di Antonio Rei

Per capire quanto sia ridicolo e ipocrita il modo in cui l'Europa sta affrontando il fenomeno delle migrazioni, conviene partire da quello che le migrazioni non sono. Innanzitutto, non sono una questione europea, ma una tendenza globale con flussi diramati ovunque sul pianeta. In secondo luogo, non sono un fatto nuovo né provvisorio. Proprio per questo è sbagliato parlare di “emergenza”: le migrazioni sono tutto fuorché impreviste.

Secondo i calcoli del Dipartimento delle Nazioni Unite per gli affari economici e sociali (UN-DESA), il fenomeno migratorio è in continua espansione a livello mondiale: nel 1990 coinvolgeva 154 milioni di persone, nel 2000 175 milioni, mentre nel 2013 il numero era salito a 232 milioni (il 3,2% della popolazione mondiale). Il tasso di crescita della pressione migratoria mondiale non è rimasto costante in questo periodo, ma è salito dall’1,2% del decennio 1990-2000 al 2,3% del decennio 2000-2010, per poi calare all’1,6% degli ultimi tre anni (2010-2013), a causa della crisi economica dei Paesi avanzati.

Le aree del mondo che ospitano il maggior numero di migranti sono l’Europa (72 milioni) e l’Asia (71 milioni), che insieme arrivano ai 2/3 del totale. Seguono l'America del Nord (53 milioni), l'Africa (19milioni), l'America latina (9 milioni) e l'Oceania (8 milioni). Più della metà dei migranti a livello mondiale (il 51%) risiede in dieci paesi: primi fra tutti gli Stati Uniti, che da soli ne ospitano  46 milioni, pari a circa il 20% del totale. Seguono Russia (11 milioni), Germania (9,8 milioni), Arabia Saudita (9,1 milioni), Emirati Arabi Uniti e Regno Unito (7,8 milioni), Francia e Canada (7,4  milioni), Australia e Spagna (6,5 milioni).

Per quanto riguarda i soli rifugiati, nel 2013 erano complessivamente 15,7 milioni, il 7% di tutti i migranti. Parliamo di 23mila persone al giorno, più del doppio rispetto al 1993, perché la crisi nell’area mediterranea e mediorientale ha prodotto una nuova crescita di questi flussi e delle domande di protezione. Quasi il 90% dei rifugiati è ospitato nei Paesi in via di sviluppo: l’Asia è il continente con il maggior numero di rifugiati residenti (10,4 milioni), seguita dall’Africa (2,9 milioni) e dall’Europa (1,5 milioni). A livello di Paesi, il Pakistan ha ospitato il maggior numero di rifugiati di tutto il mondo (1,6 milioni), seguito dall’Iran (0,9 milioni), dalla Germania (0,6 milioni) e dal Kenya (0,5 milioni). Più della metà di tutti i rifugiati del mondo (il 55%) proviene da appena cinque Paesi: Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria e Sudan.

Sempre nel 2013, ben 45,2 milioni di persone sono state sfollate a causa di persecuzioni, conflitti, violenze di vario genere e violazioni dei diritti umani. Le richieste di asilo sono state quasi un milione, di cui circa 70.400 indirizzate agli Usa, 64.500 alla Germania, 61.500 al Sud Africa e 55.100 alla Francia. Circa  21.300 domande di asilo sono state presentate in 72 Paesi da minori non accompagnati o separati, per lo più bambini afgani e somali.

Di fronte a un quadro di questo tipo, appare immediatamente evidente l'assurdità della risposta del governo neofascista di Budapest, che ha scelto di erigere una barriera metallica lungo il confine con la Serbia.

Se mai ce ne fosse ancora bisogno, i 3mila profughi (di cui 700 bambini) arrivati in Ungheria nelle ultime 24 ore nonostante il muro dimostrano che la forza militare è utile nella gestione delle migrazioni quanto un bazooka per acchiappare farfalle. E non funziona neanche come deterrente, dal momento che chi scappa dal proprio Paese per sopravvivere non cambia certo idea di fronte alle trovate di edilizia squadrista prodotte da Orban e sodali. 

Quanto al resto d'Europa, è ben più subdolo l'atteggiamento degli altri capi di Stato e di governo, che nei discorsi ufficiali parlano di “solidarietà” e di “rispetto della dignità umana”, ma poi si adoperano per scaricare il barile agli alleati più indifesi. D'altra parte, una volta il ruolo economico degli immigrati era evidente a tutti (si pensi al contributo della comunità turca alla prosperità tedesca), ma ora che l'austerità è diventata la stella polare delle politiche economiche europee, di immigrati da far lavorare in nero per abbattere il costo del lavoro nessuno ha più bisogno. Nell'epoca del direttorio Merkel-Schaeuble, il dumping sociale lo abbiamo già in casa.

di Michele Paris

Secondo molti giornali americani, il vice-presidente americano, Joe Biden, sembra essere sul punto di annunciare la propria candidatura alla nomination democratica per la Casa Bianca. Una decisione in questo senso da parte dell’ex senatore del Delaware potrebbe mettere in difficoltà la chiara favorita in casa democratica, Hillary Clinton, la cui campagna elettorale a pochi mesi dall’inizio delle primarie continua a essere segnata da sospetti e inconvenienti vari.

L’entourage di Biden, lo staff della Casa Bianca e alcuni media americani nelle ultime settimane hanno diffuso indicazioni più o meno esplicite sulle intenzioni del vice di Obama di correre per la successione di quest’ultimo.

Egli stesso ha lasciato intendere di stare valutando seriamente questa ipotesi, garantendo che un annuncio pubblico sulla sua scelta avverrà entro la fine di settembre o l’inizio di ottobre. Nel fine settimana scorso, intanto, i giornali USA hanno alimentato le speculazioni sulla candidatura di Biden, dopo un suo incontro attentamente pubblicizzato con quella che viene identificata dai media come una sorta di “icona” liberal, ovvero la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren.

Quest’ultima ha da tempo respinto gli inviti a correre per la Casa Bianca ma il suo appoggio è considerato fondamentale per qualsiasi candidato che intenda fare appello alla base progressista del Partito Democratico. Per la stampa americana, perciò, l’incontro con Biden ha rappresentato un tentativo del vice-presidente di sondare l’attitudine della senatrice, a cui secondo alcuni sarebbe stata offerta un’eventuale candidatura alla vice-presidenza.

In molti articoli apparsi nei giorni scorsi sono stati descritti incontri di Biden con consulenti, finanziatori e leader democratici, alcuni dei quali hanno confidato che il vice-presidente sarebbe orientato a candidarsi anche se non appare ancora del tutto deciso. Questioni familiari potrebbero influire sulla decisione, soprattutto dopo la morte nel mese di maggio del figlio 46enne, Beau.

La probabile scelta di correre per la nomination è stata data come “molto probabile” dal Wall Street Journal. La CNN ha invece parlato di un pranzo tra Biden e Obama nella giornata di lunedì, durante il quale il presidente avrebbe dato la propria “benedizione” a una candidatura del suo numero due.

La posizione della Casa Bianca sulla questione appare particolarmente interessante, alla luce soprattutto della candidatura di Hillary Clinton che, in quanto ex segretario di Stato di Obama, sembrava avere in cassaforte l’appoggio del presidente.

Elogi di Biden e allusioni nemmeno troppo velate alle preferenze di Obama sono state registrate nel corso della conferenza stampa di lunedì scorso del portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest. Dopo avere definito la nomina di Biden a vice-presidente come la migliore decisione mai presa nella carriera politica di Obama, Earnest ha aggiunto di “non potere escludere la possibilità di un appoggio ufficiale [al suo vice] durante le primarie democratiche” da parte del presidente.

Secondo la testata on-line Politico, al contrario, Obama continuerebbe a vedere con maggiore interesse un successo di Hillary Clinton, come conferma la consegna della sua “vasta rete di raccolta fondi nelle mani delle Super PACs” legate alla ex first lady. Le “Super PACS” sono organizzazioni che fanno campagna elettorale a favore di un determinato candidato, pur non coordinando con esso le operazioni, e possono raccogliere quantità di denaro virtualmente illimitate.

Lo stesso pezzo pubblicato mercoledì da Politico descrive un Biden relativamente passivo e segnato dal grave lutto familiare. Ciononostante, il vice-presidente americano ha preso alcune iniziative che potrebbero prefigurare una candidatura. Ad esempio, qualche giorno fa è stata presentata la sua nuova direttrice delle comunicazioni, Kate Bedingfield, la quale vanta esperienze in campagne elettorali presidenziali, avendo lavorato per John Edwards nel 2008.

Il Washington Post ha poi rivelato un invito fatto da Biden ai principali finanziatori democratici per un incontro presso la residenza ufficiale del vice-presidente ai primi di settembre. Biden avrebbe anche intensificato i contatti personali con i ricchi sostenitori del suo partito, anche se per il momento in pochi avrebbero in previsione di abbandonare Hillary Clinton.

A sorprendere gli osservatori della politica americana è soprattuto l’attesa da parte di Biden nell’annunciare la propria eventuale candidatura. Se all’inizio delle primarie mancano più di quattro mesi e oltre un anno alle elezioni presidenziali, per gli standard USA Biden è già in sensibile ritardo, considerando non solo che i suoi rivali stanno facendo attivamente campagna elettorale da molti mesi ma anche che la creazione di una macchina operativa efficiente richiede tempo e ingenti risorse da raccogliere tra finanziatori già in buona parte orientati a sborsare i propri dollari per Hillary.

Anche per questa ragione, forti dubbi sulla natura della possibile candidatura di Biden sono venuti a molti, a cominciare dai commentatori dei giornali filo-repubblicani. Il Wall Street Journal, ad esempio, è stato recentemente uno dei più espliciti nel collegare le voci che circolano attorno al vice-presidente alle difficoltà di Hillary Clinton.

Per il giornale di Rupert Murdoch, addirittura, l’amministrazione Obama è in possesso di informazioni classificate circa la serietà dell’indagine appena aperta dall’FBI sulla ex first lady e starebbe perciò coltivando la candidatura di Biden. Hillary è da mesi al centro di polemiche per avere utilizzato il proprio account di posta elettronica privato nella corrispondenza ufficiale durante la sua permanenza al Dipartimento di Stato. La legge americana prevede che i membri del gabinetto utilizzino invece un indirizzo di posta governativo ufficiale.

Al di là della più o meno seria indagine in corso e delle informazioni riservate in possesso o meno della Casa Bianca, appare tutt’altro che improbabile che la candidatura di Biden venga promossa come alternativa a quella di Hillary Clinton o appositamente per boicottare la corsa di quest’ultima.

Un ulteriore indizio in questo senso era emerso nel mese di luglio in seguito alla pubblicazione di una “esclusiva” del New York Times. Il pezzo, citando anonime fonti governative, rivelava l’apertura di un’indagine federale “criminale” ai danni di Hillary Clinton, sempre in merito alla vicenda delle e-mail del dipartimento di Stato.

Vista la quasi simbiosi tra questo giornale e l’amministrazione Obama, è probabile che la soffiata venisse proprio dall’interno del governo con l’intento di danneggiare le prospettive di Hillary. Com’è evidente, risulta impossibile scrutare le vere ragioni di un’iniziativa simile, visto anche che le rivelazioni potrebbero essere giunte da esponenti dell’apparato dello stato interessati a ostacolare l’elezione di un qualsiasi nuovo presidente democratico.

I sospetti di una manovra poco pulita sono apparsi comunque chiari alcuni giorni dopo l’uscita dell’articolo, quando il Times è stato costretto a ritrattare e ad ammettere che a carico di Hillary non vi era alcun procedimento di natura “criminale”.

Nonostante il netto vantaggio in termini di finanziamenti, sembrano essere d’altra parte in molti nel Partito Democratico a temere un nuovo fiasco della campagna della Clinton, sia per un aggravarsi dei suoi guai giudiziari sia per i sentimenti che essa e i suoi familiari suscitano in buona parte della popolazione americana.

Proprio mercoledì la Reuters ha pubblicato un sondaggio nel quale appare evidente come la maggioranza dei potenziali elettori veda Hillary Clinton decisamente carente sul fronte della trasparenza, dell’affidabilità e dell’onestà, tutte qualità al contrario riconosciute - almeno dagli intervistati - a Joe Biden.

Un eventuale naufragio dell’ex segretario di Stato dopo avere conquistato la nomination significherebbe consegnare la Casa Bianca ai repubblicani, mentre una débacle durante le primarie potrebbe far decollare la candidatura di Bernie Sanders.

Il senatore nominalmente indipendente del Vermont, talvolta auto-definitosi “democratico-socialista”, è finora l’unico vero sfidante di Hillary. In questi mesi ha ridotto il divario di consensi dalla favorita in vari stati e le sue apparizioni hanno spesso attratto parecchie migliaia di sostenitori, evidenziando il desiderio ampiamente diffuso negli USA di politiche rivolte ai lavoratori e alla classe media.

Nell’ipotesi ancora molto lontana di un successo nelle primarie di Sanders, i leader democratici temono che le sue posizioni troppo a “sinistra” possano rendere impossibile una vittoria contro qualsiasi candidato repubblicano.

Inoltre e forse soprattutto, la classe dirigente USA affiliata al Partito Democratico vede con estrema apprensione il formarsi di un movimento popolare attorno a una piattaforma autenticamente progressista. Uno scenario, quest’ultimo, che nemmeno Sanders si augura e che finirebbe per compromettere ancor più la residua legittimità politica di questo partito.

In questa prospettiva, la promozione della candidatura di Biden - forse anche contro la sua volontà - potrebbe offrire un’alternativa valida o, quanto meno, rappresenterebbe l’unica percorribile visti i tempi ristretti e la quasi totale assenza di personalità autorevoli e con un profilo nazionale in casa democratica.

Quel che è certo è che per la grande maggioranza degli elettori americani non esistono differenze significative su cui basare una scelta tra Hillary Clinton e Joe Biden, così come non ce ne sarebbero nel caso che l’uno o l’altro candidato finisca per insediarsi alla Casa Bianca nel gennaio del 2017.

di Michele Paris

A pochi giorni dal voto del Congresso americano sull’accordo per il nucleare iraniano, raggiunto a Vienna lo scorso mese di luglio, i leader democratici e l’amministrazione Obama stanno producendo il massimo sforzo per raccogliere i consensi necessari all’interno della delegazione del loro partito e neutralizzare gli effetti di un voto contrario praticamente certo da parte della maggioranza repubblicana.

La Camera e il Senato di Washington dovrebbero esprimersi sull’intesa che ha sbloccato lo stallo attorno al programma nucleare della Repubblica Islamica pochi giorni prima dell’ultima data utile, prevista per il 17 settembre.

L’accordo, siglato dagli USA e dagli altri paesi che formano il gruppo dei P5+1 (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania), non è in realtà un trattato formale sul quale il Congresso USA è chiamato per legge a dare la propria approvazione. Il voto di settembre è invece la conseguenza di un compromesso raggiunto mesi fa tra il presidente Obama e la leadership repubblicana, fortemente contraria all’accordo e ben decisa a rivendicare il diritto di bocciarlo o ratificarlo in cambio dell’astensione al boicottaggio dello sforzo diplomatico promosso dalla Casa Bianca.

Anche se molti deputati e senatori non hanno ancora manifestato pubblicamente la propria intenzione di voto, i numeri sembrano al momento essere favorevoli a Obama e, quindi, alla sostanziale ratifica dell’accordo. L’approvazione del testo negoziato a Vienna difficilmente potrà però risparmiare un imbarazzo politico al presidente.

La maggioranza del Congresso respingerà infatti l’accordo sul nucleare, il quale verrà salvato soltanto dal veto di Obama o, tutt’al più, da un consolidato ostacolo procedurale previsto dalle regole del Senato (“filibuster”).

In quest’ultimo caso, l’imbarazzo per Obama sarebbe tutto sommato relativo, visto che formalmente non ci sarebbe un voto contrario, anche se saranno necessari almeno 41 voti su 100 a favore dell’accordo. Dal momento che tutti i senatori repubblicani dovrebbero votare contro e che i democratici occupano 46 seggi alla camera alta del Congresso, la Casa Bianca può permettersi di perdere cinque senatori e riuscire comunque a impedire la bocciatura dell’accordo.

Se i repubblicani dovessero invece spuntarla e far passare una risoluzione di condanna in entrambe le camere, privando il presidente dell’autorità di sospendere le sanzioni contro l’Iran approvate dal Congresso, come già ricordato Obama sarà costretto a ricorrere al veto e la Casa Bianca dovrà garantirsi l’appoggio di almeno 34 senatori per evitare che esso venga annullato con un voto dei due terzi dei membri di Camera e Senato.

Finora, solo due senatori democratici hanno dichiarato pubblicamente di voler votare contro l’accordo: il probabile prossimo leader del partito al Senato, Chuck Schumer (New York), e Robert Menendez (New Jersey). Tra i favorevoli spicca invece il leader di minoranza, Harry Reid (Nevada), la cui decisione annunciata domenica scorsa potrebbe incoraggiare altri colleghi a seguirne l’esempio.

Come ha spiegato martedì il New York Times, la garanzia di un voto favorevole all’accordo data recentemente da senatori democratici provenienti da stati dominati politicamente dai repubblicani – come Joe Donnelly dell’Indiana o Claire McCaskill del Missouri – ha fatto aumentare sensibilmente le probabilità di un esito positivo per la Casa Bianca.

Le attenzioni sono concentrate in larga misura sul Senato, poiché alla Camera, dove non è prevista la clausola del “filibuster”, gli equilibri sembrano ormai consolidati. Qui, la netta maggioranza repubblicana assicurerà la bocciatura dell’accordo sul nucleare ma le possibilità di mettere assieme il numero di voti necessari a cancellare il veto presidenziale appaiono attualmente piuttosto scarse.

Ai repubblicani servirebbero 146 voti di deputati democratici, ma qualche mese fa ben 150 membri del partito di Obama alla Camera avevano sottoscritto una lettera aperta a favore dell’accordo. A tutt’oggi, da questo gruppo non si segnalano defezioni, mentre una manciata di altri deputati democratici ha nel frattempo dichiarato il proprio appoggio all’intesa raggiunta a Vienna.

I timori che i vertici democratici nutrono in vista del voto di metà settembre sono legati per lo più alla possibilità che i repubblicani possano collegare alla risoluzione relativa all’accordo con l’Iran alcuni emendamenti politicamente difficili da respingere, come la richiesta che Teheran riconosca Israele o che vengano liberati alcuni cittadini americani detenuti nelle carceri della Repubblica Islamica.

Eventuali emendamenti relativi a Israele risulterebbero problematici per vari senatori che tradizionalmente sono molto legati alla lobby ebraica, protagonista in questi mesi a Washington di un’accesa quanto dispendiosa campagna contro l’accordo.

Alcuni senatori ufficialmente ancora indecisi, perciò, sembrano intenzionati a chiedere rassicurazioni alla Casa Bianca, al fine di garantire la superiorità militare di Israele in Medio Oriente o la difesa dell’alleato da una fantomatica minaccia militare iraniana.

Le prospettive di sopravvivenza dei frutti di una trattativa diplomatica internazionale durata anni non sono ad ogni modo legate soltanto alle manovre o ai calcoli aritmetici dei membri del Congresso americano. I contrasti osservabili a Washington su un accordo dalle potenziali conseguenze strategiche enormi riflettono piuttosto le divisioni esistenti all’interno della classe dirigente d’oltreoceano circa l’approccio da tenere nei confronti dell’Iran e, ancor più, sulle prospettive del declinante imperialismo statunitense.

Se il Partito Repubblicano, spostato sempre più a destra, continua a rappresentare in larghissima misura i sentimenti irriducibilmente guerrafondai dell’apparato militare e dell’intelligence, nonché del mondo degli affari che ruota attorno ad esso, buona parte di quello democratico predilige un atteggiamento parzialmente diverso.

Questa inclinazione risulta prevalente all’interno dell’amministrazione Obama e, pur non escludendo in nessun modo il ricorso all’aggressione militare, almeno per quanto riguarda l’Iran prevede per ora il tentativo di percorrere la strada della diplomazia come opzione più idonea alla difesa degli interessi americani.

In questo modo, e senza comunque escludere minacce o la reintroduzione delle sanzioni una volta revocate, permette teoricamente di evitare nel breve periodo il ripetersi delle conseguenze destabilizzanti provocate dalle disastrose avventure belliche promosse dagli Stati Uniti nell’ultimo decennio.

di Michele Paris

I colloqui tra i rappresentanti della Corea del Nord e della Corea del Sud sembrano avere dato alcuni frutti nella giornata di lunedì, fermando l’escalation delle tensioni tra i due paesi rivali, riesplose la settimana scorsa in seguito ad alcune presunte provocazioni da parte del regime di Pyongyang lungo la cosiddetta Zona Demilitarizzata che segna il confine nella penisola dell’Asia nord-orientale.

Le due parti si erano incontrate nella serata di sabato per un primo round di negoziati per poi riprendere le discussioni nel pomeriggio di domenica. Il vertice era avvenuto alla scadenza di un ultimatum emesso dalla Corea del Nord per imporre entro 48 ore lo stop alla diffusione di materiale audio di propaganda da altoparlanti situati appena oltre il confine meridionale.

Quest’ultimo provvedimento era stato preso dal governo di Seoul per la prima volta in undici anni in seguito all’esplosione il 10 agosto scorso di alcune mine lungo un percorso di pattugliamento nella zona di confine. Il posizionamento dell’esplosivo era stato attribuito alla Corea del Nord e aveva causato il ferimento di due soldati sudcoreani. Settimana scorsa, poi, erano stati registrati scambi di colpi di artiglieria, sia pure senza vittime.

Pyongyang, da parte sua, aveva respinto ogni responsabilità in relazione alle esplosioni del 10 agosto e pretendeva la fine delle trasmissioni di propaganda dalla Sud Corea, minacciando possibili azioni militari. Lo scorso fine settimana, la Corea del Nord aveva inoltre dichiarato un “semi-stato di guerra”.

Nei colloqui e nelle dichiarazioni ufficiali da Seoul, il governo sudcoreano aveva chiesto al regime di Kim Jong-un le scuse ufficiali per l’accaduto. A ribadirlo era stata anche la presidente, Park Geun-hye, la quale lunedì aveva minacciato “misure adeguate” e il proseguimento della diffusione di materiale propagandistico tramite altoparlanti se dal nord non fossero giunte scuse e la promessa di astenersi da ulteriori provocazioni.

La stampa delle due Coree ha alla fine annunciato il raggiungimento un’intesa, con il Nord che avrebbe accettato di scusarsi per il ferimento dei due soldati di Seoul e il Sud che fermerà le trasmissioni di propaganda a partire da martedì. Ulteriori colloqui bilaterali sono poi previsti a breve e andranno in scena nelle due capitali.

L’esito del più recente conflitto è arrivato dopo che Seoul aveva fatto forti pressioni sulla Corea del Nord, in particolare attraverso ripetuti comunicati di esponenti del governo e dei vertici militari sulla presunta mobilitazione delle forze armate di Pyongyang.

Lunedì, ad esempio, fonti militari sudcoreane avevano segnalato il movimento di una decina di mezzi anfibi da sbarco nordcoreani, diretti verso una base navale situata a una sessantina di chilometri dalla “linea di confine settentrionale” che separa i due paesi nel Mar Giallo.

Il giorno precedente, invece, un altro esponente delle forze armate di Seoul aveva avvertito che più di 50 dei 70 sottomarini in dotazione alla Corea del Nord avevano abbandonato le proprie basi, mentre era raddoppiato il contingente di truppe di artiglieria posizionate lungo il confine di terra, con il comando in stato di massima allerta.

Le mosse di Pyongyang e le minacce, puntualmente indirizzate verso Seoul durante i momenti di crisi, sono in realtà in larga misura vuote e hanno l’obiettivo di far guadagnare al regime un qualche vantaggio nei colloqui. Esse finiscono tuttavia per offrire alla Corea del Sud e agli Stati Uniti l’opportunità di imporre la propria versione dei fatti all’opinione pubblica locale e internazionale, così da dipingere la Corea del Nord come unico “aggressore” e come “minaccia” a un governo al contrario interamente animato da sentimenti pacifici come quello di Seoul.

Le iniziative vere o presunte di Kim Jong-un, così come quelle dei suoi due predecessori, sono per lo più determinate dalla situazione quasi disperata in cui si trova la Corea del Nord sia dal punto di vista strategico che economico, a causa principalmente della concreta minaccia americana e sudcoreana.

Le provocazioni dei due paesi alleati risultano evidenti, nonostante siano generalmente riportate in una luce positiva dalla stampa occidentale e sudcoreana. Seoul e Washington sono infatti nel pieno della massiccia esercitazione militare annuale - anche se sospesa qualche giorno fa - che si tiene nel periodo estivo e che vede impegnati ben 80 mila soldati. Inoltre, sabato scorso quattro aerei da guerra americani F-16 e altrettanti F-15K sudcoreani avevano volato nei pressi del confine con la Corea del Nord simulando un bombardamento.

Secondo la stampa sudcoreana, infine, Seoul e Washington stavano discutendo il dispiegamento di un bombardiere B-52 e di un sottomarino nucleare in Corea del Sud, ufficialmente come “deterrente” anche se evidentemente volto a provocare la reazione di Pyongyang e a giustificare ulteriori misure per la militarizzazione della penisola di Corea.

Gli Stati Uniti avevano d’altra parte già agito in un modo simile nel 2010 e nel 2013, quando avevano rispettivamente inviato in Corea del Sud la portaerei nucleare George Washington e bombardieri B-2 e B-52 nel corso di precedenti situazioni di crisi.

Da parte nordcoreana, peraltro, la retorica bellicista nasconde la volontà di raggiungere un qualche accomodamento con Washington, alla luce soprattutto delle gravi difficoltà economiche che minacciano la stabilità del regime.

Non a caso, malgrado lo scontro con Seoul, Pyongyang non aveva decretato la chiusura, sia pure temporanea, del complesso industriale di Kaesong, situato in territorio nordcoreano ma operato da aziende del Sud. Questi impianti permettono infatti al regime di ricavare preziosa valuta estera a fronte del quasi totale isolamento internazionale del paese.

Gli Stati Uniti persistono però nel mantenere una linea dura nei confronti della Corea del Nord e, di fatto, nell’impedire la ripresa dei colloqui con le altre potenze regionali, incoraggiati invece da Pechino, ovvero il principale se non unico alleato del regime. L’accordo siglato lunedì non offre in ogni caso alcuna garanzia di distensione tra i due paesi, visti i precedenti e le implicazioni strategiche della crisi tra le due Coree.

Le ragioni del perenne stallo nella penisola di Corea, così come del periodico riesplodere delle tensioni tra Seoul e Pyongyang, sono in sostanza da ricercare nelle manovre strategiche degli USA in Estremo Oriente. Nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica, l’amministrazione Obama intende cioè continuare ad alimentare ogni rivalità o motivo di scontro, in modo da mantenere alto il livello di pressione esercitata sulla Cina.

di Michele Paris

L’anniversario dell’uccisione del 18enne di colore Michael Brown da parte di un agente della polizia di Ferguson, nel Missouri, ha innescato a partire dallo scorso fine settimana nuove manifestazioni di protesta nella cittadina alla periferia di St. Louis. Le dimostrazioni contro l’impunità garantita ai membri delle forze dell’ordine responsabili di violenze ai danni della popolazione sono rapidamente sfociate in scontri con la polizia, spingendo lunedì il “county executive” della contea di St. Louis a dichiarare lo stato di emergenza preventivo.

A surriscaldare ulteriormente gli animi è stato il ferimento sempre da parte della polizia di un altro giovane afro-americano nella serata di domenica in circostanze poco chiare. Secondo le autorità, il 18enne Tyrone Harris faceva parte di un gruppo di persone che aveva aperto il fuoco sulla polizia durante una delle manifestazioni pacifiche andate in scena nel week-end.

Gli eventi di queste ore a Ferguson hanno puntualmente riproposto le immagini viste in numerose occasioni durante gli ultimi dodici mesi, caratterizzati da proteste in varie città d’America contro la brutalità della polizia e il degrado economico e sociale in cui è costretta a vivere buona parte della popolazione americana, non solo di colore.

Le forze di polizia sono infatti intervenute in assetto da guerra per disperdere i manifestanti in larghissima misura pacifici, contro i quali hanno usato gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Gli arresti sono stati finora più di cento, mentre lo stato di emergenza ha assegnato poteri ancora maggiori ai vertici della polizia della contea di St. Louis per le operazioni in corso a Ferguson, dove sono giunti rinforzi dalle città circostanti.

In maniera inquietante anche se non inedita, lo stato di emergenza decretato dal direttore amministrativo della stessa contea, Steve Stenger, servirebbe a “prevenire crimini”, nonché “danni alle persone e alle proprietà”. Se si pensa che le proteste di questi giorni sono state in gran parte pacifiche e gli episodi di violenza provocati proprio dalla polizia, è facile comprendere il carattere fortemente anti-democratico del provvedimento.

Un’identica dichiarazione dello stato di emergenza preventivo, assieme alla mobilitazione della Guardia Nazionale, era stata peraltro annunciata lo scorso mese di novembre dal governatore democratico del Missouri, Jay Nixon, poco prima che un “Grand Jury” rendesse nota la propria decisione di non incriminare l’agente responsabile della morte di Michael Brown.

Per quanto riguarda il ferimento di Tyrone Harris nel fine settimana, la famiglia di quest’ultimo ha duramente smentito la ricostruzione ufficiale dei fatti proposta dalla polizia. Il giovane manifestante, secondo il padre, era cioè disarmato e stava partecipando a una veglia per ricordare la morte dell’amico Michael Brown.

Due testimoni avrebbero riferito che Harris era stato coinvolto in una disputa tra due gruppi di giovani e, quando i membri di uno di questi ultimi si erano messi a sparare, aveva cercato di mettersi al riparo. A questo punto la polizia avrebbe aperto il fuoco, colpendo Harris tra le otto e le dodici volte.

Per la polizia, al contrario, il giovane era armato ed era una delle sei persone che avevano sparato nella tarda serata di domenica. Dopo avere tentato la fuga, Harris sarebbe stato raggiunto da un’auto senza insegne della polizia con a bordo quattro agenti in borghese.

Lo stesso Harris avrebbe allora fatto fuoco sul veicolo e i suoi occupanti si sarebbero messi all’inseguimento a piedi sparando al giovane e ferendolo in maniera grave. Nessuno dei quattro agenti ha invece riportato ferite in seguito alla presunta sparatoria.

Il padre di Harris ha contestato che il figlio fosse in possesso di una pistola calibro 9, come affermato dalla polizia, visto che a suo dire sull’arma non sarebbero state trovate le sue impronte digitali. I quattro agenti che hanno inseguito Harris non indossavano microcamere né una normale videocamera era installata sulla loro auto, come previsto dalla legge.

Attualmente ricoverato in condizioni critiche, Tyrone Harris è stato incriminato lunedì con dieci capi d’accusa, mentre i quattro agenti che lo hanno colpito sono stati sospesi.

Il degenerare della situazione a Ferguson non è stato ad ogni modo casuale né inaspettato, visto che è dovuto interamente alla reazione preparata dalle forze di polizia a manifestazioni pacifiche e animate dal desiderio di commemorare la morte di Michael Brown. Come è ormai consueto per la polizia delle città americane, gli agenti dispiegati per il controllo dell’ordine nella cittadina del Missouri erano equipaggiati in maniera pesante e supportati da veicoli da guerra.

La militarizzazione delle forze di polizia americane è perfettamente coerente con il livelli di violenza che le caratterizza. Michael Brown è stato infatti solo una delle oltre 1.100 vittime della polizia nel 2014, mentre dal primo gennaio al 10 agosto di quest’anno i morti per mano di agenti delle forze dell’ordine negli Stati Uniti, secondo il sito web killedbypolice.net, sono stati ben 720.

I poliziotti incriminati o, tantomeno, condannati per questi omicidi sono stati al massimo una manciata negli ultimi anni, visto che i loro superiori, i politici e la giustizia USA continuano a fare di tutto per garantire loro la più o meno totale impunità.

Parallelamente, il governo di Washington, oltre a condurre una politica estera criminale e violenta che si riflette inevitabilmente sul fronte domestico, opera un programma di forniture di equipaggiamenti militari destinati ai dipartimenti di polizia locale negli Stati Uniti, tanto che molti di questi ultimi assomigliano sempre più a reparti dell’esercito incaricati di reprimere manifestazioni di protesta e altre forme di dissenso pacifiche contro il sistema.


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