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di Antonio Rei
Che un politico (davvero) di sinistra abbia voglia di governare, in Europa, è raro. Che addirittura ci riesca è un avvenimento eccezionale. Che ce la faccia scegliendo di sottoporsi per tre volte in otto mesi al voto del popolo, uscendone sempre vincitore, è quasi fantascienza. Eppure è esattamente quello che è accaduto in Grecia, dove domenica scorsa Alexis Tsipras ha ottenuto il secondo mandato consecutivo con una maggioranza schiacciante. A Syriza è andato il 35,54% dei voti, pari a 145 seggi, che, sommati ai 10 dei nazionalisti di Anel (al 3,68%), consentiranno di ricreare la stessa maggioranza del precedente governo.
Il testa a testa venduto per settimane dai giornali di mezza Europa si è rivelato un bluff: i conservatori di Nea Demokratia si sono fermati al 28,11% delle preferenze (75 seggi), seguiti dai neonazisti di Alba Dorata con il 7,09% (19 seggi). Risultati deludenti per gli altri partiti: i socialisti del Pasok non sono andati oltre il 6,42% (pari a 17 seggi), mentre i comunisti del Kke hanno ottenuto il 5,48% (15 seggi) e i centristi di To Potami il 3,93% (10 seggi). Risultato disastroso per Unità Popolare, formata dai fuoriusciti massimalisti di Syriza, che sono rimasti sotto la soglia di sbarramento del 3% e perciò non hanno accesso al Parlamento. Molto alto l'astensionismo, attorno al 45%.
“E' stata una vittoria del popolo - ha commentato Tsipras - ora inizia la battaglia per cambiare i rapporti di forza in Europa. Syriza ha mostrato di essere troppo dura per morire, anche se era stata presa di mira da tanti. Abbiamo molte difficoltà davanti ma anche una base solida e prospettive. Questo è un mandato per liberarci di tutte le cose che ci tengono fermi al passato”.
Quella ottenuta da Syriza (che pur cedendo il 2,8 ai dissidenti usciti ha perso meno dell'1% rispetto al voto di gennaio) è sostanzialmente una conferma da parte dell'elettorato. I greci hanno dimostrato di aver compreso gli sforzi di Tsipras, che con il Memorandum siglato ad agosto ha ottenuto il miglior risultato possibile nel contesto, attraverso la strada del realismo politico. Era questa l'unica via praticabile per continuare a combattere senza condannare il Paese all'apocalisse economica minacciata dalla Germania (e in quel caso non si trattava di un bluff: Berlino avrebbe accettato qualsiasi esito pur di non ammettere la vittoria del fronte greco anti-austerità).
Ora Syriza è chiamata a lottare per mitigare le conseguenze del nuovo Memorandum e al tempo stesso dovrà rappresentare il primo punto di riferimento per gli europei in cerca di un'alternativa al neoliberismo di Bruxelles. E' una responsabilità enorme che Tsipras si assume con coraggio, dimostrando alla destra come alla sinistra che è possibile opporsi alle lobby politico-finanziarie senza per questo condannarsi alla marginalità politica.
Di questa lezione dovrebbero fare tesoro gli esponenti della cosiddetta sinistra radicale, a cominciare dagli ex massimalisti d Syriza, che hanno preferito formare un partito di nicchia e ripiombare nella totale irrilevanza extraparlamentare pur di non fare i conti con la realtà. Non c'è dubbio che centinaia di anime belle continueranno ad attaccare Tsipras, accusandolo di essersi arreso ai creditori.
Come al solito, si tratta di una posizione troppo comoda: lamentarsi e protestare ha senso soltanto se si è in grado di proporre un'alternativa praticabile, e predicare l'uscita prima dall'Eurozona e poi dall'Unione europea non rientra in questo campo. Solo chi non ha mai avuto responsabilità di carattere generale - e si impegna per non averne mai - può rimproverare a Tsipras di non aver mandato in bancarotta la Grecia.
Dall'altro lato della barricata ci sono i politicanti di Bruxelles. Il risultato delle elezioni di domenica ha deluso anche loro, perché ha prodotto la stessa maggioranza che ha retto il governo di Atene negli ultimi mesi. Le speranze dei creditori, com'è ovvio, erano di tutt'altro segno.
Forse nemmeno loro credevano in una vittoria di Nea Demokratia, ma certamente avrebbero preferito un governo di grande coalizione che imbrigliasse Syriza, azzerandone i margini di manovra. Se il Pasok o To Potami fossero entrati a far parte della maggioranza, la coesione dell'Esecutivo sulla politica economica sarebbe stata assai precaria e Atene si sarebbe ridotta probabilmente ad eseguire senza discutere ogni direttiva impartita da Bruxelles.
Così non è andata e oggi Tsipras è pienamente legittimato a riprendere il lento stillicidio dei negoziati. A cominciare da quelli sul debito pubblico greco, che prima o poi (più poi che prima) dovrà tornare ad essere sostenibile. Quindi rinegoziabile.
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di Michele Paris
Con l’approvazione da parte della camera alta del parlamento giapponese (Dieta) nel fine settimana, un nuovo pacchetto di misure di impronta militarista volute dal governo ultra-conservatore del primo ministro, Shinzo Abe, è diventato definitivamente legge nel paese dell’Estremo Oriente. L’iniziativa fa seguito alla “reinterpretazione” della Costituzione marcatamente pacifista del Giappone e, in sostanza, consentirà alle forze armate - o, ufficialmente, di “auto-difesa” - di perseguire più liberamente gli interessi della classe dirigente nipponica all’estero e di partecipare alle iniziative militari promosse dagli Stati Uniti.
Abe ha spinto fortemente per le nuove leggi nonostante la profonda opposizione manifestata dalla grande maggioranza della popolazione del suo paese. Il trucco della “reinterpretazione” era stato ideato lo scorso anno dallo stesso governo per giungere al sostanziale svincolo dell’impiego dei militari dai limiti piuttosto severi previsti dalla Costituzione.
Per cambiare quest’ultima sarebbe stato necessario il voto di una supermaggioranza dei due rami della Dieta e, successivamente, un referendum popolare che non sarebbe mai stato ratificato, visti i sentimenti pacifisti diffusi nel paese. Abe aveva allora escogitato una nuova “interpretazione” della Costituzione, in modo da modellare su di essa le leggi appena approvate.
In realtà, la manovra del primo ministro, come ritengono anche molti esperti giapponesi, è un’aperta violazione della Costituzione e, in particolare, dell’Articolo 9 che stabilisce come il Giappone rinunci per sempre alla guerra e al mantenimento di forze armate di terra, aria o mare.
La legislazione era stata approvata dalla camera bassa dei Rappresentanti il 16 luglio, mentre la camera alta dei “Consiglieri” ha dato il definitivo via libera nella mattinata di sabato. Quest’ultimo voto è stato segnato non solo da numerose manifestazioni di protesta, che per parecchi giorni a Tokyo e in altre località hanno coinvolto svariate migliaia di persone, ma anche da un percorso in aula relativamente complicato.
Tra forti tensioni e scontri non solo verbali, la maggioranza del Partito Liberal Democratico (LDP) e del Partito buddista Komeito ha dovuto far fronte all’ostruzionismo dell’opposizione. Il Partito Democratico Giapponese (DPJ) ha infatti presentato una serie di mozioni di sfiducia, puntualmente bocciate, tra cui contro il presidente della camera dei Consiglieri, ritardando l’approvazione del pacchetto di legge.
Dopo il voto, Abe ha comunque dichiarato che le misure erano necessarie per “proteggere la vita delle persone e lo stile di vita pacifico” del suo popolo, nonché per “prevenire le guerre”, rendendo il Giappone “un paese normale”. Al contrario, l’impronta militarista impressa da Abe rende più probabile il rischio di guerra in Asia orientale, mentre l’evoluzione verso un paese “normale” consiste nella possibilità a disposizione dell’esecutivo di utilizzare liberamente le forze armate per perseguire i propri interessi strategici ed economici.La legislazione prevede sostanzialmente due misure. La prima consente l’invio di soldati delle “forze di auto-difesa” giapponesi in qualsiasi angolo del pianeta in seguito a un semplice voto del Parlamento e senza l’approvazione preventiva di una legge speciale, come attualmente previsto.
La seconda modifica invece alcune leggi esistenti e renderà possibile la fornitura di supporto logistico e in termini di personale militare a paesi alleati virtualmente senza restrizioni. La partnership militare che beneficerà quasi esclusivamente dei cambiamenti sarà quella con gli Stati Uniti.
Come ha spiegato un’analisi del quotidiano nipponico Yomiuri Shimbun, le nuove leggi renderanno ad esempio possibile per i due alleati “fronteggiare in maniera congiunta i conflitti lungo le rotte marittime in Medio Oriente e nell’Oceano Indiano”, mentre in precedenza “era generalmente previsto che le forze di auto-difesa potessero assistere le truppe USA di stanza in Giappone in caso di emergenza nella penisola di Corea”.
Inoltre, i militari di Tokyo potranno svolgere “attività di sorveglianza e raccolta informazioni; prendere inziative in caso di lanci di missili balistici; mettere in salvo cittadini giapponesi all’estero” in situazioni di pericolo.
In definitiva, l’utilizzo dei soldati giapponesi sarà possibile non più solo in casi di emergenza o di minaccia alla sicurezza nazionale, ma in situazioni di relativa normalità, con l’obiettivo di avanzare gli interessi strategici di Tokyo e di Washington. Soprattutto, le nuove misure rientrano nel processo di integrazione del Giappone nella svolta strategica adottata dall’amministrazione Obama in Asia orientale per contrastare l’allargamento dell’influenza della Cina nel continente e l’evoluzione di questo paese verso uno status di potenza economica e militare.
Il coordinamento dell’iniziativa militarista di Abe con gli Stati Uniti è stato confermato da un altro articolo pubblicato lunedì sempre dal giornale Yomiuri Shimbun. Nel quadro della revisione dei principi che regolano l’alleanza strategica tra i due alleati, entrambe le amministrazioni avevano concordato misure come l’abolizione delle restrizioni per i militari giapponesi ben prima che iniziasse il dibattito politico su questo argomento a Tokyo.
Numerosi incontri tra alti ufficiali giapponesi ed esponenti del Pentagono si erano conclusi precisamente con un accordo su questo punto. Anzi, a conferma del fatto che il ritorno al militarismo del Giappone è dovuto a fattori oggettivi legati all’evolversi della situazione internazionale e non alla disposizione di un singolo uomo politico, le basi per la rimozione dei divieti al dispiegameno delle forze armate giapponesi erano state gettate durante il governo del Partito Democratico (DPJ) che precedette il ritorno di Abe alla guida del paese.
L’escalation delle tensioni con la Cina era inziata d’altra parte sotto il governo del DPJ, il quale nel 2012 aveva tra l’altro deciso provocatoriamente di nazionalizzare le isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale al centro di una disputa con Pechino, tramite l’acquisto dal loro proprietario privato.
Il carattere anti-democratico del pacchetto legislativo fatto approvare dal primo ministro Abe è confermato anche da parecchi sondaggi di opinione che chiariscono l’ostilità della gran parte dei giapponesi alla deriva militarista a cui stanno assistendo.Il quotidiano Asahi Shimbun ha ad esempio diffuso lunedì i risultati di un’indagine condotta proprio all’indomani dell’approvazione definitiva delle nuove leggi. A favore di esse sarebbe solo il 30% degli interpellati, mentre il 51% si dice contrario. Ancora più marcata appare poi la disapprovazione dei metodi con cui i provvedimenti sono stati implementati, con il 67% che ha manifestato il proprio disappunto, contro il 16% che si è espresso a favore.
L’intera vicenda potrebbe infine danneggiare un esecutivo che negli ultimi anni ha ampiamente beneficiato dell’impopolarità del Partito Democratico, in grado di rimangiarsi tutte le principali promesse elettorali in tre anni di governo (2009-2012). Lo stesso Asahi Shimbun ha rilevato infatti un costante crollo nel gradimento del governo Abe, sceso in questi giorni al 35%, ovvero il dato più basso dalla riconquista da parte di quest’ultimo della carica di primo ministro dopo le elezioni del dicembre 2012.
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di Michele Paris
L’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha finalmente diffuso qualche giorno fa a Ginevra il rapporto d’indagine sui crimini collegati alla guerra civile in Sri Lanka tra le forze governative e i separatisti delle Tigri Tamil (LTTE). Se il rapporto assegna responsabilità a entrambe le parti, l’intera operazione appare manipolata dalle grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’India, impegnate a sfruttare le violazioni dei diritti umani per avanzare i propri interessi strategici nel paese dell’Oceano Indiano.
Il conflitto in Sri Lanka era iniziato nel 1983 e, fino alla sanguinosa offensiva finale dell’esercito di Colombo nel 2009, ha fatto secondo alcune stime almeno 200 mila vittime, in buona parte appartenenti alla minoranza Tamil. Le fasi più cruente della guerra civile, a cui il rapporto dell’ONU ha dato ampio spazio, sono state quelle finali, soprattutto in relazione al massacro da parte delle forze armate di guerriglieri e leader Tamil, nonché civili, nonostante questi ultimi si fossero chiaramente arresi.
Il 28 maggio del 2009, ad esempio, alcuni comandanti Tamil e il numero uno dell’ufficio politico del movimento, Balasingham Nadesa, inviarono messaggi al governo dell’allora presidente, Mahinda Rajapaksa, per manifestare la loro intenzione di consegnarsi pacificamente alle autorità. La Croce Rossa e vari rappresentanti di governi stranieri si erano offerti di agire da osservatori per garantire la resa, ma Colombo rifiutò categoricamente.
Il governo ordinò allora ai guerriglieri Tamil di consegnarsi a un reparto dell’esercito non lontano dal villaggio di Vellimullivaikkal, nel nord dello Sri Lanka, dove si erano radunati. Secondo testimoni interrogati dagli investigatori ONU, i militanti separatisti avevano seguito le istruzioni, dirigendosi nel luogo indicato in abiti civili e mostrando una bandiera bianca.
Poco più tardi, tuttavia, il governo avrebbe fatto sapere che Nadesa e altri guerriglieri Tamil erano stati uccisi in combattimento. Il rapporto ONU conferma invece quanto si sospettava da tempo, cioè che i leader Tamil arresisi erano stati vittime di una vera e propria esecuzione.
Nonostante questi e altri crimini che hanno segnato i 26 anni di guerra civile in Sri Lanka, l’interesse di molti governi stranieri non è legato a questioni di giustizia, bensì di puro calcolo strategico.
A sponsorizzare un’indagine sullo Sri Lanka erano stati, tra gli altri, gli Stati Uniti nel corso di una sessione del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (UNHRC) nel marzo del 2014. Come avrebbero confermato gli sviluppi dei mesi successivi, tuttavia, le intenzioni di Washington, come al solito, avevano a che fare non tanto con scrupoli per i diritti umani ma con le preoccupazioni per gli orientamenti strategici del governo di Rajapaksa. Quest’ultimo aveva infatti iniziato a stabilire profondi legami politici, economici e militari con la Cina, suscitando le apprensioni di USA e India.Washington ha così utilizzato la questione dei crimini di guerra per esercitare pressioni sull’amministrazione Rajapaksa, mentre parallelamente e in collaborazione con Delhi e sezioni filo-americane della classe politica cingalese alla fine dello scorso anno è stato orchestrato un avvicendamento “democratico” alla guida del paese in vista delle elezioni presidenziali nel mese di gennaio.
Con questo appoggio esterno, il Partito Nazionale Unito (UNP) all’opposizione e la ex presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, legata alla famiglia Clinton e appartenente al partito di Rajapkse (SLFP), avevano promosso la candidatura a presidente di Maithiripala Sirisena, a sua volta dimessosi da ministro della Sanità nel governo di Rajapaksa.
Cavalcando l’impopolarità del presidente, Sirisena sarebbe così riuscito a prevalere nel voto di gennaio e, fin dal suo insediamento, ha iniziato un riallineamento strategico verso gli Stati Uniti e l’India, cercando allo stesso tempo di emarginare Rajapakse e i suoi seguaci all’interno del partito.
Gli USA, in ogni caso, consapevoli sia delle difficoltà per Colombo di sganciarsi da Pechino sia del pericolo di un ritorno da protagonista di Rajapaksa sulla scena politica cingalese, hanno per mesi continuato a tenere aperta l’ipotesi di un’indagine criminale internazionale sui fatti della guerra civile.
Le elezioni parlamentari di agosto hanno però rappresentato un momento di svolta, visto che le velleità di conquistare la carica di primo ministro di Rajapaksa sono state frustrate con il successo dell’UNP dell’attuale premier, Ranil Wickremesinghe.
Il cambiamento di attitudine degli USA è stato sancito dall’assistente al segretario di Stato per l’Asia meridionale, Nisha Biswal, la quale alla fine del mese scorso a Colombo ha annunciato l’appoggio dell’amministrazione Obama a un progetto di inchiesta interna sui crimini di guerra, preferito dal presidente Sirisena e dal primo ministro Wickremesinghe.
Questa opzione consentirebbe alla fazione cingalese attualmente al potere e ai suoi sponsor a Washington e a Delhi di promuovere i rispettivi interessi. Al contrario di un’indagine criminale internazionale, teoricamente indipendente, un’inchiesta interna sarà esposta alle manipolazioni delle autorità, così che le responsabilità nel conflitto di coloro che sono al governo potranno essere occultate. Ugualmente, l’indagine interna servirà a perseguire Rajapaksa e i suoi alleati, in modo da rendere sempre più complicato un loro possibile percorso verso il ritorno al potere.
Il rapporto ONU appena pubblicato auspica in ogni caso la creazione di un “tribunale speciale ibrido” formato anche da “giudici, procuratori, avvocati e investigatori internazionali”, anche se il governo di Colombo, verosimilmente con l’appoggio di USA e India, sembra intenzionato a battersi per l’istituzione di un tribunale senza “interferenze” esterne.La presunta imparzialità del commissario per i Diritti Umani è comunque smentita dalle considerazioni relative alla situazione interna. Il principe giordano, a ben vedere, nel suo rapporto asseconda le posizioni degli Stati Uniti nel momento in cui sottolinea il nuovo “contesto politico” cingalese, dal quale emergerebbe una “storica opportunità di autentico cambiamento”.
Hussein fa riferimento alla sconfitta elettorale di Rajapaksa e alla formazione di un governo di unità nazionale, composto da “tutte le comunità”, che ha preso iniziative come la limitazione dei poteri del presidente, la reimposizione dei limiti al numero di mandati presidenziali e la “riapertura degli spazi per la libertà di espressione”.
Una serie di elogi, quelli indirizzati al nuovo governo dello Sri Lanka che manca però di ricordare, oltre alle responsabilità nella guerra civile di svariati suoi membri, le ragioni strategiche e di opportunità politica che hanno dettato il cambiamento registrato negli ultimi mesi a Colombo.
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di Fabrizio Casari
Un viaggio di pace in un mondo dove "la terza guerra mondiale avanza dispersa in mille rivoli e mille teatri". Un viaggio che predica la riconciliazione tra i diversi e che sceglie Cuba proprio in omaggio alla recente riapertura di dialogo e relazioni tra l’isola socialista e gli Stati Uniti. Proprio per questa sua connotazione, nella quale s’intrecciano il messaggio pastorale e quello politico, il viaggio nelle Americhe di Papa Bergoglio, primo Papa latinoamericano della storia, non poteva non cominciare da Cuba.
Che conosce oggi una nuova tappa delle relazioni con gli Stati Uniti grazie alla sua tenacia nel resistere senza cedimenti a più di 50 anni di blocco, ma che ha avuto proprio in Papa Bergoglio l’indiscusso regista del processo di riavvicinamento tra Washington e L’Avana. Un riavvicinamento - va detto - frutto anche della svolta che Obama ha ritenuto di voler dare nella seconda parte del suo mandato, quando ha deciso di sferrare l’affondo sulle più spinose ed intrise di ideologismo delle questioni di politica estera, tra le quali appunto Cuba, l’Iran e ora la Siria.
Dal suo arrivo a L’Avana, fino alla messa celebrata in una stracolma Plaza de la Revolucìòn, il Papa ha potuto misurare quanto affetto e quanto rispetto circondino la sua figura. In centinaia di migliaia hanno partecipato alla messa nella storica piazza delle mobilitazioni cubane, dove Bergoglio, affiancato dalle effigi del “Che” Guevara e dalla bandiera cubana, ha portato il suo messaggio evangelico e politico. Cattolici e non si sono mobilitati per farli sentire l’abbraccio dell’isola tutta. Perché Bergoglio si è presentato da amico di Cuba, senza rinunciare alla centralità del messaggio papale ma anche con l’intento di confermare il legame che da diversi anni vede la Chiesa cubana nel ruolo di interlocutrice attenta e collaborativa nei confronti del governo.
Il clamore politico-mediatico che accompagnò la visita di Papa Woytila nel 1998 non si è replicato. Bergoglio, del resto, non è arrivato a Cuba con le stimmate dell’alfiere dell’anticomunismo che caratterizzarono il papato di Woytila, bensì portando in regalo la preziosissima opera di mediazione che ha permesso la riapertura dei rapporti diplomatici tra L’Avana e Washington. Nel 1998, la visita del Papa polacco entusiasmò il main stream mediatico, che per la scarsa conoscenza di Cuba s’illuse di utilizzare Woytila come grimaldello per scardinare il sistema socialista. Non funzionò allora, non avrebbe senso oggi.
Ma anche in questo viaggio papale non sono mancati all'appello alcuni specialisti della fantasia travestiti da giornalisti, intenti a dipingere scenari inesistenti per sostenere speranze irrealizzabili; niente di nuovo o di strano, di aspiranti servitù il giornalismo è deposito inesauribile. Sono state enfatizzate le parole di Bergoglio circa il dover servire le persone e non le ideologie per proporle come critica papale non alla politica in generale, bensì al governo cubano.
Come se tutti gli altri governi del mondo non siano concepiti sulle ideologie, come se fosse pensabile che il custode della fede assegnasse alle ideologie la dimensione unificante dei popoli. Per la stessa raffinata logica è stata sostanzialmente cancellata la richiesta a Raul, appena sbarcato, di portare il suo saluto ed il segno del suo assoluto rispetto per Fidel Castro.
Eppure, questo viaggio rappresenta un salto in avanti proprio per il riconoscimento della leadership cubana. Se i viaggi di Woytila prima e di Ratzinger poi vollero significare la legittimità dell’interlocuzione con l’isola socialista, quello di Bergoglio appare anche come un riconoscimento diretto all’opera che Cuba svolge in favore della mediazione per la guerra civile in Colombia.
Non è stato certo casuale il passaggio dove, durante la predica in Plaza de la Revolucìòn, il Papa ha chiamato ad ogni sforzo per la fine del conflitto colombiano ed il fatto che i colloqui di pace tra guerriglia e governo abbiano la loro sede proprio a L’Avana, conferma il sostegno vaticano alla mediazione cubana, il suo riconoscimento di un ruolo determinante sulla scacchiera continentale.
Cuba, attraverso Raul e Fidel, ha voluto riaffermare quanto il processo di ristabilimento delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti non significhi l’abdicazione dei suoi principi o la rinuncia alle sue rivendicazioni. Restano importanti questioni sul terreno, prima fra tutte la piena accettazione della legittimità del sistema politico cubano. Non si tratta solo di parole: l’identità della Rivoluzione e lo sviluppo del Paese sono stati infatti perseguiti al prezzo di sacrifici immensi e migliaia di vittime.
I danni provocati da più di 50 anni di blocco economico e diplomatico, di terrorismo e ostilità politica, sono i temi sui quali Cuba non intende soprassedere, affinchè si possa scrivere la parola "fine" all'aggressione statunitense contro Cuba. Dunque, secondo i cubani, quanto avvenuto in circa 60 anni deve in qualche modo trovare posto nell’agenda politica sulla quale si costruirà il processo di riavvicinamento tra USA e Cuba.
Il Papa non ha ovviamente preso posizione sul tema, non gli compete e non rappresenta una priorità per la Chiesa di Roma. In questo senso le ovvie differenze tra il punto di vista della Revolucìòn e quello di San Pietro sono stati confermate, ma in un clima di reciproco rispetto e di affetto che suona comunque come un risultato decisamente positivo sia per Roma che per L’Avana.
L’altro obiettivo del viaggio di Bergoglio è quello di rilanciare, proprio da Cuba, teatro della sua vittoria diplomatica più recente, il ruolo della Chiesa di Roma quale interlocutore affidabile e credibile negli scenari internazionali più complessi.
In questo senso il viaggio del Papa assume un significato più politico di quello effettuato dai suoi predecessori e la tappa degli Stati Uniti, dove sia per la sua opera di mediazione tra Cuba e USA che per le sue innovazioni sul tema della famiglia, del sacerdozio e delle politiche sociali a sostegno degli ultimi, troverà gli oppositori che a Cuba non ha trovato.
Il viaggio negli USA sarà un banco di prova importante per imporre l’autorevolezza del ruolo che Bergoglio intende riaffermare, anche per il profilo del processo riformatore con il quale sta faticosamente tentando di cambiare l’immagine della Chiesa di Roma.
A metà degli anni ’70, rispondendo alla domanda di un giornalista su quale s’immaginava potesse essere il momento giusto per un riavvicinamento delle relazioni con gli Usa, Fidel Castro disse testualmente: “Quando ci saranno negli USA un presidente nero e come Papa un latinoamericano”.
Chissà se nel suo incontro con Bergoglio Fidel vorrà ricordargli quella che più di 40 anni fa era una intuizione, ma che a rileggerla oggi appare invece come una profezia.
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di Michele Paris
Il clima decisamente amichevole tra l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler (FCA), Sergio Marchionne, e il numero uno del sindacato automobilistico americano (UAW), Dennis Williams, nella conferenza stampa di martedì sera che ha annunciato il raggiungimento di un accordo per il rinnovo del contratto di quasi 40 mila lavoratori negli USA, basterebbe da solo a descrivere i rapporti esistenti tra le due “parti sociali” i cui interessi dovrebbero essere teoricamente divergenti.
A chiarire l’unità di vedute tra i rappresentanti di FCA e UAW vi è stata anche l’assenza di contrasti significativi registrati nel corso delle trattative, i cui dettagli, così come quelli del testo dell’accordo appena siglato, sono per il momento avvolti nel mistero.
Le discussioni tra FCA e UAW hanno inaugurato i negoziati tra il sindacato e le tre grandi case automobilistiche americane attorno ai termini del nuovo contratto quadriennale che interessa circa 140 mila lavoratori negli Stati Uniti, alle dipendenze, oltre che dell’azienda guidata da Marchionne, di Ford e General Motors (GM). UAW aveva scelto FCA come primo interlocutore e il testo concordato, se approvato dagli iscritti al sindacato, servirà come modello per le prossime trattative con Ford e GM.
Le discussioni che hanno preceduto e di poco superato la scadenza del vecchio contratto dei dipendenti di FCA - fissata per la mezzanotte di lunedì scorso - erano incentrate principalmente su due questioni di estrema importanza sia per i lavoratori sia per le tre aziende.
La prima è l’eliminazione del sistema dei cosiddetti “due livelli” di retribuzione, introdotto nel 2007 e fortemente avversato dai lavoratori, mentre la seconda riguarda l’assistenza sanitaria dei dipendenti FCA.
Secondo gli accordi in vigore, gli assunti di “secondo livello” a partire dal 2007 percepiscono stipendi che non superano i 19 dollari l’ora, contro i circa 28,5 dei lavoratori in azienda da prima di questa data. Questi ultimi, tuttavia, non hanno beneficiato di un solo adeguamento di stipendio da un decennio a questa parte.
Per i lavoratori, l’obiettivo dovrebbe essere quello di chiudere il “gap” tra i due livelli, visto che le mansioni svolte sono le stesse, assicurando a tutti i dipendenti un adeguamento verso l’alto degli stipendi. Per i vertici di FCA, anch’essi interessati a farla finita con questo sistema, si tratta al contrario di imporre un adeguamento al ribasso, liquidando i contratti di primo livello.
Nel caso dell’assistenza sanitaria, Marchionne e i suoi pari di Ford e GM intendono fare il possibile per alleggerire le loro aziende dal peso della spesa sostenuta per i piani assicurativi relativamente generosi garantiti ai dipendenti. In questo caso, il fine delle compagnie coincide con quello dei vertici del sindacato e consiste nello scaricare tutti i lavoratori in un fondo (VEBA) gestito da UAW e che da qualche tempo offre l’assistenza sanitaria ai pensionati del settore auto.Questa soluzione sgraverebbe le aziende dai costi sanitari sostenuti per i dipendenti, mentre consentirebbe a UAW di ampliare sensibilmente il fondo di investimento che già controlla. A rimetterci sarebbero però i lavoratori, costretti a ripiegare su piani di assistenza sanitaria con meno benefit rispetto a quelli attuali.
Gli accordi presi tra le due parti non sono ad ogni modo noti per il momento, visto che né Marchionne né Williams hanno rivelato alcun dettaglio durante la conferenza stampa di martedì. Il numero uno di UAW ha affermato che il contenuto dell’accordo sarà reso noto solo dopo che esso verrà condiviso con i leader delle sezioni locali del sindacato.
Marchionne ha affermato soltanto che i negoziatori hanno concordato l’avvio di un processo per cancellare i due livelli retribuitivi “nel tempo”. Quanto tempo sarà necessario per fare ciò e in quali termini non è al momento chiaro. Dichiarazioni rilasciate dallo stesso amministratore delegato di FCA nel recente passato non lasciano intravedere nulla di buono per i lavoratori.
Marchionne - gratificato con un compenso di oltre 31 milioni di dollari nel 2014 - aveva infatti sostenuto che il “diritto” a stipendi come quelli previsti dal primo livello contributivo non sono più sostenibili e che le retribuzioni dovranno essere legate sempre più alla produttività e al successo dell’azienda sul mercato. L’ipotesi più probabile è che gli appartenenti al secondo livello e i nuovi assunti potranno raggiungere il massimo livello retributivo nel corso di una decina di anni.
Dalle interviste di molti lavoratori riportate dai media americani in questi giorni appare chiaro come sia diffuso il timore che il sindacato si sia nuovamente piegato pressoché totalmente al volere dei vertici di FCA.
La rabbia tra i lavoratori è pienamente giustificata, visto che tutte e tre le case automobilistiche americane siedono da qualche anno su una montagna di profitti, ottenuti grazie alla drastica riduzione del costo del lavoro e all’incremento della produttività imposto con la collaborazione del sindacato e dell’amministrazione Obama, intervenuta nel 2009 per salvare le compagnie sull’orlo del fallimento.
I lavoratori di FCA, così come di Ford e GM, possono comunque immaginare facilmente in quale direzione andrà il loro nuovo contratto, viste le dichiarazioni di Marchionne e Williams, protagonisti di una conferenza stampa congiunta senza precedenti per dare l’annuncio dell’intesa. Il primo ha ad esempio sottolineato la “convergenza di interessi” tra FCA e UAW; il secondo si è invece espresso sostanzialmente come un dirigente dell’azienda, parlando della necessità di mantenere il livello di competitività della compagnia e di favorire la conquista di nuove quote di mercato.
Secondo alcuni, la segretezza ostentata da Williams e Marchionne sulle questioni più delicate del contratto sarebbe dovuta alla mancanza di un accordo definitivo. Il presidente di UAW avrebbe deciso di annunciare il raggiungimento dell’intesa per allentare le pressioni esercitate dai lavoratori, pronti a scioperare allo scoccare della mezzanotte di lunedì.Il desiderio di UAW è d’altra parte quello di evitare a tutti i costi un confronto con i vertici aziendali, come conferma il fatto che nelle prime ore di martedì il sindacato ha messo in atto una vera e propria campagna intimidatoria per impedire l’interruzione dei turni di lavoro in un impianto di Detroit. Un’iniziativa dei lavoratori in questa fabbrica avrebbe potuto innescare la mobilitazione degli altri dipendenti di FCA, così come di Ford e GM, costringendo UAW ad assumere un atteggiamento più combattivo nei confronti di Marchionne e del suo team.
In ogni caso, l’accordo verrà ora fatto conoscere ai responsabili di UAW nelle varie fabbriche FCA degli Stati Uniti, dopodiché entro una decina di giorni dovrà essere ratificato dalla maggioranza dei lavoratori in ogni singolo impianto. Successivamente saranno avviate le trattative con Ford e General Motors.
Anche in caso di bocciatura, tuttavia, il nuovo contratto potrebbe essere adottato forzatamente, come suggeriscono i precedenti. Quando infatti nel 2011 una categoria dei lavoratori di Chrysler respinse a maggioranza il contratto appena negoziato, i vertici di UAW intervennero senza esitazioni per dichiarare comunque ratificata la nuova intesa concordata con l’azienda.