di Fabrizio Casari

Prima l’incontro con il Papa a San Pietro, insolitamente lungo per il rigido protocollo vaticano; quindi la riunione con Renzi, definita “importante e molto positiva”, poi la visita a Cuba del Presidente francese Francoise Hollande, primo Capo di Stato occidentale a visitare l’isola negli ultimi anni. E’ il bilancio più che positivo dell’offensiva diplomatica e politica lanciata da Raul Castro, iniziata con la presenza sulla Piazza Rossa di Mosca per le celebrazioni del 70esimo anniversario della vittoria sul nazifascismo.

Un tour che ha riportato l’isola socialista e il suo presidente all’attenzione mediatica internazionale e che ha collocato Cuba nell’agenda di politica estera di questi mesi a venire. Due le scadenze ravvicinate: quella del prossimo 28 Maggio, quando dovrebbe concretizzarsi sul piano formale la rimozione di Cuba dalla black list statunitense dei paesi che sostengono il terrorismo e poi la visita nell'isola di Papa Francesco, prevista dal 19 al 22 di Settembre.

Il ruolo del Pontefice nel ripensamento della politica degli USA verso Cuba è stato ripetutamente riconosciuto da Castro come da Obama e il suo viaggio pastorale sull’isola non potrà che beneficiare ulteriormente il clima - già positivo - nel quale si continuano a svolgere gli incontri tra le due diverse diplomazie.

Il mutamento intervenuto nell’approccio europeo è importante. Tanto Hollande quanto Renzi sembrano aver mandato in soffitta l’ostilità europea che si esprimeva nella “posizione comune” voluta a suo tempo da Aznar. Bruxelles segue quindi con attenzione l’evolversi del dialogo tra Washington e L’Avana. Sa che l’apertura della strada verso l’America Latina passa da Cuba, paese di riferimento sia per i 13 paesi dell’ALBA che per l’insieme dei paesi latinoamericani, a cominciare dai 33 rappresentati nella CELAC, dove Cuba esercita una importante leadership.

Il tour diplomatico di Raul ha quindi aperto il terreno per un nuovo ruolo di Cuba anche nella relazione con l’Occidente. Il processo di ammodernamento del sistema cubano può ora giovarsi di un clima inedito per l’isola, che pur continuando a patire il blocco vede una fase completamente nuova per una sua integrazione piena nel sistema di relazioni internazionali.

In tempi non sospetti, quando i tentativi sotterranei della diplomazia cubana non avevano ancora trovato la strada per la retromarcia di Obama, Fidel Castro disse che i cubani sono più preparati per la guerra che per la pace. Si riferiva ad una certa attitudine ad affrontare l’isolamento, il terrorismo ed una estensione planetaria del bloqueo, che vedeva Europa e Canada distinguersi nel giorno del voto all’Onu ma allinearsi nella ostilità negli altri giorni dell’anno.

E se i tempi cambiano lentamente, le attitudini ci mettono ancora meno, visto che il sostegno dei cubani alla nuova fase delle relazioni tra Cuba e Usa è palpabile, pur con legittime perplessità sul “come” e “quando”. Proseguono così con il vento a favore i colloqui tra gli staff delle due cancellerie, sebbene i riflessi interni dei rispettivi paesi vedono scenari decisamente diversi.

Se infatti per Cuba non esistono opposizioni interne alla linea del dialogo, non altrettanto si può dire per quanto riguarda gli USA. Ha destato scalpore che i repubblicani non si oppongano alla decisione della Casa Bianca di escludere Cuba dalla lista dei paesi che sponsorizzano il terrorismo. Ma non si tratta certo di un cambio di marcia, ovvero di riconoscere che Cuba non avrebbe mai dovuto far parte di quella lista; bensì della consapevolezza che la decisione di Obama è nelle prerogative presidenziali e né il Senato, né il Congresso - sebbene entrambi a maggioranza repubblicana - possono farci molto.

Lo scontro è rimandato a quando Obama deciderà di far portare in aula la legge che abolirà l’embargo. Quaranta congressisti hanno già pronto un progetto di legge ad hoc: è lì che la lobby anticubana, presente tra i repubblicani come tra i democratici, proverà ad impedire quello che sarebbe davvero l’atto di nascita del disgelo.

Il successo del dialogo dipenderà anche dai tempi nei quali il processo di normalizzazione avverrà. Obama infatti ha solo un anno e mezzo alla Casa Bianca e in questo senso i colloqui preparatori non potranno dilatare all’infinito il preambolo della riapertura delle relazioni diplomatiche. Lo stesso Raul da parte sua, pur ricordando che “i tempi non saranno brevi”, avrebbe interesse ad accellerare: non solo ogni giorno in più con il blocco costa sacrifici importanti all’isola, ma tra un anno ci sarà il Congresso del PCC dove confermerà il ritiro già annunciato ed è ovvio che aggiungerebbe un valore esemplare farlo dopo aver ottenuto il risultato storico della fine del blocco.

Ma nonostante la reciproca buona volontà dei negoziatori, le questioni sul tavolo non sono né poche né semplici. Riconoscersi diplomaticamente tra i due paesi non implica per gli USA anche il riconoscimento dell’identità politica cubana, che è il vero tema che si muove sullo sfondo dei negoziati.

Cuba intende comunque il dialogo sulla base di reciprocità e parità di condizioni. Immigrazione, integrità territoriale (Guantanamo), fine delle attività sovversive sull’isola, Ley de Adjuste cubano, sicurezza comune, verranno discusse nel rispetto della reciproca sovranità politica.

D’altra parte lo stesso Obama non può apparire solo come colui che concede e questo la scaltra diplomazia cubana lo sa perfettamente, in questo senso si dovranno trovare elementi di comune interesse a sancire una trattativa reciprocamente soddisfacente.

Non sarà impossibile. Cuba è conscia di come alcuni temi servano a Obama tanto quanto a Raul. Il ritiro USA da Guantanamo, la cui chiusura era una promessa elettorale di Obama, oggi potrebbe essere offerta tanto a Castro come prova di buona volontà quanto agli americani come prova di realizzazione di quanto promesso. Gli USA potranno rimuovere le norme USA che rendono i cubani benvenuti solo se illegali, mentre tutti gli altri finiscono in galera.

L’abolizione delle norma del piè mojado (quella per cui un cubano uscito illegalmente dall’isola viene dotato di residenza per il solo fatto di calpestare il territorio statunitense) è stato uno dei più fiorenti business dei pescecani di Miami e la sua eliminazione avrebbe dei riflessi inevitabili proprio sulle organizzazioni terroristiche che ancora operano indisturbate in Florida. Le condizioni per farlo ci sono: la composizione dell’emigrazione cubana è cambiata, non è più quella della seconda metà del secolo scorso. Oggi la stessa popolazione cubano americana della Florida emigrata negli ultimi 20 anni, vuole una normalità nelle relazioni che consenta viaggi e invii delle rimesse in denaro più semplici e rapidi.

Nello stesso tempo gli Stati Uniti sanno perfettamente che seppure a Cuba non potranno mai chiedere di abbandonare il Venezuela e gli altri paesi latinoamericani verso i quali L’Avana ha sempre sostenuto un ruolo di riferimento, Raul potrebbe però aprire un binario parallelo che favorisca gli investimenti statunitensi in un paese dove struttura industriale e commercio vanno decisamente reinventati. Aprire la strada alle major statunitensi in un nuovo mercato e cominciare ad interrompere l’incessante afflusso di capitali cinesi e russi in America Latina sarebbe un risultato molto importante per il presidente USA.

Certo, Cuba muoverà su questa scacchiera le pedine che considera più convenienti, ma in quest’ambito i due paesi possono trovare convenienze importanti reciproche.

A riprova di ciò, i cantieri proliferano. Si aprono nuovi hotel, si riparano strade e si ampliano aeroporti in previsione dell'ondata di turismo proveniente dagli Usa, destinato a raddoppiare in poco tempo i milioni di turisti del resto del mondo che annualmente visitano l’isola.

A disegnare quella che più che un epoca di cambi sembra voler disegnare un autentico cambio d'epoca, arrivano i traghetti passeggeri provenienti dagli USA, che attraccano ormai anche nel porto dell’Avana. Dalla Florida a Cuba si va in aereo o in traghetto: niente più balseros, niente più vittime, niente più politicanti che ci speculavano sopra. Agli squali di mare e a quelli di Miami non resta che la delusione per i tempi che furono.





di Michele Paris

La crisi politica che sta attraversando la Macedonia dall’inizio dell’anno ha fatto segnare una drammatica accelerazione in questi ultimi giorni con un violento scontro armato in una delle più importanti città del paese balcanico. Parallelamente, il panorama politico domestico continua a essere turbato dagli attacchi dell’opposizione al governo conservatore del primo ministro, Nikola Gruevsky, scosso martedì dalle dimissioni di due importanti ministri.

A partire dal mese di febbraio, il leader dell’Unione Socialdemocratica (SDSM), Zoran Zaev, ha inziato a rendere pubbliche una serie di intercettazioni di conversazioni di esponenti del governo che dimostrerebbero varie illegalità commesse dagli uomini al potere, da brogli elettorali alla manipolazione del sistema giudiziario.

Zaev continua inoltre ad accusare il premier di avere attuato una svolta autoritaria, con piani, tra l’altro, per mettere sotto controllo la stampa e sorvegliare le comunicazioni di decine di migliaia di persone.

In particolare, una delle intercettazioni diffuse dal leader socialdemocratico aveva scatenato settimana scorsa una manifestazione di protesta nella capitale, Skopje. I dimostranti si erano mobilitati per contestare il governo dopo che erano emerse le manovre delle autorità per insabbiare le indagini sulla morte nel 2011 di un 22enne dopo le percosse subite da un agente di polizia.

Al centro delle critiche dell’opposizione vi erano soprattutto il ministro dell’Interno, Gordana Jankulovska, quello dei Trasporti, Mile Janakieski, e il numero uno dell’intelligence macedone, nonché cugino del primo ministro, Saso Mijalkov. Martedì, tutti e tre hanno rassegnato le proprie dimissioni, prontamente accettate da Gruevsky, nel tentativo di allentare le pressioni sul governo.

La mossa non ha però soddisfatto l’opposizione socialdemocratica, la quale chiede le dimissioni dello stesso Gruevsky e dell’intero gabinetto, mentre Zaev ha indetto una nuova manifestazione di protesta per domenica prossima.

Se le tensioni interne alla Macedonia sono almeno in parte causate da una precaria situazione economica e sociale e da un diffuso malcontento verso il governo, sono in molti a sospettare che dietro la campagna di Zaev e del suo partito ci siano le mire di alcuni paesi occidentali interessati a destabilizzare il paese.

Governi stranieri starebbero cioè impiegando i consueti metodi che negli anni scorsi hanno portato al lancio delle cosiddette “Rivoluzioni Colorate” in vari paesi dell’est europeo, appoggiando politici di opposizione e organizzazioni della società civile nello sforzo di capitalizzare l’ostilità nei confronti dei partiti al potere, così da dare una copertura democratica a veri e propri colpi di stato.

A questo scenario ha fatto riferimento il primo ministro Gruevsky quando ha sostenuto, quasi certamente in maniera corretta, che le intercettazioni diffuse da Zaev provengono da agenzie di intelligence straniere, coinvolte con lo stesso leader socialdemocratico in un complotto per deporre il suo governo. Recentemente, Zaev è stato incriminato con l’accusa di avere commesso atti di “violenza contro i rappresentanti delle più alte autorità” del paese.

I tentativi di colpire Gruevsky dipendono in larga misura dalle relazioni cordiali mantenute dal suo governo con la Russia, apparse più che evidenti dal rifiuto ad appoggiare le sanzioni USA/UE applicate contro Mosca per la questione Ucraina e dalla disponiblità a ospitare sul territorio macedone una parte del nuovo gasdotto progettato dal Cremlino in sostituzione del defunto “South Stream” che avrebbe dovuto originariamente attraversare la vicina Bulgaria.

Quest’ultima vicenda chiarisce l’importanza della Macedonia per gli obiettivi strategici degli Stati Uniti, intenzionati a boicottare la partnership energetica tra Russia e Unione Europea. Il nuovo gasdotto russo dovrebbe essere dirottato dal Mar Nero verso la Turchia e, da qui, alla Grecia fino ad un terminale in Serbia – passando appunto per la Macedonia – prima di raggiungere l’Europa occidentale.

Come ha spiegato qualche giorno fa un’analisi apparsa sull’agenzia di stampa ufficiale russa Sputniknews, “se la Macedonia dovesse finire nel caos o se il suo governo venisse deposto illegalmente, il gasdotto balcanico resterebbe un sogno”.

Per ottenere questo e altri obiettivi potrebbero essere state messe in atto non solo le provocazioni che stanno vedendo protagonista Zoran Zaev ma anche azioni violente. Lo scorso fine settimana, le forze di polizia macedoni hanno infatti dovuto fronteggiare nella città di Kumanovo un’incursione di un gruppo armato facente parte di una milizia albanese teoricamente dissolta parecchi anni fa, l’Esercito di Liberazione Nazionale (OHA), strettamente legata all’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), ovvero uno degli strumenti utilizzati dagli Stati Uniti per avanzare i propri interessi nei Balcani.

Negli scontri hanno perso la vita 14 guerriglieri e 8 agenti delle forze di sicurezza macedoni. Dei 30 arrestati e incriminati per terrorismo, 18 erano kosovari, 11 cittadini della Macedonia e un albanese residente in Germania.

Nei giorni successivi agli incidenti, la stampa internazionale ha spiegato che quanto è accaduto a Kumanovo rischia di inasprire i conflitti interetnici in un paese dove un quarto della popolazione è albanese. La Macedonia era stata sull’orlo della guerra civile nel 2001, quando l’OHA aveva dato vita a un’insurrezione armata per chiedere maggiori diritti per la minoranza albanese.

Dopo mesi di scontri, con la mediazione dell’Occidente era stato trovato un accordo tra il governo e i ribelli, con questi ultimi che avevano deposto le armi in cambio di importanti concessioni. Grazie all’accordo di Ohrid, sottoscritto nell’agosto del 2001, era stata riconosciuta l’esistenza di un’etnia albanese all’interno di uno stato unitario macedone. I contenuti dell’intesa garantivano ampia autonomia alla minoranza albanese e alcuni mesi dopo sarebbero stati incorporati nella stessa costituzione macedone.

Secondo alcuni commentatori, le garanzie fissate nell’accordo di Ohrid sarebbero alla base del rifiuto dei due principali partiti albanesi di opposizione di appoggiare la campagna anti-governativa di Zaev. Lo stesso ex leader dell’OHA, Ali Ahmeti, ora membro della coalizione di governo a Skopje ha invitato gli albanesi di Macedonia ad adoperarsi per risolvere la crisi “all’interno dell’accordo di Ohrid”.

Nondimeno, l’iniziativa dei miliziani albanesi a Kumanovo solleva parecchie preoccupazioni per la stabilità del paese della ex Yugoslavia e, assieme alle trame orchestrate dall’opposizione socialdemocratica, lascia intendere che siano in atto manovre dirette dall’estero per giungere a un cambio di regime.

L’inquietante ritorno all’azione dell’OHA e dell’UCK sembra essere calibrato per incoraggiare i sentimenti irredentisti della minoranza albanese, alimentati anche da recenti dichiarazioni del governo di Tirana per auspicare una futura unione con il Kosovo all’interno di un progetto per una “Grande Albania”.

L’Occidente, a sua volta, sta facendo la propria parte nell’esercitare pressioni sul governo di Gruevsky. Gli ambasciatori a Skopje di Stati Uniti, Unione Europea, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia hanno ad esempio rilasciato una dichiarazione congiunta che condanna il governo macedone per non avere indagato sullo scandalo delle intercettazioni rivelate da Zaev, sollevando così “seri dubbi sull’impegno per i principi democratici e i valori della comunità Euro-Atlantica”.

L’assenza di progressi in questo senso, continua il comunicato, potrebbe mettere a rischio gli sforzi della Macedonia per entrare nella NATO e nell’Unione Europea.

La presa di posizione più dura è stata presa finora dal vice-presidente del Parlamento Europeo, Alexander Lambsdorff, il quale ha indicato apertamente il percorso da seguire in Macedonia verso quello che potrebbe essere l’ennesimo golpe promosso dall’Occidente dietro le apparenze di un processo di transizione democratica.

Senza mezzi termini, il politico del Partito Liberale Democratico tedesco ha affermato che il primo ministro “Gruevsky deve dimettersi”, poiché è diventato “un ostacolo all’allentamento delle tensioni interetniche”, provocate peraltro in gran parte da agenti dell’Occidente. Nuove elezioni dovranno essere dunque indette, “nel rispetto delle appropriate condizioni democratiche”, con l’obiettivo di installare un nuovo governo che, senza equivoci, prenda finalmente le distanze da Mosca.

di Michele Paris

Nei giorni successivi all’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan il 2 maggio del 2011, la Casa Bianca si era trasformata in una macchina di menzogne da distribuire all’opinione pubblica internazionale al fine di creare una versione accettabile dell’operazione che aveva portato alla morte del leader e fondatore di al-Qaeda. Questa è la conclusione a cui giunge l’ultima esplosiva rivelazione dell’autorevole giornalista investigativo americano, Seymour Hersh, pubblicata in questi giorni dalla London Review of Books.

Il resoconto del raid delle Forze Speciali USA in un edificio della città di Abbottabad proposto dall’amministrazione Obama, sostiene il noto reporter, “potrebbe essere stato scritto da Lewis Carroll”, l’autore di Alice nel Paese delle Meraviglie, vista la quantità di notizie fabbricate ad arte presenti in esso per nascondere la verità dei fatti.

Hersh ha prodotto una lunghissima e dettagliata indagine, uscita significativamente su una rivista letteraria in Gran Bretagna, basandosi sulle testimonianze di fonti anonime e non solo, sia negli Stati Uniti che in Pakistan, tra cui un membro in pensione dell’intelligence americana a conoscenza dei fatti relativi alla preparazione e all’esecuzione dell’operazione conclusasi con la morte di bin Laden.

Per cominciare, Washington aveva sempre assicurato che i vertici militari e dei servizi segreti pakistani non erano al corrente del raid condotto dalle Forze Speciali USA e che erano stati informati solo al termine del blitz. Hersh dimostra al contrario che l’operazione non solo era stata concordata con i due più importanti ufficiali militari pakistani - i generali Ashfaq Pervez Kayani e Ahmed Shuja Pasha, allora rispettivamente capo di stato maggiore dell’esercito e direttore generale della potente agenzia di intelligence ISI (Inter-Services Intelligence) - ma che bin Laden era di fatto prigioniero di Islamabad e che a consegnarlo agli americani era stato un agente segreto del paese centro-asiatico.

La ricostruzione di Hersh è stata sostanzialmente confermata dall’ex generale pakistano Asad Durrani, capo dell’ISI nei primi anni Novanta e inizia con la visita all’ambasciata americana di Islamabad di un ex agente della stessa agenzia di intelligence nell’agosto del 2010.

Quest’ultimo aveva approcciato il numero uno della CIA in Pakistan, Jonathan Bank, proponendogli di rivelare la località in cui si trovava Osama bin Laden in cambio del pagamento della taglia da 25 milioni di dollari messa sulla sua testa dal governo USA dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Accolto con un qualche scetticismo, l’agente pakistano superò il test della macchina della verità e di lì a poco la CIA si sarebbe messa in moto per far fronte ai principali ostacoli all’eliminazione del terrorista saudita, cioè tenere all’oscuro il più a lungo possibile le autorità pakistane e raccogliere prove sulla “qualità dell’informazione” ottenuta.

La CIA aveva allora affittato un’abitazione ad Abbottabad per sorvegliare l’edificio dove viveva bin Laden. Nel mese di ottobre, poi, l’informazione venne comunicata al presidente Obama, il quale, oltre a rimanere sbalordito del fatto che bin Laden si trovasse in Pakistan, chiese alla CIA di raccogliere prove incontrovertibili sulla sua identità.

Per la CIA e il comando delle Operazioni Speciali si rendeva dunque necessario ottenere il DNA di bin Laden, così da avere un riconoscimento certo, e preparare le condizioni per progettare un’incursione senza rischi. Entrambi gli obiettivi avrebbero potuto essere raggiunti solo con la collaborazione dei generali pakistani Kayani e Pasha e delle istituzioni da essi guidate.

D’altra parte, l’agente segreto pakistano che si era presentato all’ambasciata USA aveva rivelato che l’abitazione di bin Laden ad Abbottabad era sotto il controllo dell’ISI. Il leader di al-Qaeda era stato trasferito qui nel 2006 dopo essere stato catturato, grazie alla collaborazione di tribù locali, sulle montagne dell’Hindu Kush, tra l’Afghanistan e il Pakistan, dove aveva vissuto fin dal 2001 con alcune delle sue mogli e svariati figli.

La tesi, sostenuta dal governo americano, che bin Laden avesse vissuto per anni senza essere notato dall’intelligence o dai militari pakistani in una località come Abbottabad aveva da subito suscitato molte perplessità, visto che a circa tre chilometri da quella che era la sua abitazione si trova un’Accademia Militare, a meno di due chilometri il quartier generale di un battagione dell’esercito e a 15 minuti di elicottero la base di Tarbela Ghazi dell’ISI.

Alla CIA venne inoltre rivelato che bin Laden era seriamente malato e fin dall’inizio del suo confino ad Abbottabad l’intelligence pakistana aveva ordinato a un medico dell’esercito, Amir Aziz, di trasferirsi in questa città per assistere il prezioso “ospite”.

Nel frattempo, gli USA non avevano dovuto faticare troppo per convincere le autorità pakistane a collaborare, visto che a Islamabad premeva continuare a ricevere gli aiuti militari tradizionalmente stanziati da Washington e sospesi proprio in quel frangente. Secondo la fonte di Hersh, la CIA era ricorsa anche a qualche “piccolo ricatto”, minacciando Islamabad della possibilità di far sapere ai Talebani e ai gruppi jihadisti attivi nella regione che il Pakistan teneva prigioniero il loro leader.

Qualche complicazione poteva tuttavia presentarsi relativamente alla posizione dell’Arabia Saudita, il cui regime stava finanziando il mantenimento ad Abbottabad del cittadino del regno bin Laden. Riyadh non desiderava infatti che la sua presenza in Pakistan fosse resa nota, soprattutto agli americani, per il timore che Washington avesse potuto spingere sui pakistani per conoscere i legami oscuri tra al-Qaeda e l’Arabia Saudita.

In ogni caso, il Pakistan aveva ormai accettato di collaborare con gli Stati Uniti. Il medico assegnato a bin Laden venne così incaricato di raccogliere campioni del suo DNA in cambio di una parte della già ricordata taglia da 25 milioni offerta dagli USA. In seguito, per non bruciare la copertura del dottor Aziz, gli USA avrebbero sacrificato un altro medico pakistano, Shakil Afridi, indicato pubblicamente come il responsabile del reperimento del DNA di bin Laden durante una campagna di vaccinazioni. Afridi, successivamente arrestato dalle autorità pakistante, era in realtà un informatore occasionale della CIA ma non aveva partecipato all’operazione bin Laden.

Hersh racconta degli scrupoli dell’amministrazione Obama prima di dare l’approvazione al raid per eliminare bin Laden, dal momento che un eventuale fallimento avrebbe potuto scatenare forti polemiche che si sarebbero trascinate fino alle successive elezioni, compromettendo le possibilità del presidente democratico di essere riconfermato alla Casa Bianca.

Alla fine di gennaio del 2011 tra Washington e Islamabad venne finalmente raggiunto l’accordo sulle modalità dell’operazione da lanciare ad Abbottabad. Il capo di stato maggiore pakistano, generale Kayani, aveva richiesto che il raid fosse condotto da un team di pochi uomini e, soprattutto, che si concludesse con la morte di bin Laden.

A questo punto, il comando delle Forze Speciali americane presentò una lunga lista di domande ai vertici dell’ISI, in modo da conoscere nel dettaglio la situazione logistica che si sarebbe presentata ai propri uomini una volta entrati nell’abitazione di bin Laden. In un vecchio sito utilizzato per i test nucleari nel Nevada, addirittura, venne costruita una replica dell’edificio per consentire a una squadra scelta di “Seals” americani di esercitarsi prima del viaggio in Pakistan.

I militari e l’intelligence del Pakistan si impegnarono così a consentire il libero accesso dei velivoli americani addetti alla missione di morte ad Abbottabad, mentre una cellula di agenti USA si sarebbe occupata delle comunicazioni tra l’ISI, i comandanti statunitensi in Afghanistan e la squadra delle Forze Speciali incaricata del blitz.

L’accordo iniziale tra Stati Uniti e Pakistan prevedeva che l’operazione fosse tenuta segreta per almeno una settimana, dopodiché sarebbe stata diffusa una versione fabbricata ad arte per il pubblico. Obama avrebbe cioè annunciato che bin Laden era stato ucciso da un drone americano in una località sul versante afgano delle montagne dell’Hindu Kush. Ai generali Kayani e Pasha era stato poi assicurato che il loro contributo sarebbe rimasto segreto, anche per evitare lo scatenarsi di proteste in Pakistan, dove molti consideravano bin Laden un eroe.

Sia per i pakistani che per gli americani, l’operazione doveva necessariamente portare all’assassinio del numero uno di al-Qaeda. Per i primi, il fatto che gli USA fossero ormai a conoscenza della sua presenza nel paese rappresentava un rischio, mentre a Washington vi era verosimilmente molta preoccupazione per eventuali rivelazioni che il loro principale nemico avrebbe potuto fare riguardo gli intrecci tra la politica estera di Washington e la sua organizzazione fondamentalista.

Quello andato in scena il 2 maggio ad Abbottabad fu perciò “chiaramente e inequivocabilmente un omicidio premeditato”, nascosto dalla ricostruzione della Casa Bianca dei frangenti seguiti all’irruzione delle Forze Speciali nell’abitazione di bin Laden. Ufficialmente, quest’ultimo avrebbe dovuto essere catturato vivo se si fosse arreso in maniera tempestiva ma, secondo la versione ufficiale, era stato alla fine ucciso perché aveva opposto resistenza e cercato di raggiungere un’arma per combattere i soldati americani.

L’ISI aveva dunque preparato accuratamente l’arrivo delle Forze Speciali USA ad Abbottabad, garantendo ad esempio il black-out elettrico nella città e l’assenza totale di guardie a sorveglianza dell’edificio. Un’agente di collegamento dell’ISI guidò poi i “Seals” americani all’interno, fino al terzo piano dove, indisturbati, raggiunsero la stanza di bin Laden. Qui, due soldati spararono a ripetizione contro un uomo totalmente indifeso e, al contrario di quanto avrebbe successivamente sostenuto l’amministrazione Obama, senza che ci fosse stata alcuna sparatoria o che altre persone fossero state uccise nell’abitazione.

L’indagine di Hersh smentirebbe anche un’altra menzogna del governo americano, quella relativa al presunto ritrovamento di computer e dispositivi digitali di archiviazione contenenti importanti informazioni su al-Qaeda e possibili trame terroristiche. I soldati americani raccolsero soltanto alcuni libri e documenti ritrovati nella stanza di bin Laden, il quale, a differenza di quanto dichiarato dal governo USA per convenienza politica e per giustificare l’operazione, in quanto prigioniero dei militari pakistani non poteva agire da comandante operativo dell’organizzazione terroristica da Abbottabad.

Al termine dell’operazione, all’interno della Casa Bianca iniziò un’accesa discussione circa l’opportunità di rivelare immediatamente l’accaduto, sia pure in maniera manipolata, o di attenersi agli accordi con i pakistani e attendere alcuni giorni.

Il presidente Obama insisteva per la prima opzione e questa scelta venne facilitata dallo schianto di uno degli elicotteri della squadra inviata ad assassinare bin Laden contro il perimetro esterno dell’edificio di Abbottabad. L’incidente aveva reso infatti più complicato lo sforzo di mantenere segreta l’operazione e far credere alla versione del drone.

Questa decisione fece infuriare le autorità pakistane e fu seguita da una ricostruzione ufficiale degli eventi messa assieme in maniera frettolosa, producendo una serie di contraddizioni che avrebbero suscitato non pochi dubbi sulla sua veridicità. La Casa Bianca, ad ogni modo, finì per basare la propria versione nuovamente su una serie di menzogne.

Oltre a quelle relative ai fatti avvenuti all’intero dell’abitazione di bin Laden e alla collaborazione delle autorità pakistane, Hersh ha smascherato anche le dichiarazioni fuorvianti circa le modalità con cui gli USA erano arrivati al leader di al-Qaeda e alla sorte riservata al suo cadavere.

Obama aveva sostenuto che a partire dall’agosto del 2010 l’intelligence americana stava seguendo indizi che portavano al presunto “corriere” di bin Laden e controllando i suoi spostamenti era stato possibile individuare l’abitazione di Abbottabad. Per confermare l’esistenza della fantomatica figura del “corriere”, la Casa Bianca avrebbe poi riferito che il suo cadavere era stato rinvenuto dopo la sparatoria all’interno dell’edificio di Abbottabad, nonostante l’unica vittima dell’operazione fosse appunto bin Laden.

Il corpo del terrorista più ricercato del pianeta sarebbe stato infine portato prima in una base militare americana a Jalalabad, in Afghanistan, e poi a bordo della nave da guerra “Carl Vinson” che si trovava nel Mare Arabico settentrionale. Dopo essere stato trattato secondo quanto previsto dalla religione islamica, il cadavere sarebbe stato “seppellito in mare”.

Secondo Hersh e la sua fonte, invece, le cose andarono diversamente. I resti gravemente dilaniati di bin Laden erano stati identificati e fotografati in Afghanistan e poi presi in consegna dalla CIA per essere gettati da un elicottero sulle montagne dell’Hindu Kush.

Le rivelazioni di Seymor Hersh sulla fine di Osama bin Laden confermano dunque ancora una volta come le dichiarazioni rilasciate dal governo americano e le notizie diffuse dalla stampa ufficiale debbano essere prese in ogni occasione quanto meno con le molle, se non come vere e proprie menzogne, soprattutto nei casi legati a questioni controverse o alla “sicurezza nazionale”.

Prevedibilmente, l’indagine di Hersh, poiché basata in buona parte su fonti anonime, è stata subito attaccata dall’amministrazione Obama e da molti giornali “mainstream”, molti dei quali operano da autentiche casse di risonanza della propaganda di Washington, spesso riportando “rivelazioni” utili al governo fornite da fonti anonime all’interno di esso.

Nonostante le critiche subite, Hersh vanta in fin dei conti una credibilità infinitamente superiore a quella dei giornali ufficiali sostanzialmente allineati alle posizioni del governo. L’accuratezza delle sue indagini è confermata da decenni di rivelazioni che hanno alzato il velo sui crimini dell’imperialismo a stelle e strisce, dal massacro di My Lai in Vietnam nel 1968 alle torture dei prigionieri iracheni ad Abu Ghraib nel 2004, fino alla più recente devastante smentita dell’uso di armi chimiche da parte del regime siriano, impiegate al contrario dai “ribelli” sostenuti dall’Occidente con l’aiuto del governo turco.

di Michele Paris

La pesantissima sconfitta patita dal Partito Laburista britannico nelle elezioni di giovedì scorso ha provocato le prevedibili dimissioni del suo leader, Ed Miliband, scatenando immediatamente la corsa alla successione. Per dare un’idea del livello del dibattito interno al partito cui la Gran Bretagna assisterà a breve, nei giorni successivi alla chiusura delle urne un coro di voci ha chiesto il ritorno ai valori “centristi” e alle strategie del “New Labour” di Tony Blair, visto che la punizione impartita dagli elettori sarebbe dovuta a un eccessivo spostamento a sinistra sotto la guida di Miliband.

Personalità profondamente screditate come lo stesso Blair hanno fatto ritorno sui media d’oltremanica per dare lezioni alla leadership laburista uscente sulla linea politica da tenere per risollevare il partito. L’ex premier e potenziale criminale di guerra ha fatto appello in prima persona alla necessità di “rioccupare il centro della politica britannica”, ovvero di fare del “Labour” un partito di destra non solo nel programma ma anche nella retorica, tornando così a promuovere un’agenda apertamente “pro-business” e i propositi di “riforma” (distruzione) del settore pubblico.

La stessa interpretazione del rovescio elettorale laburista è stata data da uno degli architetti del “New Labour”, l’ex ministro per le Attività Produttive, Peter Mandelson, secondo il quale il partito ha sbagliato nel presentarsi in campagna elettorale “a favore dei poveri” e contro i ricchi, “ignorando completamente quella vasta parte della popolazione che si trova nel mezzo”.

Il riferimento a una classe media trascurata nasconde in realtà un rimprovero per non avere corteggiato a sufficienza o non avere dato abbastanza rassicurazioni al business britannico circa l’affidabilità del Partito Laburista nel continuare il percorso intrapreso dai conservatori, anche di fronte a una forte opposizione popolare e alle crescenti tensioni sociali causate dalle politiche del governo.

L’elenco dei fautori del “New Labour” che hanno rialzato la testa in seguito al fallimento della dirigenza Miliband include molti nomi, da Alan Johnson a Ben Bradshaw fino all’ex Cancelliere dello Scacchiere (Ministro delle Finanze), Alistair Darling.

Per quest’ultimo, sarebbe stato un errore anche ripudiare l’esperienza dei 13 anni di governo di Blair e Gordon Brown, come ha fatto Miliband. Darling ha tralasciato però di ricordare come i laburisti furono sonoramente sconfitti anche nelle elezioni del 2010 sull’ondata di repulsione per le politiche ultra-liberiste e guerrafondaie dei due ex primi ministri che egli stesso vorrebbe ora rilanciare per il partito.

Questo punto di vista è stato adottato anche da uno dei presunti favoriti per la successione a Miliband, il 36enne di origine nigeriana Chuka Umunna, già osannato da parte della stampa britannica come “l’Obama laburista”. In un articolo firmato da egli stesso e apparso domenica sul Guardian, il ministro-ombra per le Attività Produttive ha affermato che il partito ha “parlato alla nostra base elettorale ma non all’ambiziosa classe media”, dando così l’impressione di “non essere dalla parte di coloro che se la stanno cavando bene”.

L’analisi della sconfitta fatta da Umunna rivela in maniera esemplare il processo di spostamento a destra attraversato dal Partito Laburista britannico. A differenza di quanto sostenuto dall’astro nascente del “Labour”, gli elettori hanno voltato le spalle al partito non perché troppo a sinistra, bensì precisamente per la virtuale indistinguibilità di esso dai conservatori, tanto più dopo il decennio a guida Tony Blair.

Il tentativo di Miliband di dare un’immagine di “sinistra” al suo partito nel pieno dell’orgia neo-liberista avanzata dal governo di coalizione conservatore-liberaldemocratico non ha convinto in nessun modo l’elettorato teoricamente di riferimento dei laburisti e ha prodotto un risultato ancora peggiore rispetto alle precedenti elezioni.

Gli sforzi per mascherare questa realtà sono significativamente evidenti nella ragione fornita per spiegare il dilagare del Partito Nazionale Scozzese (SNP) che in Scozia ha quasi completamente spazzato via i laburisti. Lo stesso Umunna, come la gran parte dei media e dei politici britannici, ha infatti attribuito questo fenomeno alla crescita di un sentimento nazionalista con “profonde radici culturali”.

Molto più semplicemente, l’SNP ha capitalizzato una campagna elettorale basata su un appello marcatamente anti-austerity, sia pure quasi esclusivamente retorico, al contrario di Miliband e i laburisti che si sono limitati tutt’al più a promettere un alleggerimento delle devastanti politiche anti-sociali dei “Tories”, pur impegnandosi a mantenere una condotta “responsabile” sulle questioni di bilancio.

I laburisti, in sostanza, hanno cercato di cavalcare in maniera decisamente limitata il malcontento verso il governo tra le classi più disagiate che hanno pagato le politiche di austerity di questi anni, pur mettendosi in competizione con i conservatori nel garantire la prosecuzione del rigore, in modo da ingraziarsi gli ambienti della City che, peraltro, hanno continuato a puntare su Cameron.

Le ragioni del rovescio decretato dalle urne per il “Labour” sono così sostanzialmente simili a quelle che hanno determinato la quasi estinzione politica del Partito Liberal Democratico britannico. I “Lib-Dem”, solitamenti accreditati di posizioni relativamente più a sinistra dei labursiti, hanno pagato a carissimo prezzo la partecipazione al governo guidato dai conservatori in questi cinque anni, vedendo ridotta la propria delegazione al parlamento di Londra a una manciata di deputati contro i 57 conquistati nel 2010.

Per quanto riguarda la successione a Ed Miliband, in ogni caso, i media britannici hanno snocciolato vari nomi di probabili candidati. Per il Daily Telegraph, ad esempio, oltre al già citato Chuka Umunna i favoriti sarebbero il ministro-ombra della Sanità, Andy Burnham, il ministro-ombra dell’Interno nonché moglie del trombato di lusso Ed Balls, Yvette Cooper, e Dan Jarvis, ex ufficiale delle forze speciali considerato come possibile opzione al di fuori dell’establishment tradizionale del partito. Alla competizione parteciperà inoltre anche Liz Kendall, 43enne ex ministro-ombra della Sanità e fedelissima di Tony Blair.

In aggiunta, scrive sempre il Telegraph, ci potrebbero essere svariati altri candidati con pochissime chances di successo ma che parteciparanno alla corsa per la guida del partito solo per mettersi in luce e ottenere uno degli incarichi nel governo-ombra una volta insediata la nuova leadership.

Al di là delle posizioni propagandate dagli aspiranti leader laburisti, l’esito della sfida interna che sta per prendere il via risulterà con ogni probabilità in un ulteriore spostamento a destra del baricentro del partito e, di conseguenza, anche del panorama politico britannico.

Ciò sembra essere confermato dalle intenzioni di uno dei favoriti, Andy Burnham, 45enne con origini nella “working-class” dei sobborghi di Liverpool. Burnham è considerato tra gli esponenti della “sinistra” laburista, tuttavia, secondo i suoi alleati nel partito, la sua campagna per la leadership si baserà su un’agenda “inclusiva”, cioè su un appello al business in pieno stile “New Labour”.

I tempi per il procedimento che porterà alla sostituzione del dimissinario Miliband e della sua vice, Harriet Harman, verranno decisi dal Comitato Nazionale Esecutivo del partito che prevede di riunirsi già all’inizio della prossima settimana.

di Fabrizio Casari

E' stata una parata militare imponente quella che Vladimir Putin ha messo in scena sulla Piazza Rossa di Mosca nel 70esimo anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica sul nazifascismo. Alla presenza dei presidenti di Cina, India, Sudafrica, Cuba, Venezuela e di altri 30 dei 68 invitati, 15mila soldati russi, 1.300 militari stranieri, circa 200 mezzi corazzati e 143 tra aerei ed elicotteri, sono stati i protagonisti di quella che, a ragione, può essere chiamata come una dimostrazione di forza.

Una scenografia sottolineata da toni patriottici del'oggi appena mascherati dall’enfasi di una memoria che la Russia non intende abdicare sull’altare della fine dell’allora Unione Sovietica. Difficile del resto dargli torto nel voler rimarcare di fronte al mondo il credito di cui vanta per la vittoria sul nazifascismo; una vittoria ottenuta al prezzo di 27 milioni di morti e città distrutte, di sacrifici immensi da parte della popolazione.

Per i deboli in storia va riordato che l più emblematico di questi sacrifici - e allo stesso tempo quello fondamentale - fu la resistenza eroica di Stalingrado, dove dopo diciotto mesi di assedio della sesta armata della Wermacht affiancata dall’esercito italiano, ungherese e romeno, l’Armata Rossa riuscì a liberare la città e a dare così il via alla controffensiva  che portò due anni dopo alla conquista di Berlino e alla resa incondizionata dei gerarchi nazisti con la bandiera sovietica sventolante sul tetto del Reichstag. Seppure la storiografia ufficiale narra solo di statunitensi liberatori, è bene sapere che dal punto di vista militare senza l’Unione Sovietica e i suoi 27 milioni di morti, oggi la storia racconterebbe ben altre vicende e la democrazia di cui l’Occidente si fregia sarebbe forse un’ipotesi scolastica da coltivare in elaborati clandestini.

A far da contraltare alle celebrazioni, è spiccata l’assenza di tutti i governi occidentali più importanti alla parata, riflesso pavloviano delle sanzioni contro la Russia, prodotto della politica ostile di Stati Uniti ed Europa. Le diplomazie europee e statunitensi affermano trattarsi di una presa di posizione determinata dalla vicenda ucraina e di quanto avvenuto in Crimea, ma se così fosse l'assenza alla parata militare sarebbe stata comunque superata da un alto livello nel resto delle celebrazioni, mentre invece pare che sarà solo la Cancelliera Angela Merkel a rappresentare il suo paese ai livelli più alti.

Eppure, la vittoria sul nazifascismo ed il ruolo sostenuto dall'Unione Sovietica meriterebbe il riconoscimento di tutti i paesi che combatterono l'orrore hitleriano e mussoliniano e l'occasione era propizia per inviare un messaggio di disponibilità all'ascolto. Niente da fare, Stati Uniti ed Europa preferiscono continuare sulla strada del confronto a mascelle serrate. I primi ci guadagnano, i secondi pagano ma, come ogni intendenza, seguono.

La sfilata russa è stata preparata con il maggior sfoggio di potenza bellica di questi ultimi anni. E' un chiaro messaggio di Putin rivolto agli Stranamore del Pentagono, che ritengono di poter continuare ad intruppare basi, uomini e batterie missilistiche ogni volta più vicini al territorio russo, così come stimolano il riarmo nazionalista giapponese e continuano a minacciare Pechino nel Mar della Cina.

A questo proposito la sfilata militare ha avuto come principale motivo d’interesse proprio la riaffermazione pubblica dell’asse Mosca-Pechino-Nuova Delhi, che tanto sul piano militare quanto su quello economico e finanziario, mette davvero in discussione il primato mondiale dell’Occidente a guida statunitense.

Le immagini di Putin e Xi Jinping (con cui Mosca ha formato un’asse strategica economica e miitare) con al loro fianco il premier indiano Pranab Mukherjee (che ha con la Cina una partnership importante), indicano la volontà di relazionarsi unitariamente con Stati Uniti ed Europa ed esprimono un’idea di sviluppo e di governance planetaria multipolare che interrompe l’unipolarismo statunitense, rivendicando un ruolo strategico.

Miliardi di persone, risorse strategiche e territori immensi sostenuti da imponenti arsenali militari non potevano, del resto, rimanere dei nani politici e militari subordinati alla leadership statunitense, peraltro in profonda crisi.

Con questa nuova realtà, con questo nuovo approccio strategico per la governance globale, si dovrebbe costruire un dialogo fondato sull’integrazione reciproca e la suddivisione delle responsabilità, ma ad oggi la sfida militare e l’aggressione politica sembrano essere le scelte che un Occidente privo di vision globale mette in campo, con la speranza di poter continuare a perpetrare un comando che né le sue condizioni economiche, né quelle militari sembrano in grado di confermare.

Teatri di guerra in Medio Oriente, in Africa, in Asia, terrorismo internazionale e crisi economiche europee; migrazioni di massa e redistribuzione delle risorse energetiche ed alimentari; accesso all’acqua e salvaguardia ambientale sono alcuni dei temi sui quali il dialogo e la condivisione di analisi e soluzioni andrebbero ricercati proprio da Washington e Bruxelles, dal momento che anche Mosca, Pechino e Nuova Delhi hanno tutto l’interesse alla costruzione di un clima internazionale concertato ed inclusivo. Russia, Cina e India chiedono a chiare lettere un ruolo primario nello scacchiere globale, fatto anche di condivisione nella gestione del pianeta, di attenzione agli interessi strategici ed ai processi di consolidamento della loro crescita.

Ma l'allargamento dell'area di governo planetario viene visto come una minaccia agli interessi occidentali. Si costruiscono vere e proprie aggressioni alle sfere d'influenza e si vìolano accordi firmati, per poi, dopo l'inevitabile reazione, imporre sanzioni. Piuttosto che cercare un terreno possibile di partnership si preferisce destabilizzare il Medio Oriente e l’Europa dell’Est, elaborare progetti di colpi di stato nei confronti dei paesi che non si allineano ai voleri di Washington e realizzare operazioni di assalto alle loro riserve finanziarie.

Si sceglie di affrontare il dramma epocale delle migrazioni di massa con politiche repressive e la necessità di una migliore e diversa distribuzione delle risorse energetiche viene gestita con manovre politiche e speculative nel tentativo d’indebolire e piegare i paesi produttori di petrolio che sfuggono agli ordini della Casa Bianca.

Vista l'inutilità, se non addirittura il suo essere controproducente delle politiche di sanzioni ed embarghi, per USA, GB e Francia partecipare alla celebrazione di Mosca poteva essere un'occasione per passare dalle minacce alla riapertura di un dialogo. In questo senso l’assenza di Stati Uniti ed Europa alla parata militare risulta più un gesto di stizza che non una linea di lungimiranza politica.

Putin, come del resto Xi e Mukherjee, davvero non possono essere additati ad esempio per un modello di democrazia partecipativa, elemento d’altra parte che certo non figura tra le caratteristiche di USA ed Europa.

Ma Russia, Cina ed India sono paesi che non possono essere confinati nell’angolo dell’assenso dovuto. Men che mai per confermare, in spregio alla realtà, un mondo con al comando chi declina e all’obbedienza chi emerge.



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