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di Emy Muzzi
LONDRA. A volte la giustizia agisce con un tempismo eccellente: proprio nel giorno del summit fallito sull’emergenza immigrazione a Bruxelles, l’Alta Corte della Gran Bretagna ha sospeso con effetto immediato la reclusione in centri di detenzione e rimozione degli immigrati illegali ai quali è stata rifiutata la richiesta d’asilo. I centri sono vere e proprie carceri per rifugiati ai quali vengono concessi solo sette giorni per appellarsi all’asilo negato dal Ministero degli Interni britannico e tentare di restare nel paese evitando il rimpatrio nei paesi d’origine, dove nella maggior parte dei casi rischiano la morte.
Contro il verdetto dell’Alta corte il ministero, guidato da Theresa May, si era appellato, ma il ‘fast–track’ anti-rifugiati è stato infine dichiarato un procedimento illegale.
Nel regno di sua maestà i ‘bunker d’accoglienza’ sono 14. Nei loro racconti i reclusi li definiscono ‘peggio di un carcere’, dove gli internati non hanno alcuna libertà individuale, non possono interagire o comunicare con l’esterno, dove trattamento, cibo e condizioni igieniche sono drammatici.
L’isolamento dall’esterno è totale e alla stampa non viene dato accesso; le rare testimonianze sono state raccolte per telefono con speciale autorizzazione. Molti ricordano ancora la tragica protesta nel campo di Harmondsworth, nel Middlesex dove i gli internati dell’ ‘immigration removal centre’ avevano scritto nel cortile la parola ‘HELP’ con asciugamani e vestiti perché la disperata richiesta d’aiuto venisse ripresa dai media.
Se da una parte lo scandalo dei centri di detenzione è finito, almeno nel Regno Unito, dall’altra il governo Cameron ha ottenuto l’esenzione dalla lista (ancora ignota) dei paesi che dovranno accogliere nei prossimi mesi 40mila richiedenti asilo. L’opportunità per il Regno Unito di chiamarsi fuori dalla scomoda lista è prevista dal Trattato di Lisbona, un opt-out sottoscritto anche da Polonia, Danimarca e Repubblica Ceca nella fase di accesso al Trattato.
Infatti, fallita l’opzione quote, con giusto furore dell’Italia che sta fronteggiando, ancora da sola, un’emergenza storica, l’Unione europea procede adesso a tentoni seguendo il principio random del ‘caso per caso’ e tentando una possibile ridistribuzione di migliaia di profughi in maggioranza siriani, afghani, iracheni e kossovari.
Il caso dell’Ungheria e dei 60mila richiedenti asilo nel 2014 (dati Eurostat) ed altri 60mila quest’anno (dati del governo ungherese) è stato archiviato subito con la stessa arbitraria bonarietà con cui Jean Claude Juncker è solito accogliere il dittatore magiaro Victor Orban a Bruxelles con un simpatico e provocatorio schiaffetto sulla guancia ed amichevole stretta di mano, invece di riservare ad un neonazista la freddezza e la distanza che merita.
Lo stesso verdetto dell’Alta corte britannica contro i centri di detenzione dovrebbe essere un monito anche per i giudici ungheresi in giorni in cui ‘il dittatore’ propone il lavoro forzato per i rifugiati detenuti in attesa d’asilo e spinge fuori dal territorio ungherese verso gli altri stati membri migliaia di rifugiati.
Regno Unito ed Ungheria sono due casi limite di una leadership europea inesistente e del malfunzionamento (sia esso voluto o meno) del sistema giudiziario internazionale. Basti pensare alla mancata adesione dell’Unione Europea alla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo: l’adesione comporta un conflitto tra la Corte di Giustizia Europea e la Corte Europea per i Diritti Umani (EctHR) che immobilizza il sistema giudiziario a livelllo europeo in termini di garanzia dei diritti umani.
La fase di stallo di questo processo d’integrazione fa sicuramente comodo a qualche membro dell’Unione: primo fra tutti la Gran Bretagna che punta ad una carta dei diritti umani fatta in casa.
L’enigma su quali stati si faranno carico dei 40mila rifugiati e sulla garanzia del rispetto dei loro diritti è sintomatico di una Unione che si affida all’arbitrarietà della politica, del ‘caso per caso’, e non alla coerenza della legge.
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di Michele Paris
Il raggiungimento di un accordo definitivo sul nucleare iraniano sembra dovere slittare almeno di qualche giorno rispetto alla scadenza originariamente fissata per la mezzanotte di martedì 30 giugno. Il prolungamento delle discussioni in corso a Vienna è dovuto alle difficoltà nell’arrivare a un’intesa su una manciata di questioni ritenute cruciali dai governi occidentali che fanno parte del gruppo dei P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), anche se la laboriosità delle trattative indica soprattutto l’assenza della volontà politica da parte americana di riconoscere la piena legittimità delle aspirazioni di Teheran, non solo nell’ambito del nucleare.
Il fine settimana appena concluso ha fatto registrare fitti incontri tra il capo della delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, con i rappresentanti di USA, Francia, Gran Bretagna, Germania e Unione Europea. Lo stesso diplomatico iraniano è poi tornato a Teheran nella giornata di domenica per consultazioni con il governo e l’entourage della guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ma sarà di ritorno a Vienna già martedì.
Il segretario di Stato USA, John Kerry, è rimasto invece nella capitale austriaca, mentre i suoi omologhi Laurent Fabius (Francia), Philip Hammond (GB) e Frank-Walter Steinmeier (Germania) torneranno nelle ore immediatamente precedenti la scadenza, assieme ai ministri degli Esteri di Russia e Cina.
Domenica, la responsabile della politica estera UE, Federica Mogherini, aveva affermato che vi erano speranze sul rispetto del termine del 30 giugno, anche se molti giornali hanno riportato i preparitivi delle varie parti per prorogare le trattative e delineare un accordo nei giorni successivi.
I punti sui quali sono arenati i negoziati riguardano in particolare le modalità e i tempi con cui dovrebbero essere cancellate o sospese le sanzioni che gravano sulla Repubblica Islamica e la natura delle ispezioni internazionali nei siti nucleare iraniani. Particolarmente controverse sono poi le ispezioni presso le installazioni militari, teoricamente utili per verificare ipotetici programmi condotti dall’Iran in passato per giungere alla costruzione di armi nucleari.
Il governo francese si è fatto carico nei giorni scorsi di “proporre” condizioni più stringenti in questi due ambiti, nonché di imporre limiti alle attività iraniane di ricerca e sviluppo sul nucleare. Come hanno spiegato molti analisti, l’iniziativa di Parigi è stata chiaramente coordinata con gli Stati Uniti e Israele.
Singolarmente, tutte queste condizioni erano state respinte da Khamenei nel corso di un discorso pubblico tenuto la scorsa settimana e destinato in larga misura a placare i timori degli oppositori dell’accordo sul fronte domestico.
L’ayatollah, il quale ha dato tempo fa la propria approvazione ai negoziati, era ricorso a una retorica combattiva, criticando gli Stati Uniti - sostanzialmente in maniera corretta - per volere la “resa” dell’Iran, escludendo tra, l’altro, l’accettazione di restrizioni alla propria attività nucleare per un periodo di “10 o 12 anni”.
Khamenei, inoltre, ha invocato la fine di tutte le sanzioni economiche, sia quelle imposte dal Consiglio di Sicurezza ONU sia quelle del Congresso USA o della Casa Bianca, immediatamente dopo la firma dell’accordo, mentre le altre - cioè in ambito energetico o militare - potrebbero essere smantellate in un periodo di tempo ragionevole. Washington, al contrario, intende imbrigliare l’Iran in un lungo processo di graduale allentamento delle sanzioni, le quali potrebbero in ogni caso essere riapplicate automaticamente in caso di mancato rispetto dell’accordo.
Qualsiasi ispezione dei siti militari, infine, è stata esclusa da Khamenei, vista anche la risaputa fragilità delle presunte prove presentate in passato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) circa gli esperimenti iraniani sul nucleare in questo settore.
L’insistenza degli Stati Uniti e dei loro alleati su condizioni che difficilmente possono essere accettate dal governo di Teheran senza capitolare e subire pericolosi contraccolpi interni riflette in parte le pressioni esercitate da più parti sull’amministrazione Obama per fare marcia indietro sull’accordo o, quanto meno, per constringere l’Iran a fare concessioni ancora maggiori.
Alle manovre del Congresso di Washington e all’isteria di Israele continuano ad aggiungersi voci esterne, come quelle di cinque ex consiglieri del presidente americano, i quali hanno messo in guardia dal firmare un accordo che non conterrebbe nemmeno gli standard minimi fissati dal governo USA per sventare la minaccia nucleare iraniana.
Da parte sua, Obama intende finalizzare un accordo nel più breve tempo possibile, sia pure cercando di ottene il massimo da Teheran. Un eventuale sforamento della scadenza prevista dall’intesa preliminare raggiunta il 2 aprile scorso a Losanna dovrebbe essere al massimo di pochi giorni, anche perché se la Casa Bianca non presenterà un accordo al Congresso per ottenerne l’approvazione entro il 9 luglio, il periodo di tempo a disposizione di quest’ultimo per analizzarlo passerà da 30 a 60 giorni.
Ciò è quanto previsto da una legge recentemente approvata dal Congresso stesso e firmata da Obama come compromesso per superare le resistenze di deputati e senatori di entrambi i partiti ai negoziati con la Repubblica Islamica.
Il calcolo di Obama appare dunque parzialmente differente da quello dei “falchi” di Washington, interessati in maniera pura e semplice al cambio di regime a Teheran. La Casa Bianca, puntando sulla disponibilità della leadership “moderata” in Iran e sul desiderio di veder cessare le sanzioni economiche punitive, auspica un accordo che preservi un meccanismo volto a fare pressioni sul regime anche nei prossimi anni, sia attraverso la minaccia della reimposizione delle stesse sanzioni o la richiesta dell’apertura dei siti militari alle ispezioni internazionali.
In questo modo, gli Stati Uniti contano di ottenere concessioni utili ai propri interessi strategici in Medio Oriente o di limitare l’integrazione economico-politico-militare dell’Iran con la Russia e la Cina, veri obiettivi di Washington nella guerra per l’egemonia planetaria. Parallelamente, sulla politica iraniana di Obama agiscono anche gli interessi economici del business americano, stimolato, come i propri rivali europei, a tornare su un mercato enorme e in un paese con ingenti risorse energetiche.
La disposizione all’accordo dell’amministrazione Obama per risolvere una crisi fabbricata e dai contenuti quasi esclusivamente politici non ha perciò nulla a che vedere con il rispetto dei diritti dell’Iran a sviluppare un programma nucleare pacifico e a giocare un ruolo di spicco su scala regionale.
Infatti, anche durante le trattative dei mesi scorsi non sono mai mancate le minacce militari da parte americana nei confronti della Repubblica Islamica e, nel caso un accordo definitivo dovesse uscire dall’ultimo round di negoziati a Vienna, c’è da scommettere che non mancheranno nemmeno in futuro.
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di Carlo Musilli
La strage della settimana scorsa al resort Riu Imperial Marhaba di Sousse, in Tunisia, porta con sé due insegnamenti. Il primo riguarda la strategia dell'Isis contro l'unico Paese nordafricano in cui la Primavera araba abbia prodotto uno Stato laico e democratico, spesso citato come modello dalla comunità internazionale. Il secondo ha invece a che vedere con il lato oscuro della stessa rivoluzione tunisina, che si è rivelata incapace di dare una risposta convincente a molti aspetti della crisi socioeconomica che affligge il Paese.
Innanzitutto, la carneficina dell'albergo (38 persone freddate in spiaggia a colpi di kalashnikov fra cittadini inglesi, tedeschi, belgi e irlandesi, più altri 36 feriti) arriva a poco più di tre mesi dalla strage del museo del Bardo di Tunisi, in cui morirono 24 persone, di cui 21 turisti. Prima la cultura, poi le bellezze naturali.
Lo Stato islamico, che ha rivendicato entrambi gli attentati, punta dritto al cuore economico della Tunisia, il turismo. Prima dei due massacri, il settore valeva 1,5 miliardi l'anno, pari al 7% del prodotto interno lordo tunisino, una quota ancora lontanissima dal 15% dell'epoca prerivoluzionaria, ma comunque in (lenta) ripresa. Ora, invece, la curva è tornata a scendere.
Secondo un'indagine pubblicata la settimana scorsa, nella prima metà del 2015 il numero dei turisti in Tunisia è calato del 28% su base annua, mentre rispetto al 2010 il conto si è dimezzato in termini assoluti. Se restringiamo l'indagine alle sole presenze di italiani e francesi - fino a pochi anni fa i clienti più affezionati delle spiagge tunisine - il crollo arriva al 62%. E' facile prevedere che questi dati peggioreranno ulteriormente nei prossimi mesi, quando l'effetto della strage nel resort si farà sentire sul turismo di massa. Un impatto che produrrà conseguenze pesanti sul mondo del lavoro, aggravando una situazione già drammatica in termini di occupazione.
Ma la linearità del rapporto causa-effetto non aiuta a comprendere la situazione generale, anzi. Il legame fra gli attentati dell'Isis e i risultati della primavera araba tunisina è duplice e apparentemente contraddittorio. Da una parte, i terroristi puntano ad affossare il turismo per distruggere l'economia del Paese e allontanarlo dall'Europa, con l'obiettivo di erodere le fondamenta del nuovo Stato laico e, parallelamente, di allargare la base di consenso del Califfato. Dall'altra, sono proprio le molte promesse non mantenute dalla rivoluzione ad aver alimentato il consenso di cui oggi gode lo Stato Islamico.
Il punto è che la rivolta iniziata cinque anni fa, pur non essendo degenerata al pari di quelle in Libia o in Egitto, non è stata affatto una storia di successo. I problemi che oggi affliggono il Paese sono gli stessi che nel 2010 lo hanno portato in piazza contro Ben Ali: corruzione dilagante nelle istituzioni, tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30%, frattura socioeconomica drammatica fra Nord e Sud per la carenza d'investimenti nel meridione. Proprio la mancata risposta a questi aspetti della crisi ha spianato la strada alla propaganda del terrorismo fondamentalista.
La Tunisia è il Paese che ha prodotto il maggior numero di conversioni alla causa della jihad, con migliaia di persone arruolate da volontarie prima nelle file di Al Qaeda, poi in quelle dell'Isis. Proviene dalla Tunisia la maggior parte dei miliziani inviati in Siria e in Iraq: circa 3mila individui secondo le intelligence internazionali, generalmente addestrati in Libia.
Si tratta quasi sempre di ragazzini (o comunque di uomini sotto i 30 anni), provenienti dalle realtà più povere e spediti al macello, a farsi usare come carnefici e vittime sacrificali su ogni fronte della "guerra santa". Chi ha la fortuna di sopravvivere, naturalmente, torna a casa, ma ormai non si pone nemmeno il problema di cercare un'alternativa. Continua la jihad nei musei e nei resort.
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di Fabrizio Casari
Ore drammatiche per la Grecia che apre stamane con la chiusura della Borsa e degli sportelli bancari, per evitare assalti speculativi e prelievi insostenibili. Sono le due misure immediate prese dal governo greco per far fronte all’emergenza determinatasi con la rottura delle trattative con la UE. Misure tampone che dureranno tutta la prossima settimana o almeno fin quando non sarà chiara la direzione che Atene prenderà.
Nel frattempo, Draghi ha deciso di mantenere inalterati i fondi di emergenza disponibili per gli istituti di credito ellenici, precisando tuttavia che potrebbe rivedere le sue decisioni "in qualunque momento" ma che “lavorerà a stretto contatto con la banca di Grecia per garantire la stabilità finanziaria". Ma non è di finanza che si tratta, la crisi greca ha poco a che vedere con i numeri.
L’ammontare del debito greco corrisponde più o meno all’1 per cento del PIL europeo e al 3% del debito complessivo della UE. E’ quindi evidente come non si possa ragionare di tragedia finanziaria per Bruxelles ed è del resto noto come l’esposizione di Atene verso il FMI è inferiore a quella di altri paesi che pure non presentano, allo stato, possibilità di rientro a breve-medio termine. Dunque risulta ozioso identificare possibili tecnicismi finanziari per verificare eventuali margini d’intervento nell’ambito del Trattato e nello statuto della BCE.
La questione tra il FMI e la BCE da un lato e Atene dall’altro è tutta politica. Non è il volume del debito che costituisce il nodo vero, ma l’indisponibilità di Atene a proseguire nel ruolo di alunno obbediente della dottrina imperante. E’ la mancata cessione di sovranità dal governo eletto verso gli organi finanziari internazionali che si muove sullo sfondo. La Grecia viene affondata perché disobbediente, non perché inadempiente.
Non è un caso, infatti, che a far saltare il tavolo delle trattative sia stata la notizia dell’indizione di un referendum consultivo per i cittadini greci. La sola idea che la relazione tra le istituzioni europee e i singoli governi possa passare attraverso il pronunciamento dei popoli manda letteralmente fuori di sé gli euro-burocrati. Che avevano preparato un documento nel quale veniva scritto che le responsabilità per il mancato accordo erano tutte del governo greco.
Si voleva l’umiliazione di Tsipras, il decretare che un governo di sinistra non è accettabile per l’architettura politica e finanziaria della UE, che invece accoglie a braccia aperte nazisti come Orban. Per questo il leader ellenico ha deciso di alzarsi dal tavolo dei negoziati, dove del resto - benché il paese sia allo stremo - gli veniva proposta una ricetta che avrebbe determinato l’indigenza di massa ma che rifiutava la tassazione alle imprese. Mancava solo l’assunzione del tedesco come lingua ufficiale.
Le richieste della Grecia di rinegoziazione del debito sono state respinte perché ragionevoli e sensate. Perché non si vuol costituire un precedente che possa fungere da esempio per nuovi scenari politici, particolarmente possibili in Spagna. Bruxelles, affannata a ribadire il comando sull’Europa invece che a costruire il governo dell’Europa, preferisce eliminare uno dei suoi membri piuttosto che riconoscere ai greci il diritto di scegliere la linea del loro paese. L’esercizio della democrazia si conferma essere incompatibile con l’esercizio del dominio finanziario da parte dell’Europa delle banche. Atene è ormai un paradigma più che un paese.
Tsipras ha smesso dunque di ascoltare Bruxelles, diventata una sorta di Sparta 2.0, ed ha scelto di ascoltare i greci. D’altra parte, non poteva fare diversamente. Aveva ereditato un paese a pezzi, ma riteneva che un negoziato complessivo che prevedesse una ristrutturazione del debito potesse mettere le basi per rifondare l’economia del paese ellenico.
Non per vezzo ideologico, ma per legittima difesa. Perchè la Grecia vive una crisi sistemica profonda, con la caduta del 25% del PIL, il 52% dei giovani senza lavoro, il 40% dei bambini sotto la soglia di povertà. Dati che disegnano una drammatica crisi economica e sociale, umanitaria persino.
Proprio per poter rivedere l’impianto delle politiche ultraliberiste che hanno prodotto queste cifre, Tsipras non ha mai vagheggiato uscite dall'Euro, ma contava di costruire una relazione diversa con l’Europa e con le istituzioni finanziarie internazionali.
La Grecia è letteralmente in ginocchio e non può decretare la morte per fame dei suoi abitanti solo per confermare la linea di rigore di bilancio di chi, quando si trovò in crisi perché alle prese con i costi della riunificazione, chiese ed ottenne una moratoria sul suo debito.
Ma UE e FMI non hanno voluto sentire ragioni. Benché sia evidente a tutti come il proseguimento delle politiche di “riforme strutturali” come richieste dai creditori siano la medicina che ucciderebbe definitivamente il paziente, è prevalsa la linea -tutta politica - che preferisce vedere la Grecia in default piuttosto che accettare di ridiscutere i postulati ideologici turbo-monetaristi che già hanno ridotto il Vecchio Continente alla crisi sociale più devastante degli ultimi 50 anni. E' uno scontro ideologico su base dottrinaria quello che Bruxelles ha voluto ingaggiare con Atene.
Il referendum è quindi, per diversi motivi, una scelta obbligata per Alexis Tsipras. Il programma con il quale è stato eletto Premier prevedeva di riuscire a tenere insieme la sovranità del paese e la permanenza dello stesso nella UE. Bruxelles, sorda a qualunque ipotesi di compromesso, obbliga invece la Grecia a suicidarsi: o attraverso il default economico, come prezzo per la sua dignità, o attraverso il definitivo, totale commissariamento in fatto e in diritto da parte di Bruxelles. Il mandato elettorale di Syryza ha dunque bisogno di una nuova conferma o, alla luce del nuovo quadro, di una profonda modificazione di obiettivi e quindi delle scelte di politica economica e sociale necessari a raggiungerli.
Tsipras sa bene che, stando ai sondaggi, la maggioranza dei greci non vogliono uscire dall’Euro e, pur chiedendo di votare per il No alle proposte di UE e FMI, si è detto pronto a rispettare il mandato popolare qualunque esso sia. Il leader ellenico sa benissimo che una vittoria dei SI porterebbe dritti ad elezioni anticipate dall’esito assai incerto, ma accetta la sfida. E’ una lezione di democrazia partecipativa dalla quale l’Europa avrebbe molto da imparare, ma che proprio per le sue possibili estensioni, per l’effetto emulativo che potrebbe determinare, terrorizza gli euro burocrati.
Sono diversi gli scenari che ora si aprono, dal ritorno al tavolo dei negoziati fino al default controllato. Russia, Cina ed Iran sono spettatori interessati dell’evoluzione dello scenario greco ed hanno già fatto le prime mosse di avvicinamento verso Atene. Non è affatto certo che il rigore europeo non diventi un autogol strategico anche in termini geopolitici.
Non è un caso, semmai una triste metafora, che il paese che ha inventato la democrazia sia oggi messo con le spalle al muro da chi, nella storia, della democrazia è stato il peggior nemico. L’Europa come disegno ideale, identità politica e modello sociale esce a pezzi dalla vicenda greca e la penetrazione dell’antieuropeismo da ieri ha fatto passi da gigante.
Atene è l’agnello sacrificale sull’altare di una concezione dell’Unione che è ormai nemica giurata di quella ispiratrice che aveva ipotizzato Altiero Spinelli nel "Manifesto di Ventotene". In uno stupido gioco d'azzardo per piegare Atene e minacciare Madrid sembra pronta a rischiare di autodistruggere l’Europa intera.
Si apre ora una settimana drammatica e con il referendum si deciderà, in parte, sia il futuro greco che, indirettamente, quello dell’Europa, che rischia di pagare a carissimo prezzo la scelta dell’inflessibilità. In questa nuova guerra del Peloponneso, se Atene piange, Bruxelles non ride.
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di Michele Paris
Il vertice NATO andato in scena questa settimana a Bruxelles si è trasformato nell’ennesimo prevedibile festival dell’ipocrisia, con i paesi dell’Alleanza impegnati a dipingere la Russia come il pericolo principale per la sicurezza europea, vista la presunta aggressività mostrata nella questione ucraina. Per esigenze strettamente “difensive”, gli Stati Uniti e i suoi 27 fedeli partner militari hanno così annunciato, tra l’altro, l’avvio di discussioni sulle contromisure da adottare anche nell’ambito degli armamenti nucleari.
Nei racconti relativi ai contenuti del summit apparsi sui media ufficiali in Occidente si sono sprecate le citazioni di anonimi funzionari NATO che hanno riportato le preoccupazioni dei vari paesi membri e dei vertici militari per le decisioni prese recentemente dal presidente russo, Vladimir Putin.
In particolare, l’incontro di mercoledì e giovedì nella capitale belga sarebbe stato motivato dal recente annuncio del Cremlino di volere aggiungere altri 40 missili balistici intercontinentali al proprio arsenale. Washington, inoltre, ha insistentemente puntato il dito contro la Russia - in larga misura senza fondamento - per avere violato il Trattato sulle Forze Nucleari a Medio Raggio (INF), siglato tra USA e URSS nel 1987.
Quest’ultima accusa dovrebbe portare i membri della NATO a formulare una nuova “dottrina nucleare” già nei prossimi mesi, ad esempio incorporando in essa nuove direttive riguardanti il ruolo delle armi nucleari nell’ambito delle esercitazioni militari dell’Alleanza e un’interpretazione aggiornata delle posizioni russe in merito all’uso di questi stessi ordigni.
In altre parole, secondo la versione occidentale, poiché la “dottrina nucleare” NATO attualmente in vigore risale almeno a un decennio fa, quando la Russia era considerata un possibile partner, essa non riflette più la nuova realtà strategica venutasi a creare a causa della rinnovata aggressività di Mosca.
Nelle parole del segretario generale della NATO, l’ex premier laburista norvegese Jens Stoltenberg, “le attività nucleari, gli investimenti nelle proprie capacità nucleari e le esercitazioni in ambito nucleare della Russia fanno parte di un quadro globale nel quale è possibile osservare un paese più risoluto” nella proiezione dei propri interessi.
Lo stesso Stoltenberg giovedì ha messo anche in guardia dal rischio di una ripresa dei combattimenti in Ucraina sud-orientale, ribadendo senza fondamento come la Russia continui a fornire armi e soldati ai separatisti che combattono contro il regime golpista installato a Kiev dall’Occidente.
La responsabilità del clima bellico che si respira in Europa, in sostanza, secondo la NATO sarebbe da attribuire interamente al governo di Vladimir Putin, intento a pianificare una qualche riconquista delle aree sotto la sfera d’influenza sovietica.
Vista la situazione, perciò, diventa legittima praticamente ogni genere di iniziativa militare volta a contrastare questo fantomatico tentativo di espansione russo che sembrerebbe incombere in primo luogo sui paesi dell’Europa orientale.
Durante il vertice di questa settimana sono stati così confermati alcuni progetti per rispondere all’arroganza di Mosca. Il numero di uomini da assegnare alla cosiddetta Forza di Reazione Rapida è ad esempio salito a 40 mila dai 4 mila previsti inizialmente e in un secondo momento già aumentati fino a 13 mila.
In maniera chiaramente provocatoria nei confronti della Russia, queste forze stazioneranno in vari paesi dell’Europa orientale, come Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania. Inoltre, la NATO dovrebbe istituire una forza di circa 4 mila uomini in grado di mobilitarsi contro ipotetiche manovre russe in maniera ancora più rapida, cioè entro 48 ore.
Nella giornata di martedì, il segretario alla Difesa americano, Ashton Carter, aveva assicurato che gli Stati Uniti forniranno centinaia di veicoli militari, aerei da guerra, droni, carri armati e artiglieria pesante da posizionare in questi stessi paesi. Da qualche mese, poi, dal Pentagono viene avanzata l’idea di stazionare in Europa missili Cruise con testate nucleari, ovviamente puntati verso la Russia.
I preparativi in atto confermano dunque come la NATO stia portando a compimento un vero e proprio riorientamento strategico e militare contro la Russia. Ciò non è dovuto alla crisi in Ucraina - peraltro creata dall’Occidente - ma è bensì un progetto in cantiere da tempo, e accelerato dalla crisi in Ucraina, che non può che essere percepito a Mosca come un’aperta minaccia di guerra e provocare una risposta adeguata.
Le implicazioni degli scenati creati in Europa sono state suggerite da una recente dichiarazione del ministro della Difesa polacco, Tomasz Siemoniak, il quale ha affermato che “il periodo di pace seguito alla Seconda Guerra Mondiale è finito”, lasciando intendere come la classe dirigente occidentale sia pronta per un nuovo conflitto, questa volta potenzialmente combattuto con armi nucleari.
A fronte delle provocazioni e dell’ostentato atteggiamento di unità, in Occidente e all’interno della stessa NATO vi sono divisioni e conflitti sulla strategia da perseguire nei confronti della Russia. I disaccordi, evidenti anche dallo scarso entusiasmo con cui alcuni paesi hanno sacrificato i propri interessi economici dando il proprio assenso al recente prolungamento delle sanzioni contro Mosca, restano per il momento in secondo piano rispetto al rispetto formale dell’alleanza strategica che li lega agli Stati Uniti.
Sanzioni e minacce militari, d’altra parte, invece di isolare la Russia la stanno spingendo sempre più a guardare a Oriente, in particolare verso la Cina, e ai paesi emergenti (BRICS), nel quadro di una crescente integrazione, soprattutto economica, da cui è un’Europa già in affanno che rischia di essere esclusa.
Con l’evoluzione di queste dinamiche, a Londra come a Parigi, a Berlino come a Roma, i governi occidentali saranno chiamati a scegliere fra la cooperazione pacifica e il percorso di guerra e distruzione preparato dall’impero in declino.