di Michele Paris

La crisi generata dall’afflusso di rifugiati in Europa sta producendo in questi giorni un acceso dibattito tra i governi occidentali per promuovere un intervento più incisivo soprattutto in Siria, in modo da affrontare le ragioni dell’esodo in corso. Anche per questo motivo, il governo americano ha fatto sapere di volere rivedere il fallimentare piano di addestramento dei “ribelli” anti-Assad da spedire sul fronte siriano, ufficialmente per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS).

L’intenzione di modificare le procedure di selezione e preparazione alla battaglia dei membri dell’opposizione armata al regime di Damasco è la conseguenza del misero numero di combattenti uscito finora dal programma di addestramento condotto dalle Forze Speciali USA.

A questo scopo, l’amministrazione Obama lo scorso anno aveva ottenuto dal Congresso lo stanziamento di ben 500 milioni di dollari, in previsione di mettere assieme circa 5 mila uomini da impiegare in territorio siriano contro l’ISIS.

Lo sforzo è tuttavia fallito miseramente, producendo solo qualche decina di militanti. Oltretutto, questi ultimi sono stati mandati allo sbaraglio e nel mese di luglio un gruppo di una sessantina di “ribelli” è subito finito sotto un attacco da parte dell’organizzazione affiliata ad al-Qaeda in Siria - il Fronte al-Nusra - che ha di fatto sciolto il modesto contingente a libro paga di Washington.

Lo scarsissimo successo del programma americano è dovuto all’estrema difficoltà nel trovare uomini in grado di superare i criteri di selezione fissati dal governo USA, in particolare riguardo le simpatie fondamentaliste. In altre parole, l’ambizioso progetto di Obama di favorire una sorta di nuovo esercito di “ribelli” moderati ben addestrati ed equipaggiati per sconfiggere l’ISIS è naufragato di fronte alla quasi impossibilità di individuare candidati pronti a sposare i valori delle “democrazie” occidentali.

Tra gli altri problemi incontrati dagli addestratori, secondo il New York Times, ci sarebbe anche l’assenza di qualsiasi genere di sostegno o consenso raccolto dai pochi arruolati tra la popolazione siriana, a conferma del fatto che l’esistenza di una presunta rivoluzione popolare contro Assad, tuttora in atto in Siria dietro il conflitto legato al fondamentalismo sunnita, non è altro che una fantasia propagandata dai governi occidentali.

Le soluzioni prospettate dal Pentagono, oltre ai prevedibili miglioramenti logistici, sembrano non lasciare dubbi sulla necessità di allentare la rigidità dei requisiti richiesti ai combattenti per entrare nel programma di addestramento. Anche se, prevedibilmente, ciò non viene mai affermato in maniera esplicita, dal già citato articolo del Times traspare come a Washington sia allo studio un approccio più indulgente verso i simpatizzanti jihadisti.

In vista, secondo alcuni osservatori, ci sarebbe una qualche forma di integrazione del Fronte al-Nusra nella guerra patrocinata dall’Occidente contro l’ISIS e, di riflesso, contro Assad. Il giornale newyorchese riporta ad esempio come due comandanti dei minuscoli gruppi addestrati dagli USA e inviati in Siria lo scorso 30 luglio fossero entrati in questo paese con il preciso scopo di incontrare i leader del Fronte al-Nusra per cercare un qualche accomodamento, assicurando alla succursale qaedista che il loro compito era esclusivamente quello di combattere l’ISIS.

Inoltre, qualche giorno fa il generale in pensione David Petraeus, ex direttore della CIA ed ex comandante delle forze USA in Medio Oriente, nonché consulente militare dell’amministrazione Obama, aveva invitato pubblicamente il suo governo a prendere in considerazione proprio l’integrazione degli uomini del Fronte al-Nusra nella guerra all’ISIS, nonostante più di un decennio di propaganda anti-terrorismo che ha dipinto al-Qaeda come il nemico giurato della civilta occidentale.

In maniera clandestina, peraltro, gli Stati Uniti e i loro alleati continuano a sostenere finanziariamente e militarmente le forze di opposizione, tra l’altro con un programma di addestramento parallelo operato dalla CIA che, con ogni probabilità, coinvolge un numero imprecisato di guerriglieri non esattamente moderati.

Più in generale, secondo i media ufficiali e i governi, il persistere del conflitto in Siria e la situazione esplosiva dei rifugiati di questo paese sarebbero la conseguenza di un approccio troppo distaccato da parte dell’Occidente.

A questo presunto disinteresse per le vicende siriane andrebbe messa una fine, neutralizzando sia l’ISIS sia, soprattutto, il regime di Damasco, considerato assurdamente come la causa del dilagare del fondamentalismo violento in Siria, con iniziative come una no-fly zone o un attacco frontale contro le forze governative.

Al contrario, il disastro umanitario nel paese mediorientale è esattamente la conseguenza delle manovre fin troppo invasive dei governi occidentali e dei loro alleati in Medio Oriente, i quali continuano a far piovere armi e denaro sulle varie formazioni in lotta in Siria con l’obiettivo di rimuovere il regime, responsabile non tanto di violazioni dei diritti democratici del suo popolo, bensì di essere allineato alla resistenza anti-americana nella regione.

Ciò che si prospetta, come previsto da tempo e scandalosamente ancora una volta in nome di ragioni umanitarie, è quindi un intensificarsi dell’impegno occidentale in Siria, con la conseguenza non di mettere fine alla devastazione e alla sofferenza della popolazione civile ma di moltiplicarle esponenzialmente.

La competizione per la Siria si è poi aggravata sempre nei giorni scorsi in seguito ad alcune dichiarazioni del presidente russo Putin, lette dai giornali americani come la prova delle intenzioni di Mosca di intervenire militarmente in Siria a fianco di Assad.

Parlando nel corso di un forum economico a Vladivostok, Putin ha sottolineato l’inefficacia dei bombardamenti americani contro l’ISIS, lasciando intendere secondo alcuni un possibile futuro intervento a sostegno dell’alleato Assad. A ciò si sono aggiunte voci fatte circolare dall’intelligence USA circa presunti movimenti presso la base militare russa di Latakia, sulla costa mediterranea della Siria, che farebbero presagire l’invio di un migliaio di uomini.

Come al solito senza traccia di imbarazzo, visto il ruolo distruttivo di Washington nelle vicende siriane e non solo, il governo USA ha immediatamente ammonito Mosca a evitare mosse che potrebbero determinare un’escalation dello scontro, se non un confronto diretto delle forze russe con quelle della “coalizione” guidata dagli americani contro l’ISIS in Siria.

Se l’intensificazione degli assalti contro Assad rende non troppo remota l’ipotesi di un impegno diretto della Russia a difesa dell’alleato, al momento non sembrano comunque esserci segnali concreti di un imminente coinvolgimento delle forze del Cremlino in Siria.

Alla luce del caos generato in gran parte da essi stessi in questo paese, gli Stati Uniti appaiono però estremamente nervosi, viste le difficoltà a leggere il grado di sostegno tuttora assicurato da Mosca - o da Teheran - al regime di Damasco, tanto più che Putin continua ad adoperarsi per una difficilissima soluzione diplomatica alla crisi in Siria dopo i fallimenti degli sforzi guidati dall’Occidente.

Un altro chiaro segnale dell’attitudine americana verso la Russia è emerso infine dalle rivelazioni del ministero degli Esteri greco, il quale ha reso noto nel fine settimana come Washington abbia chiesto ad Atene di negare il permesso di sorvolare lo spazio aereo greco ai velivoli russi diretti in Siria. Secondo l’agenzia di stampa russa RIA Novosti, Mosca avrebbe chiesto alla Grecia di potere usare il proprio spazio aereo per voli umanitari diretti in Siria nel mese di settembre e Atene, almeno per il momento, avrebbe risposto positivamente.

di Carlo Musilli

Le frontiere tedesche e austriache si sono aperte, ma, in assenza di una svolta nella politica europea, la questione migranti rimane lontana da una soluzione. La Commissione Ue sta lavorando a un nuovo piano per una ridistribuzione delle quote più equa e obbligatoria, che comprenda anche sanzioni per chi non accetta. Se nulla cambierà nelle prossime settimane, saranno quattro i Paesi a meritare la punizione dell'Europa: Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, che insieme formano il cosiddetto Visegrad Group.

"Ogni proposta che porti all'introduzione di quote obbligatorie e permanenti su misure di solidarietà sarebbe inaccettabile", hanno scritto in un comunicato congiunto i quattro governi dell'est. Il ministro dell'Interno ceco ha detto che le quote "non risolvono niente", perché "non è chiaro come siano calcolate né cosa debbano fare le autorità locali per trattenere i profughi".

Peccato che, invece di pretendere maggiore chiarezza, il Visegrad Group si limiti a respingere a priori la proposta delle quote, senza nemmeno conoscerne i dettagli, peraltro ancora da stabilire. Una posizione intransigente, animata da una xenofobia di fondo e in evidente contrasto con la Convenzione di Ginevra del 1951, che concede lo status di rifugiato a chi, tornando in patria, sarebbe in pericolo. Oltre alle sanzioni, non sarebbe assurdo punire chi rinnega questo cardine del diritto internazionale con l'espulsione dall'Unione europea.

Quella delle quote è l'unica soluzione sostenibile per affrontare una crisi che non è temporanea, ma strutturale, come dimostrano ancora una volta i numeri. Ieri Robert Crepinko, direttore di Europol, l'agenzia Ue per la lotta al crimine, ha fornito un dato impressionante: le persone coinvolte a vario titolo nel traffico di esseri umani verso l'Europa sarebbero almeno 30mila. Un esercito formato da individui di varie nazionalità, per i quali il business dei migranti vale complessivamente miliardi di dollari l'anno. Secondo Izabella Cooper, portavoce di Frontex, l'agenzia europea che controlla le frontiere, oggi il racket dell'immigrazione nell'Ue, incluso quello delle persone destinate al mercato del sesso, "è probabilmente il più redditizio che esista", superando in termini di ritorno economico perfino il contrabbando di armi e droga.

Ad oggi Europol e la missione navale Ue "Eunavfor Med" collaborano da una base in Sicilia per identificare e smantellare le reti dei trafficanti di persone. Crepinko ha annunciato che a breve sarà aperto un altro distaccamento al Pireo, in Grecia, per aggredire il flusso dalla Turchia. Per noi italiani si tratta di provvedimenti importanti, eppure il loro peso sulla situazione generale è limitato: appena 3mila dei 30mila sospetti gestisce le rotte attraverso il Mediterraneo, mentre il resto dei trafficanti opera sulle direttrici che percorrono via terra l'Asia, l'Africa e i Balcani.

Per dare un'idea di quanto fluida e sfuggente sia la situazione, il capo di Europol ha citato come esempio il caso di una banda recentemente scoperta in Grecia. Era formata da 16 membri, di cui due romeni, due egiziani, due pakistani, sette siriani, un indiano, un filippino e un iracheno. Da soli, questi uomini hanno fatto arrivare in Europa via mare, aria e terra, centinaia di siriani, fornendo loro anche documenti falsi. Nel giro di pochi mesi hanno guadagnato 7 milioni e mezzo di euro.

In questo scenario, nella notte fra venerdì e sabato Berlino e Vienna hanno dato il via libera all'ingresso nel loro territorio delle persone ammassate a Budapest. Entro stasera dovrebbero arrivare solo in Germania oltre 7mila profughi. Si tratta di una decisione importante non solo a livello umanitario, ma anche politico, perché di fatto sancisce la sospensione degli accordi di Dublino, che avrebbero imposto all'Ungheria di trattenere e identificare tutti i richiedenti asilo.

"In quanto Paese  economicamente sano abbiamo la forza di fare quanto è necessario - ha detto Angela Merkel - ma l’intero sistema dell’accoglienza e dell’asilo va rivisto". In queste ultime parole della cancelliera sta il vero punto centrale della questione. L'asilo politico è riconosciuto dall'Europa come un diritto fondamentale, ma a questo punto, secondo Berlino, l'Unione deve rivedere le proprie regole su chi abbia davvero diritto allo status legale di rifugiato. I migranti economici, ossia quelli che provengono da Paesi poveri ma considerati sicuri, devono rimanere tagliati fuori.

E' questo il caso di 160mila richiedenti asilo arrivati in Germania fino a giugno (quasi la metà del totale), che provengono da Paesi dei Balcani occidentali, soprattutto Kosovo e Albania. Secondo i democristiani della Cdu/Csu devono essere rimandati indietro, mentre i Verdi e la Linke sono per l'accoglienza. Più ambigua la posizione dei socialdemocratici, divisi al proprio interno ma a quanto pare orientati ad appoggiare gli alleati conservatori con cui sono al governo. Sembra che l'obiettivo della grosse Koalition sia aumentare il numero dei Paesi d'origine considerati sicuri.

di Michele Paris

Alle migliaia di migranti e profughi bloccati in Ungheria è stata negata nuovamente anche nella giornata di mercoledì la possibilità di accedere ai treni diretti in gran parte in Germania dalla stazione Keleti di Budapest. La situazione dei rifugiati è apparsa sempre più precaria proprio mentre i paesi dell’Unione Europea stanno ricorrendo a metodi repressivi e anti-democratici per cercare di affrontare il crescente flusso di persone in fuga da zone di guerra o economicamente devastate.

Il governo ungherese di estrema destra del primo ministro Viktor Orbán aveva fatto marcia indietro martedì dalla decisione presa solo il giorno precedente di consentire ai migranti di salire sui convogli diretti a occidente. Martedì la stazione nella capitale è rimasta infatti totalmente chiusa per essere poi riaperta solo ai passeggeri con i documenti in regola.

L’inversione di marcia di Orbán è stata dovuta con ogni probabilità alle pressioni su Budapest fatte dai paesi europei destinazione dei migranti - a cominciare dalla Germania - così da arginare il flusso di persone. La giustificazione per le critiche rivolte al governo ungherese è che quest’ultimo non avrebbe rispettato le procedure di asilo previste dalle normative UE prima di lasciare partire i migranti.

Mercoledì, comunque, i migranti hanno inscenato una protesta pacifica fuori dalla stazione di Budapest, chiedendo di avere la libertà di raggiungere i treni e le loro destinazioni preferite. Le forze di sicurezza sono rimaste però dispiegate nella piazza antistante la stazione e gli agenti hanno proceduto a fermare parecchi migranti e a eseguire controlli dei loro documenti.

Il governo Orbán sta facendo leva sui sentimenti xenofobi di una parte della sua base elettorale annunciando iniziative anti-democratiche per far fronte alla presunta “minaccia” rappresentata dal flusso di migranti. Così, più di tremila soldati saranno inviati a presidiare il confine con la Serbia, da dove i migranti raggiungono l’Ungheria, mentre sono iniziati i lavori per la costruzione di un muro di 4 metri sempre lungo la frontiera meridionale.

I militari ungheresi, ha assicurato il ministero della Difesa di Budapest, non avranno l’autorizzazione all’utilizzo di armi da fuoco contro i migranti, ma il governo sta valutando l’ipotesi di consentire il ricorso alla forza, ad esempio con gas lacrimogeni e altre armi “non letali”.

Lo stesso gabinetto ungherese ha poi bocciato il sistema delle quote stabilito dall’UE, annunciando che Budapest non accetterà di accogliere i 60 mila migranti previsti, dal momento che il paese ha già visto l’arrivo entro i propri confini di 150 mila persone  nel solo 2015.

Altri paesi dell’Europa orientale, come la Slovacchia, hanno ugualmente respinto la redistribuzione dei migranti, con alcuni esponenti di governo che non hanno esitato a esprimersi in toni apertamente razzisti nel parlare dei profughi e dei rifugiati presenti sul territorio dell’Unione.

Il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, ha anch’egli ipotizzato l’uso dell’esercito per bloccare l’ingresso dei migranti nel suo paese. Mercoledì è circolata la notizia che la polizia ceca, dopo avere fermato alcune centinaia di rifugiati provenienti dall’Ungheria e diretti in Germania, ha proceduto a marchiarli individualmente con inchiostro indelebile.

Anche a Occidente, al di là della retorica “umanitaria”, le misure adottate o allo studio indicano chiaramente un’erosione dei diritti umani e democratici. La stessa ipotesi di sospendere le norme del trattato di Schengen minaccia di assestare un colpo letale all’idea già agonizzante di un’Europa aperta e democratica.

Nella giornata di mercoledì, il governo italiano ha fatto sapere di essere disposto a ripristinare i controlli alla frontiera del Brennero, come richiesto dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel, nell’ambito di una strategia che, con buona pace dei principi di solidarietà ostentati, mira a fermare il maggior numero possibile di migranti nei paesi di primo accesso e impedire il loro arrivo in Germania.

Questa settimana, inoltre, il ministro dell’Interno britannico, Theresa May, aveva prospettato un inasprimento delle norme sull’immigrazione, rendendo addirittura illegale la permanenza nel suo paese anche per i cittadini UE senza un regolare impiego.

Intanto, in aggiunta alle stragi dei mesi e delle settimane precedenti, il numero dei decessi nel tentativo di raggiungere l’Europa continua a salire dopo che mercoledì due barconi sono naufragati al largo delle coste della Turchia facendo 11 morti.

Le reazioni di media e governi in tutta Europa all’affusso dei migranti sconfinano dunque ormai nell’isteria e praticamente in nessun caso vi è una qualche riflessione sulle cause e, soprattutto, sulle responsabilità di quanto sta accadendo.

La maggior parte dei profughi e rifugiati che stanno giungendo in Europa viene infatti da paesi, come Siria, Iraq, Libia o Afghanistan, devastati dalle guerre intraprese dai governi occidentali nell’ultimo decennio, tutte promosse con intenti “umanitari” per nascondere gli interessi imperialistici e neo-coloniali che le hanno motivate.

Particolarmente odioso appare l’atteggiamento nei confronti dei rifugiati siriani. Dal 2011 i governi europei - assieme a quello americano - alimentano un conflitto sanguinoso appoggiando l’opposizione armata fondamentalista per rovesciare il regime di Damasco, accusato di reprimere e assassinare deliberatamente il proprio popolo.

Nonostante questa giustificazione ufficiale, i cittadini siriani che fuggono dagli orrori della guerra sono denunciati come una sorta di invasori e, assieme a tutti gli altri disperati che mettono silenziosamente l’Europa di fronte alle proprie responsabilità, devono essere deportati o tenuti fuori con ogni mezzo dai confini del vecchio continente.

di Mario Lombardo

Da qualche settimana il Libano è scosso da una serie di insolite manifestazioni di piazza, esplose a causa della mancata raccolta dei rifiuti e rapidamente trasformatesi in un movimento di protesta contro lo stato in cui versano le infrastrutture del paese mediorientale e, soprattutto, contro la paralisi e la corruzione di un sistema politico costruito su basi settarie.

Il movimento di protesta - battezzato “Til’at Reehitkum” (“Voi puzzate”) - è nato poco dopo la metà di luglio in seguito alla chiusura definitiva di una discarica che avrebbe dovuto essere dismessa parecchi anni fa. L’incapacità del governo di trovare un sito alternativo ha provocato l’accumulo dei rifiuti per le strade delle città libanesi, innescando una massiccia mobilitazione popolare che ha colto in parte di sorpresa gli stessi organizzatori del movimento.

In occasione di alcune manifestazioni a fine agosto, un certo numero di partecipanti, identificati da molti come provocatori, ha poi danneggiato edifici e automobili in un quartiere di Beirut, fornendo alle forze di polizia l’occasione per regire duramente. Gas lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati lanciati contro i manifestanti, con il bilancio degli scontri che ha registrato almeno un morto e più di trecento feriti.

Negli ultimi fine settimana del mese scorso e in questo inizio di settembre le dimostrazioni sono però continuate e i leader del movimento di protesta hanno lanciato un ultimatum alla classe politica libanese per implementare alcune loro richieste entro la mezzanotte di martedì, come le dimissioni del ministro dell’Ambiente, Mohammed al-Mashnouq, nuove elezioni parlamentari, il trasferimento alle municipalità del diritto di raccolta delle tasse sui rifiuti e l’apertura di un’indagine sulle violenze commesse dalla polizia contro i manifestanti.

Martedì, inoltre, la situazione in Libano si è fatta ancora più calda con l’occupazione da parte dei membri di “Til’at Reehitkum” del ministero dell’Ambiente, dove sono tornati a chiedere le dimissioni di Mashnouq. I leader del movimento hanno anche promesso nuove iniziative non meglio specificate se le loro rivendicazioni non verranno soddisfatte, anche se la polizia ha alla fine sgomberato l’edificio.

La reazione dei leader politici libanesi alle proteste è apparsa coerente con lo stato di immobilità del governo e delle altre istituzioni del paese. In molti hanno sollecitato un’azione rapida per rispondere alle richieste dei cittadini ma, al momento, l’unica promessa è stata quella di lanciare una qualche forma di dialogo tra i rappresentanti dei principali partiti politici per trovare una via d’uscita alla crisi.

Sempre martedì, il primo ministro sunnita, Tammam Salam, ha invitato il presidente del parlamento, lo sciita Nabih Berri, ad accelerare i preparativi per le discussioni che dovranno tenersi tra i leader dei vari blocchi parlamentari.

Il malcontento diffuso tra la popolazione libanese risulta ampiamente giustificato, visto che la vita quotidiana di milioni di persone in questo paese è segnata, tra l’altro, dalla scarsità di energia elettrica e di acqua potabile, da un sistema di trasporto pubblico e di infrastrutture fatiscente, da un livello di disoccupazione alle stelle.

A tutto ciò vanno aggiunte le pressioni su un fragilissimo sistema causate dall’altissimo numero di profughi e rifugiati presenti in Libano. Un paese di circa 4 milioni di abitanti conta non solo 500 mila rifugiati palestinesi ma qualcosa come 1,3 milioni di siriani fuggiti dalla guerra in corso e costretti spesso a vivere in condizioni disastrose.

La crisi economica e sociale che travaglia il Libano è collegata a quella politica. A Beirut non c’è un presidente regolarmente eletto da oltre un anno, mentre il parlamento ha più volte esteso il proprio mandato, rinviando le elezioni a causa del mancato accordo tra i vari partiti su una nuova legge elettorale. Il governo, teoricamente di “unità nazionale”, fatica da parte sua a raggiungere un qualche consenso su praticamente ogni questione all’ordine del giorno, essendo diviso tra fazioni attestate su posizioni apparentemente inconciliabili.

Il panorama politico libanese è cioè in sostanza spaccato tra i sostenitori dell’alleanza “8 Marzo”, composta principalmente dai cristiani maroniti del Movimento Patriottico Libero e dagli sciiti di Hezbollah e Amal e quelli dell’alleanza “14 Marzo”, guidata dal Movimento il Futuro dell’ex premier sunnita Saad Hariri, assieme ai cristiani maroniti delle Forze Libanesi e ai falangisti del partito Kataeb. I primi sono appoggiati dall’Iran e dalla Siria, gli altri dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti.

Tutto il sistema politico libanese si regge così su un fragile equilibrio settario uscito dalla guerra civile (1975-1990), nel quale i cristiani e i musulmani si dividono equamente i seggi parlamentari. Inoltre, un accordo non scritto prevede che il presidente sia un membro della comunità cristiana maronita, il primo ministro un sunnita e lo “speaker” del parlamento uno sciita.

L’aspetto più sorprendente del movimento di protesta di queste settimane è stato proprio il superamento delle divisioni settarie imposte dalla classe politica libanese e dai loro sponsor esteri. Molti giornali hanno sottolineato come i dimostranti scesi nelle strade fossero di confessioni diverse e chiedessero frequentemente la fine dell’impalcatura settaria che, di fatto, soffoca le tensioni sociali e perpetua un sistema dominato da una ristretta classe politica e da una manciata di milionari e miliardari.

La stessa iniziativa quasi spontanea di occupare le piazze per protestare contro la mancata raccolta dei rifiuti e la passività del governo è apparsa decisamente insolita per il Libano, dove di solito gli eventi pubblici a cui partecipano migliaia o decine di migliaia di persone sono, appunto, quelli organizzati dai principali partiti politici su base confessionale.

Le vicende libanesi di questi giorni non possono tuttavia far dimenticare che ciò che accade in questo paese è quasi sempre legato alle manovre delle potenze regionali, impegnate in un conflitto per estendere la propria influenza in Medio Oriente che si riflette su Beirut.

L’aggravarsi della crisi economica, sociale e politica che sta vivendo il Libano e che ha contribuito allo scoppio delle proteste è collegato in particolare alla guerra in Siria. In Libano, infatti, si è pericolosamente riprodotto lo scontro tra i sostenitori del regime di Assad e dell’opposizione armata sunnita. Un contingente di guerriglieri di Hezbollah è stato mandato a combattere in Siria a fianco delle forze governative, mentre le località a maggioranza sunnita, come la città settentrionale di Tripoli, fungono da centri di coordinamento per l’invio di armi e uomini destinati a sostenere le formazioni jihadiste anti-Assad.

Se pure la maggioranza dei manifestanti sembra auspicare cambiamenti sociali e politici sostanziali, la situazione del Libano appare dunque bloccata dagli eventi internazionali e dalla tradizionale influenza esercitata dai governi esteri su questo paese. Tanto più, poi, che gli obiettivi degli organizzatori della protesta continuano a essere di natura limitata.

Vista l’importanza strategica del “paese dei cedri”, infine, in molti si chiedono se le dimostrazioni in atto potranno essere in qualche modo manipolate per incidere sulle vicende siriane. Una destabilizzazione del Libano in un frangente storico così delicato produrrebbe cioè un aggravamento del conflitto interno, forzando ad esempio il ripiegamento di Hezbollah sul fronte domestico e privando Damasco di uno dei pilastri della resistenza contro i gruppi fondamentalisti sunniti che ha finora contribuito a impedire il crollo definitivo del regime di Assad.

di Michele Paris

La presenza dell’imprenditore miliardario Donald Trump tra le fila degli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca e la sua rapida scalata negli indici di gradimento tra i potenziali elettori delle primarie, testimoniano dell’avanzato stato di degrado dell’intero sistema politico americano. Fino a poche settimane fa, quasi tutti i pretendenti alla nomination del Partito Repubblicano avevano deciso di ignorare l’ingombrante presenza di Trump, prevedendo che questo fenomeno si sarebbe sgonfiato da solo, come già avvenuto in passato.

Soprattutto il presunto favorito, Jeb Bush, scommetteva che gli eccessi di Trump avrebbero finito per beneficiare la sua candidatura, mostrando ai potenziali elettori quale sarebbe stata la scelta più ragionevole.

Al contrario, almeno per il momento, l’attenzione sempre maggiore dedicata dai media a Trump e la conseguente ascesa di quest’ultimo nei sondaggi hanno costretto i rivali repubblicani a prendere seriamente in considerazione la sua presenza e a pianificare attacchi diretti che hanno finito per contribuire alla legittimazione della sua candidatura e delle sue posizioni.

La prevedibile conseguenza della legittimazione di Trump e dell’impennata dei suoi indici di gradimento è stata così lo spostamento ancora più a destra del baricentro politico repubblicano, per quanto ardua potesse apparire una tale impresa alla luce dell’evoluzione di questo partito e di tutto il panorama politico USA nell’ultimo decennio.

Trump, ad ogni modo, ha deciso di puntare su una strategia volta a stimolare i sentimenti più retrogradi della base elettorale repubblicana che solitamente partecipa alle primarie. La questione dell’immigrazione clandestina e le paure generate nella popolazione dalla classe dirigente americana per la presunta “invasione” di stranieri senza documenti sono di gran lunga gli argomenti che dominano le apparizioni pubbliche del 69enne uomo d’affari.

Il livello del suo “progetto” politico e i toni che caratterizzano i suoi interventi erano subito emersi durante il lancio ufficiale della campagna elettorale, quando Trump aveva puntato il dito contro il governo messicano, accusato di esportare deliberatamente negli Stati Uniti soltanto “spacciatori e stupratori”.

Gli inaspettati consensi raccolti da Trump hanno così spinto gli altri candidati e l’establishment repubblicano a cercare un modo per mettere fuori gioco il rivale. Secondo alcuni media americani, ogni strategia messa in atto a questo scopo rischia però di trasformarsi in un boomerang. Gli attacchi rivolti a Trump provocano infatti reazioni che sembrano trasformarsi in un ulteriore aumento del gradimento tra una parte di elettori repubblicani disorientati e comunque infuriati con i vertici del partito.

Un'altra ipotesi dibattuta è quella di impedire a Trump di correre sotto le insegne repubblicane, ma una simile mossa potrebbe seriamente spaccare il partito e spingere il businessman a correre come indipendente per la Casa Bianca, favorendo il candidato del Partito Democratico.

Nel fine settimana, intanto, i tradizionali show televisivi americani di argomento politico hanno nuovamente avuto al centro della discussione la candidatura di Donald Trump, anche se quest’ultimo non è apparso su nessuno dei principali network.

A parlarne sono stati alcuni dei candidati rivali, come il governatore del Wisconsin, Scott Walker, e quello del New Jersey, Chris Christie, considerati i più penalizzati dall’ascesa di Trump nei sondaggi. Lo stesso Jeb Bush è tornato a far riferimento al tema dell’immigrazione, bollando come “irrealistico” il piano di Trump di deportare gli 11 milioni di irregolari che vivono negli Stati Uniti e “praticamente impossibile” quello di costruire un muro di protezione lungo tutto il confine con il Messico.

Le motivazioni di Bush non sono peraltro di natura morale, bensì solo pratica, a conferma che la sostanza delle posizioni di Trump non sono poi così estreme ma riflettono in larga misura il sentire comune in casa repubblicana. Il fratello dell’ex presidente ha infatti sostenuto che la costruzione di un muro anti-immigrati risulterebbe troppo costosa, mentre la maggioranza dei clandestini attualmente non arriva più dal Messico ma dagli altri paesi centro-americani.

Un’altra proposta di Trump sulla questione dell’immigrazione ha confermato poi il carattere profondamente reazionario della sua candidatura e, al tempo stesso, come le idee da lui avanzate siano condivise da molti nel Partito Repubblicano.

Trump ha cioè auspicato la privazione della cittadinanza americana per i nati in territorio USA da genitori irregolari. Lo “ius soli” è garantito esplicitamente negli Stati Uniti dal 14esimo Emendamento alla Costituzione, adottato nel 1868 dopo la Guerra Civile per garantire agli schiavi liberati e ai loro discendenti la cittadinanza americana e tutti i diritti che ne derivano.

Dopo questa nuova sparata sull’immigrazione da parte di Trump vari candidati alla nomination repubblicana si sono detti favorevoli all’abrogazione del 14esimo Emendamento. Altri hanno invece respinto l’ipotesi, come Jeb Bush, il quale, per non rimanere staccato nella corsa verso destra in atto tra la schiera di aspiranti alla Casa Bianca, è intervenuto più volte sull’immigrazione, ricorrendo tra l’altro a termini dispregiativi per definire i figli degli irregolari nati in America.

Attorno alla questione dello “ius soli” è comunque risultata sufficientemente chiara la profonda ignoranza di Donald Trump sulle più importanti questioni di politica interna e internazionale. Un’attitudine che, peraltro, non gli ha impedito di salire nei sondaggi e di intercettare l’attenzione dei media. In un’intervista rilasciata a Fox News, Trump ha sostenuto che l’interpretazione tradizionalmente data al 14esimo Emendamento potrebbe non reggere all’esame di un tribunale, apparentemente non sapendo che proprio lo “ius soli” era stato riconosciuto dalla stessa Corte Suprema già nel 1898 in relazione a questa aggiunta alla Costituzione americana risalente a 147 anni fa.

Il fenomeno Trump non è in ogni caso da sottovalutare per gli altri candidati repubblicani, nonostante l’assurdità di molte uscite. Di questo se né è avuta la riprova un paio di settimane fa, quando a un suo comizio organizzato in uno stadio di Mobile, in Alabama, hanno partecipato più di 20 mila persone, cioè una presenza decisamente maggiore rispetto a quelle fatte registrare finora dai suoi rivali.

Al di là della resistenza della candidatura di Trump e dei risultati che riuscirà a far segnare nelle primarie, la questione centrale sollevata dalla sua presenza tra i contendenti alla nomination e il relativo successo di queste settimane sembra essere il fatto che le sue posizioni e la sua demagogia abbiano incontrato un’accoglienza positiva almeno in una parte del Partito Repubblicano e delle élite USA che a esso fanno riferimento.

Razzismo, misoginia, esaltazione del militarismo e dell’accumulazione di ricchezze enormi sono il dato costante delle uscite pubbliche di Donald Trump e il loro abbraccio da parte di molti tra repubblicani, media e commentatori deve suonare come un avvertimento circa la predisposizione di parte della classe dirigente USA verso i principi democratici.

Ciò è risultato evidente in occasione del primo dibattito tra i candidati alla nomination repubblicana andato in scena ai primi di agosto, vero e proprio teatro in cui Trump ha potuto esibire il meglio - o il peggio - di sé stesso.

Uno spettacolo degradante, salutato dai media “mainstream” come un sano esercizio di democrazia, è stato altamente rivelatore non solo della natura del candidato Trump ma dello stato del sistema politico americano.

Una manciata di politici repubblicani ha potuto snocciolare le proprie proposte ultra-reazionarie di fronte a una folla attentamente selezionata e spesso in delirio per dichiarazioni che prospettano, tra l’altro, nuove sanguinose guerre, la distruzione di ciò che resta dello stato sociale negli USA e un ulteriore assalto ai diritti democratici.

In uno scenario segnato da una simile degenerazione politica, non è una sorpresa che a farla da padrone sia stato Donald Trump, le cui “proposte” non sono però in nessun modo eccezionali in ambito repubblicano, visto che a fare la differenza con gli altri candidati sono in gran parte solo i toni con cui vengono espresse piuttosto che i contenuti.

Il ruolo di Trump in queste fasi iniziali della campagna per le presidenziali del 2016, al di là delle sue effettive chances di successo, sembra essere così quello di mostrare nella maniera più cruda la vera faccia della classe politica e del capitalismo a stelle e strisce, totalmente incapaci di fornire soluzioni alla crisi in cui entrambi continuano a dibattersi disperatamente.


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