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di Michele Paris
La conquista dell’importante città afgana di Kunduz da parte dei Talebani nella giornata di lunedì ha rappresentato una grave umiliazione sia per il governo di Kabul sia per le forze di occupazione guidate dagli Stati Uniti. Nonostante quasi 14 anni di guerra, centinaia di migliaia di truppe impiegate e di dollari spesi per sostenere un regime-fantoccio filo-occidentale, per la prima volta dal 2001 i Talebani sono riusciti a strappare al controllo governativo uno dei capoluoghi delle province in cui è suddiviso il paese centro-asiatico.
L’azione delle forze talebane ha ancora una volta messo in luce in maniera impietosa lo stato delle forze di sicurezza afgane, armate e addestrate dall’Occidente. Queste ultime potevano contare infatti su circa tremila uomini a Kunduz, ma sono state sopraffatte da poche centinaia di guerriglieri integralisti.
Da qualche tempo, la città settentrionale che conta 300 mila abitanti era stata circondata dai Talebani, i quali, dopo avere “liberato” le aree del centro, hanno costretto i soldati dell’esercito regolare a rifugiarsi presso l’aeroporto, a sua volta teatro di un’accesa battaglia in queste ore. Anche la primavera scorsa i Talebani avevano tentato di prendere Kunduz, ma in più di un’occasione erano stati respinti dall’esercito in collaborazione con alcune milizie locali.
La notizia del rovescio ha subito attivato i vertici delle forze NATO di occupazione, costretti a inviare truppe per difendere l’aeroporto di Kunduz e a cercare di riconquistare l’intera città. Il deteriorarsi della situazione ha fatto registrare così l’aperta violazione dei termini dell’intesa tra Kabul e Washington, secondo la quale le rimanenti forze di occupazione dal primo gennaio di quest’anno non possono essere più impiegate in operazioni di combattimento.
Un portavoce della “coalizione” occupante ha però sostenuto che l’intervento a fianco dell’esercito afgano rientrerebbe negli incarichi tuttora consentiti alle forze NATO, poiché l’operazione in corso sarebbe di natura “difensiva”. Secondo un ufficiale delle forze armate locali, a Kunduz starebbero combattendo un centinaio di membri delle Forze Speciali USA, assieme a un certo numero di soldati americani e di altri paesi non meglio identificati.
Tra martedì e mercoledì, poi, le forze NATO hanno condotto alcune incursioni aeree contro i Talebani, anche se il presidente afgano, Ashraf Ghani, ha escluso per il momento una campagna sostenuta di bombardamenti aerei a causa del rischio di vittime civili in un’area urbana come quella di Kunduz.
Già martedì sono circolate notizie relative alla riconquista di vari edifici strategici della città da parte delle forze governative. Un ufficiale americano sentito martedì dal Washington Post ha allo stesso modo assicurato che i Talebani saranno cacciati da Kunduz in poche settimane e che l’operazione avrebbe solo uno scopo propagandistico per dimostrare la loro resistenza.
Altre fonti, soprattutto afgane, non sembrano essere però altrettanto ottimiste. Un funzionario governativo residente a Kunduz, ad esempio, ha avvertito che la riconquista della città richiederà un’operazione su vasta scala, cosa non agevole, per lo meno senza il supporto attivo delle forze NATO, viste le condizioni in cui versa l’esercito di Kabul.
Anzi, la stampa americana ha avvertito mercoledì del pericolo di un effetto domino, con la vicina provincia di Baghlan in pericolo di cadere nelle mani dei Talebani. Qui, la popolazione avrebbe cominciato ad abbandonare le proprie abitazioni nel timore che il governo possa perdere il controllo. Per il momento, i Talebani hanno consolidato le loro posizioni nel nord della provincia, ostacolando seriamente il transito dei rinforzi dell’esercito diretti a Kunduz.
Se i Talebani al loro ingresso a Kunduz lunedì hanno annunciato che non ci sarebbero stati saccheggi o esecuzioni sommarie, il bilancio in pochi giorni è già significativo, con più di 30 morti e oltre 200 feriti, di cui la gran parte civili.
La beffa patita da Kabul e dalla NATO a inizio settimana è resa ancora più pesante dal peso strategico di Kunduz, una località situata in un’importante area agricola dell’Afghanistan e crocevia tra Asia orientale e occidentale, ma anche settentrionale e meridionale. Inoltre, il blitz è giunto a poche settimane dalla diffusione della notizia della morte del Mullah Omar che, secondo molti osservatori, avrebbe dovuto avere effetti negativi sulla resistenza talebana.
La facilità con cui i Talebani sono entrati in città lunedì ha immediatamente scatenato polemiche sia a Kabul sia a Washington. Il governo afgano e il presidente Ghani sono finiti sotto accusa per l’incompetenza del governatore della provincia di Kunduz e delle forze di sicurezza stanziate in quest’area nel nord del paese.
Il gabinetto afgano è d’altra parte estremamente fragile, con una coalizione mediata dagli Stati Uniti che vede la condivisione teorica del potere tra il presidente e il secondo classificato nelle ultime elezioni presidenziali, Abdullah Abdullah. Proprio quest’ultimo, la cui base di potere è tra le etnie Tagika e Hazara nel nord del paese, si trovava alle Nazioni Unite nella giornata di lunedì e nel suo discorso di fronte all’Assemblea Generale ha chiamato in causa il Pakistan, invitando il governo di Islamabad a fare di più per combattere i fondamentalisti che trovano rifugio oltre confine e sferrano i propri attacchi in Afghanistan.
L’occupazione talebana di Kunduz giunge d’altronde in un momento estremamente delicato per l’evoluzione del panorama afgano. Oltre ai riflessi negativi su questo paese delle imprese belliche e delle manovre strategiche americane, a cominciare dal possibile arrivo anche in Afghanistan di un certo numero di guerriglieri dello Stato Islamico (ISIS), a rendere più precaria la situazione è il continuo stallo dei negoziati tra il governo di Kabul e la leadership talebana.
La difficoltà anche ad avviare una qualche discussione è dovuta in buona parte alle esitazioni proprio del Pakistan, i cui dubbi sono legati a questioni strategiche più ampie. Islamabad, anche se fin dal 2001 ha rinunciato ufficialmente ad appoggiare i Talebani, continua a vedere questi ultimi come un’arma per esercitare la propria influenza sul vicino Afghanistan.
Tale questione risulta tanto più scottante alla luce del ruolo sempre più importante giocato a Kabul dall’India, ovvero l’arcirivale del Pakistan. L’impegno di Delhi in Afghanistan è favorito dagli Stati Uniti, impegnati a costruire un’alleanza strategica con l’India nell’ambito dell’offensiva diplomatica e militare volta a isolare la Cina.
Le scelte strategiche dell’amministrazione Obama sembrano dunque far passare in secondo piano l’alleanza già di per sé complicata con il Pakistan, generando a Islamabad sospetti e inquietudini che, a loro volta, stanno determinando, da un lato, un rafforzamento dei tradizionali legami con la Cina e, dall’altro, un disinteresse nel processo di pace in Afghanistan.
Negli Stati Uniti, infine, la caduta di Kunduz ha ridato prevedibilmente fiato ai “falchi” dell’interventismo a stelle a strisce. I leader repubblicani al Congresso, in particolare, hanno in primo luogo criticato la decisione di Obama di procedere con il ritiro delle forze di combattimento dall’Afghanistan a fine 2014.
Secondo questa prospettiva, la disastrosa situazione del paese occupato dal 2001 sarebbe cioè la conseguenza di un impegno insufficiente e non della devastazione provocata da quattordici anni di guerra per sottomettere un’intera popolazione agli interessi dell’imperialismo americano.
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di Mario Lombardo
Con una presa di posizione straordinaria e fortemente rivelatrice, qualche giorno fa un anonimo generale britannico in servizio ha prospettato in un’intervista al Sunday Times di Londra una possibile rivolta delle forze armate nell’eventualità di un futuro governo guidato dal neo-leader laburista, Jeremy Corbyn. Se il Partito Laburista dovesse vincere le elezioni del 2020 e Corbyn, la cui agenda politica teorica è considerata di “estrema sinistra”, diventare primo ministro, secondo il generale si verificherebbero “dimissioni di massa ad ogni livello” nelle forze armate e, ancora peggio, ci si troverebbe di fronte alla “reale prospettiva di un evento che risulterebbe di fatto un ammutinamento”.
La descrizione di quanto potrebbe accadere il giorno dopo l’insediamento di un governo Corbyn continua con scenari da colpo di stato. “Si assisterebbe”, prosegue l’alto ufficiale britannico, “a una significativa rottura delle convenzioni, con i generali che sfiderebbero Corbyn pubblicamente e in maniera diretta su questioni di importanza vitale”.
Lo stesso generale elenca poi alcune di tali questioni, come la liquidazione del programma “Trident”, relativo al mantenimento e allo sviluppo dell’arsenale nucleare britannico, “l’uscita dalla NATO” e i progetti per “indebolire e ridurre il numero delle forze armate”.
Se Corbyn dovesse prendere iniziative in questo senso, “l’Esercito semplicemente non lo accetterebbe”. Lo Stato Maggiore, cioè, “non permetterebbe a un primo ministro di mettere a rischio la sicurezza di questo paese” e si ricorrerebbe a “qualsiasi mezzo per impedirlo, con le buone o con le cattive”. In defintiva, conclude il generale, “non è possibile mettere nelle mani di un ribelle la sicurezza di un paese”.
L’identità del generale, come già ricordato, non è stata fornita ma il Sunday Times ha fatto sapere che si tratta di un ufficiale che ha svolto servizio in Irlanda del Nord negli anni Ottanta e Novanta. Il Ministero della Difesa ha da parte sua diffuso una blanda dichiarazione di condanna delle parole del generale, descrivendo “inaccettabile” il fatto che un ufficiale rilasci commenti di natura politica su un potenziale governo futuro.
Il Ministero ha però deciso di non aprire un’inchiesta per identificare il responsabile delle dichiarazioni al Sunday Times, in quanto ciò sarebbe impossible visto l’elevato numero di generali. In realtà, la scelta sostanzialmente di ignorare l’intervista e le minacce di golpe appare deliberata, allo scopo di non irritare i militari.
Dopo i tagli di questi anni alla Difesa, in effetti, oggi in Gran Bretagna restano appena un centinaio di generali in servizio e ancora meno sono quelli che hanno servito in Irlanda del Nord negli anni Ottanta e Novanta.
A queste già gravissime dichiarazioni, il Sunday Times ha aggiunto le rivelazioni dei vertici dei servizi di intelligence, anch’essi protetti dall’anonimato. Questi ultimi “si rifiuterebbero di sottoporre a Corbyn le informazioni relative a operazioni in corso”, viste le sue “simpatie per i terroristi”. Il riferimento, in questo caso, è a dichiarazioni rilasciate tempo fa da Corbyn, il quale in un particolare contesto si era riferito a Hamas e a Hezbollah come “amici”.
Il giornale londinese prosegue poi sostenendo che nessun membro nella “comunità dell’intelligence consegnerebbe a Corbyn, o a chiunque nel suo gabinetto, informazioni che preferirebbe non dare”, mentre “qualsiasi informazione decidesse di fornirgli sarebbe di carattere generale” e dipendente “dalla sua avversione per i servizi di sicurezza britannici”.
L’articolo pubblicato dal giornale di Rupert Murdoch rientra nell’ambito di una campagna di discredito diretta contro la leadership di Jeremy Corbyn, eletto a grandissima maggioranza dai membri e da simpatizzanti del Partito Laburista un paio di settimane fa. Presentatosi con un’agenda marcatamente progressista, Corbyn è stato subito preso di mira dagli ambienti di destra britannici, ma anche dalla maggioranza “centrista” e fedele a Tony Blair del suo stesso partito.
A questo scenario va ascritta anche la notizia, riportata sempre dal Sunday Times e rimbalzata sul resto della stampa, che almeno la metà dei membri del governo-ombra appena nominato da Corbyn intende votare, contro le indicazioni di quest’ultimo, a favore di una risoluzione che il governo Cameron si appresta a presentare al parlamento per l’autorizzazione ai bombardamenti contro lo Stato Islamico (ISIS) in territorio siriano.
L’attitudine di Corbyn e della fazione a lui fedele all’interno del “Labour” è apparsa comunque evidente dalle reazioni decisamente sottotono alle dichiarazioni minacciose dell’anonimo generale. Inoltre, sotto pressione, Corbyn ha più volte assicurato che, in quanto leader del Partito Laburista ed eventualmente primo ministro, non intende perseguire a tutti i costi i progetti di riforma dell’apparato della sicurezza nazionale britannica promessi.
Per il bene e l’unità del partito, insomma, il neo-leader laburista appare più che disposto al compromesso, sia pure di fronte a un nettissimo spostamento a sinistra dell’elettorato che gravita attorno al suo partito e della popolazione in generale. A conferma di ciò vi è anche la nomina a ministri-ombra di numerose personalità della destra del partito.
L’articolo del Sunday Times è ad ogni modo un chiarissimo avvertimento e rivela la disposizione della classe dirigente britannica nei confronti di chiunque, dall’interno o dall’esterno, minacci la propria posizione e i propri interessi. I militari, in questo caso, sembrano pronti a rompere con le regole democratiche per evitare deviazioni dalle politiche atlanticiste e pro-business sposate dalle élite del Regno, nonostante la crescente opposizione a esse tra la popolazione.
Questo scivolamento verso forme di governo sempre più autoritarie era stato preannunciato, tra l’altro, solo qualche settimana fa con la diffusione della notizia che, nel mese di agosto, le forze armate di Londra avevano portato a termine l’assassinio extra-giudiziario di due cittadini britannici in Siria, presumibilmente membri dell’ISIS, con un missile lanciato da un drone.
L’eccezionale rivelazione non aveva praticamente suscitato alcuna reazione di sdegno tra la stampa e la classe politica, nonostante non solo l’esecuzione fosse stata decisa dall’esecutivo in gran segreto e senza il coinvolgimento di un tribunale, ma le stesse forze armate non disponevano nemmeno dell’autorizzazione del Parlamento a condurre operazioni belliche in territorio siriano.
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di Michele Paris
Lo scandalo delle emissioni truccate dei motori diesel installati sulle auto della Volkswagen sta assestando un colpo pesantissimo alla credibilità e alla situazione economica del colosso tedesco. Esploso negli Stati Uniti, il caso si è rapidamente allargato fino a includere le vetture vendute praticamente in tutto il pianeta, con l’amministratore delegato della compagnia, Martin Winterkorn, costretto a un’umiliante ammissione pubblica di responsabilità.
Winterkorn ha rassegnato le proprie dimissioni nella giornata di mercoledì, affermando di accettare la responsabilità per le “irregolarità riscontrate nei motori diesel”, ma dichiarando la sua estraneità ai fatti. Tra i possibili sostituti, la stampa tedesca ha citato il numero uno di Porsche, Matthias Müller, o quello di Audi, Rupert Stadler.
L’inganno rilevato dall’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente americana (EPA) ha a che fare con un software installato sulle auto diesel che determina una riduzione delle emissioni inquinanti durante i test di laboratorio, mentre in modalità normale queste stesse emissioni aumentano fino a 40 volte.
Se, ad esempio, l’Unione Europea riconosce che le auto possono in generale inquinare di più rispetto ai dati rilevati nelle prove di emissione, quanto fatto da Volkswagen appare una vera e propria truffa. I modelli interessati risultano essere, tra gli altri, Passat, Golf, Jetta e Beetle, ma anche Audi A3.
La manipolazione dei dati sulle emissioni aveva l’obiettivo di rendere i modelli Volkswagen più appetibili sul mercato, in particolare su quello americano, dove i limiti sono più stringenti rispetto all’Europa e i motori diesel risultano decisamente meno diffusi.
L’attivazione del meccanismo che consente di limitare le emissioni durante la guida può infatti provocare effetti non particolarmente graditi a molti automobilisti, come una riduzione dell’accelerazione del veicolo o l’aumento della rumorosità e dei consumi.
Inizialmente, i livelli ingannevoli di emissione sembravano dover riguardare circa mezzo milione di auto vendute solo negli Stati Uniti, ma l’azienda ha dovutto ammettere che tutti i veicoli con un motore modello EA-189, ovvero 11 milioni, sono equipaggiati con lo stesso software.
A seguito dell’indagine dell’EPA, svariati altri paesi hanno annunciato iniziative, come l’Italia, la Germania, la Francia e la Corea del Sud. Sempre negli USA, anche i procuratori di alcuni stati, tra cui quello di New York, stanno creando commissioni d’inchiesta sulla vicenda, mentre il senatore democratico della Florida, Bill Nelson, ha chiesto alle agenzie federali di regolamentazione di intervenire per tutelare i possessori delle auto Volkswagen.
Il danneggiamento dell’immagine della Volkswagen appare particolarmente significativo, poiché l’azienda tedesca è riuscita a conquistare una posizione di assoluto rilievo nel mercato automobilistico mondiale grazie alla reputazione di qualità e affidabilità dei propri modelli, in media più cari rispetto a quelli dei concorrenti.
Le responsabilità interne a Volkswagen non sono ancora chiare. Winterkorn è sembrato assegnare la colpa della truffa ad altri non identificati dirigenti della compagnia. L’amministratore delegato, prima delle dimissioni, aveva parlato di “gravi errori di alcuni” e promesso sia di collaborare con le autorità sia di condurre un’indagine interna sui fatti che hanno portato alla falsificazione dei test di emissione.
Winterkorn è tuttavia considerato un tecnico esperto e non un manager con una formazione finanziaria. In quanto tale, il “CEO” pare avesse il controllo di tutti gli aspetti tecnici dei veicoli realizzati dalla sua azienda.
La posizione di Winterkorn, nonostante il raddoppio delle vendite e il triplicarsi dei profitti negli ultimi otto anni, non era peraltro saldissima nemmeno prima dell’esplosione dello scandalo. Quest’anno, Winterkorn era stato infatti al centro di una lotta interna di potere con l’allora numero uno del Consiglio di Sorveglianza della compagnia, Ferdinand Piëch.
Alla fine, la famiglia Porsche, che detiene la maggioranza di Volkswagen, aveva appoggiato Winterkorn, costringendo Piëch alle dimissioni. Proprio venerdì il Consiglio avrebbe inoltre dovuto riunirsi per allungare di altri due anni il contratto del manager 68enne.
Le ripercussioni finanziarie su Volkswagen potrebbero essere dunque consistenti. L’azienda ha già fatto sapere di avere messo da parte 6,5 miliardi di euro - pari a sei mesi di profitti - per far fronte alle spese legali e ad altri costi legati allo scandalo. I giornali americani hanno poi ipotizzato che il governo potrebbe decretare una sanzione fino a 18 miliardi di dollari. Il titolo Volkswagen, intanto, nei primi giorni della settimana è letteralmenre crollato, spazzando via oltre 25 miliardi di dollari di capitalizzazione.
La vastità dello scandalo appena emerso ha spinto molti a dubitare del fatto che Volkswagen sia l’unica casa automobilistica ad avere manomesso deliberatamente i livelli di emissione. A questo scopo, i governi che si sono mossi in questi giorni hanno annunciato indagini simili anche sui modelli delle altre compagnie.
Ad ogni modo, la truffa di Volkswagen non rappresenta un’eccezione nel settore automobilistico, nel quale anzi gli episodi che hanno visto le varie compagnie impegnate nell’architettare inganni per limitare i costi o evitare guai legali sono innumerevoli e, spesso, con conseguenze molto gravi.
Uno degli scandali più recenti è ad esempio quello cha ha coinvolto General Motors (GM) negli Stati Uniti, dove la compagnia di Detroit ha per anni occultato un difetto all’accensione di vari modelli. In milioni di automobili la chiave poteva facilmente ruotare e causare lo spegnimento del motore, lasciando il guidatore senza nessun controllo sulla vettura.
Il difetto, ben noto ai vertici della compagnia, ha provocato almeno 124 morti e centinaia di feriti. Proprio pochi giorni fa, il dipartimento di Giustizia americano ha annunciato un accordo con GM che prevede il pagamento di una multa di soli 900 milioni di dollari, mentre nessun dirigente subirà conseguenze penali.
Sempre negli USA, il fornitore giapponese di air-bag Tataka è stato al centro di una causa legale per il funzionamento errato di questo dispositivo. Anche in questo caso era stato registrato un accordo con il governo di Washington. Tataka ha dovuto richiamare oltre 30 milioni di automobili dopo che il difetto era costato la vita a sei persone, di cui cinque in America.
In più di un’occasione, infine, Toyota - cioè la rivale di Volkswagen per il primato nel numero di auto vendute nel mondo - è stata costretta a richiamare milioni di veicoli a causa di un malfunzionamento che provocava improvvise accelerazioni fuori dal controllo del guidatore.
Nonostante i sensibili progressi tecnologici del settore automobilistico di questi anni, dunque, gli incidenti provocati dal cattivo funzionamento delle vetture o gli elevati livelli di emissioni e inquinamento persistono in tutto il mondo, molto spesso, come conferma il caso Volkswagen, a causa del comportamento deliberato delle stesse case automobilistiche.
La feroce competizione sui mercati e la subordinazione alle ragioni del profitto di qualsiasi miglioramento tecnico implementato sembra in definitiva impedire uno sviluppo razionale e sicuro dell’industria automobilistica.
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di Antonio Rei
Che un politico (davvero) di sinistra abbia voglia di governare, in Europa, è raro. Che addirittura ci riesca è un avvenimento eccezionale. Che ce la faccia scegliendo di sottoporsi per tre volte in otto mesi al voto del popolo, uscendone sempre vincitore, è quasi fantascienza. Eppure è esattamente quello che è accaduto in Grecia, dove domenica scorsa Alexis Tsipras ha ottenuto il secondo mandato consecutivo con una maggioranza schiacciante. A Syriza è andato il 35,54% dei voti, pari a 145 seggi, che, sommati ai 10 dei nazionalisti di Anel (al 3,68%), consentiranno di ricreare la stessa maggioranza del precedente governo.
Il testa a testa venduto per settimane dai giornali di mezza Europa si è rivelato un bluff: i conservatori di Nea Demokratia si sono fermati al 28,11% delle preferenze (75 seggi), seguiti dai neonazisti di Alba Dorata con il 7,09% (19 seggi). Risultati deludenti per gli altri partiti: i socialisti del Pasok non sono andati oltre il 6,42% (pari a 17 seggi), mentre i comunisti del Kke hanno ottenuto il 5,48% (15 seggi) e i centristi di To Potami il 3,93% (10 seggi). Risultato disastroso per Unità Popolare, formata dai fuoriusciti massimalisti di Syriza, che sono rimasti sotto la soglia di sbarramento del 3% e perciò non hanno accesso al Parlamento. Molto alto l'astensionismo, attorno al 45%.
“E' stata una vittoria del popolo - ha commentato Tsipras - ora inizia la battaglia per cambiare i rapporti di forza in Europa. Syriza ha mostrato di essere troppo dura per morire, anche se era stata presa di mira da tanti. Abbiamo molte difficoltà davanti ma anche una base solida e prospettive. Questo è un mandato per liberarci di tutte le cose che ci tengono fermi al passato”.
Quella ottenuta da Syriza (che pur cedendo il 2,8 ai dissidenti usciti ha perso meno dell'1% rispetto al voto di gennaio) è sostanzialmente una conferma da parte dell'elettorato. I greci hanno dimostrato di aver compreso gli sforzi di Tsipras, che con il Memorandum siglato ad agosto ha ottenuto il miglior risultato possibile nel contesto, attraverso la strada del realismo politico. Era questa l'unica via praticabile per continuare a combattere senza condannare il Paese all'apocalisse economica minacciata dalla Germania (e in quel caso non si trattava di un bluff: Berlino avrebbe accettato qualsiasi esito pur di non ammettere la vittoria del fronte greco anti-austerità).
Ora Syriza è chiamata a lottare per mitigare le conseguenze del nuovo Memorandum e al tempo stesso dovrà rappresentare il primo punto di riferimento per gli europei in cerca di un'alternativa al neoliberismo di Bruxelles. E' una responsabilità enorme che Tsipras si assume con coraggio, dimostrando alla destra come alla sinistra che è possibile opporsi alle lobby politico-finanziarie senza per questo condannarsi alla marginalità politica.
Di questa lezione dovrebbero fare tesoro gli esponenti della cosiddetta sinistra radicale, a cominciare dagli ex massimalisti d Syriza, che hanno preferito formare un partito di nicchia e ripiombare nella totale irrilevanza extraparlamentare pur di non fare i conti con la realtà. Non c'è dubbio che centinaia di anime belle continueranno ad attaccare Tsipras, accusandolo di essersi arreso ai creditori.
Come al solito, si tratta di una posizione troppo comoda: lamentarsi e protestare ha senso soltanto se si è in grado di proporre un'alternativa praticabile, e predicare l'uscita prima dall'Eurozona e poi dall'Unione europea non rientra in questo campo. Solo chi non ha mai avuto responsabilità di carattere generale - e si impegna per non averne mai - può rimproverare a Tsipras di non aver mandato in bancarotta la Grecia.
Dall'altro lato della barricata ci sono i politicanti di Bruxelles. Il risultato delle elezioni di domenica ha deluso anche loro, perché ha prodotto la stessa maggioranza che ha retto il governo di Atene negli ultimi mesi. Le speranze dei creditori, com'è ovvio, erano di tutt'altro segno.
Forse nemmeno loro credevano in una vittoria di Nea Demokratia, ma certamente avrebbero preferito un governo di grande coalizione che imbrigliasse Syriza, azzerandone i margini di manovra. Se il Pasok o To Potami fossero entrati a far parte della maggioranza, la coesione dell'Esecutivo sulla politica economica sarebbe stata assai precaria e Atene si sarebbe ridotta probabilmente ad eseguire senza discutere ogni direttiva impartita da Bruxelles.
Così non è andata e oggi Tsipras è pienamente legittimato a riprendere il lento stillicidio dei negoziati. A cominciare da quelli sul debito pubblico greco, che prima o poi (più poi che prima) dovrà tornare ad essere sostenibile. Quindi rinegoziabile.
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di Michele Paris
Con l’approvazione da parte della camera alta del parlamento giapponese (Dieta) nel fine settimana, un nuovo pacchetto di misure di impronta militarista volute dal governo ultra-conservatore del primo ministro, Shinzo Abe, è diventato definitivamente legge nel paese dell’Estremo Oriente. L’iniziativa fa seguito alla “reinterpretazione” della Costituzione marcatamente pacifista del Giappone e, in sostanza, consentirà alle forze armate - o, ufficialmente, di “auto-difesa” - di perseguire più liberamente gli interessi della classe dirigente nipponica all’estero e di partecipare alle iniziative militari promosse dagli Stati Uniti.
Abe ha spinto fortemente per le nuove leggi nonostante la profonda opposizione manifestata dalla grande maggioranza della popolazione del suo paese. Il trucco della “reinterpretazione” era stato ideato lo scorso anno dallo stesso governo per giungere al sostanziale svincolo dell’impiego dei militari dai limiti piuttosto severi previsti dalla Costituzione.
Per cambiare quest’ultima sarebbe stato necessario il voto di una supermaggioranza dei due rami della Dieta e, successivamente, un referendum popolare che non sarebbe mai stato ratificato, visti i sentimenti pacifisti diffusi nel paese. Abe aveva allora escogitato una nuova “interpretazione” della Costituzione, in modo da modellare su di essa le leggi appena approvate.
In realtà, la manovra del primo ministro, come ritengono anche molti esperti giapponesi, è un’aperta violazione della Costituzione e, in particolare, dell’Articolo 9 che stabilisce come il Giappone rinunci per sempre alla guerra e al mantenimento di forze armate di terra, aria o mare.
La legislazione era stata approvata dalla camera bassa dei Rappresentanti il 16 luglio, mentre la camera alta dei “Consiglieri” ha dato il definitivo via libera nella mattinata di sabato. Quest’ultimo voto è stato segnato non solo da numerose manifestazioni di protesta, che per parecchi giorni a Tokyo e in altre località hanno coinvolto svariate migliaia di persone, ma anche da un percorso in aula relativamente complicato.
Tra forti tensioni e scontri non solo verbali, la maggioranza del Partito Liberal Democratico (LDP) e del Partito buddista Komeito ha dovuto far fronte all’ostruzionismo dell’opposizione. Il Partito Democratico Giapponese (DPJ) ha infatti presentato una serie di mozioni di sfiducia, puntualmente bocciate, tra cui contro il presidente della camera dei Consiglieri, ritardando l’approvazione del pacchetto di legge.
Dopo il voto, Abe ha comunque dichiarato che le misure erano necessarie per “proteggere la vita delle persone e lo stile di vita pacifico” del suo popolo, nonché per “prevenire le guerre”, rendendo il Giappone “un paese normale”. Al contrario, l’impronta militarista impressa da Abe rende più probabile il rischio di guerra in Asia orientale, mentre l’evoluzione verso un paese “normale” consiste nella possibilità a disposizione dell’esecutivo di utilizzare liberamente le forze armate per perseguire i propri interessi strategici ed economici.
La legislazione prevede sostanzialmente due misure. La prima consente l’invio di soldati delle “forze di auto-difesa” giapponesi in qualsiasi angolo del pianeta in seguito a un semplice voto del Parlamento e senza l’approvazione preventiva di una legge speciale, come attualmente previsto.
La seconda modifica invece alcune leggi esistenti e renderà possibile la fornitura di supporto logistico e in termini di personale militare a paesi alleati virtualmente senza restrizioni. La partnership militare che beneficerà quasi esclusivamente dei cambiamenti sarà quella con gli Stati Uniti.
Come ha spiegato un’analisi del quotidiano nipponico Yomiuri Shimbun, le nuove leggi renderanno ad esempio possibile per i due alleati “fronteggiare in maniera congiunta i conflitti lungo le rotte marittime in Medio Oriente e nell’Oceano Indiano”, mentre in precedenza “era generalmente previsto che le forze di auto-difesa potessero assistere le truppe USA di stanza in Giappone in caso di emergenza nella penisola di Corea”.
Inoltre, i militari di Tokyo potranno svolgere “attività di sorveglianza e raccolta informazioni; prendere inziative in caso di lanci di missili balistici; mettere in salvo cittadini giapponesi all’estero” in situazioni di pericolo.
In definitiva, l’utilizzo dei soldati giapponesi sarà possibile non più solo in casi di emergenza o di minaccia alla sicurezza nazionale, ma in situazioni di relativa normalità, con l’obiettivo di avanzare gli interessi strategici di Tokyo e di Washington. Soprattutto, le nuove misure rientrano nel processo di integrazione del Giappone nella svolta strategica adottata dall’amministrazione Obama in Asia orientale per contrastare l’allargamento dell’influenza della Cina nel continente e l’evoluzione di questo paese verso uno status di potenza economica e militare.
Il coordinamento dell’iniziativa militarista di Abe con gli Stati Uniti è stato confermato da un altro articolo pubblicato lunedì sempre dal giornale Yomiuri Shimbun. Nel quadro della revisione dei principi che regolano l’alleanza strategica tra i due alleati, entrambe le amministrazioni avevano concordato misure come l’abolizione delle restrizioni per i militari giapponesi ben prima che iniziasse il dibattito politico su questo argomento a Tokyo.
Numerosi incontri tra alti ufficiali giapponesi ed esponenti del Pentagono si erano conclusi precisamente con un accordo su questo punto. Anzi, a conferma del fatto che il ritorno al militarismo del Giappone è dovuto a fattori oggettivi legati all’evolversi della situazione internazionale e non alla disposizione di un singolo uomo politico, le basi per la rimozione dei divieti al dispiegameno delle forze armate giapponesi erano state gettate durante il governo del Partito Democratico (DPJ) che precedette il ritorno di Abe alla guida del paese.
L’escalation delle tensioni con la Cina era inziata d’altra parte sotto il governo del DPJ, il quale nel 2012 aveva tra l’altro deciso provocatoriamente di nazionalizzare le isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale al centro di una disputa con Pechino, tramite l’acquisto dal loro proprietario privato.
Il carattere anti-democratico del pacchetto legislativo fatto approvare dal primo ministro Abe è confermato anche da parecchi sondaggi di opinione che chiariscono l’ostilità della gran parte dei giapponesi alla deriva militarista a cui stanno assistendo.
Il quotidiano Asahi Shimbun ha ad esempio diffuso lunedì i risultati di un’indagine condotta proprio all’indomani dell’approvazione definitiva delle nuove leggi. A favore di esse sarebbe solo il 30% degli interpellati, mentre il 51% si dice contrario. Ancora più marcata appare poi la disapprovazione dei metodi con cui i provvedimenti sono stati implementati, con il 67% che ha manifestato il proprio disappunto, contro il 16% che si è espresso a favore.
L’intera vicenda potrebbe infine danneggiare un esecutivo che negli ultimi anni ha ampiamente beneficiato dell’impopolarità del Partito Democratico, in grado di rimangiarsi tutte le principali promesse elettorali in tre anni di governo (2009-2012). Lo stesso Asahi Shimbun ha rilevato infatti un costante crollo nel gradimento del governo Abe, sceso in questi giorni al 35%, ovvero il dato più basso dalla riconquista da parte di quest’ultimo della carica di primo ministro dopo le elezioni del dicembre 2012.