di Michele Paris

Il continuo deteriorarsi della situazione in Libia sta facendo emergere insolite recriminazioni e scambi di accuse tra i governi occidentali che hanno pianificato e partecipato alla distruzione del paese nord-africano dopo il rovesciamento pilotato del regime di Gheddafi nel 2011. Ad intervenire sulla questione è stato recentemente lo stesso presidente americano, Barack Obama, che in un’intervista rilasciata al mensile The Atlantic ha respinto ogni responsabilità per il disastro causato in Libia, attribuendone invece l’intera colpa ai suoi colleghi europei, rei di non avere rivolto sufficiente attenzione alla crisi sulle sponde del Mediterraneo.

L’intervista è stata ampiamente riportata soprattutto dalla stampa britannica visti i riferimenti al presunto atteggiamento del primo ministro, David Cameron, accusato da Obama di essersi lasciato distrarre da altre questioni dopo la campagna di bombardamenti NATO sulla Libia.

Se la posizione di presidente degli Stati Uniti comporta per colui che la ricopre una sostanziosa dose di doppiezza e ipocrisia, quella mostrata da Obama nell’intervista sulla Libia è apparsa comunque fuori dall’ordinario. La responsabilità per avere ridotto deliberatamente il paese più stabile, socialmente avanzato e ricco dell’interno continente africano in un inferno settario, dove regnano la violenza, il caos e l’anarchia, è da assegnare infatti principalmente proprio all’amministrazione Obama e ai suoi piani strategici difficilmente definibili se non criminali.

Ciò non toglie, ovviamente, che i governi di Londra e Parigi abbiano assistito e manovrato essi stessi senza scrupoli per mettere in atto un piano che prevedeva fin dall’inizio il cambio di regime a Tripoli, possibilmente eliminando fisicamente il sempre più scomodo leader libico, con cui peraltro avevano fatto affari nel recente passato.

Tuttavia, la pianificazione della “rivolta”, così come la manipolazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, che nel marzo del 2011 diede il via libera alle operazioni militari, e queste ultime, patrocinate dalla NATO, hanno visto nel ruolo di protagonisti assoluti proprio gli Stati Uniti di Obama, rendendo la sua amministrazione responsabile di quanto accaduto in seguito.

Obama ha ammesso genericamente che, riguardo alla gestione USA della crisi libica, vi è “spazio per qualche critica”, ma essa va riferita esclusivamente al fatto che egli ha avuto fin troppa fiducia negli europei per la gestione del dopo-guerra. La direzione dell’attacco di Obama ai suoi alleati va letta anche come una sorta di invito ad adoperarsi in maniera concreta per far fronte al dilagare del caos nel paese nord-africano e, soprattutto, contribuisce ad alimentare il mito di un approccio troppo cauto delle potenze europee come causa della crisi in atto.

Nel ripercorrere le tappe obbligate del manuale del cambio di regime forzato tramite intervento militare “umanitario”, Obama ha poi assicurato che Washington aveva “messo in atto il piano nel migliore dei modi” in Libia, ottenendo il necessario mandato dell’ONU e mettendo assieme una coalizione internazionale disposta a seguire le indicazioni di Washington.

L’intervento militare NATO, al costo di 1 miliardo di dollari (definito “molto economico” da Obama se confrontato con altre avvenute belliche USA) per il presidente “ha evitato l’uccisione di civili su larga scala” e quella che sarebbe stata “quasi sicuramente una prolungata e sanguinosa guerra civile”.

Nonostante la falsificazione che ne fa Obama, l’esecuzione del piano fu tutt’altro che perfetta, dal momento che l’intervento  NATO fece decine di migliaia di morti per prevenire una strage di civili che nessuna prova concreta ha mai dimostrato fosse sul punto di essere messa in atto dal regime. Secondo il presidente americano, però, la situazione della Libia appare oggi disastrosa per ragioni che non hanno a che fare con questa impresa criminale, bensì con il mancato impegno dei propri alleati per stabilizzare la situazione.

Da parte britannica, la risposta alle accuse di Obama è sembrata essere quella molto prudente di un sottoposto con il proprio padrone. Un portavoce del governo di Londra ha servilmente affermato che la Gran Bretagna “condivide il giudizio del presidente USA circa le sfide che pone la Libia” e confida nello sforzo con i partner internazionali per sostenere un processo che porti a un governo stabile in questo paese.

L’atteggiamento di Londra è rimasto fin troppo misurato nonostante Obama abbia ricordato un ulteriore motivo di critica  al governo Cameron. L’inquilino della Casa Bianca ha addirittura rivelato come la “relazione speciale” tra i due paesi è stata a rischio dopo che il governo Conservatore si era mostrato poco disponibile ad aumentare tempestivamente le spese militari fino al 2% del PIL, come richiesto da Washington a tutti i membri NATO per far fronte alle necessità dell’imperialismo USA.

Durante il summit dei G-7 nel giugno 2015, Obama aveva chiesto a Cameron di mantenere gli impegni in questo senso, apostrofandolo con parole non troppo garbate. L’invito aveva comunque ottenuto gli effetti sperati, visto che il Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, responsabile di devastanti tagli alla spesa sociale in questi anni, un mese dopo avrebbe incluso l’aumento delle spese militari nella sua nuova proposta di bilancio.

Il rammarico per il sostanziale fallimento o le complicazioni in cui si risolvono le politiche basate sul rovesciamento di regimi sgraditi attraverso interventi militari diretti o la creazione a tavolino di movimenti di protesta o “rivoluzionari”, ha spinto Obama nella medesima intervista a The Atlantic ad assegnare allo stesso Cameron parte della responsabilità anche per la mancata aggressione contro la Siria nell’agosto del 2013.

In quell’occasione, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Medio Oriente erano riusciti a fabbricare un casus belli per rimuovere Assad con la forza, ovvero orchestrando un attacco con armi chimiche in Siria, condotto con ogni probabilità dai “ribelli” armati, e attribuendone la responsabilità al regime di Damasco.

L’episodio doveva rappresentare lo scavalcamento da parte di Assad di una “linea rossa” fissata proprio da Obama e che avrebbe giustificato una nuova operazione militare contro un regime nemico. I piani di Washington andarono però in frantumi principalmente a causa della fortissima ostilità popolare, negli USA e non solo, per un’altra guerra di aggressione in Medio Oriente.

Obama sostiene che uno dei fattori decisivi nella clamorosa marcia indietro che dovettero fare gli Stati Uniti, quando i piani militari erano già pronti, fu l’incapacità di Cameron di assicurarsi una maggioranza in Parlamento a favore dell’intervento militare. In realtà anche negli Stati Uniti il Congresso non fu in grado di garantire all’amministrazione Obama un voto per dare il via libera alla guerra in Siria, avviata comunque in seguito con il pretesto di combattere lo Stato Islamico (ISIS).

In merito nuovamente alla Libia, non solo gli Stati Uniti furono assieme alla Francia e alla Gran Bretagna i primi responsabili della guerra di aggressione, fondamentalmente per ragioni legate al controllo delle risorse energetiche del paese e per neutralizzare gli sforzi di unificazione pan-africana di Gheddafi in chiave anti-imperialista, ma su di loro pesa principalmente anche la colpa per il disastro che ne è seguito.

Per cominciare, gli Stati Uniti, così come i loro alleati, non disponevano di un piano efficace per stabilizzare il paese - e di riflesso l’intero Nordafrica - pur sapendo, o dovendo sapere, quale era il groviglio tribale dal potenziale esplosivo che caratterizzava la realtà libica.

In maniera ancora più grave, infine, gli Stati Uniti hanno utilizzato la Libia come un vero e proprio incubatore e fonte di approvvigionamento del fondamentalismo jihadista in Siria con l’identico scopo di rovesciare un regime la cui unica colpa è quella di intralciare le mire egemoniche americane.

Queste decisioni si sono talvolta trasformate in un boomerang, come aveva dimostrato l’assalto alla rappresentanza diplomatica degli Stati Uniti a Bengasi l’11 settembre 2012, operato da un gruppo di guerriglieri che, con ogni probabilità, aveva lavorato per Washington contro Gheddafi; durante l'attacco venne ucciso l’ambasciatore Christopher Stevens e altri tre cittadini americani del servizio di sicurezza.

Il livello di sconsideratezza di simili politiche, peraltro ben radicate nelle pratiche più o meno clandestine di Washington per fare i conti con i propri rivali, hanno finito per aggravare ancora di più la situazione in Libia, dove oggi, oltre allo scontro tra due governi contrapposti, in cui confluiscono una miriade di clan e fazioni, sono presenti migliaia di militanti dell’ISIS.

Se, dunque, personaggi come Cameron o, forse ancor più, l’ex presidente francese Sarkozy, meriterebbero senza dubbio un posto sul banco degli imputati in un ipotetico processo per crimini di guerra in Libia, è altrettanto indiscutibile che il ruolo di primo piano spetterebbe di gran lunga proprio a quell’Obama che cerca oggi di scaricare le responsabilità del disastro sui propri alleati.

di Michele Paris

La vittoria di Bernie Sanders su Hillary Clinton nelle primarie Democratiche di martedì in Michigan ha rappresentato una delle maggiori sorprese nella storia recente delle competizioni elettorali per la nomina dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Il prevalere di un candidato che si autodefinisce “democratico-socialista” in un importante stato industriale, se anche non basterà al senatore del Vermont per conquistare la nomination, costituisce un segnale difficilmente sottovalutabile.

Ha a che vedere con il processo di radicalizzazione delle classi più disagiate della società americana, le quali per la prima volta da decenni hanno individuato un messaggio politico proveniente da Washington in sintonia - almeno esteriormente - coi loro bisogni e interessi reali.

Dei nove stati che Sanders si è finora aggiudicato in queste primarie, il Michigan è il primo a non essere di piccole dimensioni, scarsamente popolato o prevalentemente rurale. Nella culla del movimento operaio americano, Sanders è riuscito a convincere a recarsi alle urne quasi 600 mila elettori che lo hanno premiato nonostante la sua rivale avesse al proprio fianco tutti i media “mainstream”, l’intero apparato del Partito Democratico dello stato e, più o meno apertamente, le organizzazioni sindacali.

Le stesse previsioni della vigilia hanno dimostrato di essere, secondo alcuni, una manovra per favorire la vittoria di Hillary Clinton, visto che una sua affermazione in Michigan avrebbe di fatto chiuso definitivamente la strada alla nomination per Sanders. Il ribaltamento degli equilibri indicati dai sondaggi, che davano all’ex segretario di Stato di Obama un vantaggio tra i 5 e i 20 punti percentuali, hanno fatto sorgere a qualcuno il dubbio che i numeri siano stati manipolati appositamente, anche perché buona parte di coloro che hanno votato Sanders ha affermato nelle rilevazioni fuori dai seggi di avere fatto la propria scelta da tempo.

Soprattutto, però, i media ufficiali controllati dalle grandi corporation hanno fallito clamorosamente nel rilevare lo stato di fermento tra gli elettori, disposti molto più di quanto viene di solito descritto ad appoggiare candidati anti-sistema o apparentemente tali.

Ciò è stato tanto più significativo in uno stato come il Michigan, dove il voto per Sanders è stato espresso con una scelta chiaramente di sinistra che ha visto protagoniste le sezioni della società dal potenziale più rivoluzionario, ovvero i giovani e la “working-class”.

Significativamente, come hanno mostrato nei mesi scorsi varie indagini di opinione, gli elettori si sono avvicinati a Sanders proprio perché autoproclamatosi “socialista” e non malgrado ciò. Questa realtà, quasi mai sottolineata da una stampa ufficiale dominata dai grandi interessi economico-finanziari e da un’intellighenzia finto-progressista che teme e disprezza le classi “inferiori”, è tanto più rilevante se si considera lo stigma che accompagna da sempre qualsiasi idea o proposta vagamente socialista negli Stati Uniti.

In realtà, il sentimento di frustrazione se non aperta rivolta verso il sistema diffuso tra i lavoratori americani sta trovando in questa tornata elettorale anche un’espressione decisamente reazionaria, rilevabile nei successi del candidato Repubblicano alla nomination Donald Trump. L’emergere del miliardario di New York come favorito è dovuto infatti in larga misura al sostegno di una parte dei bianchi appartenenti alla “working-class” più colpita da una crisi economica che per loro non è ancora terminata e, allo stesso tempo, è la conseguenza dello spostamento a destra del Partito Democratico, vale a dire la formazione politica che dovrebbe teoricamente intercettare il consenso di questa fascia della popolazione.

In ogni caso, l’esplosione del fenomeno Sanders, con ogni probabilità molto superiore alle attese iniziali dello stesso senatore, segna l’irruzione delle questioni di classe, anche se in maniera ancora relativamente confusa, nel dibattito politico americano che conta dopo decenni dominati a sinistra dalla fissazione su altre ad essa subordinate, ovvero quelle di genere, di razza e ambientali.

In Michigan, Sanders ha costruito la sua vittoria sul voto degli elettori con meno di 30 anni (81% a suo favore, 18% per Hillary), di quelli che guadagnano meno di 50 mila dollari l’anno, di quelli senza una laurea e, per poco, degli iscritti a un sindacato. Al contrario, la Clinton ha avuto un margine di vantaggio soltanto tra coloro che hanno redditi superiori ai 100 mila dollari e gli afro-americani.

Questi ultimi sono stati finora decisivi nel proiettare Hillary al comando della corsa per la nomination, probabilmente per l’identificazione della ex first lady con il primo presidente di colore degli Stati Uniti e, a detta dei media, per una certa connessione tra i neri d’America e la famiglia Clinton che, peraltro, ha ben poco fondamento nella realtà dei fatti.

Più in generale, come dimostrano anche le lacerazioni nel Partito Repubblicano provocate dalla candidatura di Trump, gli sviluppi delle primarie del 2016 stanno mostrando lo stato di crisi del sistema bipartitico americano. La classe dirigente d’oltreoceano, come in molti altri paesi occidentali, fatica infatti sempre più a mantenere entro limiti accettabili le tensioni sociali e le forze centrifughe, vista l’impossibilità di implementare misure di devastazione sociale, con l’obiettivo di salvare il capitalismo stesso, all’interno dei confini delle democrazie liberali.

Proprio la necessità di convogliare frustrazioni e malumori dell’elettorato Democratico di riferimento verso un esito inoffensivo era stata sostanzialmente alla base della decisione di Bernie Sanders di partecipare alla corsa per la Casa Bianca. Ugualmente, i vertici del partito avevano accettato di buon grado la scelta del veterano senatore - nominalmente indipendente - di correre per i propri colori, così da offrire agli elettori un’opzione di “sinistra”, anche se da considerare come valvola di sfogo marginale, inoffensiva e al momento opportuno da indirizzare verso la candidatura di Hillary Clinton.

Candidati di questa natura e con un ruolo simile il Partito Democratico ne ha presentati d’altronde parecchi negli ultimi decenni, da Dennis Kucinich a Jesse Jackson, da Al Sharpton a Howard Dean. La radicalizzazione dell’elettorato americano in questo frangente storico ha però lanciato la candidatura di Sanders a livelli imprevedibili e il suo messaggio basato sulla giustizia sociale, sulla denuncia degli eccessi di Wall Street e sul diritto a un sistema sanitario universale pubblico ha trovato terreno fertile fino a diventare una seria minaccia per la favorita d’obbligo alla nomination.

Nonostante lo sconcerto prodotto dall’affermazione nel Michigan, le probabilità di cambiare la direzione della corsa per Bernie Sanders rimangono poche. Le forze con cui quest’ultimo e, soprattutto, i suoi elettori si trovano a fare i conti sono formidabili e ancora più agguerrite alla luce del rischio concreto che la candidatura di Hillary Clinton possa naufragare nuovamente.

Gli appuntamenti della prossima settimana in stati come Ohio, Illinois e Missouri, poi quelli di aprile in Wisconsin, New York e Pennsylvania, serviranno a chiarire i limiti e le possibilità di Sanders, nonché la sua reale volontà di portare fino in fondo il confronto con l’establishment Democratico.

La portata della “rivoluzione” auspicata dal senatore del Vermont è infatti di gran lunga più limitata di quella a cui, con ogni probabilità, aspira buona parte dei suoi sostenitori. Un suo eventuale successo nella sfida interna al Partito Democratico sarebbe perciò seguita da un quasi certo ridimensionamento delle aspettative suscitate dalla sua campagna elettorale.

Sanders è d’altra parte un politico che, al di là dell’ostentato “socialismo”, si colloca ideologicamente non molto più a sinistra dell’ala “liberal” del Partito Democratico, con la quale si è puntualmente schierato negli anni di permanenza al Congresso. Un’ala “progressista” che, oltretutto, risulta poco più che moderata se messa a confronto con la sinistra Democratica degli anni Sessanta o del periodo del New Deal rooseveltiano.

Particolarmente indicative della sua sostanziale inoffensività per il sistema sono le posizioni espresse, sia pure raramente, sulla politica estera, la quale è quasi sempre il riflesso di quella interna. Sanders ha mostrato un allineamento quasi totale alle scelte dell’amministrazione Obama, cioè una delle più reazionarie della storia USA, offrendo solo alcune caute critiche di natura tattica.

Inoltre, Sanders ha più volte affermato che, in caso di sconfitta nelle primarie, garantirà il proprio appoggio a Hillary Clinton, bloccando definitivamente qualsiasi movimento popolare diretto contro il sistema.

Per queste ragioni, i timori che pervadono i vertici del Partito Democratico e i suoi potenti sostenitori negli Stati Uniti non sono tanto per un eventuale candidato alla Casa Bianca o presidente Sanders, bensì per l’ulteriore entusiasmo e le aspettative che un suo successo potrebbe generare, assieme a una possibile mobilitazione dal basso di nuove forze indipendenti e, in chiave futura, realmente rivoluzionarie.

di Michele Paris

La tornata di martedì delle elezioni primarie per le presidenziali americane si è risolta con risultati parzialmente a sorpresa per i due principali partiti, almeno a giudicare dalle previsioni proposte alla vigilia dai media ufficiali. Nonostante i favori dei sondaggi, tra i Democratici Hillary Clinton ha incassato una sconfitta a sorpresa in uno degli stati chiave in vista di novembre. Per i Repubblicani, invece, i ripetuti assalti provenienti da più parti fuori e dentro al partito sono riusciti soltanto a scalfire lo status di favorito di Donald Trump.

La vittoria di misura in Michigan del senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha salvato una candidatura che, senza un’affermazione in uno stato di peso prima degli importanti appuntamenti delle prossime settimane, non avrebbe probabilmente più avuto molto senso.

La sua affermazione non ha portato alcun guadagno in termini di delegati, anzi, grazie al largo successo in Mississippi, Hillary ha chiuso la giornata con un saldo positivo. Tuttavia, il primo posto di Sanders in Michigan contribuisce come minimo a mantenere aperta la corsa alla nomination nel Partito Democratico. Secondo lo stesso team di Sanders e alcuni commentatori “liberal”, addirittura, i risultati di martedì lascerebbero aperta la speranza, comunque remota, di invertire le sorti della sfida.

Hillary Clinton ha finora messo assieme la maggior parte dei successi nelle primarie e il suo vantaggio nel numero di delegati, i quali dovranno decidere ufficialmente il candidato alla Casa Bianca durante la convention della prossima estate, negli stati americani del sud. Qui, l’ex segretario di Stato ha potuto beneficiare del voto favorevole della grande maggioranza degli afro-americani, i quali compongono però una parte minoritaria dell’elettorato Democratico nei grandi stati settentrionali e del Midwest che voteranno a breve.

In Michigan, Sanders sembra essere riuscito a capitalizzare gli attacchi portati contro la rivale in una serie di comizi e in alcuni spot elettorali, così come nel dibattito di domenica scorsa trasmesso in diretta TV. I temi più caldi su cui Sanders è andato all’offensiva sono stati quelli economici e in particolare l’emorragia di posti di lavoro nel settore manifatturiero.

L’insistenza sulla deindustrializzazione e la crisi economica, assieme a tutte le conseguenze che ne sono derivate per i lavoratori americani, ha fatto presa su buona parte degli elettori di uno stato pesantemente colpito come il Michigan. Sanders ha potuto poi accusare efficacemente Hillary di avere sostenuto i trattati di libero scambio che nel passato hanno favorito la delocalizzazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro dagli Stati Uniti verso altri paesi dove il costo della manodopera è decisamente più basso.

La sconfitta di Hillary in Michigan ha comunque sbalordito i suoi sostenitori, inclusi quelli nei media, visto che i più recenti sondaggi, pubblicati un paio di giorni prima del voto, erano giunti ad assegnarle un vantaggio non lontano dai 20 punti percentuali. La Clinton, poi, aveva puntato molto su questo stato proprio per chiudere definitivamente il già complicato percorso verso la nomination di Sanders, mostrando, tra l’altro, sentimenti per lei molto rari di umanità e compassione riguardo il caso della città di Flint, dove altissimi livelli di piombo sono stati riscontrati nell’acqua potabile.

Il vantaggio di Hillary nel numero dei delegati conquistati finora resta ad ogni modo consistente ed è anzi aumentato dopo martedì, ma i dati del voto in Michigan indicano persistenti debolezze che, se anche non la priveranno della nomination, potrebbero esserle fatali nel voto di novembre. Sanders continua ad esempio a fare meglio della sua rivale tra i lavoratori bianchi e gli indipendenti, cioè gli elettori che non sono affiliati ufficialmente a nessun partito.

Proprio queste due categorie dell’elettorato americano stanno proiettando Donald Trump verso la nomination Repubblicana e, in un’elezione presidenziale, risultano spesso decisive nello stabilire le sorti di alcuni stati tradizionalmente in bilico tra i due partiti. Non a caso, a tutt’oggi molti sondaggi su scala nazionale assegnano un certo vantaggio a Trump su Hillary in proiezione di una sfida tra i due attuali favoriti nel mese di novembre.

Alla luce di quanto accaduto in Michigan, le competizioni di martedì prossimo in stati dalla composizione dell’elettorato e dai problemi economici più o meno simili, come Ohio, Illinois e Missouri, saranno con ogni probabilità decisive per capire se Bernie Sanders potrà conservare qualche speranza di recuperare terreno e ambire seriamente alla nomination.

I problemi per Sanders non sarebbero comunque risolti nemmeno da eventuali successi in tutti e tre questi stati. La prossima settimana voteranno anche Florida e North Carolina, dove Hillary è nettamente favorita, e una sua vittoria qui le permetterebbe di compensare le sconfitte subite altrove, dove l’assegnazione dei delegati col metodo proporzionale le garantirebbe comunque una quota significativa di quelli in palio.

Nella giornata di martedì si sono tenute anche le primarie Repubblicane in Michigan e in Mississippi, ma gli elettori di questo partito hanno votato anche in Idaho e nei caucuses alle Hawaii. Trump ha portato a casa i primi due stati, che offrivano il maggior numero di delegati, e le Hawaii, mentre in Idaho a prevalere è stato il senatore ultra-conservatore del Texas, Ted Cruz.

Trump veniva dalle sconfitte di sabato scorso, sempre per mano di Cruz, in Kansas e in Maine e, soprattutto, erano emersi segnali che la campagna orchestrata per fermare la sua corsa dagli stessi leader e sostenitori del Partito Repubblicano stava iniziando a dare i primi frutti.

Come spesso è accaduto in questa stagione elettorale, inoltre, Trump anche nei giorni scorsi era stato protagonista di nuovi episodi controversi, questa volta riguardanti, tra l’altro, le sue inclinazioni fasciste, i flop collezionati nel mondo del business e addirittura i suoi attributi sessuali.

Le paure e gli avvertimenti contro una possibile nomination di Trump non hanno però avuto particolare efficacia alla prova delle urne, anche perché la campagna che mira a screditarlo è condotta da quello stesso establishment Repubblicano che gli elettori intendono punire votando proprio il miliardario newyorchese.

Inoltre, la permanenza nella corsa di altri tre candidati che continuano a fare campagna elettorale attiva non fa che dividere il voto anti-Trump. L’unico in grado di battere ripetutamente il favorito Repubblicano sembra essere sempre più Ted Cruz, il quale però a sua volta non è particolarmente gradito ai vertici del partito e ha un modesto appeal negli stati dove la componente di estrema destra ed evangelica risulta meno numerosa.

Il cavallo su cui puntava l’apparato Repubblicano e i suoi finanziatori è d’altronde in caduta libera. Il senatore della Florida, Marco Rubio, ha infatti dovuto patire un’altra umiliazione dopo il voto di martedì, non essendo riuscito a raggiungere la soglia minima per ottenere qualche delegato distribuito proporzionalmente.

In Michigan e Mississippi, poi, Rubio ha chiuso al di sotto del 10%, suggellando una prestazione disastrosa che non promette nulla di buono in vista delle primarie di martedì prossimo nel suo stato, dove il senatore cubano-americano potrebbe tristemente vedere la fine definitiva della sua corsa alla Casa Bianca.

Secondo alcune indiscrezioni apparse sulla stampa USA mercoledì, Rubio e il suo staff potrebbero annunciare a breve il ritiro dalla competizione proprio per evitare una clamorosa batosta in Florida.

Martedì, Rubio è stato battuto ovunque da Trump e Cruz, mentre in Michigan e in Mississippi lo ha superato anche il governatore dell’Ohio, John Kasich, la cui campagna elettorale è stata finora poco più che marginale. Il sorpasso di Kasich è ancora più preoccupante per Rubio, poiché entrambi dovrebbero teoricamente fare riferimento alla stessa fetta di elettorato “moderato” del Partito Repubblicano.

Gli equilibri visti finora in casa Repubblicana e il persistere di un voto spalmato su quattro candidati rendono molto difficile il compito di coloro che vorrebbero impedire che la nomination vada a Donald Trump. Nonostante i giornali americani abbiano parlato in questi giorni di una sorta di coalizione tra i leader del partito e alcuni ricchi donatori per portare una raffica di attacchi al favorito, l’ipotesi più discussa resta quella della cosiddetta convention divisa.

Questa strategia consisterebbe nel fare in modo che Trump non possa raggiungere il numero di delegati necessari ad assicurarsi la nomination al termine delle primarie, così che alla convention dopo la prima votazione - evidentemente da risolversi in un nulla di fatto - tutti i delegati presenti sarebbero liberi di scegliere un altro candidato. Questa eventualità non si verifica però da decenni in uno dei principali partiti americani e rappresenta un forte rischio politico, visto che finirebbe col privare della nomination il candidato che ha ottenuto il maggior numero di consensi tra gli elettori.

Se i tentativi di fermare Trump proseguiranno e, forse, si intensificheranno nelle prossime settimane, vi è in molti la sensazione che tra il businessman e il partito o, per lo meno, una parte di esso, potrebbe scoppiare la pace se sarà lui ad avere in mano la nomination una volta esaurito il calendario delle primarie.

Una guerra civile tra i Repubblicani alienerebbe ancor più gli elettori, col rischio di consegnare la presidenza al candidato Democratico. La prospettiva di un appianamento delle tensioni interne appare tanto più probabile quanto Trump sembra avere più di una possibilità di battere Hillary Clinton, se dovesse effettivamente sfidarsi con la ex first lady.

I segnali di una futura pacificazione sono infatti già visibili, sia pure nel pieno di uno scontro che sta rivelando la gravissima crisi in cui si dibatte il Partito Repubblicano. Nelle scorse settimane alcuni esponenti Repubblicani di spicco hanno dato il proprio appoggio ufficiale a Trump, mentre quest’ultimo, proprio martedì dopo le primarie, ha lanciato segnali distensivi all’establishment, elogiando lo speaker della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, e facendo appello all’unità del partito in previsione delle elezioni di novembre.

di Michele Paris

La notizia del blitz condotto dai droni americani in territorio somalo lo scorso fine settimana ha segnato una notevole escalation dell’impegno militare di Washington in questo paese in parallelo all’espansione delle operazioni “anti-terrorismo” in Africa e in Medio Oriente. Solo alcuni giorni dopo il bombardamento, il Pentagono ha fatto sapere di avere ucciso con una singola incursione 150 presunti militanti dell’organizzazione affiliata ad al-Qaeda, al-Shabaab, in un campo di addestramento situato duecento chilometri a nord della capitale della Somalia, Mogadiscio.

L’attacco sarebbe giunto dopo settimane di sorveglianza da parte statunitense e, secondo la versione ufficiale - impossibile da verificare in maniera indipendente - le vittime stavano partecipando a una cerimonia per la fine del loro addestramento. I nuovi militanti fondamentalisti, sempre secondo il dipartimento della Difesa americano, avrebbero dovuto essere impiegati in attentati terroristici contro gli Stati Uniti o i paesi loro alleati in Africa orientale.

Per il Pentagono, infine, il raid dei droni USA non avrebbe fatto nessuna vittima civile. Quest’ultima affermazione è da prendere particolarmente con le molle, visti i criteri tutt’altro che rigorosi con cui gli Stati Uniti identificano le vittime degli assassini extra-giudiziari mirati in paesi sovrani.

Tutte le informazioni sulla maggiore operazione portata a termine dai militari americani in Somalia dall’inizio dell’impegno contro il “terrorismo” in questo paese sono state riportate dai principali media internazionali come fatti assodati. Soprattutto, la natura dell’impegno di Washington in Somalia quasi mai è stata analizzata in maniera critica, collegandola cioè ai disegni perseguiti dagli USA in paesi dall’eccezionale importanza strategica e al ruolo svolto in questo ambito dalla cosiddetta “guerra al terrore”.

Da qualche tempo, comunque, al-Shabaab stava mostrando segnali di ripresa dopo una serie di sconfitte inflitte dal contingente militare dell’Unione Africana, appoggiato dagli Stati Uniti, in grado di strappare buona parte del territorio somalo controllato dall’organizzazione qaedista. Svariati attentati compiuti nei mesi scorsi hanno dato così l’opportunità agli USA di giustificare un attacco consistente come quello del fine settimane.

In precedenza, le incursioni con i droni americani in Somalia erano prevalentemente indirizzate contro singoli leader di al-Shabaab, come quelle del settembre 2014 e del marzo successivo che uccisero, rispettivamente, Ahmed Abdi Godane e Adan Garar. Questi assassini mirati furono seguiti dalle prevedibili rassicurazioni circa l’inevitabile indebolimento di al-Shabaab, anche se il gruppo fondamentalista si è ben presto ristabilito per tornare a essere uno degli obiettivi primari dell’impegno militare americano in Africa.

I militanti somali, da parte loro, tramite un portavoce hanno confermato martedì la notizia dell’incursione USA, sia pure definendo “esagerato” il bilancio delle vittime. Al-Shabaab, infatti, eviterebbe raduni di centinaia di uomini in un solo punto proprio per il timore dei droni, la cui presenza nei cieli del paese del Corno d’Africa è ovviamente ben nota.

I velivoli armati senza pilota del Pentagono prendono dunque di mira da anni i militanti di al-Shabaab in Somalia, la cui nascita e ascesa sono però direttamente collegate alle manovre americane e occidentali in genere in questo paese martoriato. L’origine del gruppo jihadista risale alla sconfitta un decennio fa dell’Unione delle Corti Islamiche, da cui esso deriva, per mano del cosiddetto Governo Federale di Transizione e dell’esercito etiope, entrambi appoggiati dall’Occidente.

In seguito, al-Shabaab avrebbe sfruttato la debolezza del governo e l’ostilità diffusa verso le truppe etiopi in Somalia per conquistare terreno e stabilire il proprio controllo sulla stessa capitale. Solo nel 2011 il Governo di Transizione e la missione militare dell’Unione Africana (AMISOM), con l’appoggio americano, riuscirono a liberare Mogadiscio e, da allora, la campagna USA con i droni ha assunto carattere di regolarità anche nel paese dell’Africa orientale.

L’impegno delle potenze regionali e internazionali per esercitare il proprio controllo sulla Somalia ha innescato e alimentato conflitti interni rovinosi che hanno a loro volta devastato il paese, la cui popolazione vive oggi quasi interamente in stato di estrema povertà.

Anche se inquadrato nella “guerra al terrore”, lo sforzo americano in Somalia è motivato principalmente dalla posizione strategica che essa può vantare nel continente africano. Come lo Yemen immediatamente a nord, e non a caso anch’esso teatro di una lunga e sanguinosa campagna con i droni e, da qualche mese, di una brutale guerra condotta dall’Arabia Saudita, la Somalia si affaccia sul Golfo di Aden che collega il Mar Rosso all’Oceano Indiano.

Da questa via d’acqua transitano ingenti traffici commerciali, inclusi quelli petroliferi diretti verso i paesi occidentali. Non solo, il Golfo di Aden e il delicatissimo stretto di Bab el-Mandeb che divide lo Yemen e il vicino Gibuti - dove sorge l’unica base militare americana permanente in Africa - rappresentano il punto di connessione con l’Oceano Indiano e l’Asia orientale, considerati sempre più come i centri nevralgici degli scambi commerciali planetari.

In questo scenario, la Cina svolge un ruolo decisivo nei calcoli strategici di Washington, visto che i traffici che percorrono queste rotte riguardano in buona parte proprio il principale rivale degli Stati Uniti su scala globale. Inoltre, l’impegno militare americano in Africa è di fatto il tentativo di contrastare l’influenza economica cinese nel continente, cresciuta esponenzialmente nell’ultimo decennio nonostante il rallentamento dell’ultimo periodo.

Non potendo competere sul fronte economico con Pechino, Washington intende espandere la propria presenza militare e le partnership con i paesi africani in questo ambito, utilizzando il pretesto della guerra al terrorismo internazionale che, per molti versi, è l’emanazione stessa della politica estera degli Stati Uniti.

Proprio l’Africa è infatti al centro di un’accelerazione dell’impegno americano in questo frangente. Come ha diligentemente scritto lunedì il New York Times, “l’arrivo dello Stato Islamico [ISIS] in Libia ha alimentato il timore che il gruppo fondamentalista possa espandere la propria presenza in altri paesi nordafricani”.

La distruzione della Libia grazie alle manovre occidentali ha finito d’altra parte per destabilizzare tutta l’Africa settentrionale, offrendo all’Occidente nuove possibilità di intervenire militarmente per imporre o salvaguardare i propri interessi strategici. Le forze americane, come spiega sempre il Times, stanno così “aiutando [le forze locali] nella guerra contro al-Qaeda in Mali, Niger e Burkina Faso; contro Boko Haram in Nigeria, Camerun e Ciad; contro al-Shabaab in Somalia e Kenya”.

Proprio un paio di settimane fa, un’incursione dei droni americani aveva colpito un campo di addestramento dell’ISIS a Sabratha, in Libia, uccidendo una quarantina di “militanti”. L’operazione, secondo i vertici militari USA, rientrava nei piani in fase di studio per ampliare anche nel paese che fu di Gheddafi la campagna fatta di bombardamenti mirati contro le forze del terrorismo jihadista.

di Mario Lombardo

La vigilia dell’annuale sessione dell’Assemblea del Popolo cinese è stata segnata questa settimana da un inquietante annuncio da parte del governo. Nei prossimi anni, cioè, le “riforme” economiche richieste dai mercati e dalle istituzioni finanziarie internazionali saranno accelerate e, in particolare, un certo numero di aziende statali verrà chiuso o ristrutturato, con la conseguente perdita di milioni di posti di lavoro.

La leadership del Partito Comunista Cinese (PCC) sta studiando da tempo l’ipotesi di ridimensionare le compagnie di proprietà dello stato, soprattutto quelle dell’industria pesante che in molti casi restano in vita solo grazie al supporto pubblico per il timore delle conseguenze sociali di eventuali licenziamenti di massa.

In un contesto segnato dal rallentamento dell’economia e dalle crescenti apprensioni per i livelli di indebitamento, il regime sembra essere ora intenzionato a non rinviare ulteriormente questa delicata decisione. Qualche giorno fa, il ministro per l’Occupazione e il Welfare, Yin Weimin, ha così comunicato che le riduzioni previste nei settori del carbone e dell’acciaio avranno effetti devastanti, con almeno 1,8 milioni di lavoratori che perderanno il loro impiego.

Questi numeri potrebbero essere addirittura sottostimati, verosimilmente per evitare agitazioni che già stanno riguardando l’industria cinese. Un articolo della Reuters ha infatti citato anonime fonti governative per rivelare che i tagli e le ristrutturazioni riguarderanno sette settori produttivi e comporteranno complessivamente la distruzione di circa sei milioni di posti di lavoro nei prossimi tre anni.

Il governo si è affrettato a rassicurare che queste perdite saranno “temporanee” e i disoccupati dell’industria pesante saranno assorbiti da altri settori, anche se, visto il numero di licenziamenti e gli stenti dell’economia, una simile prospettiva appare poco probabile.

Inoltre, Pechino ha stanziato 100 miliardi di yuan, pari a oltre 15 miliardi di dollari, per assistere i lavoratori licenziati. Anche in questo caso, come ritengono molti osservatori, l’elevato numero di industrie non competitive potrebbero rendere insufficiente l’impegno del governo.

Il moltiplicarsi di aziende “zombi” in Cina è legato in parte alla bolla speculativa seguita alla crisi globale del 2008 e prodotta dall’intervento governativo per stimolare l’economia del paese. In particolare, prestiti a bassissimo costo avevano alimentato un’ondata di nuove costruzioni di abitazioni e infrastrutture con riflessi inizialmente positivi sull’industria pesante.

Il persistere della stagnazione ha però alla fine determinato un rallentamento di queste attività, assieme a una preoccupante impennata dei livelli di indebitamento, ripercuotendosi non solo sull’industria domestica ma anche sulle economie di paesi esportatori di materie prime, come Brasile o Australia.

La situazione di molte aziende di stato cinesi è documentata ad esempio da alcuni dati proposti dal Financial Times, secondo il quale il 42% di queste ultime era in perdita nel 2013, mentre i profitti complessivi di tutto il settore pubblico l’anno scorso sono calati in termini assoluti per la prima volta dal 2001.

Le acciaierie, poi, hanno fatto registrare un eccesso di capacità produttiva pari a 327 milioni di tonnellate nel 2014 contro i 132 milioni del 2008. Dati simili contraddistinguono anche altri settori dell’industria pesante, come quello del cemento e della raffinazione.

Oltre alle conseguenze sui livelli occupazionali e sulla pace sociale, l’intervento del governo per ridimensionare le aziende di stato potrebbe farsi sentire negativamente anche sul settore bancario e finanziario, visto il massiccio indebitamento delle compagnie pubbliche cinesi e i timori già ampiamente diffusi per l’incremento dei cosiddetti “prestiti non performanti”.

Le iniziative che si prospettano in Cina si inseriscono nei piani di “riforma” in senso liberista dell’intero sistema economico che la leadership Comunista sta progressivamente implementando. Il prezzo che verrà pagato dai lavoratori cinesi, come conferma il recente annuncio dei licenziamenti di massa, sarà ancora una volta altissimo.

La stampa internazionale ha dato ampio spazio in questi giorni agli effetti già prodotti dalla transizione verso il capitalismo della Cina negli anni Novanta. In quell’occasione, una raffica di privatizzazioni e ristrutturazioni di compagnie pubbliche causò la perdita di qualcosa come 40 milioni di posti di lavoro, in gran parte nei settori manifatturiero e dell’industria pesante. L’impulso al settore privato permise il riassorbimento di una parte di questi lavoratori ma l’impatto fu traumatico per molti, anche per via del restringimento della rete di assistenza sociale garantita a tutti i cittadini.

Se i numeri appaiono oggi più contenuti, è altrettanto vero che il boom cinese sembra appartenere ormai al passato, mettendo in serio dubbio le capacità dell’economia di questo paese di produrre nuove opportunità di impiego per tutti o quasi i lavoratori che verranno licenziati nei prossimi anni, nonché per i 15 milioni di giovani cinesi che entreranno nel mercato del lavoro solo nel 2016.

Lo stesso governo, d’altra parte, potrebbe annunciare durante l’imminente sessione dell’Assemblea del Popolo un ulteriore abbassamento del target di crescita, il quale per i prossimi anni oscillerà tra il 6,5 e il 7%.

Ai vertici del regime vi è la piena consapevolezza delle tensioni sociali che covano dietro l’apparenza di un’immagine di stabilità e controllo. Gli scioperi registrati in Cina sono infatti raddoppiati tra il 2014 e il 2015 e nel solo mese di gennaio del 2016 sono stati più di 500, cioè quasi un quinto del totale dello scorso anno, senza contare quelli non riportati dalla stampa o dai social media.

In questo quadro, è comprensibile la relativa prudenza con cui la leadership Comunista intende procedere sul percorso delle “riforme”, nonostante le pressioni e gli inviti provenienti da più parti, dentro e fuori la Cina, ad accelerare le liberalizzazioni economiche.


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