con armi e denaro dall’Arabia Saudita, si è andato via via consolidando e rafforzando e la fine del controllo di Washington su Al-Baghdadi, che nel frattempo ha riempito di orrore e minacce il Medio Oriente e lo stesso Occidente, ha obbligato Obama a cambiare rotta.
Nel frattempo, il raggiungimento dell’accordo con l’Iran ha reso non più strategico il suo ruolo per le strategie statunitensi; la riprovazione mondiale verso l’agire dei macellai del califfo ha reso prioritario la presa di distanza americana e le minacce dell’Isis anche contro gli USA hanno completato il quadro della rottura.Ci si potrebbe domandare come sia possibile che in quattro mesi gli Stati Uniti non abbiano chiuso la partita con Al-Baghdadi. Come sia possibile, cioè, che un esercito privo di aviazione e contraerea, di mezzi corazzati e intelligence militare, sia riuscito a mantenere sostanzialmente indenni i suoi reparti.
La risposta non è difficile, per quanto amara. Gli Stati Uniti hanno deciso di non schiantare l’Isis, non volendo azzerare militarmente le forze che ritengono possano in qualche modo rivelarsi funzionali in caso di cambiamenti repentini sul terreno.
Prova ne sia che la reazione militare statunitense contro l’Isis è stata a dir poco blanda se paragonata alla storia militare recente delle guerre a stelle e strisce. Basta mettere a confronto quantità e qualità delle operazioni aeree con i precedenti impegni dell'America nelle guerre in Medio Oriente e nei Balcani.
Durante la prima guerra del Golfo, gli Stati Uniti effettuavano in media 1.125 attacchi aerei al giorno. In Kosovo, circa 135 al giorno. Nel 2003, sempre in Iraq, nella campagna chiamata "colpisci e terrorizza" i raid Usa erano in media 800 al giorno. Contro l’Isis, invece, solo 14 al giorno.
Troppo pochi per sperare di fermare il Califfo in marcia verso Baghdad. Non solo. Secondo il senatore John McCain, “il 75% dei piloti tornano alla base senza aver utilizzato tutta la potenza di fuoco, e questo a causa di ritardi nella catena di comando". Gli stessi piloti USA hanno denunciato che "per ricevere l’autorizzazione ad attaccare un obiettivo Isis, sono necessari anche 60 minuti". Un'enormità che avrebbe fatto sfuggire più di una volta l'obiettivo da centrare, trattandosi soprattutto di unità militari di fanteria motorizzata.
Gli USA sembrano quindi non voler annientare l’Isis anche perché probabilmente ritengono che avere un attore di quel calibro possa rivelarsi come uno straordinario strumento di pressione sull’universo sciita, sia per tenere viva la minaccia militare su Hezbollah, sia nel caso Teheran non confermi le sue intenzioni riconciliatorie o cerchi di allungare le mani sull’Irak.
I russi, invece, attaccano sul serio e colpiscono. Naturalmente fanno il loro interessi. Intendono difendere le basi militari di Latakia (aerea), quella di Jableh, dove hanno dei sottomarini, e il porto di Taurus, dove Mosca ha una sua base navale. Eredità di un’alleanza strategica della ex Unione Sovietica con la Siria di Assad padre, il legame tra Mosca e Damasco non è mai venuto meno e la presenza militare russa (unica al di fuori dei suoi confini) è questione che Putin non intende discutere né sul piano politico e diplomatico, men che mai su quello militare.Mosca peraltro, che è a conoscenza della presenza di circa tremila combattenti di origine caucasica nelle file del califfato, ha già dimostrato nella guerra in Afghanistan prima e in Cecenia poi come ritiene di dover affrontare l’espansionismo militare islamista.
Putin ha quindi proposto a Stati Uniti ed Europa una coalizione internazionale per aggredire la minaccia del califfato, sfidando le capitali occidentali a dimostrare militarmente quanto affermano politicamente. Lo Zar, inoltre, non fa mistero di essere disposto a sporcarsi le mani in Siria anche tenendo a mente un miglioramento complessivo delle relazioni con l’Occidente che porti a breve-medio termine a riconsiderare le sanzioni sull’Ucraina.
Ma lo sfondo sul quale la strategia di Putin vuole inserirsi è più ampio; prevede un ruolo di primo piano di Mosca nella cogestione della governance internazionale, non riconoscendo ai soli Stati Uniti il ruolo di gendarme unico mondiale.
Ruolo, quello degli USA, ormai in discussione per manifesta incapacità, visti i disastri prodotti nei diversi scenari internazionali. E, comunque, non più corrispondente ad un mondo multipolare nel quale l’irruzione nella scena economica e politica di interi continenti non può rimanere senza un’adeguata compartecipazione alla governante globale. Questo, prima ancora che la sorte dei suoi uomini in Siria, preoccupa Washington.
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di Michele Paris
Con un’iniziativa di grande coraggio, i dipendenti di Fiat-Chrysler (FCA) negli Stati Uniti hanno respinto in maniera molto netta il nuovo contratto di lavoro recentemente negoziato tra la dirigenza della compagnia e il sindacato autombilistico UAW. La bocciatura potrebbe segnare una tappa importante nella mobilitazione dei lavoratori americani in questo settore dopo decenni di sconfitte e pesanti concessioni, anche se i vertici del sindacato sono già al lavoro per aggirare l’opposizione incontrata nelle fabbriche e far digerire un contratto che soddisfi, in primo luogo, le esigenze dell’azienda.
La proposta di contratto era stata annunciata a metà settembre nel corso di un’eccezionale conferenza stampa congiunta tra l’amministratore delegato di FCA, Sergio Marchionne, e il presidente di UAW, Dennis Williams. In quell’occasione, entrambi avevano sottolineato come l’azienda e il sindacato avessero una visione sostanzialmente identica e, evidentemente, divergente da quella dei 36 mila dipendenti.
Il contratto era stato poi sottoposto ai leader delle sezioni locali del sindacato e il voto tra i lavoratori organizzato in fretta e furia, in modo da impedire una lettura integrale del testo e l’allargarsi del dibattito sui contenuti.
Nelle ultime due settimane, però, i lavoratori di un impianto dopo l’altro in tutti gli Stati Uniti hanno sonoramente bocciato il contratto promosso da UAW, sia pure di fronte alle pressioni dello stesso sindacato, dei vertici dell’azienda, dei politici e dei media ufficiali. I dati definitivi sono stati diffusi giovedì. I “no” sono stati complessivamente il 65%, anche se in alcune fabbriche la percentuale ha superato agevolmente il 70% e in almeno due casi addirittura l’80%.
Soltanto in pochissimi impianti a prevalere è stato il “sì”, tra cui uno solo tra quelli ritenuti più importanti, il Warren Truck, nell’area metropolitana di Detroit. Qui, tuttavia, molti lavoratori hanno chiesto un riconteggio dopo avere denunciato scorrettezze nelle operazioni di voto.
Ad ogni modo, era dal 1982 che i lavoratori di Fiat-Chrysler e, in precedenza, di Chrysler, non respingevano un contratto negoziato da UAW. Già nel 2011, peraltro, gli operai specializzati di Chrysler avevano bocciato la proposta di contratto ma il sindacato, andando contro le sue stesse regole, aveva deciso ugualmente la ratifica.
L’esito registrato quest’anno è l’inevitabile risultato dei malumori diffusi tra la grande maggioranza degli iscritti dopo anni in cui UAW ha collaborato con l’azienda nell’implementare condizioni di lavoro sempre più dure, così come ripetuti attacchi alla sicurezza economica e alla certezza di una dignitosa copertura sanitaria.
Inoltre, i lavoratori di FCA, ma anche quelli di Ford e General Motors (GM), non vedono un adeguamento dei loro stipendi da un decennio, nonostante le tre compagnie siedano su una montagna di profitti dopo la ristrutturazione promossa dall’amministrazione Obama nel 2009.
La bocciatura del contratto è dunque la conseguenza di una serie di fattori che hanno contribuito al peggioramente delle condizioni di vita dei lavoratori, non solo nel settore dell’auto. I giornali americani hanno però evidenziato come a far pendere l’ago della bilancia per il “no” sia stato il mancato rispetto della promessa, fatta da UAW nel 2011, di mettere un tetto al numero di lavoratori con il livello più basso di retribuzione.In FCA, in particolare, questi ultimi costituiscono ben il 40% della forza lavoro e percepiscono tra i 16 e i 18 dollari l’ora, contro i 28,5 di quelli in azienda da prima del 2007. Nel contratto da poco negoziato, UAW e FCA si erano accordati per un percorso pluriennale per portare gradualmente gli stipendi più bassi a un massimo di 25 dollari, senza eliminare l’odiato sistema dei “due livelli” ma, di fatto, istituendone un altro con vari livelli retributivi.
L’altra questione scottante prevista dal nuovo contratto e fortemente avversata dai lavoratori è poi la fine dell’assistenza sanitaria garantita dall’azienda. FCA e UAW avevano concordato un piano per il trasferimento di tutti i lavoratori su un fondo cooperativo gestito dal sindacato stesso e che da qualche tempo offre l’assistenza sanitaria ai pensionati del settore automobilistico.
Questa soluzione, che comporta un aumento delle spese sostenute dai lavoratori e un peggioramento di quantità e qualità delle cure, è particolarmente gradita all’azienda, poiché permetterebbe di risparmiare sensibilmente sui costi sanitari per i dipendenti.
Tanto più che la riforma sanitaria di Obama prevede a breve una super-tassa a carico delle aziende sui cosiddetti piani assicurativi “Cadillac”, ovvero quelli più costosi ma che, in realtà, forniscono ai lavoratori e alle loro famiglie nient’altro che coperture adeguate.
Ancora, se il nuovo contratto prevede una generica promessa da parte di FCA di investire 5,3 miliardi di dollari negli impianti in territorio americano nei prossimi cinque anni, a prevalere sono state le giustificate preoccupazioni per i progetti dichiarati dell’azienda di stravolgere le linee di produzione in varie fabbriche, con la minaccia di trasferire alcuni modelli in Messico.
I lavoratori hanno così rimandato al mittente la proprosta di contratto, facendo prevalere la solidarietà e il desiderio di lottare per condizioni complessivamente migliori su incentivi offerti per piegare la loro resistenza. Tra di essi ci sono un bonus di tremila dollari legato alla ratifica del contratto e altre somme una tantum vincolate al raggiungimento di obiettivi di qualità e produzione, nonché ai profitti dell’azienda.
Senza dubbio scosso dal risultato del voto, il presidente di UAW, Dennis Williams, ha incontrato giovedì i rappresentanti sindacali delle varie fabbriche FCA per pianificare le prossime mosse. A detta degli osservatori, sarebbero possibili tre opzioni: il ritorno al tavolo delle trattative con Marchionne, la proclamazione di uno sciopero per fare sfogare la rabbia dei lavoratori o il congelamento dell’accordo con FCA per passare al negoziato con Ford o GM.
In tutti e tre i casi, l’intenzione di UAW non è in nessun modo quella di ottenere un contratto sensibilmente migliore, bensì di conquistare un qualche spazio di manovra per forzare un nuovo voto e ottenere un’approvazione tramite un mix di intimidazioni, minacce di chiusure e licenziamenti, propaganda e, tutt’al più, qualche concessione trascurabile.
Il negoziato con Ford e GM potrebbe in particolare produrre un contratto leggermente più favorevole ai lavoratori, viste le migliori condizioni economiche di queste due compagnie rispetto a FCA e il numero minore di dipendenti al livello retributivo più basso di cui dispongono.
In ogni caso, numerosi editoriali apparsi nei giorni scorsi sui giornali “mainstream” d’oltreoceano hanno mostrato sorpresa se non sbalordimento per la presa di posizione dei lavoratori contro UAW. In particolare, l’apprensione riguarda il possibile contagio della rivolta contro UAW ai lavoratori di Ford e GM e, più in generale, per la crescente incapacità da parte dei sindacati di svolgere le funzioni a loro assegnate nel sistema capitalistico e che consistono nel contenimento del conflitto sociale e nel dissipare le resistenze all’implementazione delle decisioni di azionisti e dirigenti.Il quotidiano Detroit News, ad esempio, ha riassunto l’attitudine della classe dirigente USA verso i dipendenti dell’industria automobilistica, messi in guardia dal fare “richieste eccessive”. Williams, al contrario, avrebbe compreso come la soluzione più idonea alla questione del contratto, “senza mettere l’azienda a rischio”, sia “un aumento moderato degli stipendi unito alla condivisione dei profitti”.
Dove UAW avrebbe sbagliato, in definitiva, non è nell’assecondare sostanzialmente le esigenze dei vertici della compagnia contro gli interessi dei suoi iscritti, ma nell’avere orchestrato un’inefficace operazione di propaganda per “vendere” l’accordo, lasciando spazio agli oppositori che hanno dominato il dibattito, specialmente sui social media.
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di Michele Paris
La conquista dell’importante città afgana di Kunduz da parte dei Talebani nella giornata di lunedì ha rappresentato una grave umiliazione sia per il governo di Kabul sia per le forze di occupazione guidate dagli Stati Uniti. Nonostante quasi 14 anni di guerra, centinaia di migliaia di truppe impiegate e di dollari spesi per sostenere un regime-fantoccio filo-occidentale, per la prima volta dal 2001 i Talebani sono riusciti a strappare al controllo governativo uno dei capoluoghi delle province in cui è suddiviso il paese centro-asiatico.
L’azione delle forze talebane ha ancora una volta messo in luce in maniera impietosa lo stato delle forze di sicurezza afgane, armate e addestrate dall’Occidente. Queste ultime potevano contare infatti su circa tremila uomini a Kunduz, ma sono state sopraffatte da poche centinaia di guerriglieri integralisti.
Da qualche tempo, la città settentrionale che conta 300 mila abitanti era stata circondata dai Talebani, i quali, dopo avere “liberato” le aree del centro, hanno costretto i soldati dell’esercito regolare a rifugiarsi presso l’aeroporto, a sua volta teatro di un’accesa battaglia in queste ore. Anche la primavera scorsa i Talebani avevano tentato di prendere Kunduz, ma in più di un’occasione erano stati respinti dall’esercito in collaborazione con alcune milizie locali.
La notizia del rovescio ha subito attivato i vertici delle forze NATO di occupazione, costretti a inviare truppe per difendere l’aeroporto di Kunduz e a cercare di riconquistare l’intera città. Il deteriorarsi della situazione ha fatto registrare così l’aperta violazione dei termini dell’intesa tra Kabul e Washington, secondo la quale le rimanenti forze di occupazione dal primo gennaio di quest’anno non possono essere più impiegate in operazioni di combattimento.
Un portavoce della “coalizione” occupante ha però sostenuto che l’intervento a fianco dell’esercito afgano rientrerebbe negli incarichi tuttora consentiti alle forze NATO, poiché l’operazione in corso sarebbe di natura “difensiva”. Secondo un ufficiale delle forze armate locali, a Kunduz starebbero combattendo un centinaio di membri delle Forze Speciali USA, assieme a un certo numero di soldati americani e di altri paesi non meglio identificati.
Tra martedì e mercoledì, poi, le forze NATO hanno condotto alcune incursioni aeree contro i Talebani, anche se il presidente afgano, Ashraf Ghani, ha escluso per il momento una campagna sostenuta di bombardamenti aerei a causa del rischio di vittime civili in un’area urbana come quella di Kunduz.
Già martedì sono circolate notizie relative alla riconquista di vari edifici strategici della città da parte delle forze governative. Un ufficiale americano sentito martedì dal Washington Post ha allo stesso modo assicurato che i Talebani saranno cacciati da Kunduz in poche settimane e che l’operazione avrebbe solo uno scopo propagandistico per dimostrare la loro resistenza.
Altre fonti, soprattutto afgane, non sembrano essere però altrettanto ottimiste. Un funzionario governativo residente a Kunduz, ad esempio, ha avvertito che la riconquista della città richiederà un’operazione su vasta scala, cosa non agevole, per lo meno senza il supporto attivo delle forze NATO, viste le condizioni in cui versa l’esercito di Kabul.Anzi, la stampa americana ha avvertito mercoledì del pericolo di un effetto domino, con la vicina provincia di Baghlan in pericolo di cadere nelle mani dei Talebani. Qui, la popolazione avrebbe cominciato ad abbandonare le proprie abitazioni nel timore che il governo possa perdere il controllo. Per il momento, i Talebani hanno consolidato le loro posizioni nel nord della provincia, ostacolando seriamente il transito dei rinforzi dell’esercito diretti a Kunduz.
Se i Talebani al loro ingresso a Kunduz lunedì hanno annunciato che non ci sarebbero stati saccheggi o esecuzioni sommarie, il bilancio in pochi giorni è già significativo, con più di 30 morti e oltre 200 feriti, di cui la gran parte civili.
La beffa patita da Kabul e dalla NATO a inizio settimana è resa ancora più pesante dal peso strategico di Kunduz, una località situata in un’importante area agricola dell’Afghanistan e crocevia tra Asia orientale e occidentale, ma anche settentrionale e meridionale. Inoltre, il blitz è giunto a poche settimane dalla diffusione della notizia della morte del Mullah Omar che, secondo molti osservatori, avrebbe dovuto avere effetti negativi sulla resistenza talebana.
La facilità con cui i Talebani sono entrati in città lunedì ha immediatamente scatenato polemiche sia a Kabul sia a Washington. Il governo afgano e il presidente Ghani sono finiti sotto accusa per l’incompetenza del governatore della provincia di Kunduz e delle forze di sicurezza stanziate in quest’area nel nord del paese.
Il gabinetto afgano è d’altra parte estremamente fragile, con una coalizione mediata dagli Stati Uniti che vede la condivisione teorica del potere tra il presidente e il secondo classificato nelle ultime elezioni presidenziali, Abdullah Abdullah. Proprio quest’ultimo, la cui base di potere è tra le etnie Tagika e Hazara nel nord del paese, si trovava alle Nazioni Unite nella giornata di lunedì e nel suo discorso di fronte all’Assemblea Generale ha chiamato in causa il Pakistan, invitando il governo di Islamabad a fare di più per combattere i fondamentalisti che trovano rifugio oltre confine e sferrano i propri attacchi in Afghanistan.
L’occupazione talebana di Kunduz giunge d’altronde in un momento estremamente delicato per l’evoluzione del panorama afgano. Oltre ai riflessi negativi su questo paese delle imprese belliche e delle manovre strategiche americane, a cominciare dal possibile arrivo anche in Afghanistan di un certo numero di guerriglieri dello Stato Islamico (ISIS), a rendere più precaria la situazione è il continuo stallo dei negoziati tra il governo di Kabul e la leadership talebana.
La difficoltà anche ad avviare una qualche discussione è dovuta in buona parte alle esitazioni proprio del Pakistan, i cui dubbi sono legati a questioni strategiche più ampie. Islamabad, anche se fin dal 2001 ha rinunciato ufficialmente ad appoggiare i Talebani, continua a vedere questi ultimi come un’arma per esercitare la propria influenza sul vicino Afghanistan.
Tale questione risulta tanto più scottante alla luce del ruolo sempre più importante giocato a Kabul dall’India, ovvero l’arcirivale del Pakistan. L’impegno di Delhi in Afghanistan è favorito dagli Stati Uniti, impegnati a costruire un’alleanza strategica con l’India nell’ambito dell’offensiva diplomatica e militare volta a isolare la Cina.Le scelte strategiche dell’amministrazione Obama sembrano dunque far passare in secondo piano l’alleanza già di per sé complicata con il Pakistan, generando a Islamabad sospetti e inquietudini che, a loro volta, stanno determinando, da un lato, un rafforzamento dei tradizionali legami con la Cina e, dall’altro, un disinteresse nel processo di pace in Afghanistan.
Negli Stati Uniti, infine, la caduta di Kunduz ha ridato prevedibilmente fiato ai “falchi” dell’interventismo a stelle a strisce. I leader repubblicani al Congresso, in particolare, hanno in primo luogo criticato la decisione di Obama di procedere con il ritiro delle forze di combattimento dall’Afghanistan a fine 2014.
Secondo questa prospettiva, la disastrosa situazione del paese occupato dal 2001 sarebbe cioè la conseguenza di un impegno insufficiente e non della devastazione provocata da quattordici anni di guerra per sottomettere un’intera popolazione agli interessi dell’imperialismo americano.