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di Michele Paris
A pochi giorni dalla decisiva sentenza della Corte Suprema americana che ha salvato i sussidi federali destinati agli acquirenti di polizze sanitarie private, come previsto dalla riforma “Obamacare”, moltissime compagnie di assicurazioni stanno richiedendo pesantissimi aumenti dei premi pagati dai loro clienti.
La ragione principale della probabile impennata del costo delle polizze sarebbe l’errore commesso dalle compagnie private nello stimare l’importo dei rimborsi da erogare per i servizi sanitari di cui hanno usufruito i sottoscrittori. In Minnesota, la società Blue Cross and Blue Shield ha ad esempio perso 135 milioni di dollari nel 2014 sulle proprie polizze individuali, visto che i rimborsi pagati hanno rappresentato il 115% del totale delle entrate derivanti dai premi assicurativi.
Molte compagnie si sono trovate in questa situazione dopo avere accertato che i loro nuovi clienti erano in media più malati del previsto, mentre troppo bassa è risultata la quota dei sottoscrittori di polizze generalmente sani. Poiché la riforma prevede che agli individui con “condizioni pre-esistenti” non possa essere più negata l’assicurazione sanitaria, ciò ha determinato le proposte spesso sostanziose di aumento dei premi per il prossimo anno.
Secondo la riforma Obamacare o, ufficialmente, Affordable Care Act (ACA), aumenti dei premi superiori al 10% stabiliti dalle compagnie di assicurazioni devono essere dichiarati pubblicamente e passare attraverso un processo di revisione del governo federale tramite apposite commissioni. Tuttavia, non esiste un vero e proprio meccanismo che consenta di bloccare gli aumenti e le commissioni stesse appaiono spesso fin troppo ben disposte verso gli assicuratori.
Emblematico è il caso dello stato dell’Oregon, dove la commissione incaricata ha concesso in alcuni casi aumenti dei premi molto più alti di quanto richiesto da alcune compagnie private. Health Net aveva richiesto rialzi pari in media al 9% e ha ottenuto un 34,8%; Health Co-op, invece, aveva chiesto un 5,3% di aumento e ha finito col ricevere un’autorizzazione per far salire i premi fino al 19,9%.
La già citata Blue Cross and Blue Shield, una delle principali compagnie private americane operanti nel settore sanitario, ha richiesto aumenti molto più ingenti, tra cui in media del 23% in Illinois, del 25% in North Carolina, del 31% in Oklahoma, del 36% in Tennessee e addirittura del 51% in New Mexico e del 54% in Minnesota.
Questa e altre compagnie di assicurazioni private si sono ritrovate con un fiume di nuovi clienti grazie alla riforma sanitaria del 2010. L’ACA ha stabilito tra l’altro che tutti gli americani al di sopra di un certo reddito sono costretti ad acquistare una polizza sul mercato privato, se non dispongono di una qualche copertura tramite il loro datore di lavoro o uno dei programmi federali.
A coloro che non hanno sottoscritto una polizza, pur essendo obbligati per legge, viene applicata invece una sanzione, il cui importo aumenta di anno in anno. Questi ultimi sono in larga misura gli americani più sani che, con la loro scelta, avrebbero determinato l’aumento dei premi degli assicurati.
La decisione di non acquistare una polizza privata è dettata però talvolta dalla necessità, visto che, nonostante i sussidi garantiti dal governo, spesso i rimborsi della copertura sanitaria acquistata prevedono franchigie che possono ammontare anche a varie migliaia di dollari.
Per il ministro della Sanità americano, Sylvia Burwell, l’impatto dell’aumento dei premi potrebbe essere ridotto ricercando annualmente sui mercati delle polizze private (“exchanges”), creati dai singoli stati o dal governo di Washington, il prodotto più conveniente o adatto a ogni acquirente.
Secondo una ricerca indipendente, però, il cambiamento dei piani assicurativi comporta il rischio della perdita della possibilità di continuare a essere visitati dai propri medici di fiducia e, prevedibilmente, premi più bassi significano meno servizi a disposizione e una scelta più limitata di medici e ospedali dove ricevere assistenza.
Questo aspetto appare cruciale nell’impianto della riforma voluta da Obama, dal momento che una delle conseguenze dell’ACA è e sarà quella di giungere a un vero e proprio razionamento dell’assistenza sanitaria, ovviamente non per coloro che possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi migliori.
Un altro fattore che sta determinando l’aumento vertiginoso dei premi delle polizze, secondo alcuni, è poi una disposizione prevista dall’ACA e propagandata da Obama come un’iniziativa favorevole agli assicurati. Essa consiste nell’obbligo imposto alle compagnie di spendere almeno l’80% dei premi incassati in servizi sanitari offerti ai loro clienti.
Se, tuttavia, i margini di profitto delle compagnie risultano troppo bassi, questa norma finisce per produrre aumenti dei premi, sui quali, come già ricordato, il governo svolge solo opera di supervisione. Tutto quello che il presidente americano ha potuto dire sulla questione è stato invitare i sottoscrittori di polizze a fare pressioni sulle commissioni statali chiamate a valutare le richieste di aumenti per ridurli al minimo possibile.
Gli aumenti annunciati in questi giorni rivelano così ancora una volta il vero carattere della riforma di Obama, scritta sostanzialmente per favorire una riduzione dei costi sanitari e gli interessi economici delle compagnie private. Ciò è stato riconosciuto in maniera indiretta qualche giorno fa anche dal New York Times, solitamente strenuo difensore dell’ACA, il quale in seguito all’impennata dei premi è giunto a interrogarsi apertamente sulla stessa “efficacia della legge sanitaria”.
Le scosse di assestamento nel settore sanitario USA determinate dall’avvento dell’ACA si stanno facendo sentire infine anche ai vertici delle compagnie assicurative private, sotto forma di fusioni. Una di esse è stata annunciata proprio la scorsa settimana e, se approvata come previsto dal governo, promette di essere la più importante di sempre nel settore sanitario.
Aetna Inc. e Humana Inc., rispettivamente la terza e la quarta più grande compagnia americana per fatturato in ambito assicurativo sanitario, dovrebbero diventare nei prossimi mesi un’unica compagnia con più di 33 milioni di clienti e ricavi per circa 115 miliardi di dollari. La fusione darà vita a una singola entità destinata a diventare il secondo operatore USA in questo settore, dopo United HealthGroup.
Secondo l’amministratore delegato di Aetna, Mark Bertolini, a dare l’impulso alla fusione sarebbe stata l’ACA e i cambiamenti che la riforma ha determinato in questo settore, a cominciare dal drastico allargamento del mercato delle polizze individuali, a discapito di quelle garantite agli americani dalle aziende per cui lavorano.
I giganti del settore “healthcare”, soprattutto, stanno manovrando per conquistare la fetta più grande possibile del nuovo mercato ancora fluido aperto dalla riforma di Obama. In ogni caso, come di consueto, nonostante gli annunci le fusioni porteranno con ogni probabilità ristrutturazioni delle compagnie coinvolte con conseguenti tagli dei costi e dei posti di lavoro.
Quella tra Aetna e Humana è solo la più recente operazione in un’ondata di fusioni e acquisizioni nel campo delle assicurazioni sanitarie seguita all’entrata in vigore dell’ACA nel 2010. Solo nei primi sei mesi del 2015, infatti, sono già state registrate operazioni di questo genere negli Stati Uniti per un valore stimato di quasi 300 miliardi di dollari.
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di Fabrizio Casari
Un risultato straordinario e da nessuno immaginato quello che ha riconfermato ieri la Grecia di Tsipras al timone del paese. Oltre il sessanta per cento dei greci hanno detto un fragoroso NO alle minacce europee contenute nel terzo memorandum che gli strateghi tedeschi dai canini sporgenti avevano proposto. Alexis Tsipras ha così dimostrato di avere lungimiranza politica e abilità tattica, incassando un plebiscito che rafforza enormemente la sua vittoria elettorale di cinque mesi prima.
Le trattative con l’Unione Europea e con il complesso delle istituzioni internazionali politiche e finanziarie riprenderanno ora con un governo ellenico forte del consenso ottenuto e con un mandato a trattare di maggiore ampiezza rispetto a qualunque altro governante europeo.
L’Unione Europea ha subito una sconfitta cocente su due aspetti fondamentali. Il primo è quello meramente politico, visto che l’azione negoziale di Bruxelles e aggregati da sei mesi a questa parte è stata improntata dapprima nel provare ad d’impedire l’arrivo al governo di Syriza, e successivamente dal tentativo di far cadere il governo Tsipras.
Si voleva stabilire a suon di minacce fruscianti che un governo di sinistra non può avere legittimità in Europa e che comunque, ove succedesse, la coerenza tra quanto promesso in programma elettorale e gli atti di governo non è tollerabile. Lo schema è semplice: i governi nazionali non hanno più nessuna sovranità e sono governati dalla Commissione Europea, a sua volta governata da Berlino.
Il secondo aspetto è che l’impotenza politica si è accompagnata all’inconcludenza propagandistica, visto che il terrorismo mediatico scatenato contro la democrazia greca si è rivelato sterile, controproducente persino.
Il referendum, come ogni consultazione elettorale, ha fornito insieme al dato di merito un indirizzo politico chiaro. Atene non vuole uscire dall’Euro così come non è nemmeno immaginabile uscire dall’Europa, dove ci sta per storia, cultura e territorio e non per gentile concessione degli euro burocrati.
La ripresa dei negoziati non potrà non avere al centro la vera questione che giace sullo sfondo: l’insostenibilità, l’immoralità e l’illegittimità del debito greco. La richiesta di ulteriori aiuti attraverso il fondo salva stati ha come ovvia necessità quella di garantire la liquidità del sistema creditizio e la sostenibilità dei flussi correnti nel breve e medio termine, ma non comporta l’accettazione di quanto già rifiutato precedentemente.
Oggi si riuniranno Merkel e Hollande, che decideranno la strada da intraprendere, stretti tra la rabbia per la sconfitta patita e la necessità di fronteggiare le possibili tempeste sui mercati azionari e valutari e di non peggiorare ulteriormente agli occhi degli europei la percezione della Ue. Difficile immaginare se prevarranno i sentimenti di vendetta o la regionevolezza, propria dell'arte di governo, ma il rischio Grecia, ormai, riguarda forse più Bruxelles che Atene.
Perché quali che siano le opinioni sul voto referendario greco, è evidente che da ieri le ragioni di chi ritiene questo modello di Europa incompatibile con la ripresa economica e la sostenibilità sociale, oltre che il recupero della vocazione federalista del Vecchio Continente. Dal rigore di bilancio al fiscal compact, gli strumenti e i fini di una Europa a trazione tedesca e a vocazione bancaria non sono più tavole bibliche. Questo modello finanziario, fintamente ottuso ma in realtà dagli obiettivi precisi, ha cominciato, da ieri, a scricchiolare seriamente.
In fondo il significato del voto greco è qui: si può rischiare di morire ma non inginocchiarsi. Messaggio chiaro e forte che potrà essere udito anche dalla Spagna prossima al voto. La dignità può manifestarsi in forma epidemica. L’Europa pensava di piegare la Grecia, ma è la Grecia che ha cominciato a cambiare l’Europa.
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di Michele Paris
Il Dipartimento della Difesa americano ha pubblicato questa settimana la nuova Strategia Militare per fronteggiare le “minacce” presenti e future con cui gli Stati Uniti sono chiamati a confrontarsi su scala globale. Il documento di 24 pagine è stato redatto dal capo di Stato Maggiore uscente, generale Martin Dempsey, e prospetta il possibile utilizzo di tutto il potenziale distruttivo a disposizione dei militari USA per contrastare qualsiasi resistenza alla propria egemonia nel pianeta.
Già dall’introduzione al rapporto appare evidente il cambiamento di prospettiva adottato dal Pentagono e dalla classe dirigente americana, dopo oltre un decennio speso a propagandare l’integralismo islamico come principale nemico da combattere. Il documento strategico diffuso mercoledì, pur continuando a riconoscere la minaccia rappresentata dalle cosiddette “organizzazioni estremiste violente”, individua rischi ancora maggiori derivanti da “stati potenzialmente avversari”.
Il rapporto propone un’assurda suddivisione del mondo tra quegli stati, che costituiscono la maggioranza, “sostenitori delle istituzioni costituite e dei processi dedicati alla prevenzione dei conflitti, che rispettano la sovranità e promuovono i diritti umani”, e gli altri che, al contrario, “cercano di modificare aspetti chiave dell’ordine internazionale e agiscono in modo tale da minacciare gli interessi della nostra sicurezza nazionale”.
Contrariamente a quanto suggeriscono la logica e la realtà storica, gli Stati Uniti si auto-includono nella prima delle due categorie. Washington calpesta infatti regolarmente ogni norma del diritto internazionale, viola la sovranità di vari paesi e agisce nel totale disprezzo dei diritti umani se ciò è necessario per il perseguimento dei propri interessi.
Anche se non sono impegnati in occupazioni o guerre, a finire nella seconda categoria sono invece altri paesi, come Russia, Iran, Corea del Nord e Cina, il cui crimine è soltanto quello di non piegarsi al volere e agli interessi della prima potenza mondiale.
Leggendo le colpe di cui si sarebbero macchiati questi quattro paesi è impossibile mancare l’ironia involontaria del Pentagono, il quale assegna a ognuno dei suoi principali rivali comportamenti illegali o da condannare attribuibili in misura ben maggiore proprio agli Stati Uniti.
Così, ad esempio, i vertici militari di un paese che ha operato un lunghissimo elenco di invasioni illegali, sostengono che la Russia “non rispetta la sovranità dei suoi vicini ed è disposta a ricorrere all’uso della forza per raggiungere i propri obiettivi”. Washington, ovvero di gran lunga la prima forza destabilizzatrice del pianeta, condanna inoltre Mosca per avere “compromesso la sicurezza regionale” e “violato numerosi trattati… internazionali”.
Il paese che detiene il maggior numero di armi nucleari e da tre decenni utilizza il fondamentalismo jihadista come prolungamento della propria politica estera critica poi l’Iran per avere condotto ricerche su armi atomiche in violazione di risoluzioni ONU e sponsorizzato gruppi terroristi in vari paesi.
L’accusa di avere lavorato alla costruzione di ordigni nucleari è rivolta anche alla Corea del Nord, paese costantemente sotto la minaccia militare americana, mentre in relazione alla Cina l’approccio del Pentagono è parzialmente diverso. Nonostante gli USA sostengano di incoraggiarne la crescita e di volerne fare un “partner per la sicurezza internazionale”, la Cina è colpevole di creare tensioni in Estremo Oriente. Il riferimento americano è in particolare alle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale, dove la stessa amministrazione Obama sta manovrando con vari paesi alleati per alzare il livello dello scontro con Pechino.
Il documento strategico del Pentagono ammette in ogni caso che nessuno di questi quattro paesi intende cercare un conflitto militare con gli Stati Uniti o i loro alleati, anche se “ognuno di essi pone serie preoccupazioni per la sicurezza” della comunità internazionale.
Ben lontani dal nutrire inquietudini per la stabilità della comunità internazionale, gli USA temono in realtà per la propria declinante superiorità militare ed economica. Più avanti, il documento del Pentagono asserisce che “gli Stati Uniti sono il paese più potente del pianeta, godono di vantaggi unici nell’ambito della tecnologia, dell’energia, delle alleanze e in quello demografico”. Oggi, però, “questi vantaggi sono minacciati”.
In sostanza, per gli Stati Uniti la stabilità, il rispetto della democrazia, dei diritti umani e del diritto internazionale sono concetti che servono a garantire un ordine planetario in cui è Washington a dettare le regole, mentre qualsiasi entità che non intende sottomettersi a esso viene identificata come una “minaccia” alla sicurezza mondiale e quindi esposta al rischio di trasformarsi in un bersaglio militare.
Sempre da questa prospettiva deriva poi la strategia delle alleanze, perseguita in funzione di accerchiamento di paesi come Cina e Russia. Nell’area “Asia-Pacifico”, in particolare, il Pentagono sanziona la cosiddetta “svolta” asiatica promossa da Obama, fondata tra l’altro sul ridispiegamento qui della maggior parte delle forze navali americane e sul “rafforzamento” dell’alleanza con Australia, Giappone, Corea del Sud, Filippine e Thailandia, ma anche sulla partnership con Nuova Zelanda, Singapore, Indonesia, Malaysia, Vietnam e Bangladesh e sul consolidamento delle relazioni con l’India.
Scenari relativamente secondari, almeno in prospettiva, sembrano dover diventare quelli di Europa e Medio Oriente. Nel primo caso, comunque, il pilastro della strategia USA rimane “il fermo impegno nei confronti degli alleati NATO”, alla luce della “recente aggressione della Russia” contro l’Ucraina. In Medio Oriente, invece, il riferimento è sempre Israele e la garanzia della sua superiorità militare sui vicini. “Partner vitali” restano anche varie dittature arabe, come Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi e Qatar.
Per il Pentagono, ad ogni modo, “a tutt’oggi le probabilità di un coinvolgimento degli Stati Uniti in una guerra con un’altra potenza planetaria sono poche sebbene in crescita”. Se ciò dovesse però accadere, “le conseguenze sarebbero immense”. Gli USA sono cioè pronti a scatenare anche una guerra nucleare per cercare di annientare i propri rivali.
Nel documento si legge infatti che, “in caso di attacco, le forze armate americane risponderebbero infliggendo un tale danno da costringere l’avversario a cessare le ostilità o impedire un’ulteriore aggressione”. Per questa ragione, e forse anche per il motivo non detto che paesi come Cina e soprattutto Russia dispongono sempre più di capacità belliche in grado di competere con quelle americane, “una guerra contro un avversario potente richiederebbe la mobilitazione totale di tutti gli strumenti della sicurezza nazionale”.
La Strategia Militare elaborata dal Pentagono quest’anno, a fronte dell’ostentazione di forza in essa contenuta, conferma l’inesorabile declino della posizione internazionale degli Stati Uniti, minacciata precisamente dalla crescita di alcuni dei paesi individuati come “pericoli” per la sicurezza globale.
La decadenza dell’impero, riflesso inevitabile della perdita di influenza del capitalismo a stelle e strisce, non comporta tuttavia un minore rischio di guerra nelle aree più calde del pianeta. Anzi, come conferma il documento appena diffuso dal Dipartimento della Difesa, gli USA sono pronti a mettere a repentaglio la stessa esistenza dell’umanità per cercare di difendere la propria posizione dominante in un mondo che tende sempre più al multipolarismo.
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di Tania Careddu
Centotredici i Paesi a cui l’Italia destina fondi. Tremiladuecentottantasette le iniziative e i progetti nel mondo. 2.980.351,00 di euro il totale dei soldi impegnati nel 2013. Per la cooperazione allo sviluppo. Riassunta nel decreto Missioni. Che stanzia, su base annuale o semestrale, parte delle risorse dedicate alle missioni militari e alle iniziative di cooperazione. Negli ultimi dieci anni sono stati approvati fondi pari, in media, a 1,3 miliardi di euro: diminuita progressivamente la spesa per le missioni militari, sensibilmente cresciuta, anche se inferiore alla prima, quella per la cooperazione, passando dal 9,4 al 12,7 per cento.
Annualmente, l’ammontare approvato rappresenta poco più del 4 per cento dell’investimento totale dell’Italia per le forze armate e per la cooperazione allo sviluppo: se per le missioni militari, con il provvedimento, si eroga circa un 1,3 miliardi di euro, la spesa militare totale è di ventitre miliardi. Stesso funzionamento per la cooperazione: per una spesa totale poco sotto i tre miliardi di euro, il decreto in oggetto ne stanzia solo centotrentasei milioni, cioè il 4,57 per cento.
Oltre il 76 per cento degli sforzi di cooperazione allo sviluppo da parte del nostro Paese vengono fatti per via indiretta, ossia attraverso il trasferimento di fondi a organizzazioni sovranazionali, per un ammontare, nel 2013, di più di 2,2 miliardi di euro. Ripartiti fra le organizzazioni internazionali di cui il Belpaese fa parte, che si occupano di impiegarli per svolgere attività a favore dei Paesi in via di sviluppo. Quindi, un miliardo e mezzo - pari al 68 per cento - è andato all’Unione europea, oltre trecento milioni all’Agenzia internazionale per lo sviluppo e centosettantadue alle Banche regionali di sviluppo.
I restanti spiccioli di quei quasi tre miliardi, pari a poco più di seicentonovanta milioni, cioè il 23 per cento, rimane sotto la gestione diretta delle nostre istituzioni. Di questi, il 43 per cento non ha mai varcato i confini nazionali per far fronte all’emergenza rifugiati politici dentro lo Stivale. E’ la tipologia d’aiuto più corposa: le risorse (queste) vengono altresì destinate alle infrastrutture e servizi sociali e agli aiuti per i settori produttivi, le altre (quelle oltralpe) per l’azzeramento del debito, gli aiuti umanitari e la costruzione di infrastrutture per attività economiche destinati a quei centotredici paesi sopracitati, dei quali i più sostenuti sono l’Albania con oltre ventotto milioni, l’Afghanistan con quasi ventotto milioni e l’Etiopia con circa diciotto.
Ma lo spostamento di tutti questi euro nonché l’importanza della questione, non trova un’adeguata risonanza nelle aule delle Camere. In nessuna pagina dell’agenda degli ultimi quattro esecutivi. Derubricato a una semplice prassi, al decreto Missioni è stato, da sempre, riservato l’iter di conversione più veloce. Solo ventitre ore di discussione e quaranta giorni di dibattito, viaggiando in una corsia preferenziale, raggiungendo tempi record di approvazione.
Sarà perché il suo consenso è sempre stato bipartisan - durante l’ultimo Berlusconi il PD ha votato a favore pur stando all’opposizione, e sotto il Governo Renzi, FI non ha votato contro il provvedimento - sarà (o forse proprio perché) non è più così centrale nella definizione della politica estera italiana.
Tanto che nella classifica delle priorità dei Governi ha sempre navigato in posizioni molto basse: ventisettesima nel Governo Berlusconi IV, quarantanovesima nel Governo Monti, quarantasettesima in quello Letta, e, finalmente, quattordicesima nell’esecutivo Renzi. Ad maiora.
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di Michele Paris
La stessa Corte Suprema degli Stati Uniti che venerdì scorso era stata celebrata dai “liberal” americani per avere decretato la legalità dei matrimoni gay in tutto il paese, all’inizio di questa settimana ha emesso una nuova sentenza sull’ammissibilità della pena di morte, sanzionando di fatto il diritto dello stato a giustiziare i detenuti con metodi cruenti, cioè in aperta violazione del dettato costituzionale.
Il caso “Glossip contro Gross” riguarda tre detenuti nel braccio della morte in Oklahoma che ritenevano incostituzionale la procedura di condanna a morte tramite la somministrazione di un sedativo, il midazolam. Quest’ultimo dovrebbe appunto rendere incoscienti i condannati prima dell’azione di un secondo farmaco che interrompe le funzioni vitali.
Inizialmente, i querelanti erano quattro ma uno di essi, il detenuto Charles Warner, è stato giustiziato il 15 gennaio scorso in seguito a una macabra manovra della Corte Suprema. Una maggioranza ristretta dei giudici aveva infatti respinto la richiesta dei suoi legali per una sospensione della condanna anche se, una settimana dopo la morte di Warner, la stessa Corte avrebbe accettato di esprimersi sul caso e bloccato l’esecuzione degli altri tre detenuti.
La sentenza definitiva di lunedì della Corte Suprema ha dato il via libera all’uso del midazolam nelle condanne a morte, nonostante la storia degli ultimi mesi autorizzi a considerare il metodo attualmente usato dall’Oklahoma e da altri stati USA una “punizione crudele e inusuale”, proibita dall’Ottavo Emendamento alla Costituzione americana.
Il primo detenuto a essere messo a morte con una procedura che include il midazolam era stato William Happ in Florida nell’ottobre del 2013. Secondo i testimoni, durante l’esecuzione Happ aveva evidenziato insoliti e affannosi movimenti del corpo prima di perdere conoscenza.
Decisamente più raccapriccianti erano state altre esecuzioni con l’uso del midazolam, tra cui quelle di Dennis McGuire in Ohio, di Clayton Lockett in Oklahoma e di Joseph Wood in Arizona, avvenute tra gennaio e luglio del 2014. Lockett, in particolare, si era risvegliato in preda a dolori atroci svariati minuti dopo essere stato apparentemente sedato. La morte sarebbe alla fine sopraggiunta per attacco cardiaco dopo quasi tre quarti d’ora dall’inizio della procedura.
La sentenza appena pronunciata dai cinque giudici della maggioranza appare estremamente inquietante e scritta appositamente per giustificare l’omicidio di stato con qualsiasi metodo a disposizione delle autorità. L’autore del verdetto, il giudice ultra-conservatore Samuel Alito, ha affermato che i detenuti non sono stati in grado di dimostrare che l’utilizzo del midazolam comporti il “rischio sostanziale” di provocare un dolore intenso.
In maniera ancora più assurda, Alito ha sostenuto che gli stessi querelanti non hanno identificato un farmaco più efficace e reperibile da utilizzare nelle loro stesse esecuzioni. Il ricorso al midazolam si è reso necessario negli ultimi anni vista l’impossibilità da parte degli stati di acquistare i farmaci tradizionalmente usati in precedenza a causa del boicottaggio messo in atto dalle aziende produttrici, soprattutto europee.
La Corte Suprema, in sostanza, dalla premessa della costituzionalità della pena di morte, ha decretato che praticamente qualsiasi metodo di esecuzione possa essere adottato, così che, in assenza di alternative migliori, quello attuale deve essere dichiarato legale. L’onere di individuare un metodo adatto alla propria morte dovrebbe inoltre spettare non alle autorità, bensì ai condannati stessi.
L’incredibile tesi sostenuta da Alito e appoggiata dagli altri giudici di estrema destra, Clarence Thomas, Antonin Scalia e John Roberts, nonché dal “centrista” Anthony Kennedy, è stata criticata aspramente dall’opinione dissenziente del giudice Sonia Sotomayor.
Quest’ultima ha sottolineato come la maggioranza della Corte abbia fissato, “in maniera del tutto inedita, l’obbligo da parte dei condannati di indentificare un metodo disponibile per la loro esecuzione”. Secondo tale logica, ha aggiunto correttamente la Sotomayor, “non ha importanza se uno stato intenda usare il midazolam o se invece i detenuti vengano… squartati, torturati lentamente o bruciati vivi”.
Per il giudice Alito, al contrario, “il rischio di provare dolore è intrinseco a qualsiasi metodo di condanna a morte” e “la Corte Suprema ha stabilito che la Costituzione non impone di evitare ogni rischio” di questo genere. Insistendo sul sofismo della differenza tra “dolore” e “rischio di dolore”, Alito ha poi aggiunto che, “dopo tutto, mentre la maggioranza degli uomini si augura una morte senza dolore, molti non hanno questa fortuna.
Sostenere che l’Ottavo Emendamento richieda essenzialmente l’eliminazione di ogni rischio di provare dolore metterebbe di fatto fuori legge la stessa pena di morte”. Cosa che un sistema giudiziario barbaro e vendicativo come quello avallato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti non può in nessun modo tollerare.
Uno dei quattro giudici dissenzienti ha in ogni caso redatto un’opinione relativamente insolita sul caso, giungendo quasi a dichiarare incostituzionale la pena di morte. Stephen Breyer, assieme al giudice Ruth Bader Ginsburg, ha invitato a smettere di “curare le ferite legali della pena di morte una alla volta”, sollecitando al contrario a interrogarsi su una questione fondamentale, vale a dire “se la pena di morte violi o meno la Costituzione”.
Il parere di Breyer, contrario a quello della maggioranza, afferma come “sia altamente probabile che la pena di morte violi l’Ottavo Emendamento”, ricordando come ci siano molti casi di persone innocenti giustiziate, ma anche come molti detenuti nel braccio della morte siano stati scagionati, come le sentenze capitali vengano talvolta emesse in maniera arbitraria e l’intero sistema sia macchiato da discriminazioni razziali.
Per il 77enne giudice nominato da Bill Clinton nel 1994, inoltre, il fattore di deterrenza della pena di morte sarebbe annullato dai lunghissimi tempi previsti dall’applicazione delle sentenze, mentre gli Stati Uniti sono ormai un’eccezione tra i paesi “avanzati” a prevedere ancora questo genere di punizione.
L’intervento del giudice Breyer non è in realtà l’unico a essere stato pronunciato in maniera così netta contro la pena di morte alla Corte Suprema. Considerazioni molto simili erano state espresse, ad esempio, già nel 1994 dal giudice Harry Blackmun e da John Paul Stevens nel 2008.
Le posizioni più retrograde su cui è attestata buona parte della classe dirigente americana sono state però sostenute dalla maggioranza della Corte Suprema nel caso “Glossip contro Gross”, con il giudice Scalia che ha bollato come “assurdità” le posizioni contro la pena di morte del collega Breyer.
A confermare il carattere reazionario del più alto tribunale degli Stati Uniti, sempre nella giornata di lunedì è arrivata anche un’altra sentenza a dir poco discutibile. Anche in questo caso con una maggioranza di 5-4, la Corte Suprema ha giudicato illegale un’iniziativa dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) volta a limitare le emissioni inquinanti delle vecchie centrali elettriche a carbone.
I giudici di maggioranza hanno nuovamente insistito su un cavillo, sostenendo che l’EPA non aveva valutato in maniera esplicita e all’inizio del processo di regolamentazione i costi che le centrali dovrebbero sostenere per applicare le misure in questione. L’EPA, in maniera illegale, secondo la Corte avrebbe fatto piuttosto un bilancio di questi costi solo una volta implementate le nuove regole, intraprese esclusivamente sulla base dei benefici per l’ambiente e la salute dei cittadini.
Il caso potrebbe comunque risolversi ancora a favore dell’EPA, visto che la decisione della Corte Suprema non ha fatto altro che rimandarlo a una corte inferiore per essere riesaminato. La sentenza, tuttavia, manda un segnale molto chiaro all’agenzia ambientale americana, messa in guardia per il futuro dall’adottare misure eccessivamente penalizzanti per i profitti delle compagnie private.