di Michele Paris

Il neonato governo di minoranza di centro-destra in Portogallo è caduto questa settimana ancor prima di iniziare il proprio mandato dopo l’incerto esito del voto dello scorso mese di ottobre. Come annunciato da settimane, una coalizione di centro-sinistra, che detiene la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, ha sfiduciato il gabinetto del primo ministro, Pedro Passos Coelho, alla presentazione del suo programma di governo, rimettendo nuovamente le sorti della crisi nelle mani del discusso presidente, Anibal Cavaco Silva.

L’esecutivo formato dal Partito Social Democratico (PSD) e dal Centro Democratico Sociale-Partito Popolare (CDS-PP) ha raccolto appena 107 voti a favore, contro i 123 contrari che hanno segnato una fine decisamente prematura per il secondo mandato di Passos Coelho alla guida del suo paese.

L’esito del voto parlamentare di martedì a Lisbona potrebbe spianare finalmente la strada alla formazione di un nuovo governo di centro-sinistra con il Partito Socialista, il Partito Comunista (PCP), i Verdi (PEV) e il Blocco di Sinistra (BE). Queste formazioni avevano ottenuto complessivamente quasi il 51% dei consensi nelle elezioni del 4 ottobre, pur non presentandosi in un’alleanza formale.

Il presidente Cavaco Silva aveva però assegnato l’incarico di formare il nuovo gabinetto al premier uscente, la cui coalizione dispone della maggioranza relativa, giustificando la sua decisione con le preoccupazioni dei mercati per il possibile ingresso al governo di forze di sinistra e l’inopportunità di consegnare il paese nelle mani di partiti anti-europeisti.

Il leader Socialista, António Costa, si era peraltro mostrato inizialmente favorevole alla creazione di un governo di minoranza di centro-destra ma pochi giorni più tardi aveva annunciato la sottoscrizione di un’intesa con gli altri tre partiti per far nascere un esecutivo di centro-sinistra.

Dopo le polemiche per la decisione anti-democratica del presidente portoghese, in molti prevedono ora l’assegnazione dell’incarico a Costa, se non altro per evitare il diffondersi di ulteriori malumori nel paese, a causa del mancato rispetto della volontà della maggioranza degli elettori, e provocare una nuova erosione del sostegno per il PSD e il CDS-PP.

L’alternativa che resta a Cavaco Silva è quella di tenere in vita il governo di minoranza di centro-destra con funzioni limitate e in modalità transitoria in attesa di elezioni anticipate. Questa ipotesi prolungherebbe però i tempi della risoluzione della crisi, visto che secondo le regole costituzionali un nuovo voto non può tenersi prima di giugno, con il rischio di far salire le pressioni internazionali su un paese che è ancora vincolato ai diktat di Bruxelles dopo il “salvataggio” del 2011 sottoforma di un pacchetto di “aiuti” da quasi 80 miliardi di euro.

I nuovi sviluppi di questa settimana hanno prodotto numerose analisi e commenti sui giornali europei e americani, quasi tutti concordi nel prospettare un’inversione di rotta riguardo le politiche economiche che verranno adottate a Lisbona con un governo di centro-sinistra.

I media di orientamento conservatore hanno poi ipotizzato scenari da catastrofe nell’eventualità che i Socialisti e i loro partner abbandonino le misure di austerity. Il ministro delle Finanze del gabinetto uscente, Maria Luís Albuquerque, ha alimentato questi timori, affermando martedì in Parlamento che “la fiducia degli investitori è già diminuita”, mentre “il mancato taglio del deficit di bilancio, in linea con gli impegni presi da Lisbona con l’UE, potrebbe causare una nuova crisi del debito e rendere necessario un altro intervento di salvataggio”.

La stessa esponente del PSD si è unita al coro di quanti hanno minacciato un futuro per il Portogallo simile alla Grecia nel caso si dovesse provare a mettere fine all’austerity, con “maggiore recessione, più povertà, disoccupazione e dipendenza dall’Europa e dal Fondo Monetario Internazionale”.

La campagna mediatica scatenata per cercare di spaventare una popolazione che intende manifestare l’ovvia volontà di liberarsi da oppressive politiche di rigore, dall’impoverimento e dalla precarietà non è d’altra parte nuova né in Europa né altrove.

Il caso del Portogallo è però significativo per come la sola ipotesi di un lieve rallentamento delle impopolari misure antisociali imposte da organismi come UE o FMI sia visto come una minaccia mortale al dominio assoluto dei mercati sulle politiche dei governi. Ciò non è dovuto tanto a una reale prospettiva di cambiamento determinata da un’elezione e dal cambio alla guida di un paese, ma piuttosto dal rischio di generare aspettative di cambiamento tra le popolazioni che si trasformino potenzialmente in un movimento di massa contro la classe dirigente europea.

A ben vedere, per quanto riguarda il Portogallo, le rassicurazioni dei leader dei partiti di centro-sinistra, nonché la loro storia recente – in particolare quella del Partito Socialista – e i precedenti negli ultimi anni di partiti con simili orientamenti in altri paesi dell’Unione non lasciano intravedere alcun cambiamento drastico rispetto al percorso seguito dal governo uscente.

I Socialisti, per cominciare, erano al governo con il premier José Socrates quando nel 2011 venne siglato il “bailout”, ovvero l’orwelliano “Programma di Aggiustamento Economico”, con l’UE in cambio di pesantissime misure di “ristrutturazione”.

Dopo il voto e i quattro anni di governo di centro-destra, il Partito Socialista ha percepito chiaramente l’ostilità dei portoghesi all’austerity e ha proposto in campagna elettorale un’agenda diametralmente opposta. Le misure promesse includono, tra l’altro, l’aumento della spesa pubblica in vari ambiti, la revoca delle “riforme” del mercato del lavoro degli ultimi anni, l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici, la riduzione delle trattenute fiscali sulle pensioni più basse e l’imposizione di una nuova tassa di successione.

Tutto ciò e altro ancora risulta però difficile, se non impossibile, da applicare nel quadro del programma di “aggiustamento” promosso da Bruxelles e senza una qualche ristrutturazione – per non dire un ripudio – del debito pubblico portoghese. Come nel caso greco, in sostanza, se anche dovessero esistere spazi di manovra per un governo teoricamente anti-austerity, essi sarebbero decisamente molto limitati, tanto da incidere in maniera trascurabile sulle condizioni di vita di milioni di persone.

Nonostante le ipotesi rovinose che si sono sprecate sui giornali nei giorni scorsi, i partiti della coalizione portoghese di centro-sinistra hanno fatto di tutto per mandare segnali rassicuranti a Bruxelles e ai mercati finanziari. Il principale candidato alla carica di ministro delle Finanze in un eventuale governo a guida PS, Mário Centeno, in un’intervista al Financial Times ha garantito ad esempio che “non verrà gettato denaro nell’economia”, non vi saranno cioè aumenti significativi della spesa pubblica.

Lo stesso economista portoghese ha poi aggiunto che il paese “resterà sulla strada del consolidamento fiscale” con una previsione di ridurre il rapporto deficit/PIL dal 3% attuale all’1,5% nel 2019 e il debito totale dal 128% al 112% del PIL nello stesso periodo di tempo. Queste cifre sono solo parzialmente diverse da quelle proposte dal centro-destra e, infatti, Centeno ha ipotizzato tutt’al più un “rallentamento” delle politiche di rigore, non un abbandono di esse.

Anche soltanto una qualche attenuazione del “consolidamento fiscale” dovrà essere discussa e concordata con i padroni di Bruxelles e, come ricorda ancora una volta il caso della Grecia, a livello europeo non sembra esserci particolare disponibilità in questo senso.

Soprattutto per il Partito Socialista o, quanto meno, per una parte di esso, non vi è comunque un particolare entusiasmo all’idea di provocare uno scontro con l’Unione Europea. Ciò è sembrato pensarlo probabilmente anche il presidente portoghese quando il 30 ottobre scorso ha incaricato Passos Coelho di provare a mettere assieme un nuovo governo.

Cavaco Silva auspicava cioè che la popolarità del premier conservatore tra il business domestico e i governi stranieri, assieme alle pressioni internazionali, avrebbero potuto convincere almeno un certo numero di parlamentari Socialisti a fornire il loro appoggio esterno al governo di minoranza di centro-destra per continuare senza scosse sulla strada dell’austerity.

Le stesse pressioni dei mercati e dei leader europei, ad ogni modo, non diminuiranno nel prossimo futuro con un eventuale governo di centro-sinistra. Anzi, la minaccia di una nuova crisi in Portogallo e nell’intera Europa viene già agitata da molti in questi giorni, con l’obiettivo di convincere da subito i leader Socialisti ad archiviare il loro programma e gli accordi con gli alleati.

Proprio l’atteggiamento del Partito Comunista, dei Verdi e del Blocco di Sinistra risulterà decisivo sul futuro del probabile prossimo esecutivo, nel caso quest’ultimo dovesse ripiegare in fretta su politiche di rigore, mettendo queste formazioni di fronte a una scelta tra un’imbarazzante permanenza al governo e un’uscita da esso per non compromettere la loro relativa popolarità tra gli elettori portoghesi.

di Vincenzo Maddaloni

E' da quando il presidente dell’Iran, Hassan Rohani ha scelto l’Italia per la sua “prima visita ufficiale” in Europa, che  la domanda è: “Incontrerà il Papa?”. Le prime voci su un possibile incontro erano circolate alla fine di settembre durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove entrambi si erano alternati alla tribuna. Fin da allora si cominciò a parlare con insistenza di una visita del Presidente iraniano al Papa, tant'è che da qualche giorno si è iniziato una sorta di countdown, poiché leader politico di Teheran sarà a Roma il 14 e il 15 di  novembre.

Naturalmente l’incontro ufficiale del presidente Rohani è il bilaterale con Renzi. L'obiettivo di entrambi è di lavorare a un rilancio del dialogo politico e preparare il terreno al ritorno delle aziende italiane in Iran, dopo l’intesa sul nucleare di Vienna. L'Italia è da lungo tempo uno dei principali partner commerciali di Teheran, il secondo tra i paesi Ue dopo la Germania. Lo confermano i dati Eurostat del 2014 secondo i quali, in ambito Ue, Italia e Germania sono i soli Paesi ad aver avuto significativi volumi di esportazione verso l’Iran, superando il miliardo di euro. Sono gli unici in Europa.

Infatti, la Germania si conferma il principale fornitore dell’Iran, con un export di 2.390 milioni di Euro nel 2014, seguita dall’Italia che ha esportato verso l’Iran beni per 1.156 milioni di Euro. Il più 9,5 per cento di esportazioni italiane ed il più 28,7 per cento di esportazioni tedesche trainano l’aumento complessivo dell’export dell’intera Ue, che si attesta al 5,8 per cento.

La Germania - a differenza dell'Italia da sempre incollata agli Usa - è anche l'unica nazione europea che si è espressa benevolmente sulla coalizione creata da Mosca, con Siria, Iraq ed Iran, e il conseguente rilancio dell’asse tra Teheran e Mosca. Tuttavia Hassan Rohani ha scelto Roma come prima tappa del suo viaggio in Europa, e sicuramente nella sua decisione molto avrà pesato l’opportunità di una visita in Vaticano. Il fatto poi che Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana non abbia confermato (ma  nemmeno smentito) che l’hojjatoleslam  Hassan Rohani  potrebbe varcare la sacra soglia,  suona - alle orecchie dei vaticanisti più esperti - come una conferma che il sensazionale incontro ci sarà.

Certamente, entrambi i presuli hanno problemi comuni sui quali discutere, a cominciare dal terrorismo che è una tattica di estremismo interna a ogni religione, come pure alle religioni laiche del marxismo o del nazionalismo. Poiché nessuna religione - Islam compreso - predica la violenza indiscriminata contro degli innocenti.

La posizione della Chiesa di Roma su come andrebbe affrontato il terrorismo è largamente condivisa tra gli altri credi. Essa considera pericolosa la dissociazione della repressione del terrorismo dall’azione politica e sociale, poiché trascura le ragioni profonde che stanno all’origine delle azioni terroristiche. Sottolineare esclusivamente il lato criminale del terrorismo, com’è in uso nella mediacrazia, senza analizzarne le motivazioni e quindi agire di conseguenza, non basta per dare una soluzione definitiva al problema, soprattutto in situazioni - come quella palestinese - dove il ricorso ad atti terroristici affonda le proprie radici nella frustrazione di genti che non vedono prospettive per il proprio futuro.

Dopotutto l’integralismo islamico non è nato oggi e la disfatta araba del 1967 ne rappresenta uno dei culmini. L’Occidente non ha mai percepito l’intensità di quella umiliazione. Da allora i musulmani hanno la conferma che l’Occidente sarà sempre al fianco di Israele.

Di fronte al fallimento del nazionalismo progressista, del nasserismo, del baathismo, i musulmani militanti, eredi del risveglio arabo, continuano a sostenere che «invece di modernizzare l’Islam, bisogna islamizzare la modernità», come l’ISIS sta facendo a suon di bombe. Da qui si capisce la preoccupazione della diplomazia vaticana di fronte alla grossolanità con la quale i responsabili dell’amministrazione Obama, (come prima lo erano quelli di Bush) presentano l´intervento in Medio Oriente come una crociata.

I riferimenti alla superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana, sono temuti di là del Tevere come la peggiore delle disgrazie, proprio per l´impatto che può avere in Medio Oriente, dove le comunità cristiane hanno tutto da perdere in un conclamato scontro tra civiltà.

Naturalmente uno scambio di pensieri con il presidente dell’Iran Rohani su questo argomento, potrebbe rivelarsi prezioso. Egli è un militante della rivoluzione iraniana della prima ora, un convinto assertore della bontà del messaggio e dell’azione politica dell’ayatollah Khomeini, il quale trasformò lo sciismo da corrente per molti versi popolar-mistica dell’Islam in ideologia politica e terzomondista che sfida l’imperialismo personificato dalle potenze straniere. E’ la sua una rilettura dell’Islam dei primordi della vita del Profeta, del quale ne esalta l’umiltà. E va oltre.

Ispirandosi a varie teorie, non ultima quella marxista, giunse a costruire una nuova ideologia ricca di spunti di riflessione sulle problematiche politiche, economiche e sociali.  Rohani è stato uno stretto e fidato collaboratore di Khomeini, e - particolare che va sottolineato - è stato eletto due anni fa presidente dell’Iran al primo turno, con 18.613.329 voti pari al 52,5 per cento dei voti validi e al 50,68 per cento di quelli espressi, in una tornata elettorale caratterizzata da un’affluenza del 75 per cento dei 50,5 milioni di aventi diritto al voto.

Malauguratamente, dopo le guerre del Golfo scatenata dai Bush sono riapparse e si sono rafforzate nel mondo musulmano le profonde separazioni dottrinarie, ma anche ideologiche, poiché l’Islam contemporaneo non è più soltanto teologia, ma è rinato per mille motivi come ideologia politico-sociale,  coinvolgendo le diverse interpretazioni del dogma, dell’idea di Stato, di «risveglio» come rilancio del tradizionalismo o come irredentismo legato alla nozione di progresso. Così facendo si sono ridisegnate, esasperandole, le vecchie frontiere etniche fra arabi e non arabi; fra arabi e turchi e persiani.

L’hojjatoleslam Hassan Rohani è il presidente di una nazione, l’Iran, che svolge una sua funzione peculiare nella civiltà musulmana. Gli sciiti persiani sono stati per secoli gli strumenti di un modo diverso di pensare l'Islam, non necessariamente opposto, ma il più delle volte complementare a quello ufficiale dell'arabismo. Sono meno chiesastici degli arabi, più inclini a sintonizzarsi con le società in perenne mutamento.

Negli ultimi anni, però, gli equilibri complessivi di tutto il Medio Oriente sono stati modificati dalle scelte compiute dal governo degli Stati Uniti in risposta agli eventi dell’11 settembre 2001. L’intervento militare in Afghanistan ed in Iraq, l’appoggio sempre più incondizionato prestato alla politica dei falchi israeliani, la guerra all’ISIS, sono gli esempi più clamorosi delle iniziative che si inquadrano in un disegno molto più ambizioso, che mira ad assicurare agli Stati Uniti il controllo incondizionato delle risorse energetiche di quella regione.

Dopotutto, benché Forbes definisca per il terzo anno consecutivo, Vladimir Putin l'uomo più potente della Terra, è Obama il capo dell’incontrastata superpotenza globale in termini militari. E dunque gli Stati Uniti, anche se privi di risorse culturali indispensabili alla gestione planetaria, hanno più dei russi la concreta possibilità di mettere in atto le loro minacce.

E’ con questa situazione che la politica del Vaticano è costretta a confrontarsi soprattutto in Medio Oriente. Deve valutare se la strategia seguita fino ad ora ha bisogno di correzioni dopo che sullo scenario è comparsa la Russia di  Putin. Da sempre essa si è prefissa il compito di tutelare tre obiettivi - difesa delle comunità cristiane, tutela dei luoghi santi, ricerca della pace - indispensabili per la serena coabitazione dei fedeli di religioni differenti. Questo spiega la prudenza e la marcata indipendenza della Chiesa di Roma dalle potenze occidentali e, in particolare, dagli Stati Uniti.

Un atteggiamento che essa mantiene fin dal conflitto israelo-palestinese del 1948, dalla crisi di Suez, dalla prima e della seconda guerra del Golfo, fino ad oggi. La Chiesa continua a mantenersi distante dalla linea politica degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. L’assenza, fino a dodici anni fa, di relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele, il partner più fedele di cui Washington dispone nella regione, è la manifestazione più evidente di questa divergenza. Anche se non è mancata e non manca la rincorsa agli spunti provocatori, che si sono moltiplicati con questo papato, per costringerlo a  riaccorciare le distanze.

Francesco resiste. C’è nell’azione di questo Papa che proviene dal Terzo Mondo un sapere sottile e consapevole che il Medio Oriente - insieme alla guerra contro il terrorismo - costituisce oggi il campo principale della politica mondiale. Egli evidenzia - diversamente dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger -  le deformazioni del capitalismo che è nato in Europa e vi si è sviluppato per secoli estendendosi al resto del mondo. Anzi questa estensione è stata proprio una delle forme di sottomissione del mondo all’Occidente che ha prodotto l’America imperiale.

Visto dai musulmani, l’Occidente appare in larga parte incomprensibile. Nel loro mondo le fortune eccessive sono il più delle volte confiscate, quasi sempre ridistribuite ai poveri o impiegate nella costruzione di edifici religiosi. Poiché queste società musulmane non lottano contro un capitalismo, un “modello americano” che ignorano, ma per la loro conservazione, per tutelare un equilibrio tra le diverse forze sociali. Nel più o nel meno è il modello che  questo nuovo Papa raccomanda ai suoi fedeli.

L’Iran sciita fa storia a sé. Il “Rinascimento persiano”, quello dei poeti che cantavano l’amore e il vino, dei palazzi fastosi, dei veli e dei cuscini, quello delle miniature con i volti languidi dei cavalieri che tanto eccitavano Byron e poi Chatwin, è agli antipodi del puritanesimo imposto dagli ayatollah. Esso viene accettato - come la partecipazione alle recenti elezioni presidenziali dimostra - perché l’assenza di un'alternativa laica seria e popolare, stimola a ripensare a  quanto scrisse il poligrafo egiziano Suyûtî (sunnita).

Egli narrò (sec XVI) che, «quando Hussein fu ucciso nella piana di Kerbala si fermò il mondo, il sole divenne giallo come zafferano, le stelle caddero. L’orizzonte fu rosso per sei mesi. E il rosso dell’orizzonte si vide ogni giorno, dopo quel fatto, mentre prima non si vedeva». Tutto questo vuol dire anche che 36 anni dopo la rivoluzione khomeinista ancora rimane negli iraniani quell’attaccamento alla trinità culturale “iranità, islamità e modernità”, nella quale essi coniugano novità e tradizione, e che li ha resi peculiari agli occhi del mondo.

Allora perché stupirsi se folle di pellegrini si recano ogni giorno dell’anno sulla montagna di Radwa (a sette giorni di marcia da Medina, in Arabia), dove Sâhib al zamân (colui che domina questo tempo), è nascosto: «in una fonda caverna fra pantere e leoni, invisibile ai sensi, ma presente al cuore dei fedeli». La devozione del pio fedele sciita si è polarizzata su di lui, il Mahdî della Resurrezione che non si rivelerà finché il genere umano non sarà capace di trovare, con il trionfo dell’ecumenismo, la sua unità.

I cristiani, con altri sacri riferimenti, viaggiano in sintonia. Insomma, ci sono le premesse ideali per due ministri della trascendenza che sono pure due capi di Stato. La mistura è sorprendente. Vediamo sullo scenario mondiale l’effetto che  fa.

 

*Vincenzo Maddaloni, giornalista e saggista, negli anni 1978 -79 ha raccontato da Teheran la caduta dello Scià e la presa del potere da parte di Khomeini. Dall’Iran ha firmato negli anni numerose corrispondenze. Ha scritto il libro “L’atomica degli Ayatollah. Il ruolo strategico dell’Iran, la crisi con gli Usa” (con lo scrittore iraniano Amir Modini).


di Mario Lombardo

I vertici militari americani stanno progettando l’invio in Europa di migliaia di altri soldati, in aggiunta a quelli già presenti, in previsione di un futuro conflitto armato con la Russia. L’ipotesi è stata avanzata nel corso di una recente conferenza sulla sicurezza nazionale in California, durante la quale alcuni dei rappresentanti più autorevoli della macchina da guerra USA hanno dipinto ancora una volta Vladimir Putin e il suo governo come gli unici responsabili delle tensioni nel vecchio continente.

Protagonisti dell’evento, organizzato presso la Biblioteca Presidenziale Ronald Reagan di Simi Valley, nei pressi di Los Angeles, e di una successiva intervista al Wall Street Journal sono stati il comandante supremo delle forze NATO, generale Philip Breedlove, e il capo di Stato Maggiore dell’Esercito USA, generale Mark Milley.

Entrambi gli alti ufficiali hanno fatto a gara per dare una rappresentazione della realtà dei fatti in Europa completamente ribaltata, così da trasformare il destabilizzante interventismo diplomatico e militare americano in un impegno per la sicurezza e il mantenimento della pace.

Il Pentagono intende far fronte alla “minaccia” di Mosca aggiungendo almeno una brigata -composta da 3.500 uomini - alle due che già si trovano in pianta stabile sul territorio europeo, ovviamente dotata dei dovuti mezzi. Per aggirare gli ostacoli legali e le prevedibili reazioni russe, gli Stati Uniti dichiarerebbero le nuove truppe come “provvisorie”, utilizzando il consueto espediente della “rotazione” dei soldati per evitare, almeno ufficialmente, un dispiegamento a carattere permanente.

Una proposta sul nuovo contingente sarà predisposta non prima di due mesi e dovrà essere approvata dalla Casa Bianca ed eventualmente ottenere i necessari finanziamenti dal Congresso. Le parole di Breedlove e Milley nel fine settimana sono però servite ad aprire la strada all’iniziativa e a stabilire le basi sulle quali altri soldati USA potrebbero giungere a occupare le installazioni militari in Europa.

Intanto, a procedere già nelle prossime settimane dovrebbe essere la decisione di stabilire una forza NATO di reazione rapida in Europa orientale, sempre in funzione anti-russa, secondo il piano delineato in un vertice dell’alleanza tenuto a Varsavia lo scorso luglio.

Il generale Milley ha apertamente fatto riferimento alla necessità di far fronte alla “guerra ibrida” che caratterizzerebbe le operazioni russe in Crimea e in Ucraina orientale, vale a dire condotte da una combinazione di forze regolari e irregolari.

Ciò ha inevitabilmente riproposto la versione propagandata dall’Occidente sulla guerra in Ucraina, secondo la quale sarebbe la Russia l’aggressore, così che, di conseguenza, anche gli altri paesi dell’Europa orientale - a cominciare da quelli baltici - risultano esposti alla minacca di invasione o di attacco da parte di Mosca.

Per fronteggiare questo fantomatico scenario, i militari americani necessitano di una maggiore presenza in Europa, anche se essi stessi, in caso di esplosione di un conflitto, si aspettano “interferenze” da parte della Russia, a cominciare dalle stesse operazioni di trasferimento dei soldati da una sponda all’altra dell’Atlantico.

A spiegare la gravità della situazione, il generale Milley ha di fatto proposto di rispolverare un’esercitazione che veniva condotta durante la Guerra Fredda per fare appunto pratica nello spostare migliaia di uomini dall’America all’Europa.

Questa considerazione rispecchia le apprensioni del Pentagono per il grado di sofisticatezza raggiunto dalle forze armate russe, in particolare per quanto riguarda le cosiddette “anti-access, area denial forces”, cioè l’insieme dei sistemi difensivi di un determinato paese. Altri ufficiali americani hanno espresso invece preoccupazione per il trasferimento di sistemi missilistici nell’enclave russa di Kaliningrad, situata tra Polonia e Lituania, e la modernizzazione degli armamenti situati presso una base di Mosca in Bielorussia.

L’ipocrisia di simili dichiarazioni, pur essendo tutt’altro che insolita in relazione agli Stati Uniti, raggiunge livelli difficilmente immaginabili, visto che, nel caso specifico, l’apparato militare americano, responsabile di innumerevoli invasioni, aggressioni e devastazioni varie nell’ultimo mezzo secolo, dispone di qualcosa come 800 basi all’estero contro le poche decine mantenute da tutti gli altri paesi del pianeta combinati.

Sia Breedlove sia Milley hanno comunque messo in guardia dalla presunta tendenza a prestare attenzione esclusivamente all’intervento russo in Siria, poiché così facendo si rischierebbe di considerare come un fatto compiuto e ormai accettato l’annessione della Crimea. Infatti, secondo il generale, “un’aggressione rimasta senza risposte conduce probabilmente ad altre aggressioni”, nonostante la grandissima maggioranza della popolazione della Crimea avesse votato in un referendum a favore dell’unione con la Russia e, soprattutto, l’intera crisi ucraina sia stata orchestrata da Washington per strappare questo paese all’influenza di Mosca.

La stessa retorica anti-russa è stata proposta nel corso del forum di Simi Valley anche dal segretario alla Difesa, Ashton Carter. Il numero uno del Pentagono ha posto l’attenzione sull’aggressività russa, criticando poi il Cremlino sostanzialmente per una serie di atteggiamenti che caratterizzano piuttosto la politica estera degli Stati Uniti.

Tra l’altro, Carter ha accusato il governo del presidente Putin di “gettare benzina sul fuoco” del conflitto siriano e di agitare lo spettro della guerra nucleare. Un’altra accusa che il governo e i militari americani rivolgono con insistenza in questo periodo sia alla Russia per quanto riguarda il Medio Oriente e l’Europa, sia alla Cina nel teatro dell’Estremo Oriente, è poi quella di volere mettere a repentaglio la stabilità e l’ordine internazionale.

In realtà, proprio l’imperialismo americano è di gran lunga la vera forza destabilizzatrice del 21esimo secolo e l’ordine che i paesi emergenti starebbero minacciando non è altro che la declinante egemonia USA nelle aree strategicamente più importanti del globo. A questa dinamica, gli Stati Uniti non hanno da offrire alcuna contromossa di carattere progressista ma soltanto una pericolosissima escalation militare, rivolta oltretutto contro due potenze nucleari.

di Carlo Musilli

Più che una presa di posizione convinta sembra una mossa tattica imposta da ragioni di politica interna, ma arriva pur sempre da Westminster e bisogna far mostra di prenderla sul serio. Martedì 10 novembre il premier britannico David Cameron ha scritto al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e al numero uno della Commissione europea Jean Claude Junker.

Nella lettera, il Primo ministro avanza una serie di richieste a Bruxelles per scongiurare la prospettiva del Brexit, ovvero l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea, tema su cui gli elettori britannici saranno chiamati a esprimersi via referendum entro il 2017 (forse già nell'autunno del 2016).

In sintesi, Londra pone quattro condizioni: la possibilità di chiamarsi fuori da eventuali progetti che puntino a una maggiore integrazione europea; il potenziamento della sussidiarietà, concedendo a gruppi di parlamenti nazionali il potere di correggere la legislazione comunitaria; una maggiore tutela della sterlina e in generale dei diritti dei Paesi che non fanno parte dell'Eurozona; il diritto di porre limiti al numero di immigrati dagli altri Paesi Ue e al Welfare di cui questi beneficiano.

I cambiamenti richiesti - ha ammesso Cameron - sono "grandi, ma non impossibili" e "con pazienza, buona volontà e inventiva" potranno essere raggiunti per fare "della Gran Bretagna, ma anche dell'Ue", un posto più "sicuro e prospero" negli anni a venire. Il Premier britannico mantiene un atteggiamento conciliante, ribadisce che vuole mantenere il Paese all'interno dell'Ue, ma avverte che, se le autorità europee non prenderanno in considerazione le richieste sue "e dell’elettorato", potrebbe anche cambiare idea.

La reazione di Bruxelles è stata piuttosto fredda. Il portavoce della Commissione ha definito alcune richieste di Londra "fattibili", altre "difficili" e altre ancora "altamente problematiche", perché causerebbero discriminazioni e comprometterebbero "le libertà fondamentali" dei cittadini europei (ad esempio quella di circolazione sancita dal trattato di Schengen, probabilmente l'accordo più vituperato dalle destre europee).

Fin qui le dichiarazioni ufficiali. Lettere e comunicati, però, non rispondono alla domanda fondamentale: per quale ragione Cameron ha sollevato un polverone di cui - è evidente - lui stesso avrebbe fatto volentieri a meno? In realtà, è stato costretto. Il numero uno di Downing Street, che euroscettico non è, deve fare i conti ormai da tempo con la crescente ostilità della maggior parte dei suoi connazionali nei confronti dell'Unione europea.

Questo sentimento è stato cavalcato con abilità dall'Ukip, il partito populista e conservatore guidato da Nigel Farage (peraltro alleato del Movimento Cinque Stelle all’europarlamento) che negli ultimi anni ha moltiplicato i propri consensi usando proprio l'euroscetticismo come propellente elettorale. Fondato nel 2009, l'Ukip ha ottenuto alle elezioni locali del 2013 il 23% dei consensi (contro il 25% del Partito Conservatore di Cameron) e alle europee del 2014 ha trionfato con il 27,5% dei voti, diventando il primo partito della Gran Bretagna.

Com'era prevedibile, Farage ha criticato le richieste di Cameron alla Ue, bollandole come "non sostanziali", perché "non c’è alcuna promessa di ridare supremazia al Parlamento britannico, non c’è niente sulla necessità di porre fine alla libertà di movimento delle persone e non c’è alcun tentativo di ridurre l’enorme contributo britannico al budget europeo".

Posizioni che la maggior parte dei sudditi di Sua Maestà sembra condividere. Secondo un sondaggio realizzato da YouGov per il Times e pubblicato lo scorso 28 settembre, infatti, se si tenesse oggi il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Ue il fronte del No conquisterebbe il 40% delle preferenze, mentre i favorevoli si fermerebbero al 38%.

Il quotidiano inglese sostiene che la crescita dell'euroscetticismo riflette una divisione sull'Ue all'interno dei Tory e dei Labour. Per sanare questa frattura, Cameron sa che l'unica strada è rassicurare l'elettorato conservatore. Il che significa rincorrere Farage verso destra.

di Michele Paris

La vittoria schiacciante che si prospetta per il partito Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di Daw Aung San Suu Kyi in Myanmar ha segnato prevedibilmente le prime elezioni considerate dalla comunità internazionale come realmente libere e credibili dal 1990. L’ex Birmania è alle prese da alcuni anni con la drastica inversione di rotta strategica intrapresa dalla propria classe dirigente. Se anche il trasferimento del potere dai militari a una nuova autorità civile guidata dal principale partito dell’opposizione dovesse risolversi pacificamente, gli obiettivi economici e strategici che verranno perseguiti nel prossimo futuro non si discosteranno di molto da quelli già fissati dal regime.

Nella giornata di lunedì, l’entusiasmo della popolazione birmana per il risultato delle urne si è diffuso rapidamente, spingendo i leader della NLD a dichiarare quasi con certezza il successo con percentuali che, su base nazionale, potrebbero aggirarsi addirittura attorno al 70%. Il partito di Aung San Suu Kyi ha in particolare fatto il pieno nella principale città, Yangon, dove avrebbe prevalso in 44 dei 45 distretti elettorali in cui è suddivisa.

I risultati definitivi arriveranno solo tra qualche giorno, ma anche svariati esponenti del Partito dell’Unione, della Solidarietà e dello Sviluppo, ovvero lo strumento politico dei militari al potere, hanno ammesso la sconfitta. Anche il potente ex generale Shwe Mann, presidente uscente del Parlamento, è stato battuto da un candidato della NLD, frustrando seriamente le sue aspirazioni a diventare presidente.

Secondo la Costituzione, ai militari va comunque assegnato automaticamente un quarto dei seggi parlamentari, così che la NLD dovrà conquistare i due terzi di quelli che erano in palio nel voto di domenica scorsa per garantirsi la maggioranza assoluta. In tal caso, la NLD potrà teoricamente approvare leggi senza dipendere dai militari, nonché eleggere un proprio candidato alla presidenza, ma non Aung San Suu Kyi, visto che la Costituzione proibisce di ricoprire tale carica a chiunque abbia cittadini stranieri tra i propri parenti più stretti.

Il premio Nobel per la Pace è stata subito protagonista di un’apparizione pubblica lunedì, nel corso della quale ha prospettato in maniera cauta la vittoria del suo partito e, riflettendo forse qualche timore per la ripetizione dei fatti del 1990, quando le elezioni vinte a valanga dalla NLD furono cancellate dai militari, ha invitato gli sconfitti ad accettare i risultati “serenamente e con coraggio”.

La misura del successo elettorale della Lega Nazionale per la Democrazia in Myanmar chiarisce senza incertezze il livello di avversione presente nel paese del sud-est asiatico nei confronti di un regime repressivo che per decenni ha chiuso ogni spazio alla società civile e, anche a causa delle sanzioni internazionali, ha imposto condizioni materiali di vita insostenibili alla maggior parte della popolazione.

Qualche anno fa, la giunta militare al potere aveva intrapreso una svolta strategica decisiva, svincolandosi relativamente dalla Cina, di fatto l’unico vero partner politico e commerciale per i due decenni precedenti, per mandare segnali di distensione verso l’Occidente. Gli Stati Uniti, in particolare, avevano immediatamente manifestato la propria disponibilità ad aprire un percorso di pacificazione, dal momento che la nuova attitudine del Myanmar ben si incastrava con le iniziative allo studio a Washington per cercare di contenere la Cina attraverso la creazione o il consolidamento di partnership con i paesi dell’Asia sud-orientale.

In cambio del riconoscimento internazionale del regime birmano e dell’annullamento delle sanzioni, gli Stati Uniti e i loro alleati avevano imposto l’attuazione di varie “riforme democratiche”, principalmente per nascondere agli occhi dell’opinione pubblica occidentale i veri interessi strategici ed economici in gioco dietro il consueto paravento della promozione dei valori democratici. Il possibile abbraccio del Myanmar con l’Occidente, infatti, presentava e presenta tuttora ghiottissime possibilità di profitto per il capitale americano, europeo, giapponese e australiano.

La prospettiva di attrarre investimenti stranieri e “modernizzare” il paese con una lunga serie di “riforme” è stata promossa sì dal regime birmano, sia pure tra incertezze e divisioni interne, ma è stata sostanzialmente accettata anche dalla NLD e da Aung San Suu Kyi.

Dietro lo scontro tra forze bollate come retrograde e dittatoriali da una parte e quelle “democratiche” dall’altra vi è in realtà un fondamentale accordo sulla necessità di trasformare il Myanmar nella nuova frontiera per gli investimenti internazionali e nell’ennesimo centro di sfruttamento del lavoro a bassissimo costo nel sud-est asiatico.

L’entusiasmo generato dalla NLD e dalla trasformazione di Aung San Suu Kyi in una vera e propria icona democratica sono senza dubbio il segnale di un diffusissimo desiderio di cambiamento nella ex Birmania e delle aspirazioni a una vita migliore. Tuttavia, che questo partito possa diventare un’autentica forza in grado di generare un processo trasformativo in senso progressista e che porti benefici a decine di milioni di persone che vivono oggi in povertà è alquanto improbabile.

La NLD è infatti il partito della borghesia liberale e filo-occidentale del Myanmar che negli ultimi due decenni è stata esclusa dalle possibilità di prosperare a causa delle sanzioni internazionali e del monopolio esercitato sull’economia e sulle strutture del potere da parte dei militari e di una ristretta cerchia di ricchi imprenditori con legami ad altissimo livello. L’obiettivo primario del partito e della sua classe di riferimento è perciò quello di assicurarsi il controllo dei processi innescati dall’apertura del paese all’economia di mercato.

Per comprendere quali siano gli orientamenti ideologici del partito di Aung San Suu Kyi è sufficiente una rapida scorsa alla piattaforma economica approvata dai suoi dirigenti nel 2013. Il partito prometteva senza indugi di adottare una politica economica “orientata verso il mercato”, creando soprattutto le condizioni più favorevoli all’afflusso di capitale estero.

Uno dei punti principali era la deregolamentazione del settore finanziario e la promozione delle liberalizzazioni in vari ambiti, partendo dalla privatizzazione delle aziende di stato. La NLD si diceva poi entusiasta delle nuove regole già implementate dal regime per assegnare contratti alle multinazionali straniere nel settore energetico ed estrattivo, mentre sposava in pieno il passaggio da un sistema basato sul settore agricolo - con una probabile “riforma” agraria dagli effetti devastanti per milioni contadini - alla diffusione di impianti manifatturieri destinati ad alimentare l’export.

Consapevole delle implicazioni economiche e sociali di un’evoluzione che intenda far approdare il Myanmar nel paradiso del capitalismo internazionale, in un’intervista rilasciata nel 2014 al Wall Street Journal, un alto dirigente della NLD metteva in guardia la popolazione da aspettative eccessive, poiché i cambiamenti allo studio non avrebbero comunque generato un livello di benessere diffuso ancora per molto tempo.

Le questioni economiche e i piani della NLD in questo ambito sono ad ogni modo rimasti fuori dal dibattito che ha preceduto le elezioni, dominato invece dai proclami ispirati ai valori democratici e dalla possibilità di ridurre per la prima volta l’influenza dei militari.

Le credenziali democratiche di questo partito sono state però minate da alcuni episodi significativi nei mesi scorsi. La maggioranza della NLD aveva ad esempio emarginato molti membri del movimento “Generazione 88”, protagonista della rivolta contro il regime repressa nel sangue nel 1988.

Dei 17 aspiranti alla candidatura nelle elezioni generali di questo gruppo, soltanto uno è stato accettato dai vertici della NLD, mentre aspre critiche ha anche suscitato la decisione del partito di ignorare le richieste dei suoi iscritti ed escludere vari candidati graditi a questi ultimi a favore di altri considerati di orientamento troppo conservatore.

Qualche malumore anche a livello internazionale aveva provocato infine il sostanziale adeguamento della NLD e di Aung San Suu Kyi stessa alla campagna del regime contro la minoranza musulmana Rohingya che vive in Myanmar. Per cominciare, quasi 800 mila Rohingya nello stato occidentale di Rakhine, che avevano partecipato alle elezioni parlamentari del 2010 e a quelle suppletive del 2012, sono stati privati del diritto di voto in questa tornata.

La decisione, presa mesi fa dal regime del presidente Thein Sein, faceva seguito alle persecuzioni subite dalla minoranza di fede islamica, alimentate dal governo stesso e condotte sul campo da fondamentalisti buddisti, protagonisti di veri e propri pogrom che hanno fatto centinaia di morti e trasformato altre centinaia di migliaia di Rohingya in profughi e detenuti in speciali campi di prigionia.

Non solo la NLD non ha presentato un solo candidato musulmano nelle elezioni appena terminate, ma i suoi vertici, inclusa il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, non hanno ritenuto di dover sollevare la questione dei Rohingya nel corso della campagna elettorale.

Il voto in Myanmar è stato comunque accolto molto positivamente dal governo americano. Il segretario di Stato, John Kerry, ha emesso un comunicato nella giornata di domenica, elogiando “l’importante passo avanti” compiuto con le elezioni, pur sottolineando “i significativi ostacoli strutturali” che rimangono sulla strada verso un “governo pienamente democratico e civile”.

Le dichiarazioni provenienti da Washington riflettono in altre parole le speranze legate alla possibile formazione di un governo guidato dalla NLD e da Aung San Suu Kyi, la cui liberazione dagli arresti domiciliari era stata una delle principali condizioni per lo sdoganamento del regime militare qualche anno fa.

Parallelamente, riferendosi agli “ostacoli” che ancora impediscono il pieno sviluppo della democrazia nella ex Birmania, Kerry intende ricordare alla classe dirigente indigena come l’allineamento agli interessi strategici ed economici degli USA dovrà essere assicurato fino in fondo. In caso contrario, le “carenze democratiche” del Myanmar potranno essere sfruttate in qualsiasi momento per rigettare il paese nell’isolamento degli ultimi vent’anni.


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