di Michele Paris

L’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha finalmente diffuso qualche giorno fa a Ginevra il rapporto d’indagine sui crimini collegati alla guerra civile in Sri Lanka tra le forze governative e i separatisti delle Tigri Tamil (LTTE). Se il rapporto assegna responsabilità a entrambe le parti, l’intera operazione appare manipolata dalle grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’India, impegnate a sfruttare le violazioni dei diritti umani per avanzare i propri interessi strategici nel paese dell’Oceano Indiano.

Il conflitto in Sri Lanka era iniziato nel 1983 e, fino alla sanguinosa offensiva finale dell’esercito di Colombo nel 2009, ha fatto secondo alcune stime almeno 200 mila vittime, in buona parte appartenenti alla minoranza Tamil. Le fasi più cruente della guerra civile, a cui il rapporto dell’ONU ha dato ampio spazio, sono state quelle finali, soprattutto in relazione al massacro da parte delle forze armate di guerriglieri e leader Tamil, nonché civili, nonostante questi ultimi si fossero chiaramente arresi.

Il 28 maggio del 2009, ad esempio, alcuni comandanti Tamil e il numero uno dell’ufficio politico del movimento, Balasingham Nadesa, inviarono messaggi al governo dell’allora presidente, Mahinda Rajapaksa, per manifestare la loro intenzione di consegnarsi pacificamente alle autorità. La Croce Rossa e vari rappresentanti di governi stranieri si erano offerti di agire da osservatori per garantire la resa, ma Colombo rifiutò categoricamente.

Il governo ordinò allora ai guerriglieri Tamil di consegnarsi a un reparto dell’esercito non lontano dal villaggio di Vellimullivaikkal, nel nord dello Sri Lanka, dove si erano radunati. Secondo testimoni interrogati dagli investigatori ONU, i militanti separatisti avevano seguito le istruzioni, dirigendosi nel luogo indicato in abiti civili e mostrando una bandiera bianca.

Poco più tardi, tuttavia, il governo avrebbe fatto sapere che Nadesa e altri guerriglieri Tamil erano stati uccisi in combattimento. Il rapporto ONU conferma invece quanto si sospettava da tempo, cioè che i leader Tamil arresisi  erano stati vittime di una vera e propria esecuzione.

Nonostante questi e altri crimini che hanno segnato i 26 anni di guerra civile in Sri Lanka, l’interesse di molti governi stranieri non è legato a questioni di giustizia, bensì di puro calcolo strategico.

A sponsorizzare un’indagine sullo Sri Lanka erano stati, tra gli altri, gli Stati Uniti nel corso di una sessione del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (UNHRC) nel marzo del 2014. Come avrebbero confermato gli sviluppi dei mesi successivi, tuttavia, le intenzioni di Washington, come al solito, avevano a che fare non tanto con scrupoli per i diritti umani ma con le preoccupazioni per gli orientamenti strategici del governo di Rajapaksa. Quest’ultimo aveva infatti iniziato a stabilire profondi legami politici, economici e militari con la Cina, suscitando le apprensioni di USA e India.

Washington ha così utilizzato la questione dei crimini di guerra per esercitare pressioni sull’amministrazione Rajapaksa, mentre parallelamente e in collaborazione con Delhi e sezioni filo-americane della classe politica cingalese alla fine dello scorso anno è stato orchestrato un avvicendamento “democratico” alla guida del paese in vista delle elezioni presidenziali nel mese di gennaio.

Con questo appoggio esterno, il Partito Nazionale Unito (UNP) all’opposizione e la ex presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, legata alla famiglia Clinton e appartenente al partito di Rajapkse (SLFP), avevano promosso la candidatura a presidente di Maithiripala Sirisena, a sua volta dimessosi da ministro della Sanità nel governo di Rajapaksa.

Cavalcando l’impopolarità del presidente, Sirisena sarebbe così riuscito a prevalere nel voto di gennaio e, fin dal suo insediamento, ha iniziato un riallineamento strategico verso gli Stati Uniti e l’India, cercando allo stesso tempo di emarginare Rajapakse e i suoi seguaci all’interno del partito.

Gli USA, in ogni caso, consapevoli sia delle difficoltà per Colombo di sganciarsi da Pechino sia del pericolo di un ritorno da protagonista di Rajapaksa sulla scena politica cingalese, hanno per mesi continuato a tenere aperta l’ipotesi di un’indagine criminale internazionale sui fatti della guerra civile.

Le elezioni parlamentari di agosto hanno però rappresentato un momento di svolta, visto che le velleità di conquistare la carica di primo ministro di Rajapaksa sono state frustrate con il successo dell’UNP dell’attuale premier, Ranil Wickremesinghe.

Il cambiamento di attitudine degli USA è stato sancito dall’assistente al segretario di Stato per l’Asia meridionale, Nisha Biswal, la quale alla fine del mese scorso a Colombo ha annunciato l’appoggio dell’amministrazione Obama a un progetto di inchiesta interna sui crimini di guerra, preferito dal presidente Sirisena e dal primo ministro Wickremesinghe.

Questa opzione consentirebbe alla fazione cingalese attualmente al potere e ai suoi sponsor a Washington e a Delhi di promuovere i rispettivi interessi. Al contrario di un’indagine criminale internazionale, teoricamente indipendente, un’inchiesta interna sarà esposta alle manipolazioni delle autorità, così che le responsabilità nel conflitto di coloro che sono al governo potranno essere occultate. Ugualmente, l’indagine interna servirà a perseguire Rajapaksa e i suoi alleati, in modo da rendere sempre più complicato un loro possibile percorso verso il ritorno al potere.

Il rapporto ONU appena pubblicato auspica in ogni caso la creazione di un “tribunale speciale ibrido” formato anche da “giudici, procuratori, avvocati e investigatori internazionali”, anche se il governo di Colombo, verosimilmente con l’appoggio di USA e India, sembra intenzionato a battersi per l’istituzione di un tribunale senza “interferenze” esterne.

La presunta imparzialità del commissario per i Diritti Umani è comunque smentita dalle considerazioni relative alla situazione interna. Il principe giordano, a ben vedere, nel suo rapporto asseconda le posizioni degli Stati Uniti nel momento in cui sottolinea il nuovo “contesto politico” cingalese, dal quale emergerebbe una “storica opportunità di autentico cambiamento”.

Hussein fa riferimento alla sconfitta elettorale di Rajapaksa e alla formazione di un governo di unità nazionale, composto da “tutte le comunità”, che ha preso iniziative come la limitazione dei poteri del presidente, la reimposizione dei limiti al numero di mandati presidenziali e la “riapertura degli spazi per la libertà di espressione”.

Una serie di elogi, quelli indirizzati al nuovo governo dello Sri Lanka che manca però di ricordare, oltre alle responsabilità nella guerra civile di svariati suoi membri, le ragioni strategiche e di opportunità politica che hanno dettato il cambiamento registrato negli ultimi mesi a Colombo.

di Fabrizio Casari

Un viaggio di pace in un mondo dove "la terza guerra mondiale avanza dispersa in mille rivoli e mille teatri". Un viaggio che predica la riconciliazione tra i diversi e che sceglie Cuba proprio in omaggio alla recente riapertura di dialogo e relazioni tra l’isola socialista e gli Stati Uniti. Proprio per questa sua connotazione, nella quale s’intrecciano il messaggio pastorale e quello politico, il viaggio nelle Americhe di Papa Bergoglio, primo Papa latinoamericano della storia, non poteva non cominciare da Cuba.

Che conosce oggi una nuova tappa delle relazioni con gli Stati Uniti grazie alla sua tenacia nel resistere senza cedimenti a più di 50 anni di blocco, ma che ha avuto proprio in Papa Bergoglio l’indiscusso regista del processo di riavvicinamento tra Washington e L’Avana. Un riavvicinamento - va detto - frutto anche della svolta che Obama ha ritenuto di voler dare nella seconda parte del suo mandato, quando ha deciso di sferrare l’affondo sulle più spinose ed intrise di ideologismo delle questioni di politica estera, tra le quali appunto Cuba, l’Iran e ora la Siria.

Dal suo arrivo a L’Avana, fino alla messa celebrata in una stracolma Plaza de la Revolucìòn, il Papa ha potuto misurare quanto affetto e quanto rispetto circondino la sua figura. In centinaia di migliaia hanno partecipato alla messa nella storica piazza delle mobilitazioni cubane, dove Bergoglio, affiancato dalle effigi del “Che” Guevara e dalla bandiera cubana, ha portato il suo messaggio evangelico e politico. Cattolici e non si sono mobilitati per farli sentire l’abbraccio dell’isola tutta. Perché Bergoglio si è presentato da amico di Cuba, senza rinunciare alla centralità del messaggio papale ma anche con l’intento di confermare il legame che da diversi anni vede la Chiesa cubana nel ruolo di interlocutrice attenta e collaborativa nei confronti del governo.

Il clamore politico-mediatico che accompagnò la visita di Papa Woytila nel 1998 non si è replicato. Bergoglio, del resto, non è arrivato a Cuba con le stimmate dell’alfiere dell’anticomunismo che caratterizzarono il papato di Woytila, bensì portando in regalo la preziosissima opera di mediazione che ha permesso la riapertura dei rapporti diplomatici tra L’Avana e Washington. Nel 1998, la visita del Papa polacco entusiasmò il main stream mediatico, che per la scarsa conoscenza di Cuba s’illuse di utilizzare Woytila come grimaldello per scardinare il sistema socialista. Non funzionò allora, non avrebbe senso oggi.

Ma anche in questo viaggio papale non sono mancati all'appello alcuni specialisti della fantasia travestiti da giornalisti, intenti a dipingere scenari inesistenti per sostenere speranze irrealizzabili; niente di nuovo o di strano, di aspiranti servitù il giornalismo è deposito inesauribile. Sono state enfatizzate le parole di Bergoglio circa il dover servire le persone e non le ideologie per proporle come critica papale non alla politica in generale, bensì al governo cubano.

Come se tutti gli altri governi del mondo non siano concepiti sulle ideologie, come se fosse pensabile che il custode della fede assegnasse alle ideologie la dimensione unificante dei popoli. Per la stessa raffinata logica è stata sostanzialmente cancellata la richiesta a Raul, appena sbarcato, di portare il suo saluto ed il segno del suo assoluto rispetto per Fidel Castro.

Eppure, questo viaggio rappresenta un salto in avanti proprio per il riconoscimento della leadership cubana. Se i viaggi di Woytila prima e di Ratzinger poi vollero significare la legittimità dell’interlocuzione con l’isola socialista, quello di Bergoglio appare anche come un riconoscimento diretto all’opera che Cuba svolge in favore della mediazione per la guerra civile in Colombia.

Non è stato certo casuale il passaggio dove, durante la predica in Plaza de la Revolucìòn, il Papa ha chiamato ad ogni sforzo per la fine del conflitto colombiano ed il fatto che i colloqui di pace tra guerriglia e governo abbiano la loro sede proprio a L’Avana, conferma il sostegno vaticano alla mediazione cubana, il suo riconoscimento di un ruolo determinante sulla scacchiera continentale.

Cuba, attraverso Raul e Fidel, ha voluto riaffermare quanto il processo di ristabilimento delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti non significhi l’abdicazione dei suoi principi o la rinuncia alle sue rivendicazioni. Restano importanti questioni sul terreno, prima fra tutte la piena accettazione della legittimità del sistema politico cubano. Non si tratta solo di parole: l’identità della Rivoluzione e lo sviluppo del Paese sono stati infatti perseguiti al prezzo di sacrifici immensi e migliaia di vittime.

I danni provocati da più di 50 anni di blocco economico e diplomatico, di terrorismo e ostilità politica, sono i temi sui quali Cuba non intende soprassedere, affinchè si possa scrivere la parola "fine" all'aggressione statunitense contro Cuba. Dunque, secondo i cubani, quanto avvenuto in circa 60 anni deve in qualche modo trovare posto nell’agenda politica sulla quale si costruirà il processo di riavvicinamento tra USA e Cuba.

Il Papa non ha ovviamente preso posizione sul tema, non gli compete e non rappresenta una priorità per la Chiesa di Roma. In questo senso le ovvie differenze tra il punto di vista della Revolucìòn e quello di San Pietro sono stati confermate, ma in un clima di reciproco rispetto e di affetto che suona comunque come un risultato decisamente positivo sia per Roma che per L’Avana.

L’altro obiettivo del viaggio di Bergoglio è quello di rilanciare, proprio da Cuba, teatro della sua vittoria diplomatica più recente, il ruolo della Chiesa di Roma quale interlocutore affidabile e credibile negli scenari internazionali più complessi.

In questo senso il viaggio del Papa assume un significato più politico di quello effettuato dai suoi predecessori e la tappa degli Stati Uniti, dove sia per la sua opera di mediazione tra Cuba e USA che per le sue innovazioni sul tema della famiglia, del sacerdozio e delle politiche sociali a sostegno degli ultimi, troverà gli oppositori che a Cuba non ha trovato.

Il viaggio negli USA sarà un banco di prova importante per imporre l’autorevolezza del ruolo che Bergoglio intende riaffermare, anche per il profilo del processo riformatore con il quale sta faticosamente tentando di cambiare l’immagine della Chiesa di Roma.

A metà degli anni ’70, rispondendo alla domanda di un giornalista su quale s’immaginava potesse essere il momento giusto per un riavvicinamento delle relazioni con gli Usa, Fidel Castro disse testualmente: “Quando ci saranno negli USA un presidente nero e come Papa un latinoamericano”.

Chissà se nel suo incontro con Bergoglio Fidel vorrà ricordargli quella che più di 40 anni fa era una intuizione, ma che a rileggerla oggi appare invece come una profezia.

di Michele Paris

Il clima decisamente amichevole tra l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler (FCA), Sergio Marchionne, e il numero uno del sindacato automobilistico americano (UAW), Dennis Williams, nella conferenza stampa di martedì sera che ha annunciato il raggiungimento di un accordo per il rinnovo del contratto di quasi 40 mila lavoratori negli USA, basterebbe da solo a descrivere i rapporti esistenti tra le due “parti sociali” i cui interessi dovrebbero essere teoricamente divergenti.

A chiarire l’unità di vedute tra i rappresentanti di FCA e UAW vi è stata anche l’assenza di contrasti significativi registrati nel corso delle trattative, i cui dettagli, così come quelli del testo dell’accordo appena siglato, sono per il momento avvolti nel mistero.

Le discussioni tra FCA e UAW hanno inaugurato i negoziati tra il sindacato e le tre grandi case automobilistiche americane attorno ai termini del nuovo contratto quadriennale che interessa circa 140 mila lavoratori negli Stati Uniti, alle dipendenze, oltre che dell’azienda guidata da Marchionne, di Ford e General Motors (GM). UAW aveva scelto FCA come primo interlocutore e il testo concordato, se approvato dagli iscritti al sindacato, servirà come modello per le prossime trattative con Ford e GM.

Le discussioni che hanno preceduto e di poco superato la scadenza del vecchio contratto dei dipendenti di FCA - fissata per la mezzanotte di lunedì scorso - erano incentrate principalmente su due questioni di estrema importanza sia per i lavoratori sia per le tre aziende.

La prima è l’eliminazione del sistema dei cosiddetti “due livelli” di retribuzione, introdotto nel 2007 e fortemente avversato dai lavoratori, mentre la seconda riguarda l’assistenza sanitaria dei dipendenti FCA.

Secondo gli accordi in vigore, gli assunti di “secondo livello” a partire dal 2007 percepiscono stipendi che non superano i 19 dollari l’ora, contro i circa 28,5 dei lavoratori in azienda da prima di questa data. Questi ultimi, tuttavia, non hanno beneficiato di un solo adeguamento di stipendio da un decennio a questa parte.

Per i lavoratori, l’obiettivo dovrebbe essere quello di chiudere il “gap” tra i due livelli, visto che le mansioni svolte sono le stesse, assicurando a tutti i dipendenti un adeguamento verso l’alto degli stipendi. Per i vertici di FCA, anch’essi interessati a farla finita con questo sistema, si tratta al contrario di imporre un adeguamento al ribasso, liquidando i contratti di primo livello.

Nel caso dell’assistenza sanitaria, Marchionne e i suoi pari di Ford e GM intendono fare il possibile per alleggerire le loro aziende dal peso della spesa sostenuta per i piani assicurativi relativamente generosi garantiti ai dipendenti. In questo caso, il fine delle compagnie coincide con quello dei vertici del sindacato e consiste nello scaricare tutti i lavoratori in un fondo (VEBA) gestito da UAW e che da qualche tempo offre l’assistenza sanitaria ai pensionati del settore auto.

Questa soluzione sgraverebbe le aziende dai costi sanitari sostenuti per i dipendenti, mentre consentirebbe a UAW di ampliare sensibilmente il fondo di investimento che già controlla. A rimetterci sarebbero però i lavoratori, costretti a ripiegare su piani di assistenza sanitaria con meno benefit rispetto a quelli attuali.

Gli accordi presi tra le due parti non sono ad ogni modo noti per il momento, visto che né Marchionne né Williams hanno rivelato alcun dettaglio durante la conferenza stampa di martedì. Il numero uno di UAW ha affermato che il contenuto dell’accordo sarà reso noto solo dopo che esso verrà condiviso con i leader delle sezioni locali del sindacato.

Marchionne ha affermato soltanto che i negoziatori hanno concordato l’avvio di un processo per cancellare i due livelli retribuitivi “nel tempo”. Quanto tempo sarà necessario per fare ciò e in quali termini non è al momento chiaro. Dichiarazioni rilasciate dallo stesso amministratore delegato di FCA nel recente passato non lasciano intravedere nulla di buono per i lavoratori.

Marchionne - gratificato con un compenso di oltre 31 milioni di dollari nel 2014 - aveva infatti sostenuto che il “diritto” a stipendi come quelli previsti dal primo livello contributivo non sono più sostenibili e che le retribuzioni dovranno essere legate sempre più alla produttività e al successo dell’azienda sul mercato. L’ipotesi più probabile è che gli appartenenti al secondo livello e i nuovi assunti potranno raggiungere il massimo livello retributivo nel corso di una decina di anni.

Dalle interviste di molti lavoratori riportate dai media americani in questi giorni appare chiaro come sia diffuso il timore che il sindacato si sia nuovamente piegato pressoché totalmente al volere dei vertici di FCA.

La rabbia tra i lavoratori è pienamente giustificata, visto che tutte e tre le case automobilistiche americane siedono da qualche anno su una montagna di profitti, ottenuti grazie alla drastica riduzione del costo del lavoro e all’incremento della produttività imposto con la collaborazione del sindacato e dell’amministrazione Obama, intervenuta nel 2009 per salvare le compagnie sull’orlo del fallimento.

I lavoratori di FCA, così come di Ford e GM, possono comunque immaginare facilmente in quale direzione andrà il loro nuovo contratto, viste le dichiarazioni di Marchionne e Williams, protagonisti di una conferenza stampa congiunta senza precedenti per dare l’annuncio dell’intesa. Il primo ha ad esempio sottolineato la “convergenza di interessi” tra FCA e UAW; il secondo si è invece espresso sostanzialmente come un dirigente dell’azienda, parlando della necessità di mantenere il livello di competitività della compagnia e di favorire la conquista di nuove quote di mercato.

Secondo alcuni, la segretezza ostentata da Williams e Marchionne sulle questioni più delicate del contratto sarebbe dovuta alla mancanza di un accordo definitivo. Il presidente di UAW avrebbe deciso di annunciare il raggiungimento dell’intesa per allentare le pressioni esercitate dai lavoratori, pronti a scioperare allo scoccare della mezzanotte di lunedì.

Il desiderio di UAW è d’altra parte quello di evitare a tutti i costi un confronto con i vertici aziendali, come conferma il fatto che nelle prime ore di martedì il sindacato ha messo in atto una vera e propria campagna intimidatoria per impedire l’interruzione dei turni di lavoro in un impianto di Detroit. Un’iniziativa dei lavoratori in questa fabbrica avrebbe potuto innescare la mobilitazione degli altri dipendenti di FCA, così come di Ford e GM, costringendo UAW ad assumere un atteggiamento più combattivo nei confronti di Marchionne e del suo team.

In ogni caso, l’accordo verrà ora fatto conoscere ai responsabili di UAW nelle varie fabbriche FCA degli Stati Uniti, dopodiché entro una decina di giorni dovrà essere ratificato dalla maggioranza dei lavoratori in ogni singolo impianto. Successivamente saranno avviate le trattative con Ford e General Motors.

Anche in caso di bocciatura, tuttavia, il nuovo contratto potrebbe essere adottato forzatamente, come suggeriscono i precedenti. Quando infatti nel 2011 una categoria dei lavoratori di Chrysler respinse a maggioranza il contratto appena negoziato, i vertici di UAW intervennero senza esitazioni per dichiarare comunque ratificata la nuova intesa concordata con l’azienda.

di Mario Lombardo

La resa dei conti nel partito conservatore di governo australiano ha portato questa settimana alla rimozione del primo ministro, Tony Abbott, in seguito a un voto di sfiducia interno che era nell’aria da tempo. Da mesi, infatti, Abbott, è sotto il fuoco degli ambienti finanziari e del business indigeni e internazionali per non essere stato in grado di mettere in atto le misure promesse di liberalizzazione dell’economia in un momento di crescente affanno del sistema australiano basato sull’export delle risorse del sottosuolo.

A richiedere un voto sulla leadership del Partito Liberale, come è relativa consuetudine per le formazioni politiche australiane, era stato nella mattinata di lunedì l’ex ministro delle Comunicazioni, Malcolm Turnbull, evidentemente dopo essersi assicurato il sostegno della maggioranza dei colleghi parlamentari.

Pressoché contemporaneamente, il ministro degli Esteri e numero due dei Liberali, Julie Bishop, aveva di fatto sottratto il proprio appoggio al premier, costringendo quest’ultimo a scegliere tra rassegnare le dimissioni e indire un voto sulla mozione presentata da Turnbull.

Alla fine, Abbott ha annunciato il voto per la serata di lunedì e Turnbull ha prevalso con 54 voti a favore e 44 contrari, diventando poche ore più tardi il 29esimo primo ministro della storia australiana e il quinto in poco più di cinque anni. Il cambio al vertice del partito di governo è solo l’ultimo di una lunga serie in questi ultimi anni e testimonia della profonda instabilità del sistema parlamentare australiano.

Nel 2010, il primo ministro laburista, Kevin Rudd, era stato estromesso dopo una mozione interna al partito presentata da uno dei suoi ministri, Julia Gillard, in collaborazione con un’amministrazione Obama preoccupata per le timide “aperture” del premier alla Cina. Tre anni più tardi, per cercare di arginare il crollo dei consensi dei laburisti, la leadership del partito avrebbe invece reinstallato Rudd con un nuovo colpo di mano a spese della stessa Gillard.

Se Turnbull nella sua prima apparizione al Parlamento di Canberra ha avuto parole di elogio per il suo predecessore, dopo il voto di sfiducia Abbott ha denunciato le manovre di “destabilizzazione messe in atto per molti, molti mesi” ai danni del suo governo. L’ex primo ministro, pur non facendo nomi, aveva in mente i media e i membri del suo partito preoccupati per la persistente paralisi dell’attività di governo.

In particolare, un piano di bilancio all’insegna dei tagli alla spesa pubblica è fermo da tempo in Parlamento a causa dell’impopolarità delle misure previste. Le iniziative già adottate dal governo di coalizione - formato dal Partito Liberale e dal Partito Nazionale Australiano - e la crisi economica hanno nel frattempo fatto lievitare l’ostilità della maggioranza della popolazione verso l’esecutivo, come hanno testimoniato nel recente passato alcuni test elettorali a livello locale.

A gettare sull’orlo della recessione un’economia come quella australiana che aveva superato in maniera relativamente indenne la crisi mondiale scoppiata nel 2008 è stato sostanzialmente il rallentamento della Cina, di gran lunga il primo mercato delle esportazioni derivanti da un’attività estrattiva fino a poco tempo fa in piena espansione.

Come accaduto in praticamente ogni altro paese del pianeta interessato dalla crisi economica, anche in Australia la classe dirigente e i grandi interessi economico-finanziari hanno iniziato a chiedere interventi efficaci per far fronte alla nuova situazione, in primo luogo attraverso misure gravemente penalizzanti per lavoratori e classe media.

Sui principali giornali australiani, soprattutto quelli detenuti da Rupert Murdoch, la frustrazione delle élite domestiche è evidente da tempo. In molti chiedevano infatti una scossa al governo o elezioni anticipate. Lo scorso febbraio, d’altra parte, Abbott era sopravvissuto a un’altra mozione di sfiducia interna al Partito Liberale, anche se già allora era chiaro il crescere dell’opposizione alla gestione del primo ministro, in carica solo dal settembre 2013.

Vista la situazione, non è una sorpresa che il neo-premier Turnbull abbia subito dichiarato di volere dedicarsi principalmente alle questioni economiche, minacciando “riforme” che, nel linguaggio orwelliano tipico dei leader politici occidentali, dovrebbero “assicurare la nostra prosperità negli anni a venire”.

Nonostante la composizione del nuovo governo sarà decisa solo nei prossimi giorni, non è un caso nemmeno che la stampa australiana stia dando per scontata la sostituzione del ministro delle Finanze, Joe Hockey, da molti identificato come il principale responsabile, oltre al primo ministro, della mancata implementazione delle misure di austerity.

Nella giornata di martedì, Turnbull si è comunque assicurato il continuo sostegno del Partito Nazionale e, secondo i media locali, starebbe studiando alcune misure populiste di facciata rivolte alle famiglie coi redditi più bassi e agli studenti.

Il tempo a disposizione del nuovo governo di Canberra è tuttavia molto limitato, visto che la legislatura in corso scadrà tra un anno e i numeri del Partito Liberale appaiono tutt’altro che incoraggianti.

Allo stesso tempo, l’opposizione del Partito Laburista, al potere dal 2007 al 2013, è ancora largamente screditata, così che parecchi tra i Liberali si augurano che una figura come Turbnull possa riuscire a invertire la rotta per il partito.

Il neo-premier, ex giornalista e banchiere d’investimenti multimilionario, è accreditato di posizioni relativamente progressiste su alcune questioni diverse dall’economia. Turnbull, al contrario di Abbott, non è ad esempio negazionista in merito al cambiamento climatico ed è favorevole ai matrimoni gay.

Anche per questa ragione, perciò, il nuovo primo ministro australiano potrebbe essere stato scelto dai poteri forti del paese dell’Oceania per far digerire le misure di ristrutturazione economica che essi reputano inevitabili e che Abbott non ha avuto la forza politica di mettere in atto in questi due anni di governo.

di Michele Paris

La vittoria di Jeremy Corbyn nella corsa alla leadership laburista in Gran Bretagna, anche se prevista nelle ultime settimane, è giunta come una valanga sulla maggioranza “centrista” e vicina a Tony Blair dei vertici del partito. I risultati della sfida, annunciati ufficialmente qualche giorno fa, hanno rivelato in maniera incontrovertibile il profondissimo senso di alienazione dal sistema politico d’oltremanica sentito dalla gran parte della popolazione.

Allo stesso tempo, i tentativi di leader e burocrati del partito di provare a impedire un esito praticamente mai in discussione con tattiche di dubbia legalità e di sicura inopportunità democratica hanno mostrato ancora una volta il divario incolmabile tra la politica ufficiale e i bisogni e le aspirazioni dei lavoratori e della classe media britannica.

L’improbabile ascesa di un relativamente oscuro deputato laburista alla guida di uno dei due principali partiti della Gran Bretagna è stata resa materialmente possibile in primo luogo da una recente modifica delle norme che regolano le procedure di voto e da un colossale errore di valutazione di alcuni suoi leader.

Allo scopo di rinvigorire un partito screditato da decenni di costante spostamento a destra e scosso dalla sconfitta elettorale del mese di maggio, il Partito Laburista aveva deciso di garantire la possibilità di votare per il proprio nuovo leader a chiunque avesse pagato la somma simbolica di tre sterline. Così facendo, centinaia di migliaia di persone hanno intravisto e colto al volo la possibilità di mandare un chiarissimo messaggio a una leadership fissata sul perseguimento di politiche “centriste”, pro-business e, in politica estera, irrimediabilmente appiattite sulle posizioni dell’imperialismo americano.

La candidatura di Corbyn, poi, era scaturita dall’appoggio ottenuto da 36 deputati laburisti, cioè appena uno in più del numero necessario a consentire a un membro del partito di correre per la leadership, la metà dei quali non faceva parte dell’ala sinistra del partito. La loro decisione era stata determinata da considerazioni di opportunità, poiché essi ritenevano che la partecipazione di Corbyn alla competizione interna per il ruolo di leader avrebbe potuto beneficiare il “Labour”, dando cioè l’impressione dell’apertura del partito a tutti gli orientamenti.

Soprattutto, per alcuni, la presenza di un candidato di “estrema sinistra” come Corbyn, e la sicura sconfitta a cui sarebbe dovuto andare incontro, sarebbero state utili a dimostrare l’esiguità di un elettorato “radicale” in Gran Bretagna, così da giustificare la prosecuzione di politiche neo-liberiste da parte del partito.

Questa previsione è stata però completamente demolita dalla realtà di un voto che ha registrato un sostegno massiccio per l’agenda progressista e anti-austerity di Corbyn, il quale ha ottenuto quasi il 60% dei consensi, vale a dire più di quanto raccolto complessivamente dai suoi tre sfidanti. L’umiliazione più pesante è stata inflitta alla candidata maggiormente identificata con la corrente facente capo a Blair, Liz Kendall, finita ultima con appena il 4,5% dei voti, dietro a Andy Burnham (19%) e Yvette Cooper (17%), entrambi ex membri del governo di Gordon Brown (2007-2010).

Questo risultato ha anche smentito clamorosamente l’interpretazione condivisa da media e commentatori “mainstream” sulle sfortune del Labour, sconfitto sonoramente nelle ultime elezioni a causa delle posizioni eccessivamente di “sinistra” promosse dall’ormai ex leader, Ed Miliband.

Da questo singolare punto di vista, dopo cinque anni di devastazione sociale imposta dal governo Cameron gli elettori avrebbero punito i laburisti per non avere incluso nel loro programma, tra l’altro, ulteriori tagli alla spesa pubblica e una politica estera ancora più aggressiva. Come appare evidente, una simile logica manca di spiegare come l’agenda di Corbyn abbia potuto avere un tale successo tra coloro che hanno votato per la leadership del Partito Laburista.

Con lo stesso atteggiamento, i giornali anglo-sassoni in questi giorni hanno in gran parte giudicato un grave errore l’elezione di Corbyn, visto che un leader che promuova politiche anti-austerity e relativamente pacifiste non può che trascinare nel baratro il Labour.

Dai media vicini ai laburisti come il Guardian a quelli filo-conservatori, come il Financial Times che ha definito “disastrosa” la scelta del Labour, il panorama britannico ha visto un coro di critiche più o meno velate al nuovo numero uno del partito, la cui vittoria lascerebbe presagire una lunga permanenza dei conservatori al governo.

Parallelamente, il Labour potrebbe andare incontro a una vera e propria spaccatura, come confermerebbero i malumori espressi dall’ala moderata del partito e le rinunce da parte di alcuni leader a occupare cariche nel nascente governo ombra di Corbyn.

Ciò che risulta interessante nel valutare le reazioni della stampa ufficiale è l’indifferenza nei confronti dei sentimenti degli elettori. Infatti, nonostante tre votanti su cinque abbiano espresso il proprio appoggio a politiche progressiste e la loro contrarietà alla deriva conservatrice del Labour, l’esito dell’elezione non rispecchierebbe la vera disposizione del paese, fissato piuttosto, come la sua leadership, su misure ultra-liberiste o poco meno.

In realtà, molte delle proposte su cui Corbyn ha fatto campagna elettorale sono condivise dalla maggioranza della popolazione e, per moltissimi, non risultano affatto “radicali”: dalla nazionalizzazione delle ferrovie all’opposizione della privatizzazione del sistema sanitario, dall’ostilità alla NATO all’aumento della spesa per il welfare.

Anche per un giornale di tendenze teoricamente progressiste come il Guardian, le idee promosse da Corbyn sarebbero però residuati degli anni Settanta, a conferma di come ciò che passa per dibattito politico ufficiale in Gran Bretagna come altrove sia dominato dagli interessi di una classe ben precisa e di quanto sia difficile tracciare un percorso alternativo all’austerità, allo smantellamento dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori.

Il successo di Jeremy Corbyn rappresenta ad ogni modo una tendenza non limitata alla Gran Bretagna. Il trionfo di Syriza nelle elezioni di inizio anno in Grecia, l’ascesa nei sondaggi di Podemos in Spagna e l’entusiasmo generato dal senatore indipendente Bernie Sanders in vista delle primarie democratiche negli Stati Uniti indicano una repulsione generalizzata per le politiche a senso unico perseguite dalla classe politica occidentale e propagandate come le uniche percorribili da parte dei media ufficiali.

Che vi sia un appetito diffusissimo tra le popolazioni di tutti i paesi per una politica svincolata dai poteri forti, quando non addirittura alternativa al capitalismo in crisi terminale, non signifca però che il cambiamento possa giungere attraverso movimenti relativamente nuovi e senza esperienza di governo - come conferma il voltafaccia di Syriza sull’austerity nell’ambito della trattativa con l’Unione Europea - o per mezzo di organi ampiamente screditati e del tutto allineati al neo-liberismo e all’imperialismo di Londra e Washington come il Partito Laburista in Gran Bretagna e il Partito Democratico negli Stati Uniti.

Anzi, candidature o successi come nel caso di Corbyn o di Sanders possono nascondere manovre delle classi dirigenti per impedire una mobilitazione indipendente su diverse basi ideologiche e veicolare il malcontento popolare e le tensioni sociali verso un canale sicuro, rappresentato da partiti che, in fin dei conti, hanno come riferimento quelle stesse élites il cui dominio sulla società si vorrebbe vedere allentato.


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