di Antonio Rei

Il pericolo scampato è motivo di sollievo, ma non va accolto come un trionfo. In tutta Europa schiere di commentatori hanno ululato di gioia nell’apprendere lunedì che in Austria era avvenuto il miracolo: rimontando uno svantaggio del 14% al primo turno, Alexander Van der Bellen si è imposto al ballottaggio delle presidenziali su Norbert Hofer. Così Vienna, invece di essere la prima capitale europea a ospitare un presidente della Repubblica di estrema destra, si ritrova con il primo capo di Stato verde del continente. Un risultato certamente insperato e importante, ma non tale da rimuovere tutte le preoccupazioni che queste elezioni hanno suscitato.

Quando si riesce a frenare pochi centimetri prima del burrone, una volta smaltita l’adrenalina, è il caso di domandarsi come si è arrivati così vicini al precipizio. E l’analisi del voto austriaco non è per nulla rassicurante. A ben vedere, Van der Bellen l’ha spuntata con un margine di appena 31.026 voti, per giunta arrivati via posta dai residenti all’estero. In termini percentuali, significa che ha vinto con il 50,3% contro il 49,7% di Hofer. Pochi centimetri, appunto.

L’Austria è perciò un Paese quanto mai diviso e la spaccatura, a leggere i dati, divide in modo netto i livelli socioeconomici e culturali. Van der Bellen ha prevalso in tutte le grandi città del paese, arrivando a ottenere il 70% a Vienna (in alcuni quartieri addirittura all’80%). Anche gli elettori in possesso almeno del diploma di scuola superiore hanno scelto in massa il candidato ecologista, preferendolo nel 69% dei casi. In modo speculare, Hofer è stato di gran lunga il più votato nelle campagne, fra gli strati sociali meno abbienti e fra quelli meno istruiti.

Pur senza cadere negli sproloqui sulla lotta di classe, non si può non rilevare che l’elettorato austriaco è polarizzato intorno a due grandi binomi: pro e contro la logica europeista, pro e contro l’accoglienza dei migranti. Per intenderci, Van der Bellen è contrario a ogni tipo di barriera fisica contro il flusso delle persone (compresa quella concepita e poi abortita al Brennero) e ritiene che la libera circolazione sia un principio da difendere, mentre Hofer ha incentrato la propria campagna elettorale contro gli immigrati che, secondo lui, “rubano posti di lavoro e risorse”, danneggiando le condizioni di vita e lo Stato sociale degli austriaci purosangue.

Ora, una frattura di questo tipo suscita alcuni motivi di riflessione. Innanzitutto, è il caso di ricordare che in Austria il ruolo del Presidente della Repubblica non è particolarmente determinante. Le elezioni che conteranno davvero saranno le politiche del 2018. In questa prospettiva, è evidente che sarebbe un suicidio adagiarsi sugli allori della vittoria di Van der Bellen e sottovalutare l’ascesa del Fpoe. Il partito di Hofer, dichiaratamente xenofobo e anti-immigrati, esce comunque da queste presidenziali forte del suo miglior risultato di sempre ed è più che mai in corsa per la partita che davvero conta.

In secondo luogo, il dilagare di populismo e nazionalismo in Austria è tanto più significativo perché si tratta di un Paese mediamente ricco. In assenza di svolte nella politica europea in tema di crescita, inclusione sociale e accoglienza dei migranti, perciò, viene da chiedersi cosa potrà accadere in altri Paesi europei dove la disoccupazione è molto più alta, la povertà molto più diffusa e l’afflusso di migranti molto più significativo.

Infine, l’unica sentenza definitiva che gli austriaci hanno consegnato alla storia con le ultime elezioni presidenziali è la bocciatura dei grandi partiti politici tradizionali. Socialdemocratici e popolari sono attualmente al governo insieme, amalgamati in una grande coalizione che traghetta il Paese dal 2007, e dal 1945 fino alla settimana scorsa si erano scontrati in ogni singolo ballottaggio per le presidenziali. Stavolta, però, hanno ceduto entrambi di schianto al primo turno, non riuscendo a portare i rispettivi candidati oltre l’11%.

Forse qualcosa cambierà da qui in avanti, visto che la settimana scorsa è arrivata la nomina di un nuovo cancelliere socialdemocratico, Christian Kern, in sostituzione dell’impopolare Werner Faymann. Le promesse di cambiare rotta, com’è ovvio, si sprecano, ma stavolta - visto che l’estrema destra è più che mai attrezzata per vincere e andare al governo - c’è da sperare che una nuova fase inizi davvero, anche nei rapporti con Bruxelles. Altrimenti, dopo tanti cori di giubilo per Van der Bellen, l’Austria si unirà al club di Ungheria e Polonia, scivolando nelle braccia del populismo nero.

di Michele Paris

Quella di Obama in corso questa settimana è solo la terza visita di un presidente degli Stati Uniti in Vietnam dalla fine del conflitto tra i due ex nemici. Il viaggio di tre giorni nel paese del sud-est asiatico ha al centro delle discussioni con i leader locali importanti questioni economiche e militari, tutte inevitabilmente legate agli sforzi di Washington per convincere Hanoi ad allinearsi ai piani strategici americani anti-cinesi in questa parte del continente.

Per garantire il maggiore impatto possibile della visita di Obama, poche ore dopo il suo arrivo in Vietnam è stata diffusa la notizia che il governo americano intende cancellare definitivamente l’embargo alla vendita di armi a questo paese. Questa proibizione era in vigore dal 1975 ed era stata già allentata sempre dall’amministrazione Obama nel 2014 per consentire al Vietnam di ottenere una linea di credito destinata all’acquisto di alcune navi da guerra.

La decisione presa due anni fa a Washington, secondo il Washington Post, era servita a “rafforzare la sicurezza marittima del Vietnam nel Mar Cinese Meridionale”, dove gli animi con la Cina si sono sensibilmente infiammati negli ultimi anni per via del riesplodere di contese territoriali alimentate proprio dagli Stati Uniti.

La notizia della fine dell’embargo è stata confermata lunedì dallo stesso Obama durante una conferenza stampa con il presidente vietnamita, Tran Dai Quang. Come di consueto, Obama ha affermato pubblicamente l’esatto contrario di ciò che ha motivato la sua amministrazione nel prendere questa iniziativa, sostenendo che essa “non è basata sulla [minaccia] della Cina”, ma sulla volontà degli USA di “completare un lungo processo di normalizzazione delle relazioni con il Vietnam”.

Nel calcolo americano rientra in questo caso anche la Russia, fino ad ora di gran lunga il primo fornitore di armi del Vietnam. Le forze navali di Mosca possono inoltre attraccare liberamente nella strategica Baia di Cam Rahn, affacciata sul Mar Cinese Meridionale, mentre l’accesso per quelle americane è per ora rigorosamente limitato.

Le intenzioni di Washington sono perciò quelle di ridurre il più possibile i rapporti in ambito militare tra Mosca e Hanoi. Recentemente, tra l’altro, era emersa la notizia di come gli Stati Uniti avessero fatto pressioni sul regime per sospendere il programma di collaborazione con la Russia che consente ai velivoli militari di questo paese in missione nell’Oceano Pacifico di fare rifornimento in territorio vietnamita.

Che l’obiettivo principale degli Stati Uniti sia però la Cina è fuori discussione e a confermarlo è l’impegno con cui l’amministrazione Obama in questi anni ha insistito con vari paesi in Asia sud-orientale per far loro intraprendere la strada della militarizzazione e per assicurare alle proprie forze navali maggiore accesso a strutture posizionate strategicamente.

Com’è accaduto per altri paesi, a cominciare dalle Filippine, anche i rapporti del Vietnam con la Cina si sono deteriorati in maniera significativa. Il punto più basso si era raggiunto nel 2014, quando Pechino aveva posizionato una piattaforma petrolifera nelle acque contese con Hanoi nel Mar Cinese Meridionale. L’iniziativa aveva scatenato una feroce campagna anti-cinese in Vietnam con la morte di due cittadini cinesi e la distruzione di fabbriche di proprietà taiwanese e sudcoreana, perché scambiate per cinesi.

Gli Stati Uniti hanno così da un lato soffiato sul fuoco della discordia tra i due paesi e dall’altro si sono adoperati per intensificare i legami con il Vietnam. Altamente simbolica delle intenzioni americane fu ad esempio la grandiosa accoglienza riservata al segretario del Partito Comunista vietnamita, Nguyen Phu Trong, vero depositario del potere nel suo paese, durante la visita alla Casa Bianca nel 2015.

Il rafforzamento dei rapporti con il Vietnam dovrebbe poi includere per gli USA il “pre-posizionamento” di equipaggiamenti militari in determinate strutture di questo paese. Ciò dovrebbe ufficialmente servire a fronteggiare in maniera tempestiva eventuali disastri naturali ma, di fatto, rappresenterebbe l’anticamera di un futuro dispiegamento di forze militari permanenti o “a rotazione”.

La partnership con gli Stati Uniti continua ad ogni modo a essere vista con qualche cautela dal regime di Hanoi, viste le vicende del recente passato e la tradizionale tendenza al multilateralismo della propria politica estera. Allo stesso tempo, come per altri paesi della regione, la Cina riveste un’importanza fondamentale anche per il Vietnam sul fronte degli investimenti e degli scambi commerciali.

Tuttavia, la storia dei rapporti tra i due vicini è fatta di tensioni, se non vere e proprie guerre, come quella di confine combattuta brevemente nel 1979. Questo contribuisce forse a spiegare la particolare apprensione di Pechino per le iniziative diplomatiche, economiche e militari americane nei confronti del Vietnam.

Timori che sono apparsi chiari dalle critiche esplicite rivolte alla visita di Obama da parte della stampa ufficiale cinese. Un commento dell’agenzia di stampa Xinhua, ad esempio, ha accusato gli USA di non avere “limiti nell’intromettersi nelle vicende regionali” relative al Mar Cinese Meridionale.

Lo stesso organo del governo di Pechino ha scritto domenica che la riconciliazione tra USA e Vietnam “non dovrebbe essere usata… come strumento per minacciare o addirittura danneggiare gli interessi strategici di un paese terzo”. Ancora più duramente e in maniera tutto sommato corretta, Xinhua ha affermato che Washington ha reso “alcuni paesi della regione più risoluti”, alimentando “le loro illusioni di poter continuare a sfruttare interessi illegali” nel Mar Cinese Meridionale.

Sostanzialmente allo stesso scopo di sganciare, sia pure in maniera relativa, il Vietnam dalla Cina, ma sul fronte economico, nella sua visita Obama non poteva non sollevare la questione del trattato di libero scambio denominato “Trans Pacific Partnership” (TPP), di cui il regime di Hanoi è firmatario assieme a un’altra decina di paesi asiatici e del continente americano.

In questo caso il compito del presidente Obama è quello di assicurare la leadership comunista che il Congresso di Washington alla fine ratificherà il trattato, anche se il clima elettorale negli USA e l’emergere di tendenze “isolazioniste” nella maggioranza Repubblicana suggeriscono che i tempi potrebbero non essere brevi. Il TTP serve comunque a garantire il dominio delle multinazionali USA sul commercio internazionale e rappresenta la componente economica delle manovre di accerchiamento della Cina da parte americana.

Il Vietnam resta in ogni caso un obiettivo allettante per il business a stelle e strisce. Il regime che governa questo paese ha da tempo intrapreso una strada “riformista” in ambito economico e l’adesione al TPP ha rafforzato i propositi di liberalizzazione, dalla privatizzazione delle aziende pubbliche all’abbattimento dei rimanenti ostacoli all’afflusso dei capitali esteri.

Se la visita di Obama in Vietnam e quella successiva a Hiroshima, in Giappone, in qualità di primo presidente USA in carica a recarsi sul luogo dove venne sganciato un ordigno nucleare nel 1945, dovrebbero testimoniare della volontà della Casa Bianca di guardare al futuro e mettere da parte i conflitti del passato, quello che lasciano intravedere le vicende di questi ultimi anni è in realtà la preparazione di nuove guerre ancora più rovinose.

Infatti, le questioni trattate a Hanoi da Obama non possono che essere considerate come provocazioni da Pechino, tanto più che s’inseriscono su una vera e propria escalation della rivalità tra le prime due potenze economiche del pianeta.

Dopo le polemiche americane per la presunta militarizzazione da parte cinese di alcuni lembi di terra in acque contese e l’invio ripetuto di navi da guerra USA in “ricognizione” all’interno delle acque territoriali di isole la cui sovranità è rivendicata da Pechino, proprio qualche giorno fa è stato registrato un nuovo episodio allarmante.

Il Pentagono si era cioè lamentato pubblicamente dopo che due aerei da guerra cinesi avevano intercettato in maniera “non sicura” un aereo spia americano in missione sul Mar Cinese Meridionale. Pechino aveva subito negato qualsiasi manovra pericolosa ma il possibile incidente sfiorato ha dato vita a nuove accuse e contro-accuse, mostrando la precarietà della situazione e il rischio di guerra sempre più concreto in Estremo Oriente.

di Michele Paris

Il dibattito in corso negli Stati Uniti sul possibile coinvolgimento di esponenti della monarchia saudita nell’organizzazione degli attentati dell’11 settembre 2001 si è infiammato questa settimana dopo l’approvazione di una legge cruciale da parte del Senato di Washington. Il provvedimento in questione prevede che i parenti delle vittime di attentati terroristici sul suolo americano possano denunciare in un’aula di tribunale governi stranieri che hanno avuto una qualche responsabilità in questi stessi fatti.

La questione è da collegare alle ipotesi che circolano da oltre un decennio sul finanziamento e l’assistenza logistica fornita da membri del regime di Riyadh ad alcuni degli attentatori, dei quali 15 su 19 erano appunto di nazionalità saudita. Secondo i famigliari delle vittime, e molti anche all’interno del governo americano, le prove della responsabilità del principale alleato degli USA in Medio Oriente - dopo Israele - sarebbero contenute in una sezione di 28 pagine del rapporto del Congresso sui fatti dell’11 settembre finora mai resa pubblica.

La legge approvata martedì all’unanimità dal Senato è chiamata “Justice Against Sponsors of Terrorism Act” e fissa delle eccezioni al dettato di un’altra legge del 1976 che, in larga misura, garantisce ai governi stranieri l’immunità dalle cause legali nei tribunali americani.

Il provvedimento in discussione deve essere ancora approvato dalla Camera dei Rappresentanti, ma il presidente Obama ha già annunciato di voler ricorrere al potere di veto per bloccarlo. Visto il sostegno ottenuto dalla legge al Senato, però, al momento sembrano esserci al Congresso i numeri per neutralizzare il veto della Casa Bianca.

Il presidente si è detto contrario alla legge ufficialmente perché l’eventuale incriminazione di un governo straniero negli Stati Uniti aprirebbe la strada a ritorsioni legali in molti paesi, i quali a loro volta potrebbero revocare accordi di immunità in caso di reati commessi da cittadini americani.

Se ciò è indubbiamente vero, e Obama ha tra l’altro ammesso involontariamente che il suo governo è responsabile di crimini all’estero, la prudenza della Casa Bianca nei confronti dell’Arabia Saudita sembra essere dovuta a considerazioni di natura principalmente strategica.

Per comprendere l’atteggiamento di Obama è necessario interrogarsi sulle motivazioni che hanno spinto il Congresso soltanto ora a sostenere, nientemeno che all’unanimità, una misura che viene richiesta da più parti nella società civile USA da parecchi anni.

La classe politica di Washington aveva finora sostanzialmente coperto possibili complicità dell’Arabia Saudita nei fatti dell’11 settembre, bloccando sul nascere qualsiasi iniziativa legale dei parenti americani delle vittime. Di recente, invece, sembra essersi formata una coalizione di forze ad altissimo livello che intende spazzare via l’immunità di cui gode l’alleato.

Indubbiamente, le scosse e il rimescolamento che hanno riguardato negli ultimi anni il mercato petrolifero hanno reso meno determinante il ruolo dell’Arabia Saudita per gli Stati Uniti. Tuttavia, messaggi come quello rivolto questa settimana da Washington a Riyadh implicano una volontà, piuttosto insolita nel quadro delle relazioni bilaterali, di richiamare all’ordine l’alleato, se non addirittura di punirlo, per ragioni ben precise.

Se non è semplice decifrare le sfumature di un rapporto privilegiato che dura da molti decenni, da tempo sono evidenti le frizioni tra i due paesi, quanto meno dalla rivoluzione in Egitto nel 2011 che aveva visto l’amministrazione Obama voltare le spalle al presidente Mubarak sull’onda delle proteste di piazza e in seguito al sostegno, sia pure di breve durata, al governo dei Fratelli Musulmani.

I rapporti si sono ulteriormente incrinati dopo la marcia indietro di Obama sui bombardamenti contro il regime di Assad in Siria nel 2013 e la firma dell’accordo sul nucleare iraniano lo scorso anno, che ha posto le basi per il ritorno da protagonista sullo scacchiere regionale della Repubblica Islamica, vale a dire il principale rivale della monarchia saudita.

Malgrado Washington e Riyadh condividano lo stesso obiettivo in Siria – il rovesciamento del regime alauita – l’appoggio militare e finanziario ai gruppi fondamentalisti dell’opposizione da parte saudita e le posizioni irremovibili nei confronti di Damasco devono avere inoltre suscitato le preoccupazione di molti all’interno del governo e dell’apparato militare americano.

Più in generale, gli sconvolgimenti che stanno attraversando il Medio Oriente, assieme alla necessità da parte degli Stati Uniti di orientare il proprio impegno diplomatico e militare verso Russia e Cina, cioè le reali minacce percepite al loro dominio su scala globale, hanno spinto l’amministrazione Obama a ricercare soluzioni almeno temporaneamente di relativo compromesso in questa regione.

Ciò ha inevitabilmente mandato in crisi il regime saudita che si è visto in qualche modo messo da parte dal proprio principale alleato. Riyadh ha così iniziato a percorrere strade parzialmente divergenti dagli USA, come è evidente in Siria o in Yemen, ma anche dalle aperture diplomatiche e commerciali verso Mosca e Pechino.

Nonostante tutto, l’amministrazione Obama appare molto cauta nel trattare con i sauditi, anche se l’opposizione alla legge da parte del presidente potrebbe anche essere una sorta di gioco delle parti per esercitare pressioni sugli alleati in maniera indiretta. Sezioni della classe dirigente americana sono comunque in qualche modo schierate per la protezione dei rapporti con l’Arabia Saudita, come quelle che fanno capo al direttore della CIA, John Brennan, tradizionalmente molto vicino alla monarchia del Golfo Persico.

Sul fronte legislativo a Washington, i senatori che si sono fatti promotori della recente iniziativa contro l’Arabia Saudita hanno sostenuto di avere inserito nel provvedimento una clausola che consentirebbe al dipartimento di Giustizia di sospendere i procedimenti legali contro paesi stranieri nel caso il governo dimostri di essere in grado di negoziare con questi ultimi una soluzione extragiudiziaria.

La reazione da Riyadh non si è fatta però attendere. Il ministro degli Esteri, Adel Al-Jubeir, ha affermato che la misura in discussione, se approvata, trasformerebbe “il diritto internazionale nella legge della giungla”. In precedenza, lo stesso diplomatico saudita aveva minacciato la vendita di 750 miliardi di dollari di titoli del Tesoro USA e di altri beni detenuti in America dal suo paese per evitare eventuali confische derivanti da future cause giudiziarie.

L’entrata in vigore della legge votata al Senato questa settimana potrebbe dunque portare alla declassificazione delle 28 pagine mai pubblicate del rapporto del Congresso sull’11 settembre. Per alcuni, in questa sezione non vi sarebbero prove incriminanti contro membri della casa regnante o del governo dell’Arabia Saudita, mentre altri sostengono il contrario.

Anche personalità politiche che hanno potuto leggere le famose 28 pagine indicano come in esse vi siano informazioni sul coinvolgimento di esponenti di spicco del regime nel sostenere gli attentatori. Tra di essi vi sono ex membri della commissione d’inchiesta sull’11 settembre, come l’ex senatore Democratico della Florida, Robert Graham, e l’ex segretario della Marina americana, il Repubblicano John Lehman.

Quest’ultimo, in una recente intervista al britannico Guardian, ha garantito l’esistenza di “una valanga di prove circostanziali dell’assistenza fornita da cittadini sauditi agli attentatori e alcuni di essi lavoravano per il governo di Riyadh”.

Le 28 pagine del rapporto sull’11 settembre potrebbero essere però solo una minima parte della documentazione esistente circa le responsabilità saudite, peraltro già emerse in parte da indagini giornalistiche seguite ai fatti del 2001.

La testata on-line The Daily Beast, ad esempio, settimana scorsa ha scritto che l’FBI possiede più di 80 mila documenti segreti che riguarderebbero possibili legami tra membri della famiglia reale saudita e gli attentatori. Questo materiale sarebbe all’attenzione di un giudice federale in Florida nell’ambito di un procedimento intentato da tre reporter in base alla legge sulla libertà d’informazione.

La lettura delle carte starebbe avvenendo però in maniera molto lenta a causa dell’atteggiamento dei vertici dell’FBI che stanno cercando di restringere il più possibile l’accesso ai documenti dal contenuto potenzialmente esplosivo.

di Michele Paris

La quasi certa candidata alla Casa Bianca per il Partito Democratico, Hillary Clinton, ha rimediato una pessima figura anche nelle primarie di questa settimana negli stati di Oregon e Kentucky, nonostante in quest’ultimo sia riuscita a imporsi letteralmente per una manciata di voti. La prestazione di martedì del senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha fatto così in modo che la corsa alla nomination Democratica prosegua ancora per qualche settimana, fino almeno all’appuntamento del 7 giugno in vari stati, tra cui quello con il maggior numero in assoluto di delegati in palio, la California.

Non solo l’ex segretario di Stato di Obama non è riuscita nemmeno in questa occasione a dare la spallata decisiva al suo rivale, ma per certi versi ha addirittura visto aggravarsi i segnali di debolezza già emersi in questa tornata elettorale. Sanders ha infatti vinto con un comodo margine di vantaggio in Oregon (54% a 45%) e ha sostanzialmente pareggiato in Kentucky (46,8% a 46,3%) malgrado entrambe le primarie fossero limitate ai soli elettori registrati come Democratici.

Negli stati con questa regola, Sanders non aveva mai vinto, tranne che nel Vermont, mentre i suoi successi erano giunti in “caucuses” e primarie “aperte”, cioè nelle quali possono votare per il candidato Democratico anche gli “indipendenti” e i Repubblicani.

Il team di Hillary nella nottata di martedì si è affrettato a dichiarare vittoria in Kentucky, facendo trasparire l’ansia di mettersi al sicuro dalle conseguenze di un’umiliante doppia sconfitta. La Clinton aveva recentemente annunciato lo stop delle iniziative elettorali nelle primarie, così da risparmiare denaro per le elezioni di novembre, ma la prospettiva di una sconfitta in uno stato come il Kentucky l’ha convinta a tornare sulla propria decisione.

Qui sembravano sussistere tutte le condizioni per un’affermazione convincente di Hillary. La sua nettissima vittoria su Barack Obama nel 2008 doveva ad esempio testimoniare della popolarità della ex first lady nello stato. Allo stesso modo, com’è quasi sempre accaduto nei mesi scorsi, Hillary si era assicurata il sostegno di praticamente tutto l’establishment Democratico locale, compresa la “Segretaria dello stato”, Alison Lundergan Grimes, la quale ha per legge alcune responsabilità nel processo elettorale.

Lo scarso entusiasmo per la favorita Democratica è dimostrato anche dal fatto che martedì Hillary ha ottenuto meno della metà dei voti rispetto a otto anni fa e ha ceduto a Sanders tutte le contee carbonifere del Kentucky orientale, imponendosi invece nei principali centri urbani, caratterizzati da una forte presenza di afro-americani.

Questa realtà era sembrata chiara già alla vigilia del voto, con le apparizioni pubbliche di Hillary che avevano attirato quasi sempre poche centinaia di persone, contro le migliaia mobilitatesi per Sanders. La Clinton ha alla fine deciso di non organizzare nessun evento nella serata di martedì, al contrario del suo rivale che ha tenuto un comizio a Carson, nei pressi di Los Angeles, in California, di fronte a una folla di 10 mila sostenitori.

Proprio in questa occasione, Sanders ha pronunciato un discorso tra i più di sinistra di tutta la sua campagna elettorale, sottolineando le sue origini operaie, attaccando i poteri forti e Wall Street e invitando il Partito Democratico ad aprire le porte alla “working-class” americana. Un cambiamento di tono e una sorta di appello di classe evidenziati soprattutto dall’insolito riferimento esplicito alla “working-class” come forza sociale ben definita, solitamente ignorata dalla classe politica americana se non per dipingerla come irrimediabilmente razzista e retrograda.

La ritrovata combattività di Sanders è probabilmente dovuta almeno in parte alla crescente e sempre più aperta ostilità dell’apparato di potere Democratico nei suoi confronti. Oltre alla campagna mediatica già in corso da tempo per convincerlo ad abbandonare la corsa alla nomination visto il vantaggio insormontabile di delegati accumulato da Hillary Clinton, nei giorni scorsi è partita una nuova offensiva che intende screditare i sostenitori di Sanders.

Ciò è coinciso con i disordini registrati alla convention locale andata in scena settimana scorsa a Las Vegas, dove il Partito Democratico dello stato doveva nominare un certo numero di delegati da inviare alla convention nazionale di luglio a Philadelphia. Il caos del Nevada potrebbe prefigurare, secondo alcuni, le divisioni che rischiano di emergere la prossima estate anche tra i Democratici e che erano finora rimaste in secondo piano, anche per l’attenzione della stampa concentrata in larga misura sui problemi interni al Partito Repubblicano.

A Las Vegas, l’organizzazione di Sanders si era meticolosamente adoperata per la nomina di un numero consistente di delegati favorevoli al senatore, in modo da compensare la sconfitta di misura subita nei “caucuses” del mese di febbraio. Quando i vertici del partito hanno però di fatto escluso la maggior parte dei delegati pro-Sanders, i sostenitori di quest’ultimo hanno protestato animatamente, finché l’intervento delle forze dell’ordine ha riportato la calma nell’assemblea.

I giornali americani hanno poi dato ampio spazio alle accuse della numero uno del Partito Democratico del Nevada, Roberta Lange, protagonista di un’accesa denuncia contro i sostenitori di Sanders per avere diffuso il suo numero di telefono privato, sul quale avrebbe ricevuto centinaia di telefonate e SMS intimidatori. La vicenda è stata subito raccolta dai leader del partito vicini a Hillary per invitare Sanders a condannare l’accaduto e, più o meno velatamente, a chiedergli di farsi da parte per evitare ulteriori divisioni interne.

Sanders, da parte sua, ha rilasciato una dichiarazione per denunciare eventuali violenze ma ha ribadito le accuse alla leadership Democratica di utilizzare “il proprio potere per impedire un processo equo e trasparente” nella nomina del candidato alla presidenza.

Le suppliche rivolte a Sanders per accettare il responso delle primarie e il successo di Hillary Clinton sono tanto più intense quanto risultano sempre più forti i timori nei confronti di una candidata profondamente screditata e vista con ostilità da decine di milioni di americani.

Non solo i più recenti sondaggi su base nazionale, per quello che possono valere a questo punto della stagione elettorale, mostrano come Trump abbia virtualmente chiuso il gap che lo separa da Hillary, ma quotidianamente appaiono notizie che ricordano i legami di quest’ultima con l’élite economica e finanziaria degli Stati Uniti. Anche alcune delle stesse iniziative della “frontrunner” Democratica per promuovere la propria immagine finiscono frequentemente per mettere in luce i moltissimi aspetti negativi del suo curriculum politico e personale.

Questa settimana, ad esempio, la Clinton ha reso pubblica la propria dichiarazione dei redditi relativa al 2015 nella speranza di mettere a segno qualche punto a suo favore nelle battute iniziali della sfida con Trump. Il candidato Repubblicano non ha infatti ancora deciso se far conoscere o meno agli elettori i propri redditi.

La mossa di Hillary, comune peraltro a tutti i candidati alla Casa Bianca nell’era moderna, rischia però di trasformarsi nell’ennesimo boomerang. Oltre ai 5 milioni di dollari incassati dai diritti legati alla sua biografia uscita nel 2014, la dichiarazione dei redditi di Hillary ha elencato un’altra serie di discorsi a favore di banche e corporation che le hanno fruttato singoli compensi anche superiori ai 200 mila o ai 300 mila dollari, per un totale di 1,5 milioni di dollari.

Infine, in caso di vittoria contro Trump, Hillary ha prospettato l’assegnazione al marito Bill di un ruolo di primo piano per plasmare le politiche economiche della sua futura amministrazione. L’ipotesi dovrebbe far suonare l’allarme tra gli elettori americani, vista l’implementazione da parte dell’allora presidente Clinton, con il pieno sostegno della consorte, di una disastrosa agenda economica e finanziaria neo-liberista nel corso degli anni Novanta.

di Michele Paris

Dopo il voto del Senato brasiliano che ha sospeso fino a un massimo di 180 giorni la presidente democraticamente eletta, Dilma Rousseff, il vice di quest’ultima, Michel Temer, ha assunto la guida ad interim del paese sudamericano, procedendo immediatamente a formare un nuovo governo che promette di trasformare i prossimi mesi in una sorta di orgia neo-liberista.

L’indirizzo del gabinetto di Temer era stato prospettato dal suo stesso discorso alla nazione dopo il golpe perfezionato la settimana scorsa, nel quale aveva garantito l’impegno per “riforme essenziali” e il “miglioramento delle condizioni per gli investimenti nel settore privato”. I mercati internazionali hanno subito reagito con entusiasmo alle notizie provenienti dal Brasile e ai piani di “rilancio” di un’economia in grave crisi attraverso l’imposizione di una massiccia dose di austerity che minaccia di smantellare i popolari programmi sociali messi in atto in 13 anni di governo del Partito dei Lavoratori (PT) di Dilma e Lula, che non a caso hanno denunciato la congiura di plzzo come un golpe.

L’uomo chiave scelto da Temer per effettuare il radicale cambiamento delle politiche economiche brasiliane è il nuovo ministro delle Finanze, Henrique Meirelles, già governatore della Banca Centrale brasiliana durante la presidenza Lula e con una lunga carriera nell’industria finanziaria americana, tra cui alla guida della Bank of Boston.

Assieme al riorientamento in senso neo-liberista dell’economia, la nuova amministrazione brasiliana intende operare uno spostamento strategico verso gli Stati Uniti e, sul piano domestico, ricorrere a metodi repressivi per contenere le tensioni sociali già esplosive e che aumenteranno ulteriormente nel prossimo futuro.

Il raggiungimento del primo obiettivo, in particolare, sarà compito del neo-ministro degli Esteri, José Serra, del Partito della Social Democrazia Brasiliana (PSDB) di centro-destra. Ex sindaco di San Paolo e candidato perdente alle elezioni presidenziali del 2002 e 2010, Serra è visto con estremo favore dalle compagnie petrolifere americane. Come avevano rivelato documenti diplomatici pubblicati da WikiLeaks, Serra è a favore della privatizzazione del colosso pubblico dell’energia Petrobras e della cessione alle multinazionali estere dei diritti di esplorazione dei pozzi petroliferi brasiliani recentemente scoperti.

In generale, la maggior parte dei membri del nuovo gabinetto ha legami con i poteri forti brasiliani o internazionali. Inoltre, in un paese dove più della la metà della popolazione è di razza mista, Temer ha scelto esclusivamente ministri bianchi, di origine europea e di sesso maschile.

Il profilo del governo appena installato a Brasilia conferma in modo inequivocabile come le manovre per rimuovere Dilma Rousseff dal suo incarico siano esclusivamente di natura politica. La deposta presidente, com’è noto, è accusata di avere manipolato alcune voci del bilancio federale per dare un’immagine migliore della situazione finanziaria del paese. A questa pratica, come è stato universalmente riconosciuto, hanno fatto ricorso puntualmente tutti i precedenti governi in Brasile, e non solo.

Inserendosi però in uno scenario segnato dal grave deterioramento della situazione economica, dalla crescente opposizione nel paese al governo del PT e dalle trame cospirative dell’opposizione e degli stessi alleati del PT, con il sostegno esterno di Washington, un fatto trascurabile come quello di cui è stata accusata Dilma è diventato il pretesto per ribaltare il risultato delle elezioni del 2014 e riconsegnare il Brasile nelle mani della destra.

L’intero procedimento di impeachment della presidente è stato giustamente denunciato da molti come una farsa colossale. I protagonisti principali del golpe costituzionale, così come la maggioranza di deputati e senatori che hanno votato a favore della sospensione della Rousseff, risultano coinvolti in vicende legali relative a episodi di corruzione o ad altri gravi crimini.

In particolare, il primo ad avere sollevato accuse contro la presidente, dopo che il PT non lo aveva difeso da una lunga serie di accuse per corruzione nei suoi confronti, era stato l’ormai ex presidente della Camera dei Deputati, Eduardo Cunha, il quale a inizio maggio è stato rimosso dal proprio incarico dalla Corte Suprema brasiliana per i suoi guai giudiziari. Cunha avrebbe incassato tangenti per 40 milioni di dollari, debitamente nascosti in conti svizzeri.

Colui che ha presieduto settimana scorsa al voto decisivo per la sospensione di Dilma Rousseff e per l’avanzamento dell’impeachment, il presidente del Senato, Renan Calheiros, è a sua volta al centro di una decina di procedimenti per corruzione e riciclaggio di denaro in relazione alla mega-indagine denominata “Autolavaggio” (“Lava Jato”), una sorta di “Mani Pulite” brasiliana.

Se fino ad ora non sono emerse prove del coinvolgimento di Dilma in queste vicende collegate al finanziamento illecito della politica brasiliana attraverso la compagnia Petrobras, è invece incredibilmente il presidente ad interim Michel Temer a essere implicato in casi di corruzione. Non solo, proprio la settimana scorsa Temer era stato anche multato per avere violato le norme sul finanziamento elettorale, un’accusa che potrebbe costargli l’esclusione da cariche elettive per otto anni.

Per avere un’idea della popolarità del neo-presidente, un recente sondaggio in Brasile ha rilevato come Temer sia visto con favore appena dal 2% degli intervistati e come persino il 60% di questi ultimi appoggi un eventuale procedimento di impeachment anche nei suoi confronti.

I livelli di corruzione e di illegalità in cui annega l’intera politica brasiliana e, di conseguenza, la totale illegittimità delle manovre contro Dilma Rousseff, sono evidenti infine dal fatto che circa il 60% dei membri del Parlamento brasiliano risulta incriminato o sotto indagine della magistratura.

Il ruolo chiave di Temer nella deposizione del governo del PT, nonostante il discredito che lo accompagna e i problemi con la legge, è spiegato anche e soprattutto dal fatto che l’ex vice-presidente è al vertice di una cospirazione appoggiata da interessi molto potenti e che con ogni probabilità fanno capo direttamente al governo americano.

Sempre WikiLeaks ha chiarito qualche giorno fa alcuni dei contorni dell’operazione andata in scena in Brasile, quando ha pubblicato due “cablo” dell’ambasciata USA in questo paese nei quali è emerso che Temer è stato, e probabilmente è ancora, un fidato informatore e confidente di Washington sugli equilibri politici del suo paese.

I documenti risalgono al 2006 e, in maniera significativa, contengono informazioni fornite da Temer circa la vulnerabilità dell’allora governo guidato da Lula. Punti deboli, spiegava Temer, che potevano aprire spazi alla candidatura alla presidenza di un esponente del suo partito/contenitore, il Partito del Movimento Democratico Brasiliano (PMDB).

I legami di Temer con Washington e la regia, o quanto meno la supervisione, americana dietro la rimozione di Dilma Rousseff erano stati confermati anche dal viaggio negli Stati Uniti del senatore Aloysio Nunes, presidente della commissione Esteri, dopo che la Camera dei Deputati aveva votato a favore dell’impeachment nel mese di aprile. La trasferta di Nunes, intrapresa per aggiornare l’amministrazione Obama su quanto stava accadendo in patria, secondo molti era stata ordinata proprio da Michel Temer.

Il golpe brasiliano è in definitiva la risposta della destra indigena e dei grandi poteri economico-finanziari domestici e internazionali alla gravissima crisi che sta colpendo la settima economia del pianeta a causa della cattiva gestione dell’amministrazione Rousseff e, soprattutto, del crollo dei prezzi dei beni brasiliani destinati all’export.

Se il governo del PT subito dopo la rielezione di Dilma aveva avviato un timido tentativo di ridimensionare le proprie politiche sociali, il rapido deterioramento del quadro economico ha reso necessario un cambio di rotta più incisivo. Ciò ha portato a una procedura di impeachment studiata a tavolino e condotta con metodi profondamente anti-democratici, nella quale molti dei protagonisti principali sono stati gli stessi alleati con cui il PT ha governato per oltre un decennio.

Il governo appena nato su basi illegali a Brasilia dovrà ora fare i conti con una forte opposizione popolare per far digerire le misure di devastazione sociale che si prospettano. Inoltre, le ramificazioni dell’indagine “Lava Jato” minacciano di coinvolgere anche membri del gabinetto Temer o lo stesso presidente ad interim, con conseguenze tutte da verificare.

Allo stesso tempo, però, questa stessa inchiesta dei magistrati brasiliani è stata utilizzata per colpire ulteriormente un partito, come il PT, che conserva una solida base di consenso nel paese, a cominciare dal suo esponente più autorevole, l’ex presidente Lula, probabilmente l’unico in grado di fermare l’offensiva della destra e di generare una significativa mobilitazione popolare in vista del prossimo appuntamento con le urne.


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