di Michele Paris

La vittoria schiacciante che si prospetta per il partito Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di Daw Aung San Suu Kyi in Myanmar ha segnato prevedibilmente le prime elezioni considerate dalla comunità internazionale come realmente libere e credibili dal 1990. L’ex Birmania è alle prese da alcuni anni con la drastica inversione di rotta strategica intrapresa dalla propria classe dirigente. Se anche il trasferimento del potere dai militari a una nuova autorità civile guidata dal principale partito dell’opposizione dovesse risolversi pacificamente, gli obiettivi economici e strategici che verranno perseguiti nel prossimo futuro non si discosteranno di molto da quelli già fissati dal regime.

Nella giornata di lunedì, l’entusiasmo della popolazione birmana per il risultato delle urne si è diffuso rapidamente, spingendo i leader della NLD a dichiarare quasi con certezza il successo con percentuali che, su base nazionale, potrebbero aggirarsi addirittura attorno al 70%. Il partito di Aung San Suu Kyi ha in particolare fatto il pieno nella principale città, Yangon, dove avrebbe prevalso in 44 dei 45 distretti elettorali in cui è suddivisa.

I risultati definitivi arriveranno solo tra qualche giorno, ma anche svariati esponenti del Partito dell’Unione, della Solidarietà e dello Sviluppo, ovvero lo strumento politico dei militari al potere, hanno ammesso la sconfitta. Anche il potente ex generale Shwe Mann, presidente uscente del Parlamento, è stato battuto da un candidato della NLD, frustrando seriamente le sue aspirazioni a diventare presidente.

Secondo la Costituzione, ai militari va comunque assegnato automaticamente un quarto dei seggi parlamentari, così che la NLD dovrà conquistare i due terzi di quelli che erano in palio nel voto di domenica scorsa per garantirsi la maggioranza assoluta. In tal caso, la NLD potrà teoricamente approvare leggi senza dipendere dai militari, nonché eleggere un proprio candidato alla presidenza, ma non Aung San Suu Kyi, visto che la Costituzione proibisce di ricoprire tale carica a chiunque abbia cittadini stranieri tra i propri parenti più stretti.

Il premio Nobel per la Pace è stata subito protagonista di un’apparizione pubblica lunedì, nel corso della quale ha prospettato in maniera cauta la vittoria del suo partito e, riflettendo forse qualche timore per la ripetizione dei fatti del 1990, quando le elezioni vinte a valanga dalla NLD furono cancellate dai militari, ha invitato gli sconfitti ad accettare i risultati “serenamente e con coraggio”.

La misura del successo elettorale della Lega Nazionale per la Democrazia in Myanmar chiarisce senza incertezze il livello di avversione presente nel paese del sud-est asiatico nei confronti di un regime repressivo che per decenni ha chiuso ogni spazio alla società civile e, anche a causa delle sanzioni internazionali, ha imposto condizioni materiali di vita insostenibili alla maggior parte della popolazione.

Qualche anno fa, la giunta militare al potere aveva intrapreso una svolta strategica decisiva, svincolandosi relativamente dalla Cina, di fatto l’unico vero partner politico e commerciale per i due decenni precedenti, per mandare segnali di distensione verso l’Occidente. Gli Stati Uniti, in particolare, avevano immediatamente manifestato la propria disponibilità ad aprire un percorso di pacificazione, dal momento che la nuova attitudine del Myanmar ben si incastrava con le iniziative allo studio a Washington per cercare di contenere la Cina attraverso la creazione o il consolidamento di partnership con i paesi dell’Asia sud-orientale.

In cambio del riconoscimento internazionale del regime birmano e dell’annullamento delle sanzioni, gli Stati Uniti e i loro alleati avevano imposto l’attuazione di varie “riforme democratiche”, principalmente per nascondere agli occhi dell’opinione pubblica occidentale i veri interessi strategici ed economici in gioco dietro il consueto paravento della promozione dei valori democratici. Il possibile abbraccio del Myanmar con l’Occidente, infatti, presentava e presenta tuttora ghiottissime possibilità di profitto per il capitale americano, europeo, giapponese e australiano.

La prospettiva di attrarre investimenti stranieri e “modernizzare” il paese con una lunga serie di “riforme” è stata promossa sì dal regime birmano, sia pure tra incertezze e divisioni interne, ma è stata sostanzialmente accettata anche dalla NLD e da Aung San Suu Kyi.

Dietro lo scontro tra forze bollate come retrograde e dittatoriali da una parte e quelle “democratiche” dall’altra vi è in realtà un fondamentale accordo sulla necessità di trasformare il Myanmar nella nuova frontiera per gli investimenti internazionali e nell’ennesimo centro di sfruttamento del lavoro a bassissimo costo nel sud-est asiatico.

L’entusiasmo generato dalla NLD e dalla trasformazione di Aung San Suu Kyi in una vera e propria icona democratica sono senza dubbio il segnale di un diffusissimo desiderio di cambiamento nella ex Birmania e delle aspirazioni a una vita migliore. Tuttavia, che questo partito possa diventare un’autentica forza in grado di generare un processo trasformativo in senso progressista e che porti benefici a decine di milioni di persone che vivono oggi in povertà è alquanto improbabile.

La NLD è infatti il partito della borghesia liberale e filo-occidentale del Myanmar che negli ultimi due decenni è stata esclusa dalle possibilità di prosperare a causa delle sanzioni internazionali e del monopolio esercitato sull’economia e sulle strutture del potere da parte dei militari e di una ristretta cerchia di ricchi imprenditori con legami ad altissimo livello. L’obiettivo primario del partito e della sua classe di riferimento è perciò quello di assicurarsi il controllo dei processi innescati dall’apertura del paese all’economia di mercato.

Per comprendere quali siano gli orientamenti ideologici del partito di Aung San Suu Kyi è sufficiente una rapida scorsa alla piattaforma economica approvata dai suoi dirigenti nel 2013. Il partito prometteva senza indugi di adottare una politica economica “orientata verso il mercato”, creando soprattutto le condizioni più favorevoli all’afflusso di capitale estero.

Uno dei punti principali era la deregolamentazione del settore finanziario e la promozione delle liberalizzazioni in vari ambiti, partendo dalla privatizzazione delle aziende di stato. La NLD si diceva poi entusiasta delle nuove regole già implementate dal regime per assegnare contratti alle multinazionali straniere nel settore energetico ed estrattivo, mentre sposava in pieno il passaggio da un sistema basato sul settore agricolo - con una probabile “riforma” agraria dagli effetti devastanti per milioni contadini - alla diffusione di impianti manifatturieri destinati ad alimentare l’export.

Consapevole delle implicazioni economiche e sociali di un’evoluzione che intenda far approdare il Myanmar nel paradiso del capitalismo internazionale, in un’intervista rilasciata nel 2014 al Wall Street Journal, un alto dirigente della NLD metteva in guardia la popolazione da aspettative eccessive, poiché i cambiamenti allo studio non avrebbero comunque generato un livello di benessere diffuso ancora per molto tempo.

Le questioni economiche e i piani della NLD in questo ambito sono ad ogni modo rimasti fuori dal dibattito che ha preceduto le elezioni, dominato invece dai proclami ispirati ai valori democratici e dalla possibilità di ridurre per la prima volta l’influenza dei militari.

Le credenziali democratiche di questo partito sono state però minate da alcuni episodi significativi nei mesi scorsi. La maggioranza della NLD aveva ad esempio emarginato molti membri del movimento “Generazione 88”, protagonista della rivolta contro il regime repressa nel sangue nel 1988.

Dei 17 aspiranti alla candidatura nelle elezioni generali di questo gruppo, soltanto uno è stato accettato dai vertici della NLD, mentre aspre critiche ha anche suscitato la decisione del partito di ignorare le richieste dei suoi iscritti ed escludere vari candidati graditi a questi ultimi a favore di altri considerati di orientamento troppo conservatore.

Qualche malumore anche a livello internazionale aveva provocato infine il sostanziale adeguamento della NLD e di Aung San Suu Kyi stessa alla campagna del regime contro la minoranza musulmana Rohingya che vive in Myanmar. Per cominciare, quasi 800 mila Rohingya nello stato occidentale di Rakhine, che avevano partecipato alle elezioni parlamentari del 2010 e a quelle suppletive del 2012, sono stati privati del diritto di voto in questa tornata.

La decisione, presa mesi fa dal regime del presidente Thein Sein, faceva seguito alle persecuzioni subite dalla minoranza di fede islamica, alimentate dal governo stesso e condotte sul campo da fondamentalisti buddisti, protagonisti di veri e propri pogrom che hanno fatto centinaia di morti e trasformato altre centinaia di migliaia di Rohingya in profughi e detenuti in speciali campi di prigionia.

Non solo la NLD non ha presentato un solo candidato musulmano nelle elezioni appena terminate, ma i suoi vertici, inclusa il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, non hanno ritenuto di dover sollevare la questione dei Rohingya nel corso della campagna elettorale.

Il voto in Myanmar è stato comunque accolto molto positivamente dal governo americano. Il segretario di Stato, John Kerry, ha emesso un comunicato nella giornata di domenica, elogiando “l’importante passo avanti” compiuto con le elezioni, pur sottolineando “i significativi ostacoli strutturali” che rimangono sulla strada verso un “governo pienamente democratico e civile”.

Le dichiarazioni provenienti da Washington riflettono in altre parole le speranze legate alla possibile formazione di un governo guidato dalla NLD e da Aung San Suu Kyi, la cui liberazione dagli arresti domiciliari era stata una delle principali condizioni per lo sdoganamento del regime militare qualche anno fa.

Parallelamente, riferendosi agli “ostacoli” che ancora impediscono il pieno sviluppo della democrazia nella ex Birmania, Kerry intende ricordare alla classe dirigente indigena come l’allineamento agli interessi strategici ed economici degli USA dovrà essere assicurato fino in fondo. In caso contrario, le “carenze democratiche” del Myanmar potranno essere sfruttate in qualsiasi momento per rigettare il paese nell’isolamento degli ultimi vent’anni.

di Fabrizio Casari

Alla fine, sebbene a denti stretti, anche l’Egitto sta per ammettere quello che ormai tutta la comunità dell’Intelligence da per certo: l’Airbus 321 russo precipitato la settimana scorsa nel Sinai, nel quale hanno perso la vita a 224 persone, è stato vittima di un attentato terroristico. L’ordigno che ne avrebbe causato l’esplosione sarebbe stato confezionato - stando alle intercettazioni ed all’attività investigativa - dalla cellula egiziana dell’Isis.

L’esplosivo sarebbe arrivato in stiva contenuto in una bombola da sub, probabilmente anche grazie ai controlli insufficienti dell’aeroporto di Sharm El-Sheikh. La riluttanza egiziana ad ammettere che di attentato si è trattato ha almeno un paio di spiegazioni: la prima è che Il Cairo è perfettamente consapevole che indicare il suo territorio come destinazione possibile di attentati metterà in seria crisi il turismo, che ad oggi continua ad essere la prima voce delle entrate finanziarie per l’Egitto.

La seconda spiegazione è che l’eventuale conferma di un attentato mette in difficoltà l’autorevolezza del governo egiziano, dimostrando che egli potrà anche aver piegato con la forza i Fratelli Musulmani, potrà anche aver vinto elezioni militarizzate e aver stretto ulteriormente gli spazi per l’iniziativa islamista, ma l’area riferibile direttamente all’Isis in particolare, e al radicalismo islamista in generale, dispone di energie e risorse per costituire una minaccia grave per il paese dei faraoni.

La rivendicazione dell’attentato da parte dell’aspirante califfo d’Egitto, Abu Osama Al Musri, che ha già officiato il rito di sottomissione ad Abu Bakr Al-Baghdadi, ripropone con forza la presenza di una miscela di radicalismo e terrorismo egiziano che punta a costituire un ponte con l’attività militare del califfato in Siria e Iraq. L’ipotesi che possa trattarsi di millanteria allo scopo di farsi pubblicità e di accreditarsi presso Al  Baghdadi non viene considerata plausibile, mentre vengono accreditate le tracce che porterebbero proprio ad Al Musri nell’organizzazione del criminale attentato.

E’ una seconda pessima notizia per le ambizioni del governo di Al Sisi, giacché almeno per quanto si riferisce alla capacità di controllo interno, il suo governo non può certo presentarsi come affidabile. Di conseguenza, il ruolo di gendarme anti-Isis al quale l'Egitto aspirava, viene quantomeno ridimensionato. E anche per quanto attiene alla politica estera la situazione è tutt’altro che brillante: la strategia del governo egiziano di unirsi alla coalizione militare anti-Isis e, nel contempo, cercare di riannodare i rapporti con l’Arabia Saudita, non pare risolutiva, almeno a fini interni.

Ovvio che in un momento di ridefinizione generale degli equilibri di potere nella Regione, l'Egitto non possa permettersi un profilo di secondo piano, visto il peso militare, politico e culturale del Paese in tutto il mondo arabo. Ma aggiungersi alla coalizione occidentale - dove ci sono Turchia e Arabia Saudita, che in realtà appoggiano l’Isis per motivi diversi - ha ulteriormente sollecitato l’attivismo interno degli islamisti e ha riproposto in forma evocativa le scelte di politica del regime di Mubarak, riavvolgendo così il nastro della politica egiziana a prima delle Primavere arabe e fornendo armi alla propaganda terroristica.

Anche la Russia aveva evitato di riconoscere l’attentato immediatamente, giacchè l’assenza di riscontri e il parziale danneggiamento della scatola nera del velivolo rendevano arduo il formarsi di un convincimento netto al riguardo. E anche perché Mosca ha piena consapevolezza di come l’eventuale conferma dell’attentato cambi decisamente lo scenario e il contesto del suo intervento in Siria. Mosca, con questo attentato, passa infatti dall’essere soggetto attivo nell’attacco alle postazioni islamiste in Siria al ruolo di vittima del terrorismo islamico.

E’ probabile che la risposta russa non si farà attendere ed è ipotizzabile che i pur positivi risultati dei colloqui internazionali con gli altri protagonisti della guerra siriana, che hanno riconosciuto alla Russia un ruolo di primo piano, alla luce di questo attentato non potranno che far crescere il suo peso nell’area. In fondo, l’incremento della presenza militare statunitense sul teatro siriano, ha anche l’obiettivo di non lasciare troppo campo ai russi.

Ma da ora sarà ancor più difficile limitare l’intervento russo attestandolo sulla difesa delle sue basi e della capitale. L’attentato subìto, in questo senso, cambia il quadro generale e la stessa legittimazione dell’intervento militare di Mosca risulta maggiore. Se infatti l’intervento in Siria faceva leva sulle necessità geopolitiche della Russia, ora il tema della sicurezza russa diverrà parallelo a quello della sicurezza mediorientale, diventando la seconda gamba su cui far marciare le truppe moscovite.

Sul piano interno, Putin potrà far leva sul nazionalismo russo: pur essendo scenari e conflitti completamente diversi, la memoria del conflitto ceceno è ancora viva nel Paese e dover contare le vittime civili del terrorismo islamico non potrà che far crescere il già ampio consenso popolare alle scelte del Cremlino. Viene superato, in sostanza, l’intervento a sostegno di Assad e per la cacciata del terrorismo islamico dalla Siria; l’attentato alla sua aviazione civile porta anche formalmente la Russia in guerra aperta contro il terrorismo islamista in tutto il Medio Oriente.

Sarà dunque maggiore il ruolo che la Russia rivendicherà nelle scelte di riordino dell’area, ma sarà anche l’elemento che comporterà un diverso agire. Se il Cremlino pensava che l’intervento in Siria potesse essere di breve durata e intensità, ora dovrà rivedere i calcoli.





di Michele Paris

Il governo Conservatore britannico ha presentato questa settimana in Parlamento un nuovo progetto di legge sulle intercettazioni e la sorveglianza delle comunicazioni elettroniche e del traffico internet di tutti i cittadini del Regno. Il provvedimento, battezzato “Investigatory Powers Bill”, rappresenta un attacco diretto ai diritti democratici della popolazione, come sempre dietro il paravento della necessità di dotare le forze di sicurezza dei mezzi necessari a combattere la minaccia del terrorismo.

La legge dovrebbe essere approvata e implementata entro la fine del 2016. Punta, da un lato, ad allargare drammaticamente i poteri di controllo sui cittadini da parte dello Stato e, dall’altro, a garantire in maniera retroattiva un quadro pseudo-legale per le attività di spionaggio già messe in pratica in questi anni con l’autorizzazione del governo.

I punti centrali del provvedimento sono sostanzialmente due. I provider di servizi internet dovranno in primo luogo conservare per dodici mesi i dati di navigazione sul web di tutti gli utenti britannici, rendendoli disponibili alle forze di polizia e ai servizi segreti. Questi ultimi, poi, avranno facoltà di penetrare clandestinamente computer, smartphone e telefoni di chiunque rappresenti una teorica minaccia alla sicurezza del paese.

Il pacchetto di misure è stato presentato dal ministro degli Interni, Theresa May, davanti a una Camera dei Comuni quasi deserta e sostanzialmente inerte di fronte a uno dei più deliberati tentativi di smantellare diritti democratici consolidati da secoli nella società britannica.

La May ha affermato che, per contrastare “trame terroristiche e il crimine organizzato”, lo Stato “deve avere la possibilità di intercettare il contenuto delle comunicazioni per ricavare informazioni sensibili” e di utilizzare “questi poteri per identificare le minacce più gravi contro il Regno Unito provenienti dall’estero e stabilire rapidamente collegamenti con i sospettati nel nostro paese”.

Le agenzie governative avranno ora la possibilità di conoscere senza richiedere alcun mandato l’URL di un sito web visitato da qualsiasi utente. Per accedere all’intera cronologia di navigazione, come ad esempio tutte le pagine visitate di un determinato sito, sarà invece necessario ottenere un mandato.

Anche in quest’ultimo caso, le garanzie per la protezione della privacy e dei diritti civili degli utenti, che Theresa May ha affermato saranno assicurate, risultano però del tutto inefficaci. A differenza di quanto accade attualmente, non sarà più sufficiente un’autorizzazione del ministro degli Interni, ma sarà necessario un mandato sottoscritto da un giudice.

Tuttavia, secondo la legge a occuparsi delle richieste sarà uno speciale “commissario”, ovvero un giudice, nominato dal primo ministro. Questa figura collaborerà con altri giudici che a loro volta avranno l’autorità di firmare un mandato.

In casi ritenuti “urgenti”, inoltre, il ministro degli Interni potrà autorizzare l’accesso ai dati sensibili prima che i giudici abbiano il tempo di considerare la richiesta. In qualsiasi caso, lo stesso ministro potrà fare appello contro una richiesta di mandato respinta, riferendosi direttamente al “commissario” di nomina governativa, il quale sarà verosimilmente esposto a enormi pressioni per ribaltare la decisione.

L’intera procedura ricalca grosso modo quella in atto da tempo negli USA, dove a valutare le richieste di intercettazione è uno speciale tribunale che si riunisce in segreto e che acconsente alle istanze presentate dalle agenzie governative praticamente nel 100% dei casi.

Questo sistema di “supervisione” delle attività di spionaggio domestico dei servizi britannici è stato criticato da molte organizzazioni a difesa della privacy e dei diritti civili, così come dal relatore ONU sull’anti-terrorismo e i diritti umani, Ben Emmerson, secondo il quale l’emissione di un mandato deve essere affidata esclusivamente a un “giudice indipendente”, cosa non prevista dalla legislazione appena presentata dal governo Cameron.

In merito all’autorità conferita ai servizi di sicurezza di violare i computer e i telefoni cellulari di sospettati di terrorismo, come già ricordato, la nuova legge si propone di legalizzare attività che, per stessa ammissione del governo, sono state finora condotte clandestinamente. Sotto l’occhio dei servizi segreti britannici, ha assicurato infine il ministro, potrà finire chiunque, inclusi gli stessi membri del Parlamento.

Nel suo intervento, Theresa May ha poi fatto una dichiarazione eccezionale, quando ha rivelato per la prima volta al Parlamento che, sulla base del Telecommunications Act del 1984, tutti i governi di Londra a partire dal 1994 hanno emesso ordini segreti per costringere le compagnie di telecomunicazioni a consegnare i dati delle comunicazioni elettroniche e telefoniche di cittadini britannici ai servizi di sicurezza.

Per giustificare azioni palesemente illegali da parte di questi ultimi e dei governi, il ministro May ha garantito che i dati così acquisiti hanno contribuito a sventare svariati attacchi terroristici in Gran Bretagna. Prevedibilmente, l’autorevole membro del gabinetto Conservatore ha ritenuto di non dover presentare alcuna prova in merito.

L’Investigatory Powers Bill è la versione modificata di un provvedimento simile presentato nel 2012 dal precedente governo Cameron e bollato ironicamente come “Snoopers Charter” (“Carta degli Spioni”). Il livello di violazione della privacy previsto da quella legge era tale che lo stesso partner di governo dei Conservatori - il Partito Liberal Democratico - si era sentito in dovere di respingerlo. Senza i numeri in Parlamento e sull’onda dell’opposizione manifestata da moltissimi in Gran Bretagna, il Partito Conservatore aveva alla fine ritirato la proposta di legge.

La necessità di mettere nelle mani delle forze di sicurezza vastissimi poteri di sorveglianza, in un clima di forti tensioni sociali e di crescente ostilità alle politiche di austerity e alla deriva autoritaria della classe dirigente del Regno, ha però riportato all’ordine del giorno la legge. I cambiamenti rispetto al 2012 sono in larga misura cosmetici e riguardano quasi esclusivamente i debolissimi meccanismi di “supervisione” giudiziaria che sono stati inseriti, così da consentire al governo di sostenere di avere rispettato le principali garanzie democratiche.

Come hanno fatto notare vari giornali in questi giorni, la nuova legge che sarà discussa in Gran Bretagna rappresenta il più ambizioso tentativo in Occidente di fissare nuove regole sui metodi di sorveglianza dei cittadini dall’inizio delle rivelazioni su queste attività dell’ex contractor dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), Edward Snowden, nel 2013.

Snowden aveva fatto conoscere a tutto il mondo i metodi criminali del governo americano, attuati in collaborazione con i suoi più fedeli alleati, come la Gran Bretagna grazie alle attività del GCHQ (Government Communications Headquarters). Da allora, però, le iniziative allo studio o adottate da vari governi sono andate in direzione esattamente opposta a quella richiesta da popolazioni giustamente allarmate per l’erosione dei diritti democratici.

Più precisamente, come conferma la nuova legge britannica, i governi hanno sfruttato il dibattito generato dalle rivelazioni di Snowden per codificare azioni di sorveglianza anti-democratiche messe in atto da tempo in modo clandestino dai servizi segreti, spacciandole come iniziative a difesa della privacy in seguito all’inclusione di sterili misure di supervisione pseudo-giudiziarie.

Se i governi occidentali - e non solo - hanno potuto mettere in atto un’offensiva di questa portata contro le libertà civili e i diritti democratici non è certo a causa di uno scarso interesse da parte delle popolazioni o di una mancanza di disponibilità alla mobilitazione. Piuttosto, ciò è reso possibile dalla complicità dei partiti di “sinistra” e delle organizzazioni che ruotano attorno a essi.

In Francia, una legge da stato di polizia sulle intercettazioni è stata recentemente adottata dal governo e dalla maggioranza del Partito Socialista. In Gran Bretagna, invece, il Partito Laburista ha garantito il pieno appoggio alla proposta dei Conservatori. Mentendo spudoratamente sui contenuti della legge, il ministro-ombra degli Interni, Andy Burnham, ha infatti assicurato che il provvedimento “non è né una ‘Carta degli Spioni’ né un piano per la sorveglianza di massa” della popolazione britannica.

di Michele Paris

Nelle ultime settimane, i leader di tre delle principali economie europee sono stati protagonisti di incontri ad altissimo livello con esponenti del governo cinese a riprova dei crescenti legami economico-finanziari tra Pechino e il vecchio continente. Questo processo di avvicinamento si sta evolvendo singolarmente in parallelo all’inasprirsi delle tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti, tornate di recente al di sopra dei livelli di guardia in seguito a una nuova provocazione di Washington nel Mar Cinese Meridionale.

L’ultimo in ordine di tempo a visitare la Cina è stato il presidente francese, François Hollande, preceduto di alcuni giorni dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel. Ancora prima, era stato il presidente cinese, Xi Jinping, a recarsi in Gran Bretagna, dove aveva ricevuto una caldissima accoglienza come quella riservata poco più tardi ai suoi ospiti europei.

La visita di Hollande ha seguito il tradizionale schema delle missioni occidentali di questi anni in Cina. Il leader socialista si è cioè presentato con una schiera di rappresentanti del business transalpino e ha presieduto alla firma di sostanziosi accordi commerciali e di altro genere per il valore di svariate decine di miliardi di euro. Soltanto una singola intesa nell’ambito dei rifiuti delle centrali nucleari ha superato i 20 miliardi di euro.

La delegazione tedesca aveva a sua volta sottoscritto accordi economici per una ventina di miliardi di euro, mentre a Londra il presidente Xi e il governo conservatore avevano concordato investimenti cinesi nell’economia britannica per oltre 100 miliardi. Sia con la Gran Bretagna sia con la Francia, inoltre, sono state gettate le basi per una più solida collaborazione in ambito finanziario, nel quadro dei tentativi di Pechino di creare mercati off-shore su cui scambiare la propria valuta.

In tutti i casi, le relazioni commerciali e finanziarie tra la Cina da una parte e, dall’altra, Francia, Germania e Gran Bretagna, hanno fatto segnare aumenti spesso esponenziali nell’ultimo decennio. La Germania resta il principale partner commerciale europeo della Cina, anche se, come fanno notare molti osservatori, il modello di sviluppo meno impetuoso che Pechino intende perseguire e la necessità di accedere ai mercati finanziari internazionali prefigurano un intensificarsi dei rapporti soprattutto con la Gran Bretagna nel prossimo futuro.

La questione dell’atteggiamento da tenere nei confronti della Cina indica dunque divisioni sempre più evidenti tra gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa. Quest’anno, proprio il governo britannico aveva preso una decisione che ha in qualche modo inaugurato in maniera ufficiale il convergere degli interessi economici europei con la strategia di espansione cinese.

Nel mese di marzo, Londra aveva per prima annunciato l’adesione come membro fondatore alla Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB) promossa da Pechino. Dopo la Gran Bretagna erano arrivate le adesioni di svariati altri paesi alleati degli Stati Uniti, nonostante le pressioni e il parere contrario dell’amministrazione Obama.

Emblematico di questi nuovi scenari è anche il caso della Francia. Oltre alla visita di Hollande in Cina, va rilevato il mancato appoggio pubblico da parte dell’Eliseo agli USA nell’ambito del recente scontro diplomatico tra Washington e Pechino, scaturito dalla decisione americana di inviare una propria nave da guerra all’interno dei limiti territoriali stabiliti dalla Cina al largo di un atollo rivendicato anche da altri paesi nel Mar Cinese Meridionale.

Più in generale, Parigi appare sempre più impaziente nei confronti degli Stati Uniti, la cui politica estera all’insegna del confronto con Cina e Russia si scontra con gli interessi strategici ed economici francesi. Significative in questo senso sono state le recenti dichiarazioni dell’ex presidente Sarkozy, il quale, dando probabilmente voce alle preoccupazioni non sempre espresse pubblicamente dal governo Socialista, ha condannato le sanzioni economiche applicate alla Russia dall’Europa - dietro pressioni americane - per la vicenda ucraina.

Com’è ovvio, a spingere verso una progressiva integrazione eurasiatica è anche e soprattutto Pechino, principalmente sotto forma della cosiddetta “Nuova Via della Seta”. Denominata anche “One Belt, One Road”, quest’ultima è una colossale iniziativa che include tra l’altro progetti per infrastrutture destinate a favorire la creazione di rotte commerciali che colleghino i mercati cinesi e quelli europei passando attraverso l’Asia centrale e il Medio Oriente.

Questo ambiziosissimo disegno cinese è da sempre osteggiato in maniera ferma dagli Stati Uniti, impegnati a impedire l’integrazione economica del continente europeo con una potenza rivale - come Cina o Russia - che possa esercitare la propria influenza sugli sconfinati e strategicamente cruciali territori centro-asiatici.

Queste dinamiche sono però in buona parte favorite proprio dagli Stati Uniti e dal loro riallineamento strategico verso l’Asia. Da qualche anno, la dottrina della “svolta asiatica” ha determinato un’offensiva economica, diplomatica e militare da parte di Washington che si traduce in una concreta minaccia nei confronti delle rotte commerciali marittime vitali per la Cina che attraversano l’Oceano Indiano.

Ciò ha spinto quindi Pechino o, quanto meno, una parte della classe dirigente del regime a guardare con estremo interesse alle rotte terrestri verso occidente e, di conseguenza, a cercare di costruire rapporti più profondi con i paesi europei.

Se la propaganda cinese non manca di sottolineare il livello qualitativo raggiunto dai rapporti con l’Europa, a Pechino vi sono allo stesso tempo ben poche illusioni circa gli ostacoli sulla strada verso la creazione di una vera e propria alleanza con il vecchio continente, nonostante gli enormi interessi economici in gioco.

I legami diplomatici ed economico-finanziari tra UE e USA restano ovviamente molto solidi, così come i vincoli militari assicurati dalla NATO. Inoltre, è altrettanto evidente che l’evoluzione dei rapporti internazionali che vedono la Cina protagonista difficilmente lasceranno indifferenti gli Stati Uniti.

Anzi, l’intensificarsi dei contatti tra la Cina e i paesi europei contribuisce all’irrigidimento delle posizioni americane nei confronti di Pechino, come risulta chiaro dagli eventi di questi ultimi giorni, con effetti destabilizzanti su scala globale.

La già ricordata provocazione americana nel Mar Cinese Meridionale della scorsa settimana ha suscitato la dura risposta da parte del regime cinese e ha avuto riflessi tutt’altro che rassicuranti anche sul biennale summit dei ministri della Difesa dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN), in corso questa settimana a Kuala Lumpur, in Malaysia.

I paesi di quest’area vivono in maniera diretta le conseguenze della crescente rivalità tra la Cina e gli USA, in molti casi rispettivamente il loro principale partner commerciale e l’alleato strategico e militare più importante. All’interno dell’ASEAN, perciò, si manifestano tradizionalmente le tensioni tra le due superpotenze.

Come già accaduto nel recente passato, così, sullo sfondo delle persistenti provocazioni di Washington, della reazione di Pechino e delle divergenze circa i rapporti con Cina e USA tra i paesi membri, mercoledì i ministri ASEAN non sono riusciti ad accordarsi sul contenuto della consueta dichiarazione congiunta che suggella la fine dei lavori.

Il punto del contendere è stato l’inclusione nel comunicato di un riferimento alla situazione nel Mar Cinese Meridionale. Per la delegazione americana all’ASEAN, Pechino avrebbe insistito per omettere qualsiasi riferimento all’area contesa, mentre la Cina ha accusato indirettamente gli USA - e il Giappone - di voler forzare la mano ai paesi del sud-est asiatico per includere una dichiarazione che manifestasse preoccupazione per l’escalation della crisi nelle aree marittime contese.

La disputa ha visto alcuni paesi schierarsi a fianco di Washington in maniera chiara, come le Filippine e il Vietnam, mentre altri, come la Malaysia, hanno assunto un atteggiamento più cauto, ben attenti a valutare possibili impatti negativi sui loro rapporti economici con Pechino.

 

di Michele Paris

A meno di cinque mesi dalla peggiore performance elettorale da oltre un decennio, il partito islamista turco per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) del presidente, Recep Tayyip Erdogan, ha riconquistato la maggioranza assoluta nel Parlamento di Ankara grazie a una nettissima vittoria nel voto anticipato di domenica. I nuovi risultati sono dovuti in primo luogo al clima di tensione e paura alimentato ad arte dagli stessi vertici del partito al potere e, per quanto decretino la prosecuzione del governo monocolore in Turchia, difficilmente contribuiranno alla stabilizzazione di un paese diviso e segnato a fondo dalle scelte di politica estera dei suoi leader.

La nuova tornata elettorale era stata decisa dopo il voto del 7 giugno in seguito all’impossibilità di raggiungere un accordo tra l’AKP e almeno uno degli altri partiti per la formazione di un nuovo esecutivo di coalizione. A spartirsi ora i 550 seggi a disposizione saranno ancora quattro partiti, come nel giugno scorso, ma a cambiare sono gli equilibri tra queste formazioni. L’AKP ha recuperato qualcosa come quattro milioni di voti e più di otto punti percentuali, assestandosi a un 49,4% che si traduce in ben 316 seggi.

I risultati degli altri tre partiti spiegano alla perfezione il significativo recupero dell’AKP. Il Partito Popolare Repubblicano (CHP), di ispirazione laica e kemalista, non è riuscito a intercettare i consensi di coloro che sembravano dover voltare le spalle a Erdogan e al primo ministro, Ahmet Davutoglu. Il CHP si è fermato a poco più del 25%, cioè solo un lievissimo incremento dei propri voti rispetto a giugno, confermando le difficoltà ad affermarsi come alternativa all’AKP, non da ultimo a causa della scarsa credibilità delle proprie proposte in ambito economico alla luce di un passato come strumento della borghesia turca.

I voti riconquistati dall’AKP sono arrivati però da una parte degli elettori che nella scorsa tornata avevano appoggiato il Partito del Movimento Nazionalista (MHP) di estrema destra e il Partito Democratico Popolare (HDP) curdo. Il primo, dopo avere rifiutato un’alleanza di governo con l’AKP, è precipitato dal 16% a poco meno del 12%, mentre l’HDP è passato da un record del 13,2% a circa il 10%, appena sufficiente a superare l’antidemocratica soglia di sbarramento prevista dalla legge elettorale turca per l’ingresso in Parlamento.

Sul rilancio dell’AKP ha influito in maniera decisiva il deteriorarsi della situazione interna alla Turchia e nella regione mediorientale, con un’escalation di violenze la cui responsabilità va in gran parte attribuita al governo e al presidente Erdogan.

Il conflitto tra le forze di sicurezza turche e quelle del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) nelle aree sud-orientali del paese è ripreso dopo una tregua che aveva suscitato parecchie speranze per una risoluzione pacifica della questione curda. La guerra con il PKK, secondo alcuni, sarebbe stata voluta da Erdogan sia per creare un clima di emergenza e accreditare l’AKP come unica forza politica in grado di fronteggiarla sia per dividere il fronte curdo e minare la popolarità dell’HDP.

Tra questo partito e il PKK sono infatti apparse evidenti le divisioni, riflesso anche dell’ostilità di buona parte della popolazione curda alla ripresa degli attacchi contro il governo e le forze di sicurezza turche in un clima già esplosivo a causa della situazione in Siria. Molti elettori laici e della classe media hanno poi probabilmente ritenuto che l’HDP non avesse preso a sufficienza le distanze dalle violenze del PKK, ripiegando perciò sull’AKP, ritenuta l’unica forza in grado di garantire la sicurezza nel paese.

Sedi ed eventi di organizzazioni curde e del partito HDP sono stati inoltre bersaglio di attentati nei mesi scorsi, attribuiti dal governo quasi sempre allo Stato Islamico (ISIS) anche se molti vi hanno visto la mano dello stesso governo, sostenitore peraltro in maniera più o meno diretta dell’ISIS. L’episodio più grave era stato registrato il 10 ottobre scorso, quando un attacco suicida aveva fatto più di 100 morti nella capitale durante una manifestazione a favore del ritorno al dialogo tra il governo e la minoranza curda.

Il cupissimo clima venutosi a creare in Turchia che ha spianato la strada al nuovo successo elettorale dell’AKP è stato alimentato anche dalle centinaia di migliaia di rifugiati siriani presenti nel paese e intenzionati a raggiungere l’Europa.

Il recente accordo con l’Unione Europea che ha assegnato un ruolo importante ad Ankara nel bloccare i profughi in cambio di qualche miliardo di euro in aiuti può avere favorito Erdogan e il suo partito, tanto più che alla vigilia del voto la cancelliera tedesca Merkel era stata in visita in Turchia elogiando il governo dell’AKP.

Da non dimenticare sono infine i consueti metodi repressivi promossi da Erdogan. Oltre a usare la propria posizione, teoricamente super partes, per fare campagna elettorale a favore dell’AKP, il presidente turco e il suo partito hanno condotto una vera e propria guerra contro le rimanenti voci giornalistiche non allineate o vicine all’opposizione, come dimostra ad esempio la chiusura del gruppo editoriale Koza-Ipek pochi giorni prima del voto.

Erdogan sembra essere riuscito in sostanza a trasformare le elezioni anticipate in una sorta di referendum monotematico sulle misure di sicurezza da adottare e già adottate di fronte a una situazione di emergenza.

Nonostante il successo elettorale, Erdogan e la sua agenda politica e diplomatica rimangono fortemente impopolari tra ampie fasce della popolazione turca a causa delle evidenti tendenze autoritarie, del deteriorarsi dell’economia e dei preoccupanti sviluppi della crisi in Siria.

Il leader indiscusso dell’AKP avrà però ora a disposizione il nuovo mandato appena ottenuto per consolidare un sistema di governo ancora più autoritario, soprattutto se riuscirà ad aggiungere una manciata di voti a quelli a disposizione del suo partito in Parlamento per far approvare modifiche costituzionali di vasta portata, a cominciare dalla creazione di un sistema presidenziale.

Sul fronte curdo, invece, Erdogan potrebbe addirittura intensificare la guerra al PKK, oppure, secondo vari commentatori, decidere al contrario un ritorno al tavolo delle trattative, visto l’obiettivo ormai raggiunto di ridimensionare la rappresentanza parlamentare dell’HDP.

Le forze scatenate in questo ambito non saranno però facili da fermare e rischiano anzi di aggravare le tensioni regionali e non solo. Ankara si trova nel pieno di una guerra anche con la milizia curda siriana YPG (Unita di Protezione Popolare), colpita più volte con raid aerei oltreconfine nelle scorse settimane ma considerata dagli Stati Uniti come uno dei principali partner nella presunta guerra all’ISIS.

Oltre alle tensioni con Washington, vanno valutate quelle con paesi come Russia e Iran, cioè i due principali alleati di Damasco, mentre restano freddi i rapporti con Israele ma anche con l’Arabia Saudita dopo le divergenze sull’Egitto e l’appoggio garantito dalla Turchia al governo dei Fratelli Musulmani, rovesciato dai militari con il pieno appoggio di Riyadh.

Il sostegno assicurato da Ankara alle formazioni integraliste violente attive in Siria contro il regime di Assad ha infine destabilizzato l’area mediorientale, producendo anche in ambito economico conseguenze negative che vanno ad aggiungersi a quelle causate dagli stenti dell’Europa, ovvero il principale mercato dell’export turco.

La Turchia che si appresta a guidare anche per i prossimi quattro anni il presidente Erdogan e il governo del premier Davutoglu è in definitiva un paese immerso sempre più nelle contraddizioni ed esposto a pericolose tensioni sociali, aggravate da scenari regionali altrettanto minacciosi.

Che la leadership dell’AKP sia in grado di districarsi da tutti questi ostacoli dopo aver precipitato il paese nel caos rimane in forte dubbio, nonostante le manovre apparentemente vincenti che hanno consentito al partito islamista di incassare una nuova indiscussa maggioranza dopo gli stenti dello scorso mese di giugno.


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