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di Mario Lombardo
Il discorso di lunedì del presidente americano Obama al Pentagono ha preceduto di poche ore l’arrivo a Mosca del segretario di Stato, John Kerry, per una visita, a detta del Cremlino, voluta dalla stessa Casa Bianca allo scopo di testare la possibilità di proseguire i negoziati per una soluzione politica della crisi in Siria. I toni usati da Obama sono stati però tutt’altro che pacifici e la sua apparizione presso il centro nevralgico della macchina da guerra USA è apparso a molti come un tentativo di placare gli animi dei “falchi” che all’interno della classe dirigente americana chiedono un intervento più incisivo in Medio Oriente, ufficialmente per sconfiggere lo Stato Islamico (ISIS/Daesh).
La presunta efficacia dei bombardamenti dei jet americani e degli alleati di Washington contro l’ISIS/Daesh nelle ultime settimane è stata al centro del discorso del presidente, assieme alla promessa di colpire ancora più duramente i fondamentalisti che continuano a controllare una porzione significativa di territorio tra la Siria e l’Iraq.
I media ufficiali hanno descritto l’intervento di Obama come una sorta di nuova dichiarazione di guerra all’ISIS/Daesh, senza interrogarsi sugli oltre dodici mesi di conflitto già trascorsi con risultati oggettivamente trascurabili.
Il discorso di Obama ha comunque suggellato un’escalation interventista iniziata almeno dall’attentato di Parigi del 13 novembre scorso e che ha avuto un’ulteriore impennata dopo la strage di San Bernardino, in California, a inizio dicembre. Dopo la decisione presa dalla Casa Bianca di inviare nella regione altre truppe delle Forze Speciali, attualmente attive in territorio siriano, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno approvato l’intervento delle rispettive forze aeree nel paese sconvolto dalla guerra contro il regime di Assad.
L’intensificazione del conflitto annunciata sinistramente da Obama questa settimana mette dunque di fronte sempre più nel teatro di guerra in Siria un numero crescente di potenze con interessi contrastanti, rendendo complicato anche solo l’avvio di un percorso diplomatico.
La questione più scottante riguarda sempre il futuro del presidente siriano Assad e il ruolo che dovrebbe svolgere nel potenziale processo di transizione che si sta cercando di negoziare. Lo scontro sulla posizione del leader alauita (sciita) consiste in realtà nell’orientamento strategico che la nuova Siria dovrà avere, se rimarrà cioè allineata all’Iran e alla Russia o diventerà invece un altro fantoccio filo-americano.
Washington e i regimi sunniti mediorientali intendono ovviamente liquidare Assad, anche se soprattutto gli Stati Uniti sembrano avere ammorbidito la loro posizione in proposito, lasciando intendere che il presidente siriano potrebbe rimanere al suo posto durante il periodo iniziale della transizione politica.
Molto meno concilianti sono al contrario la Turchia, l’Arabia Saudita e le altre monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico, le quali gradirebbero un’uscita di scena immediata di Assad, preferibilmente in maniera volontaria oppure attraverso la forza delle armi dei gruppi fondamentalisti che esse stesse appoggiano.
Questa identica posizione è stata assunta recentemente anche da svariate formazioni dell’opposizione siriana, riunitesi a Riyadh per trovare un accordo su una linea comune in vista dell’avvio delle trattative con i rappresentanti del governo di Damasco. Nonostante la dichiarazione congiunta emessa al termine dei lavori, il summit è stato caratterizzato da aspre divisioni interne all’opposizione, a conferma della sostanziale impossibilità di creare un fronte unito che possa presentarsi come interlocutore credibile nel processo di pace.
Questa difficoltà deriva dal fatto che praticamente nessuno dei gruppi che combattono contro Assad dispone di una reale base popolare in Siria, essendo piuttosto e in larga misura guerriglieri e mercenari al servizio di potenze straniere o fondamentalisti ugualmente sovvenzionati da Ankara, Abu Dhabi, Doha o Riyadh. Non a caso, infatti, sia il governo russo che quello iraniano hanno condannato il meeting nella capitale saudita, dove a loro dire erano presenti anche i rappresentanti di organizzazioni terroristiche.
Il futuro di Assad è stato in ogni caso discusso martedì a Mosca tra Kerry e il suo omolgo russo, Sergey Lavrov, e tra il numero uno della diplomazia USA e il presidente russo Putin. Sia Kerry che Lavrov hanno auspicato il raggiungimento di un compromesso tra Stati Uniti e Russia, visto che almeno a livello ufficiale entrambe le potenze considerano l’ISIS/Daesh come una minaccia globale.
Per il Cremlino, inoltre, l’attitudine dell’amministrazione Obama sarebbe cambiata negli ultimi tempi e risulterebbe evidente una minore ostilità nei confronti della Russia, con implicazioni potenzialmente positive riguardo la situazione in Siria.
In realtà, la relativa moderazione della Casa Bianca, a fronte delle spinte per scatenare una nuova guerra totale provenienti dal Partito Repubblicano e da molti anche tra quello Democratico, nasconde l’intenzione di giungere tramite il negoziato allo stesso obiettivo finora mancato con la forza. E questo obiettivo – la rimozione di Assad – continua a essere diametralmente opposto a quello perseguito dalla Russia.
I tentennamenti di Obama e le oscillazioni del suo governo tra gli sforzi diplomatici e una strisciante escalation militare vanno letti probabilmente secondo un’ottica interna. Se, da un lato, l’attenzione della Casa Bianca sembra essersi posata in gran parte sulla competizione con la Cina in Asia orientale e l’appetito per trascinare gli Stati Uniti in un nuovo conflitto rovinoso in Medio Oriente con decine di migliaia di soldati sul campo è decisamente scarso, dall’altro Obama deve far fronte in qualche modo alle pressioni interne e mostrare il proprio impegno a risolvere la crisi siriana senza sacrificare gli interessi americani.
Ad ogni modo, la fluidità della situazione è confermata dal fatto che fino a martedì non era ancora chiaro se il prossimo round di negoziati sulla Siria, previsto per il fine settimana a New York, avrebbe avuto luogo. La decisione di procedere in questo senso è giunta solo in seguito al vertice di Mosca, anche se già la prima questione sulla quale servirà un’intesa per fare qualche passo avanti rischia di mandare in crisi l’intero processo.
Come stabilito nel precedente incontro di Vienna, i governi coinvolti nelle discussioni dovranno accordarsi su una lista comune di formazioni terroriste operanti in Siria che saranno escluse dai negoziati. Il compito di stilare questo elenco è stato assegnato alla Giordania, sul cui governo in molti stanno esercitando forti pressioni per includere i gruppi preferiti o escludere quelli sgraditi.
Anche tra USA e Russia sembra esserci poco accordo su questo punto. Una delle critiche che Washington rivolge puntualmente a Mosca è infatti quella di bombardare forze anti-Assad diverse dall’ISIS/Daesh, tra le quali spiccano però formazioni integraliste violente come il Fronte al-Nusra - filiale ufficiale di al-Qaeda in Siria - Ahrar al-Sham e altre di importanza relativamente minore, ovvero una galassia jihadista, spesso propaganda come “moderata”, utilizzata più o meno apertamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati come forza d’urto per abbattere il regime di Assad a Damasco.
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di Michele Paris
Sebbene il Fronte Nazionale (FN) di Marine Le Pen non sia alla fine riuscito a conquistare nessuna delle regioni francesi dopo il secondo turno del voto amministrativo di domenica, i risultati hanno nondimeno fatto registrare una nuova solidissima prestazione del partito di estrema destra, largamente favorito dalla deriva reazionaria dell’intero quadro politico “repubblicano” d’oltralpe.
Il mancato successo del FN è apparso relativamente sorprendente in particolare in due regioni - Nord-Pas de Calais-Picardie e Provence-Alpes-Côte d’Azur - dove al primo turno, rispettivamente, la stessa Marine Le Pen e la giovanissima nipote, Marion Maréchal-Le Pen, avevano superato il 40%, staccando in modo molto netto i rispettivi rivali.
I candidati del FN erano inoltre finiti al ballottaggio in tutte e dodici le regioni nelle quali dal 2010 è suddivisa la Francia continentale, così che in molti si aspettavano la conquista di una o più presidenze da parte dei neo-fascisti.
A determinare il risultato di domenica sono stati principalmente due fattori. Il primo e più confortante è la difesa dei valori repubblicani da parte della maggioranza degli elettori francesi, recatisi alle urne in numero maggiore rispetto al primo turno chiaramente con l’obiettivo di negare anche solo una vittoria parziale a un partito razzista, xenofobo, negazionista, anti-repubblicano e discendente del collaborazionismo nazista di Vichy.
L’altro aspetto cruciale è stato l’invito ai propri elettori da parte del Partito Socialista (PS) a votare per il candidato del principale partito di opposizione di centro-destra - I Repubblicani (LR) - in seguito al ritiro dei propri candidati che avevano diritto a presentarsi al secondo turno nelle tre regioni dove il FN sembrava avere concrete possibilità di vittoria: Nord-Pas de Calais-Picardie, Provence-Alpes-Côte d’Azur e Alsace-Champagne-Ardenne-Lorraine. In qust’ultima regione, la decisione dei vertici del PS era stata respinta dal candidato locale, Jean-Pierre Masseret, il cui nome era rimasto sulle schede elettorali.
I Repubblicani dell’ex presidente, Nicolas Sarkozy, hanno alla fine conquistato sette regioni. Solo cinque sono andate invece ai Socialisti. L’esito finale è stato così sostanzialmente simile a quello visto in varie occasioni negli anni scorsi in risposta all’avanzata elettorale del FN, ostacolato al momento decisivo dal cosiddetto “Fronte Repubblicano”.
Questa strategia, messa in atto dalle forze politiche che dominano tradizionalmente il panorama politico francese, in questa tornata elettorale ha dato però segnali di cedimento, se non è addirittura sembrata crollare in maniera clamorosa. Il primo ministro Socialista, Manuel Valls, aveva innanzitutto limitato il ritiro dei candidati del suo partito a tre regioni, mentre Sarkozy, con una scelta che ha peraltro incontrato resistenze interne a LR, aveva invece confermato tutti i propri candidati nel secondo turno.
La fine del “Fronte Repubblicano” segnala un ulteriore preoccupante passo avanti nel processo di integrazione del FN, considerato sempre più come una forza politica legittima, nonostante la retorica di Socialisti e gollisti nelle ultime settimane. D’altra parte, questa evoluzione è quanto meno sintomatica, poiché sia i precedenti governi sotto la presidenza Sarkozy sia, ancor più, quelli seguiti all’elezione del Socialista Hollande hanno essi stessi mostrato un totale disprezzo per quei valori repubblicani che avevano motivato una sorta di fronte comune contro l’ascesa dell’estrema destra.
Le parole del premier Valls prima del voto su una Francia di fronte a una scelta tra il FN, “che promuove le divisioni e può portare a una guerra civile”, e “la Repubblica con i suoi valori” suonano vuote per milioni di francesi. Ugualmente, gli appelli a fare il possibile per evitare che il prossimo appuntamento con le urne si trasformi in un nuovo trionfo per il Fronte rappresentano un tentativo da parte del governo di sottrarsi alle proprie enormi responsabilità.
Al di là dei proclami pubblici, c’è da chiedersi come i Socialisti o gli stessi gollisti, nel caso dovessero tornare al potere, intendano contrastare il FN, visto che sono state precisamente le loro politiche anti-sociali e guerrafondaie a gettare le basi per la crescita esponenziale della destra estrema in Francia.
Se, indubbiamente, il FN è una forza con tendenze profondamente anti-democratiche, malgrado il processo cosmetico di cambiamento portato avanti dall’attuale leader dopo l’espulsione dal partito del padre, Jean-Marie Le Pen, lo stesso Partito Socialista al governo è gravemente responsabile del sostanziale calpestamento dei principi democratici e dello smantellamento dei diritti sociali in Francia.
Le invocazioni da parte dei leader Socialisti dei valori repubblicani e della difesa della democrazia contro l’abisso in cui il FN minaccia di trascinare il paese sono giunte significativamente nel pieno di un’offensiva contro le libertà civili in nome della “guerra al terrorismo” che prospetta, senza esagerazioni, la trasformazione della Francia in uno stato di polizia o in una dittatura presidenziale.
Dopo avere fatto approvare una nuova legge che assegna alle forze di sicurezza poteri di sorveglianza sulla popolazione praticamente assoluti, il presidente Hollande e il governo Valls hanno ottenuto l’imposizione per tre mesi di uno stato di emergenza in seguito agli attentati di Parigi del 13 novembre scorso. Non solo, l’Eliseo intende implementare una modifica costituzionale che consenta al presidente di dichiarare unilateralmente lo stato di emergenza e, quindi, la sospensione dei basilari principi democratici senza nemmeno l’autorizzazione del Parlamento.
Queste iniziative, assieme alle avventure belliche all’estero e soprattutto gli attacchi allo stato sociale e ai diritti dei lavoratori, hanno creato una profonda disillusione tra gli elettori francesi di cui continua a beneficiare il Fronte Nazionale. Non a caso, una delle regioni dove il partito di Marine Le Pen ha fatto registrare i risultati migliori è stata il Nord-Pas de Calais-Picardie, tradizionale roccaforte Socialista duramente colpita dal devastante processo di deindustrializzazione degli ultimi decenni.
Se il FN è stato in parte fermato in questa occasione, a impedirne l’ulteriore avanzata non saranno in nessun modo le iniziative dei Socialisti o del LR. Anzi, quella che dopo il ballottaggio di domenica appare a molti come un’eventualità più lontata, cioè la vittoria nelle presidenziali del 2017 di Marine Le Pen, rischia di diventare un pericolo reale nei prossimi mesi se, com’è probabile, proseguirà lo spostamento verso destra del baricentro politico nazionale. Il suo partito, a fronte dell’incapacità di conquistare una sola regione, ha infatti appena ottenuto il maggior numero di voti della sua storia.
Una realtà, quella del FN, che i vertici del PS e del LR hanno riconosciuto dopo la chiusura delle urne. Evitando opportunamente i toni trionfalistici, Valls e Sarkozy hanno entrambi ricordato come la minaccia dell’estrema destra sia ben lontana dall’essere sparita dopo il provvisorio sospiro di sollievo tirato al termine delle elezioni di domenica scorsa.
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di Mario Lombardo
I recenti episodi di terrorismo in Francia e negli Stati Uniti hanno rianimato un dibattito di cui non si sentiva la necessità sui rischi presumibilmente connessi alle comunicazioni criptate degli utenti privati che utilizzano dispositivi elettronici. Negli USA, in particolare, esponenti politici e dell’apparato della sicurezza nazionale stanno in questi giorni chiedendo a gran voce iniziative legali che consentano alle autorità di penetrare questi sistemi utilizzati da molte aziende tecnologiche per garantire la sicurezza e la privacy dei loro clienti.
Già dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, qualche voce all’interno del governo americano aveva preso di mira i sistemi di crittografia, accusati di facilitare le comunicazioni tra terroristi pur senza alcuna prova concreta in relazione agli autori della strage nella capitale francese.
Il direttore dell’FBI, James Comey, era stato in quell’occasione tra i più fermi sostenitori della necessità di dotare l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) degli strumenti legali per accedere alle comunicazioni criptate degli utenti privati.
Il sistema definito in inglese “End-to-end encryption” (E2EE) garantisce la sicurezza delle comunicazioni attraverso la rete internet tra due dispositivi, impedendo che i dati scambiati vengano intercettati da terzi. In questo modo, i dati inviati da un utente vengono appunto criptati e possono essere decodificati solo dal dispositivo che li riceve.
La chiave per accedere alle comunicazioni è normalmente sconosciuta anche ai provider dei servizi di rete e ai realizzatori delle applicazioni. I sistemi di crittografia sono previsti su molti modelli di smartphone ormai da qualche tempo, in particolare dopo le rivelazioni sugli abusi della NSA da parte di Edward Snowden, e garantiscono livelli di privacy variabile.
Il numero uno dell’FBI ha comunque sfruttato anche il recente attentato di San Bernardino, in California, per tornare all’attacco della crittografia. Nel corso di un’audizione davanti alla commissione Giustizia del Senato USA, mercoledì Comey ha definito “utile” un intervento del Congresso di Washington su tale questione.
Per il capo del “Bureau”, sarebbe vitale nella guerra al terrore avere accesso alle comunicazioni codificate, sia pure dietro mandato di un tribunale. Comey ha citato poi discussioni che egli stesso avrebbe avuto con i vertici di alcune compagnie tecnologiche, giungendo alla conclusione che la scelta di queste ultime di dotare i propri dispositivi con questi sistemi non risponde a uno scrupolo per la privacy degli utenti ma ha a che fare piuttosto con ragioni di “business”. Per l’FBI, insomma, le aziende dovrebbero accogliere le richieste provenienti dal governo e convincersi dell’opportunità di realizzare sistemi di crittografia accessibili.
Comey ha ricordato infatti che molte compagnie operano già secondo le indicazioni delle autorità, con sistemi cioè penetrabili in presenza di un mandato emesso da un giudice. Significativamente, lo stesso direttore dell’FBI ha aggiunto che fino a dodici mesi fa non vi era particolare interesse tra gli acquirenti a scegliere un dispositivo che garantisse la privacy totale. Il cambiamento di attitudine di molti è avvenuto proprio in seguito alle rivelazioni di Snowden sui rischi per la privacy nelle comunicazioni elettroniche.
L’insistenza con cui viene chiesto un giro di vite sulla crittografia è la conseguenza del fatto che questo sistema è uno degli ultimi baluardi rimasti, e facilmente ottenibile, per la difesa del diritto alla riservatezza dei cittadini. L’esistenza di un buco nero nel quale agenzie governative come la NSA non possono penetrare per controllare le comunicazioni risulta perciò intollerabile.
Nel tentativo di creare un clima di emergenza, come se la presenza dei sistemi E2EE sui dispositivi elettronici assicurasse l’organizzazione continua di trame terroristiche al di fuori dei radar delle autorità, pur senza presentare alcuna prova Comey ha citato un esempio concreto della possibile interferenza della crittografia su un’indagine dell’FBI.
Il caso sarebbe stato quello dello scorso maggio a Garland, nel Texas, quando due uomini armati attaccarono un sito espositivo dove era in corso una provocatoria mostra con immagini del profeta Muhammad. Secondo Comey, poco prima dei fatti uno dei due attentatori aveva “scambiato 109 messaggi con un terrorista all’estero”, il cui contenuto rimase off-limit per le forze di polizia.
Come ha ricordato la testata on-line The Intercept, in realtà, l’FBI teneva sotto sorveglianza da tempo uno dei due uomini e, anche con gli strumenti a disposizione, era venuto a conoscenza dei piani terroristici. L’FBI sostenne di avere avvertito la polizia della città di Garland circa la minaccia imminente, anche se quest’ultima avrebbe poi negato di essere stata allertata dai federali.
Nel recente attacco di San Bernardino non è in ogni caso chiaro se i due attentatori abbiano utilizzato un sistema di codifica sui propri dispositivi per organizzare la strage. Ciò non ha però impedito a Comey di indicare la crittografia come un ostacolo nella lotta al terrorismo.
Prevedibilmente, nemmeno i senatori della commissione Giustizia hanno mostrato qualche scrupolo per il diritto alla privacy dei cittadini. Anzi, molti di essi hanno riconosciuto la presunta minaccia e prospettato iniziative di legge per il prossimo futuro.
La ex presidente della commissione del Senato per i Servizi Segreti, la democratica Dianne Feinstein, ha affermato che, “se c’è un complotto in atto tra sospetti terroristi che usano dispositivi criptati”, le loro comunicazioni codificate “devono poter essere penetrate”. Per il falco repubblicano John McCain, invece, dopo i fatti di Parigi - nei quali, come già spiegato, non è stata raccolta nessuna prova sull’uso da parte degli attentatori di sistemi di comunicazione criptati - “lo status quo non è più sostenibile”.
Alla Casa Bianca, per il momento, sembra prevalere una certa prudenza, anche se dal Dipartimento di Giustizia già qualche mese fa si era detto che, in qualche modo, sarebbe stato “necessario” costringere le compagnie tecnologiche a piegarsi sulla questione della crittografia.
L’atteggiamento dell’amministrazione Obama potrebbe riflettere lo scarso entusiasmo diffuso tra queste aziende per una modifica dell’attuale sistema. Dopo le rivelazioni di Snowden c’è infatti maggiore consapevolezza tra gli utenti americani circa i rischi per la loro privacy e un passo indietro da parte delle maggiori compagnie su pressioni del governo potrebbe provocare contraccolpi negativi per gli affari.
Molti esperti, infine, fanno notare come un allentamento della sicurezza per consentire al governo di intercettare le comunicazioni criptate potrebbe far aumentare il rischio che queste stesse comunicazioni possano essere esposte ad attacchi non autorizzati, favorendo il rischio del furto di dati o di violazione della privacy.
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di Michele Paris
Il fascismo strisciante che pervade la classe dirigente americana continua a trovare sfogo nelle uscite pubbliche del candidato alla presidenza per il Partito Repubblicano, Donald Trump. La più recente “proposta” dell’attuale favorito per la nomination, cioè lo stop pressoché totale all’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti, è stata condannata da molti a Washington, anche se essa si inserisce in un clima di isteria anti-islamica che la politica e i media ufficiali sembrano alimentare in maniera deliberata.
L’imprenditore miliardario aveva affermato lunedì nel corso di un comizio in South Carolina che la misura sarebbe di natura temporanea, in attesa che il governo elabori una strategia adatta contro la minaccia del terrorismo jihadista. Per giustificare il divieto di ingresso negli USA per coloro che professano la fede musulmana, Trump ha fatto riferimento alla decisione presa dall’amministrazione Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale di chiudere in campi di detenzione gli immigrati di origine giapponese, tedesca e italiana, vale a dire a uno degli episodi più gravemente lesivi delle libertà individuali nella storia americana.
Trump è stato subito investito da un’ondata di polemiche ma il giorno successivo ha rilasciato una serie di interviste televisive nelle quali ha soltanto parzialmente rettificato le precedenti dichiarazioni, sostenendo che i musulmani con cittadinanza americana sarebbero esclusi dal bando nel caso tornassero negli USA dopo essersi recati all’estero, per poi confermare sostanzialmente i concetti già espressi.
Simili “sparate” di Donald Trump non sono una novità per la campagna elettorale in corso e in molti continuano a minimizzarne la portata, giudicandole come l’espressione di un candidato imprevedibile e fin troppo schietto, sebbene attestato su posizioni decisamente estreme rispetto al baricentro politico Repubblicano.
Se le affermazioni di Trump appaiono per contenuto e forma effettivamente al di là di quanto i suoi colleghi repubblicani hanno proposto in questi mesi, la sostanza delle sue parole è tuttavia di fatto coerente con la linea avanzata dal partito e dagli altri candidati alla Casa Bianca.
Il secondo favorito alla nomination repubblicana nei sondaggi, il senatore del Texas Ted Cruz, aveva ad esempio già chiesto di vincolare l’accoglimento dei profughi siriani alla loro fede, ammettendo i cristiani ed escludendo invece i musulmani. Più di un’aspirante alla presidenza, tra cui lo stesso Trump, si era detto inoltre favorevole a mettere sotto sorveglianza tutte le moschee sul suolo americano.
Almeno anche un politico Democratico, il sindaco di Roanoke, in Virginia, qualche settimana fa aveva citato favorevolmente l’internamento degli americani di origine giapponese durante il secondo conflitto mondiale, lasciando intendere che quel provvedimento adottato in piena guerra contro il nazi-fascismo potrebbe essere ipotizzabile anche oggi, essendo in atto una guerra contro il fondamentalismo islamista.
La deriva autoritaria che lasciano intravedere simili dichiarazioni conferma la disposizione anti-democratica della classe dirigente borghese negli Stati Uniti e non solo. A ricordare la disponibilità a calpestare senza troppi scrupoli gli stessi principi democratici fissati da quest’ultima era stato quasi due anni fa il giudice ultra-reazionario della Corte Suprema, Antonin Scalia, il quale in un discorso pubblico aveva invitato i suoi ascoltatori a non illudersi circa la possibilità che l’istituzione di campi di detenzione per gli oppositori dello stato non possa tornare a essere una realtà anche oggi nell’eventualità di una qualche crisi nazionale.
Il ritorno nel dibattito politico di richieste e proposte più adatte a uno stato totalitario che non a una democrazia liberale non è ovviamente un’esclusiva degli Stati Uniti. L’istigazione di sentimenti anti-musulmani e xenofobi, assieme all’ingigantimento di una minaccia terroristica che è peraltro la conseguenza delle politiche occidentali di aggressione dei paesi arabi, è alla base di recenti leggi e disegni di legge per aumentare a dismisura i poteri di sorveglianza delle forze di sicurezza - come in Francia e in Gran Bretagna - o ha già favorito il via libera parlamentare all’autorizzazione ad allargare le operazioni di guerra contro l’ISIS/Daesh dall’Iraq alla Siria, com’è accaduto ancora a Londra.
Tornando agli Stati Uniti, anche gli stessi critici di Donald Trump sono responabili del clima di eccitazione anti-musulmana, a cominciare dall’amministrazione Obama. Il presidente Democratico ha tenuto un discorso al paese sul terrorismo domenica scorsa, nel quale ha tra l’altro attaccato i Repubblicani per le loro proposte anti-islamiche, tralasciando però di ricordare come la politica estera da egli stesso promossa continui a risolversi in guerre devastanti e occupazioni militari di paesi musulmani.
Sul fronte Repubblicano, poi, sono state molteplici le voci di coloro che hanno sostanzialmente approvato la più recente proposta di Trump. Il già citato senatore Cruz, considerato in ascesa dai sondaggi più recenti, ha formalmente respinto lo stop indiscriminato agli ingressi dei musulmani negli USA ma ha elogiato il suo collega/rivale per avere sollevato la questione della sicurezza dei confini americani.
Altri ancora hanno cercato di giustificare le loro simpatie per le tirate fascistoidi di Trump con la presunta sintonia di quest’ultimo con la popolazione statunitense. Trump, cioè, starebbe soltanto dando voce a sentimenti razzisti diffusi nel paese, quando in realtà, a parte alcune frange estreme e l’elettorato Repubblicano facente capo al fondamentalismo cristiano, sembra esserci ben poco entusiasmo per le posizioni di estrema destra della classe dirigente di Washington tra lavoratori e classe media. Politici e media agitano piuttosto lo spettro dell’islamismo integralista per avanzare la propria agenda reazionaria e dividere la popolazione lungo linee razziali e religiose, oscurando deliberatamente le implicazioni di classe alla base della crisi della società americana.
Il più recente prodotto legislativo di questo clima avvelenato è stata l’approvazione questa settimana da parte della Camera dei Rappresentanti di una serie di restrizioni al programma trentennale di ingresso negli Stati Uniti senza la necessità di un visto per i cittadini di 38 paesi. La misura, che dovrebbe servire a rendere più sicuro il paese, ha ottenuto il sostegno di ogni singolo deputato Repubblicano e della larghissima maggioranza di quelli Democratici.
La nuova legge, appoggiata anche dalla Casa Bianca, dovrà ora superare l’ostacolo del Senato e potrebbe imporre controlli più severi su coloro che intendono entrare negli USA dopo avere visitato negli ultimi cinque anni almeno uno di questi quattro paesi: Iran, Iraq, Siria e Sudan.
La preoccupazione principale che avrebbe guidato la stesura del provvedimento è legata al numero relativamente elevato di cittadini europei recatisi in Siria per combattere nei ranghi dell’ISIS/Daesh, poi tornati in patria e quindi potenzialmente in grado di entrare in America senza la necessità di ottenere un visto.
Anche sorvolando sul fatto che, almeno inizialmente, i musulmani con passaporto di un paese occidentale che hanno raggiunto la Siria sono stati spesso incoraggiati dai loro governi, visto l’identico obiettivo dell’abbattimento del regime di Assad, la misura in discussione al Congresso di Washington va considerata come un altro dei tentativi di alimentare i sentimenti anti-islamici e di ampliare i poteri di controllo sui singoli cittadini.
Infatti, le restrizioni al regime “visa-free” sarebbero implementate principalmente in risposta alla strage della scorsa settimana a San Bernardino, in California, dove hanno perso la vita 13 persone.
Questa legge, però, non avrebbe contribuito a evitare il massacro, visto che Tashfeen Malik, una dei due responsabili dell’attacco assieme al marito di passaporto USA, Syed Farook, non era giunta negli Stati Uniti dal Pakistan grazie a questo programma, bensì a un altro lasciato inalterato dal provvedimento, quello ciè che consente di evitare le pratiche per l’ottenimento di un visto ai futuri coniugi di un cittadino americano.
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di Michele Paris
Attraverso operazioni clandestine dirette dalla CIA, il governo americano continua a mantenere in vita almeno una forza speciale in territorio afghano, composta da soldati indigeni che combattono ufficialmente i Talebani pur macchiandosi di svariati crimini contro i civili con la benedizione di Washington. Se l’esistenza della cosiddetta Forza di Protezione di Khost (KPF), attiva nell’omonima provincia dell’Afghanistan orientale al confine con le aree tribali del Pakistan, è ben nota, una recente indagine del Washington Post ha spiegato il suo modus operandi, nonché i legami con la principale agenzia di intelligence USA e una serie di episodi cruenti mai documentati in precedenza e seguiti praticamente da nessuna conseguenza legale.
Le testimonianze raccolte dall’autore dell’articolo riguardano sei blitz della KPF avvenuti solo negli ultimi dodici mesi, durante i quali gli obiettivi delle operazioni hanno puntualmente sentito parlare in lingua inglese uomini armati con interpreti al seguito. Secondo il Post, i membri di questa forza speciale “raramente vengono incriminati per le morti indiscriminate” che provocano ed essa risulta “talmente potente e clandestina che le sue vittime di rado sono in grado di ottenere risarcimenti” per i danni subiti.
Formalmente, la KPF opera sotto il comando della Direzione Nazionale per la Sicurezza di Kabul - ovvero il servizio segreto afgano - ma in realtà a dirigere e finanziare le sue azioni è di fatto la CIA. Questo modello di gestione delle operazioni contro “insorti” e “terroristi” appare sempre più caratteristico dell’amministrazione Obama, intenzionata a ridurre al minimo indispensabile la presenza militare USA in paesi stranieri dopo la rovinosa esperienza dell’Iraq e, appunto, dell’Afghanistan.
La presenza della CIA dietro la KPF rappresenta però una palese contraddizione della politica ufficiale della Casa Bianca in relazione all’occupazione dell’Afghanistan. Solo lo scorso mese di ottobre, il presidente Obama aveva annunciato il prolungamento della permanenza di oltre cinquemila soldati americani nel paese centro-asiatico, fondamentalmente con due incarichi: addestrare le forze armate locali e combattere al-Qaeda.
Com’è noto, invece, le truppe di occupazione USA e quelle afgane conducono la propria guerra pressoché esclusivamente contro i Talebani, vista anche la quasi totale assenza del fondamentalismo qaedista in questo paese. Ciò conferma la natura dell’occupazione americana, ben lontana dall’essere un’impresa contro il terrorismo internazionale, quanto piuttosto uno sforzo per sostenere il governo-fantoccio di Kabul contro l’avanzata di una forza locale che, per quanto reazionaria e oscurantista, non ha altro che un’agenda domestica.
La KPF opera così in maniera congiunta con la CIA dalla base americana di Camp Chapman, nella stessa provincia di Khost. Come spiega il Washington Post, quest’ultima sarebbe molto probabilmente già nelle mani dei Talebani o dei loro alleati del clan Haqqani senza la presenza della KPF, portando quindi una minaccia molto seria nei confronti della non lontana capitale afgana.
Alcune voci apparse sui giornali americani lo scorso anno avevano descritto come la CIA stesse smantellando le proprie unità paramilitari in Afghanistan, tra cui la stessa KPF, nell’ambito del relativo disimpegno militare USA nel paese. Per il Washington Post, invece, una recente visita nella provincia di Khost ha confermato come la CIA continui a “dirigere le operazioni dell’unità speciale”, così come a “pagare gli stipendi dei suoi membri, ad addestrarli e a fornire gli equipaggiamenti” necessari.
Se l’impiego di forze clandestine afgane è sufficiente a generare preoccupazioni per il mancato rispetto dei diritti umani, i dubbi sono amplificati proprio dalla costante presenza della CIA. L’agenzia di Langley non è infatti tenuta al rispetto dell’Accordo Bilaterale sulla Sicurezza siglato tra Kabul e Washington per garantire la presenza militare americana in Afghanistan.
Questa intesa prevede tra l’altro restrizioni alla facoltà delle forze USA di fare irruzione nelle abitazioni civili afgane, ovvero di condurre i cosiddetti “raid notturni”, portati a termine ufficialmente a scopi anti-terroristici ma che provocano spesso vittime civili innocenti ed estremo risentimento tra la popolazione. L’ex presidente afgano, Hamid Karzai, era stato costretto a vietare queste incursioni nel 2013, anche se in base all’accordo bilaterale il suo più docile successore, Ashraf Ghani, le ha in seguito nuovamente consentite se condotte sotto la direzione dei propri militari.
La CIA non è inoltre soggetta alle procedure previste dalla Legge Leahy che obbligano gli Stati Uniti a valutare il rispetto dei diritti umani delle forze armate straniere sostenute finanziariamente o logisticamente. Questa eccezione, d’altra parte, serve tradizionalmente agli USA per appoggiare forze criminali per i propri fini strategici pur nel formale rispetto dei diritti umani.
Tra i casi narrati dal Washington Post vi è quello relativo a un raid notturno condotto lo scorso settembre nella località di Tor Ghar. A ricordare l’episodio è il cittadino afgano Darwar Khan, il quale sostiene che gli uomini della KPF spararono al padre non appena quest’ultimo aprì la porta della sua abitazione durante il blitz. Subito dopo una granata venne gettata all’interno, provocando la morte della madre.
L’obiettivo presunto dell’operazione doveva essere uno zio di Darwar Khan che viveva in un edificio vicino ed era colpevole di avere acquistato e rivenduto Kalashnikov, secondo il Post “non esattamente il tipo di sospetto di alto profilo solitamente perseguito dalla CIA”. Alcuni giorni dopo, i vertici della KPF avrebbero riconosciuto l’errore e consegnato al figlio delle due vittime 11 mila dollari di risarcimento.
Altre testimonianze parlano di detenzioni presso la base americana di Camp Chapman e di relativi maltrattamenti e torture. Un recente rapporto ONU ha poi rivelato come cinque persone arrestate tra il 2013 e il 2014 dagli uomini della KPF e della CIA fossero stati sottoposti a “maltrattamenti” e due di essi a quelle che potevano essere classificate come “torture”.
Quando le operazioni della KPF provocano dei morti, molto difficilmente i responsabili sono chiamati a fare i conti con la giustizia. Sei mesi fa, ad esempio, uno studente di 17 anni che stava attraversando un posto di blocco della KPF mentre ascoltava musica dalle cuffie è stato ucciso perché non aveva sentito l’ordine di fermarsi. L’assassinio non è stato seguito da nessuna indagine e il governo ha offerto alla famiglia del ragazzo cinquemila dollari come risarcimento.
L’unico episodio che ha registrato incriminazioni e un processo risale al dicembre del 2014, quando 14 membri della KPF aprirono il fuoco contro un edifico, all’interno del quale venne ucciso un 14enne. Il padre, che nulla aveva a che fare con i Talebani, riuscì ad avere una qualche forma di giustizia solo perché era un ex comandante mujahedeen con amicizie nel governo di Kabul.
La KPF fu costretta a consegnare alle autorità di polizia tre suoi combattenti e durante il processo emerse come il team protagonista del raid avesse piazzato un fucile AK-47 vicino al corpo del giovane ucciso per farlo apparire armato. Alla fine, uno degli accusati venne assolto mentre gli altri due ricevettero condanne a dieci anni di carcere.
Gli abusi delle forze speciali attive a Khost con il pieno appoggio della CIA contribuiscono inevitabilmente ad accrescere il risentimento degli afgani nei confronti dell’occupazione statunitense. L’anti-americanismo a Khost si traduce così frequentemente in marce di protesta dirette alla base di Camp Chapman ogniqualvolta si verifichi una o più vittime della missione “liberatrice” USA contro la minaccia talebana.