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di Michele Paris
Il nuovo round dei colloqui di pace sulla Siria previsti a partire da lunedì a Ginevra è stato rinviato almeno di qualche giorno in seguito al persistere dei differenti punti di vista tra le varie potenze coinvolte attorno a una serie di questioni preliminari. In primo luogo, le divergenze sono emerse a proposito delle forze e dei gruppi di opposizione al regime di Assad che dovrebbero essere invitati al tavolo dei negoziati.
Gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, la Turchia e i loro alleati nel conflitto siriano ritengono che l’unica formazione “ribelle” accreditata nelle trattative con Damasco dovrà essere la commissione formata all’indomani di un incontro non privo di tensioni patrocinato da Riyadh alcune settimane fa. Di questo organo fanno parte però varie organizzazioni armate che, legittimamente, la Russia considera di natura terroristica e, di conseguenza, dovrebbero essere ecluse dalle trattative di pace.
In cima alla lista dei gruppi sgraditi a Mosca ci sono Jaish al-Islam e Ahrar al-Sham, entrambi legati alla filiale di al-Qaeda in Siria - il Fronte al-Nusra - e al centro degli sforzi di Washington e della monarchia saudita per essere inclusi nell’opposizione da considerare “moderata”. Con il sostegno di Riyadh, qualche giorno fa la commissione per i negoziati che dovrebbe presentarsi a Ginevra ha adottato una decisione provocatoria, nominando come capo negoziatore proprio il leader politico di Jaish al-Islam, Mohammed Alloush.
I governi che si battono per il rovesciamento di Assad si sono detti finora contrari all’inclusione di una terza delegazione da invitare ai colloqui di Ginevra, come proposto da Mosca e Damasco, formata ad esempio dai curdi siriani delle Unità di Protezione Popolare (YPG) o da rappresentanti della società civile.
Di fronte alle posizioni contrastanti, il segretario di Stato americano, John Kerry, nel corso di una visita in Laos lunedì ha annunciato che l’inizio dei negoziati è stato spostato, dal momento che “è meglio un rinvio di qualche giorno piuttosto che assistere al crollo [delle trattative]” prima che esse abbiano inizio. Sempre lunedì, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura, ha manifestato l’intenzione di inaugurare i colloqui venerdì prossimo, pur non nascondendo le difficoltà.
Il diplomatico italo-svedese ha fatto sapere che martedì verranno inviato gli inviti alle parti coinvolte. In questa fase, i negoziati dovrebbero durare dalle due alle tre settimane, per concludersi, nella migliore delle ipotesi, in un cessate il fuoco per consentire l’accesso in Siria di aiuti umanitari.
Il governo di Assad ha da parte sua già dato da tempo la propria disponibilità a mandare a Ginevra una delegazione per trattare un eventuale processo di pace e di transizione che dovrebbe portare a elezioni in Siria entro 18 mesi. L’opposizione sponsorizzata da Riyadh chiede però che, prima di sedersi al tavolo delle trattative, Damasco implementi alcune misure previste dalla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, tra cui lo stop ai bombardamenti e agli “assedi” delle aree controllate dai “ribelli”.
Le difficoltà che stanno incontrando i negoziati di pace anche solo per prendere il via dimostrano quanto sia in salita la strada verso una risoluzione diplomatica della crisi che dura ormai da quasi cinque anni. Dietro alle dispute a cui si sta assistendo in questi giorni ci sono d’altra parte sempre gli interessi divergenti tra gli attori impegnati sui due fronti contrapposti in Siria.
Da un lato, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Medio Oriente, dietro la guerra allo Stato Islamico (ISIS), continuano ad appoggiare le milizie dell’opposizione, incluse quelle di orientamento fondamentalista se non apertamente terrorista, per raggiungere il loro vero obiettivo, cioè la rimozione del regime di Damasco.
Soprattutto la Turchia, poi, mantiene rapporti ambigui con lo stesso ISIS, come dimostrato dalla Russia qualche settimana fa, preferendo di gran lunga la presenza del “califfato” oltre il confine meridionale al coagularsi di un semi-stato curdo.
D’altro canto, l’intervento militare diretto della Russia dallo scorso settembre a fianco dell’alleato siriano ha stabilizzato il regime di Assad, permettendo anzi a quest’ultimo di recuperare territori in mano ai “ribelli”. L’efficacia dei bombardamenti russi ha così stravolto i piani di USA, Turchia e Arabia Saudita, nonostante l’impegno di questi paesi nel sostenere l’opposizione armata in Siria.
Washington, così come i suoi alleati, non ha tuttavia modificato il proprio obiettivo strategico finale in Siria ma, essendo cambiata la realtà sul campo dopo l’azione del Cremlino, intende raggiungerlo con un mix di impegno militare e manovre diplomatiche. Infatti, negli ultimi mesi esponenti dell’amministrazione Obama e vertici militari USA hanno alternato dichiarazioni e iniziative a sostegno dei negoziati di pace ad annunci circa un maggiore dispiegamento di forze in Iraq e in Siria, ufficialmente sempre per combattere l’ISIS.
Se è vero che Washington ha ammorbidito la propria posizione sul ruolo di Bashar al-Assad, smettendo di chiedere le sue dimissioni come condizione preliminare per l’avvio dei negoziati, d’altro canto non ha mai fatto mancare l’appoggio sostanziale alle posizioni estreme sulla crisi in Siria di Turchia e Arabia Saudita, malgrado l’opera altamente destabilizzante portata avanti da entrambi i paesi. Kerry e il vice-presidente USA, Joe Biden, non a caso hanno visitato rispettivamente Riyadh e Istanbul recentemente, evitando qualsiasi critica ai due regimi e confermando invece la soddisfazione del loro governo per il comportamento degli alleati.
Una notizia che ha confermato questa disposizione americana è stata quella diffusa nel fine settimana circa la creazione di una base militare USA nella Siria nord-orientale non lontano dal confine con la Turchia. L’iniziativa dovrebbe servire ufficialmente a ospitare un certo numero di membri delle Forze Speciali in appoggio ai “ribelli” impegnati contro l’ISIS.
Soprattutto, però, oltre a essere una gravissima violazione della sovranità siriana, la decisione di Washington rischia di provocare uno scontro con le forze russe presenti in Siria, visto che Mosca, con il consenso del governo legittimo di Damasco, starebbe valutando a sua volta la possibilità di costruire una struttura fortificata nella stessa area.
La Russia intende rafforzare la propria presenza lungo il corridoio che collega la Siria alla Turchia per bloccare il transito di uomini, armi e denaro destinati all’opposizione armata anti-Assad, cosa che Ankara ha al contrario cercato di evitare di fare, ben sapendo che una simile iniziativa assesterebbe un colpo mortale alle milizie “ribelli” che perseguono i suoi stessi obiettivi, a cominciare da quelle di tendenze fondamentaliste.
La notizia della mossa americana è giunta comunque singolarmente in concomitanza con la riconquista da parte dell’esercito di Damasco, con l’appoggio aereo di Mosca, della località di Rabia, in mano ai “ribelli” fin dal 2012 e ritenuta cruciale per il controllo della provincia costiera di Latakia, vera e propria roccaforte alauita (sciita) del regime di Assad.
Quest’ultimo successo militare delle forze governative deve avere gettato molti ancor più nello sconforto a Washington, nonché, ad Ankara, il presidente turco Erdogan e il suo primo ministro Davutoglu. A Rabia erano presenti gruppi armati facenti capo al Fronte al-Nusra e di etnia turcomanna, finora strenuamente difesi dalla Turchia. Queste formazioni rischiano poi di subire altri rovesci nel prossimo futuro, come ha spiegato un comandante dell’esercito siriano all’agenzia di stampa francese AFP, visto che Damasco e Mosca utilizzeranno Rabia come base per lanciare operazioni contro postazioni “ribelli” nella vicina provincia di Idlib in direzione est.
L’offensiva russo-siriana sta sempre più minacciando le rotte dei rifornimenti considerate vitali per le milizie anti-Assad, con possibili effetti sui negoziati di Ginevra. A fronte della campagna mediatica occidentale, i delegati delle formazioni che dovrebbero sedersi al tavolo delle trattative, oltre a non avere di fatto alcuna base di sostegno popolare in Siria, potranno esibire una sempre più ridotta influenza sulle vicende militari sul campo. Ciò trasformerà in poco più di una farsa la loro pretesa, e quella dei loro sponsor, di dettare le condizioni per il raggiungimento di una soluzione pacifica del conflitto, cominciando dall’estromissione di Assad dal processo di transizione politica.
Con la situazione sul campo che si sta venendo a creare, dunque, i negoziati di “pace” potrebbero diventare, per gli Stati Uniti e i loro alleati dentro e fuori la Siria, un modo per guadagnare tempo e fermare in qualche modo l’avanzata delle forze regolari contro la galassia dei “ribelli”/terroristi anti-Assad, in modo da riorganizzare queste milizie e cercare di ristabilire gli equilibri, se necessario anche attraverso l’impegno diretto, o la minaccia di esso, in territorio siriano.
La soluzione negoziata non è mai stata d’altra parte un’opzione acettabile per la fine della crisi in Siria da parte dell’Occidente e dei regimi mediorientali sunniti, a meno che non preveda la sottomissione di Assad o la sua deposizione. Quest’ultima ipotesi è però sempre più improbabile, visti gli sviluppi sul fronte militare, così che, al di là dell’avvio o meno di Ginevra III nei prossimi giorni, è tutt’altro che inverosimile attendersi un nuovo tentativo di escalation del conflitto da parte di coloro che, a Washington, Ankara o Riyadh, rischiano di veder svanire il sogno del cambio di regime a Damasco su cui hanno investito massicciamente in questi ultimi anni.
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di Carlo Musilli
Non c'è “nessuna sospensione di Schengen sul tavolo” della Commissione europea, dicono da Bruxelles, ma non sarebbe la prima volta che l’Unione finge di non vedere una catastrofe mentre si consuma sotto i suoi occhi. Germania, Austria, Croazia, Francia, Svezia e Danimarca hanno già ripristinato i controlli alle frontiere. Si tratta di operazioni che potranno durare soltanto fino a maggio - a meno di una revisione del Trattato sulla libera circolazione -, ma la dicono lunga sul clima politico che si respira in Europa nelle ultime settimane.
In gioco c’è l’accordo del 1993 che abolisce i controlli doganali sulle persone alle frontiere fra (quasi) tutti i Paesi dell’Unione europea. E’ una conquista culturale ancor prima che economica e probabilmente rappresenta l’esito migliore di ciò che ha fin qui partorito il progetto europeo. Privarsene vuol dire ridurre l’Europa all’Eurozona, ossia alla valuta unica e alle politiche monetarie. Vuol dire insomma rinunciare all’ultima ragione di orgoglio.
Eppure, le voci contro Schengen si moltiplicano nelle destre di tutta l’Unione. Lo scopo finale è chiaramente l’abolizione del Trattato, ma per il momento si punta a un obiettivo intermedio, ovvero l'attivazione di quell'articolo 26 che autorizza a reintrodurre le frontiere in tutta l'area per un periodo di due anni.
Gli alfieri di questa battaglia di retroguardia fanno leva come sempre sulle paure più elementari, sull’attitudine ancestrale e irrazionale al razzismo e alla xenofobia. Il flusso di migranti in arrivo dall’Africa e dal Medio Oriente (profughi siriani, ma non solo) e la paura di nuovi attentati terroristici aumentata dopo i fatti di Parigi, sono il carburante di cui si nutre questa campagna reazionaria e retrograda, che si diffonde in Europa come un tumore. Non solo: i due fenomeni vengono mescolati, confusi ad arte, infilando nello stesso pentolone populista assassini e disperati, tanto che alla fine parlare di migrazioni e di terrorismo sembra la stessa cosa.
Chi rimane nella sfera della razionalità si rende conto che - se escludiamo il ritorno elettorale di cui certamente beneficeranno i partiti di destra - non esiste alcun motivo sensato per chiedere la sospensione di Schengen. Partiamo dalle considerazioni materiali: innanzitutto, l’addio al Trattato comporterebbe un costo inaudito. Quando furono aboliti i controlli alle frontiere interne dei Paesi europei, il Fondo monetario internazionale calcolò che il ritorno positivo in termini di interscambio comunitario sarebbe stato dell’1-3%.
Secondo una stima per difetto, quella percentuale oggi vale almeno 28 miliardi di euro, ma la somma potrebbe anche superare quota 50. E’ in quest’ordine di numeri che si posiziona il surplus di affari permesso dalla libera circolazione. Se mettessimo Schengen nel cassetto, rinunceremmo di punto in bianco a queste risorse, affossando definitivamente ogni velleità di ripresa dopo la recessione passata e la stagnazione presente. E per cosa?
La sicurezza, si dice. Ma davvero? Peccato che i terroristi con cui l’Isis ha colpito fossero quasi sempre europei, in molti casi già noti alle forze di polizia e ai servizi segreti per la loro radicalizzazione. Erano noti anche i loro spostamenti in Siria e i loro successivi viaggi di ritorno in Europa. Poliziotti e 007 non hanno alcun bisogno dell’aiuto dei doganieri per trovare queste informazioni: le hanno già.
D’altra parte, qualcuno può pensare che le frontiere sarebbero utili da un punto di vista strettamente operativo, ossia nella cattura dei terroristi. Per credere questo bisogna immaginare che, dopo essersi sottoposte a un addestramento militare, queste persone attraversino le frontiere con i kalashnikov nello zaino.
Anche per quanto riguarda i migranti, pensare che l’addio a Schengen migliorerebbe la situazione è quanto mai illusorio. Al contrario, significherebbe dare ragioni a personaggi come il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, che per primo ha rilanciato la politica dei muri quali barriere fisiche sui confini. Iniziative del genere, oltre a evocare periodi bui che credevamo superati, sono del tutto inutili, perché non funzionano come deterrente agli occhi di chi fugge con la famiglia da bombe e pallottole. E se non funzionano i muri o i reticolati, che speranza hanno le pattuglie di doganieri?
Gli agenti potranno anche fermare i migranti con la forza, ma cambieranno il volto del problema invece di risolverlo. A quel punto dovremo inventare una soluzione per le migliaia di persone ammassate alle frontiere, e nel frattempo - senza dubbio - ne continueranno ad arrivare altre. Lasciarsi trascinare nella spirale degli egoismi nazionali, in cui ciascuno pensa al proprio giardinetto qui ed ora, è il modo migliore per perdere di vista il quadro generale e la visione prospettica richiesta per approcciare fenomeni così ampi complessi.
Parafrasando un film di qualche anno fa, chiudere le frontiere ci aiuterebbe ad affrontare i problemi del terrorismo e delle migrazioni come masticare una gomma a risolvere un’equazione di terzo grado.
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di Michele Paris
Il presidente cinese, Xi Jinping è impegnato questa settimana in una visita di cinque giorni in Medio Oriente e in Africa settentrionale per rafforzare i legami economici e strategici con paesi che nell’ultimo periodo si trovano al centro di tensioni e accese dispute. In particolare, due delle tre destinazioni del leader del Partito Comunista cinese sono Arabia Saudita e Iran, con i cui governi Pechino proverà a mantenere relazioni fruttuose e cordiali nonostante l’aggravamento delle divisioni che mettono sempre più su posizioni opposte i due rivali regionali.
Xi è atterrato a Riyadh nella giornata di martedì e la più che calorosa accoglienza ricevuta dal regime ha subito messo in chiaro l’importanza dei rapporti tra i due paesi. L’Arabia Saudita è il primo fornitore di petrolio e, dal 2013, il più importante partner commerciale in Asia occidentale della Cina. Gli scambi bilaterali hanno superato i 69 miliardi di dollari nel 2014, con un incremento di 230 volte dal 1990, anno in cui Cina e Arabia Saudita hanno stabilito relazioni diplomatiche.
Se il mercato cinese è oggettivamente di fondamentale importanza per il greggio esportato dalla monarchia saudita, questi numeri e l’irrobustimento dei legami bilaterali sono probabilmente da collegare anche alle relative frizioni emerse negli ultimi anni tra Riyadh e l’alleato americano a causa della divergenza di vedute di natura tattica con quest’ultimo su varie questioni che hanno interessato la regione (Egitto, Siria, Iran).
Infatti, dopo il faccia a faccia di martedì, Xi e il sovrano saudita, Salman bin Abdulaziz, hanno annunciato un innalzamento delle relazioni bilaterali, trasformandole ufficialmente in una “partnership strategica comprensiva”. Come ha raccontato l’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua, “le due parti hanno anche sottoscritto un memorandum d’intesa sulla cooperazione in ambito industriale” e firmato accordi vari nei settori “aerospaziale, dell’energia, delle comunicazioni, dell’ambiente, della cultura, della scienza e della tecnologia”.
L’interesse cinese è d’altra parte quello di integrare l’Arabia Saudita nell’ambizioso progetto definito “One Belt One Road” per sviluppare infrastrutture e scambi commerciali est-ovest lungo l’antica “Via della Seta”.
A livello generale, la visita del presidente Xi rientra negli sforzi cinesi di intraprendere politiche più attive in Medio Oriente, principalmente al fine di salvaguardare i propri interessi energetici. Il petrolio non esaurisce però la questione dei rapporti tra Pechino e questa parte del continente asiatico, come ha confermato la presentazione proprio la scorsa settimana del primo documento strategico relativo al mondo arabo redatto dalla Cina.
La stabilità dell’area e la sicurezza delle forniture energetiche sono comunque intrecciate per la leadership Comunista e da ciò deriva l’impegno diplomatico di Pechino su vari fronti di crisi in Medio Oriente, come quello del nucleare iraniano e della guerra in Siria.
In un’intervista rilasciata a Channel News Asia un paio di giorni fa, Francesco Sisci ha poi ricordato come la Cina abbia un interesse diretto nel contenimento dello scontro settario in atto in Medio Oriente, vista l’esposizione al rischio fondamentalista della regione dello Xinjiang, dove vivono dieci milioni di musulmani Uighuri.
Se l’impulso dato alle relazioni con l’Arabia Saudita è un fattore relativamente nuovo per la Cina, più consolidato è invece il rapporto con l’Iran, ultima meta della trasferta di Xi Jinping dopo Riyadh e Il Cairo. Molti osservatori, soprattutto in Occidente, hanno sottolineato in questi giorni la coincidenza della visita a Teheran con la fine delle sanzioni economiche internazionali applicate alla Repubblica Islamica.
In questi anni, la Cina ha mantenuto intensi rapporti economici con l’Iran, sia pure riducendo la quantità di petrolio importato, e l’obiettivo sembra ora essere quello di mantere la propria influenza in un paese che sta per aprirsi ai mercati e al capitale internazionale. Non a caso, Xi sarà il primo leader di una potenza mondiale a recarsi a Teheran dalla cancellazione delle sanzioni in questo inizio di 2016.
Anche in questo caso, la questione del petrolio non è l’unica a caratterizzare l’equazione Cina-Iran. Nel già ricordato piano di integrazione eurasiatica perseguito da Pechino, la Repubblica Islamica dovrebbe svolgere un ruolo decisamente di primo piano, vista l’importanza strategica di un territorio situato all’incrocio di rotte che collegano il Vicino Oriente e l’Europa con l’Asia centrale e quella orientale.
Rispetto ai concorrenti europei e asiatici, la Cina parte dunque da una posizione di vantaggio nella “corsa” all’Iran. Qui, secondo Bloomberg News, operano già quasi un centinaio di compagnie cinesi e nel corso della visita di Xi saranno probabilmente siglati altri accordi economici di rilievo. Per l’agenzia iraniana Tasnim, ad esempio, sarebbero alle battute finali le trattative per la costruzione da parte di aziende cinesi di due centrali nucleari in Iran.
In concomitanza con l’arrivo di Xi Jinping in Medio Oriente, l’organo del Partito Comunista Cinese in lingua inglese, Global Times, ha pubblicato un editoriale nel quale ha ribadito i principi che guidano la politica estera del regime. L’articolo ha insistito sul tradizionale impegno cinese nel non interferire nelle vicende interne dei propri partner economici e nell’evitare di mettere i propri interessi davanti a quelli degli altri paesi.
I principi di uguaglianza e rispetto che starebbero alla base della condotta cinese all’estero, ha ricordato Global Times, sono differenti da quelli di altre potenze che, senza che la testata lo abbia ricordato esplicitamente, hanno enormi reponsabilità nel caos che regna oggi in Medio Oriente.
Le parole dell’editoriale uscito martedì servono indubbiamente a cercare di promuovere l’immagine benevola della Cina nei paesi toccati dalla presenza del presidente Xi, ma non solo. Esse rivelano anche un certo nervosismo nella classe dirigente cinese per la sfida che si trova si fronte in un teatro caldo come quello mediorientale.
La questione è stata affrontata da un punto di vista diverso soprattutto dai media occidentali, a cominciare da quelli americani, i quali, equiparando sostanzialmente le modalità della politica estera USA a quella cinese, hanno definito senza indugi la visita di Xi come il riflesso della volontà di Pechino di mostrare i muscoli e, quindi, la propria influenza, in una regione cruciale per l’intero pianeta.
In effetti, se la gestione delle questioni internazionali di Stati Uniti e Cina è totalmente diversa, così come le conseguenze della loro presenza al di fuori dei rispettivi confini, tra le righe di commenti simili si può forse intravedere il punto chiave del viaggio del presidente cinese e delle preoccupazione che stanno alla base delle discussioni in cui è impegnato questa settimana.
Come sta accadendo in Estremo Oriente, la crescente influenza della Cina oltre i propri confini determina una progressiva e inevitabile escalation del confronto con gli Stati Uniti e i suoi interessi strategici ed economici. Il tentativo di Pechino di istituire legami più profondi con i paesi del Medio Oriente rischia perciò di aggravare ulteriormente lo scontro con Washington, da dove lo sforzo per il mantenimento della supremazia nel mondo arabo ha già prodotto una lunga serie di conflitti spesso devastanti.
In un frangente storico caratterizzato dall’inasprirsi degli scontri e della competizione a livello internazionale, così, la strategia cinese di mantenere buoni rapporti con tutti i paesi, sia che siano posizionati dalla stessa parte o su fronti diversi in un determinato conflitto, potrebbe essere messa quanto meno a dura prova già nell’immediato futuro.
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di Michele Paris
La classe dirigente del pianeta si appresta da mercoledì a partecipare al consueto Forum Economico Mondiale di Davos in un clima internazionale mai così cupo e minaccioso dalla presunta fine della crisi globale del 2008. Ad anticipare l’arrivo delle élite politiche ed economiche nell’esclusiva località alpina svizzera è stata come al solito la pubblicazione del rapporto Oxfam sulle disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, giunte ormai a livelli più che insostenibili.
Secondo lo studio della no-profit britannica, appena 62 individui, dei quali molti presenti a Davos, nel 2015 sono giunti a detenere ricchezze pari a quelle che è costretta a spartirsi metà della popolazione terrestre, ovvero più di 3,5 miliardi di persone. Questo livello di ricchezza era concentrato nelle mani di 338 persone soltanto cinque anni fa.
La barzelletta dell’impegno dei potenti riuniti in Svizzera per mettere un freno alle disparità economiche mondiali - ripetuta costantemente alla vigilia del summit - è smascherata appunto dal fatto che la polarizzazione delle ricchezze è aumentata in maniera rapida negli ultimi anni. Ad esempio, la ricchezza a disposizione dei 62 uomini o donne più ricchi del pianeta è salita del 44% dal 2010, mentre quella nelle mani della metà più povera del pianeta è crollata del 41%.
Le caratteristiche tutt’altro che inevitabili di questi processi sono confermate, tra l’altro, da uno studio dell’università di Berkeley citato da Oxfam, secondo il quale singoli e aziende custodiscono 7.600 miliardi di dollari in paradisi fiscali “offshore”. Anche ammettendo la legittimità di queste ricchezze, la sottrazione di esse ai rispettivi sistemi fiscali priva ogni anno i vari governi di qualcosa come 190 miliardi di dollari di entrate e, quindi, di risorse teoricamente indirizzabili verso programmi sociali di vitale importanza.
Da questo scenario, prodotto direttamente dalla crisi del capitalismo globale, derivano una serie di questioni e di crisi che saranno con ogni probabilità al centro degli incontri di Davos, al di là dell’argomento ufficiale del vertice, ovvero la “Quarta Rivoluzione Industriale”.
Dagli effetti del rallentamento della crescita dell’economia cinese alla disoccupazione, dal crollo del prezzo delle risorse energetiche al rischio esplosione di una nuova bolla finanziaria, dall’aumento delle tensioni sociali al moltiplicarsi delle agitazioni dei lavoratori in tutto il mondo, i motivi per tenere in apprensione i convenuti nel “resort” elvetico sono molteplici.
I fattori che hanno permesso a pochi individui di arricchirsi ed entrare oppure guadagnare posizioni nel club dei miliardari a partire dal 2008 sono in definitiva gli stessi che hanno determinato la mancata ripresa dell’economia reale o, per meglio dire, che hanno gettato le fondamenta per l’esplosione di una nuova crisi globale.
Ciò a cui si è assistito è stata piuttosto una continua concentrazione delle ricchezze verso il vertice della piramide sociale, oltretutto a un ritmo più sostenuto del previsto. La stessa Oxfam dodici mesi fa si aspettava che l’1% della popolazione mondiale giungesse a controllare ricchezze maggiori del rimanente 99% solo nel 2016, mentre ciò è accaduto già nel corso dell’anno da poco concluso.
Un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, quello che continua a essere registrato, che è inestricabilmente legato alle politiche messe in atto dai governi di tutto il mondo, fatte di austerity, smantellamento dei diritti dei lavoratori e implementazione di misure da stato di polizia per il controllo e la repressione del dissenso.
L’altra faccia della stessa medaglia che ha favorito questa evoluzione è rappresentata dalle iniziative delle grandi aziende, restie a investire ma impegnate a tagliare costi e personale, progettare fusioni e acquisizioni, riacquistare proprie azioni ed erogare dividendi agli azionisti. Il tutto con il sostegno delle politiche delle banche centrali che hanno messo a disposizione o, nel caso dell’Europa, continuano a mettere a disposizione quantità infinite di denaro virtualmente senza alcun costo.
I fatti di questi ultimi sette anni hanno aperto gli occhi a centinaia di milioni di persone in tutto il mondo circa i meccanismi e le regole del capitalismo internazionale e delle “democrazie” liberali. Per questa ragione, le illusorie esortazioni di organizzazioni come Oxfam, indirizzate ai leader politici e del business globale per adoperarsi a inveritre la rotta in merito alle disuguaglianze, suonano del tutto vuote, se non come una vera e propria beffa, dal momento che sono precisamente questi ultimi i responsabili di quanto viene denunciato.
In una dichiarazione che ha accompagnato il già citato rapporto, il direttore esecutivo di Oxfam, Winnie Byanima, ha affermato assurdamente che “le preoccupazioni dei leader mondiali per le crescenti disuguaglianze non si sono per ora tradotte in azioni concrete”.
Tralasciando qualsiasi considerazione sul grado di auto-illusione delle parole della numero uno di Oxfam, azioni concrete in questo senso non sono giunte proprio perché le “preoccupazioni” dei governi un po’ ovunque sono in realtà diametralmente opposte. Iniziative più che efficaci sono state in realtà messe in atto, ma per un obiettivo contrario, ovvero la salvaguardia dei livelli di profitto degli strati più ricchi della popolazione.
La ragione dell’esplosione delle disuguaglianze e del peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, secondo le classi dirigenti di tutto il mondo, sarebbe da collegare principalmente, come suggerisce lo stesso argomento scelto per il forum di Davos di quest’anno, ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel nuovo secolo.
A spiegare questa interpretazione artificiosa è stato settimana scorsa anche il presidente americano Obama nel corso del suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione a Washington. Obama ha definito questi cambiamenti come portatori di “opportunità” ma anche la causa dell’aumento delle disuguaglianze.
Come se fossimo davanti a un fenomeno impersonale e inarrestabile, il presidente USA ha poi ricordato che le “aziende, in un’economia globalizzata, devono far fronte a una concorrenza spietata e possono delocalizzare ovunque”, così che “i lavoratori hanno meno potere” per far valere i propri diritti e negoziare adeguamenti di stipendio. Le aziende, allora, “sono meno vincolate alle comunità” in cui operano e, in definitiva, l’intero processo fa sì che “sempre maggiore ricchezza e redditi siano concentrati verso l’alto”.
Ben lontana dall’essere una dinamica di questo genere, la concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi e l’impoverimento di massa di centinaia di milioni (se non miliardi) di persone è la conseguenza di politiche deliberate e del funzionamento di un sistema economico in stato di avanzato deterioramento, in grado soltanto di produrre devastazione sociale, crisi internazionali e conflitti rovinosi.
Di fronte a problematiche di questa portata, la funzione di summit come quello al via da mercoledì a Davos sembra essere dunque quella di consentire ai governi e ai miliardari che li controllano di preparare risposte - improntate rigorosamente a politiche di classe - alla nuova imminente crisi del sistema, in modo da farla gravare ancora una volta sulle spalle di coloro che ne hanno pagato il prezzo più caro in questi ultimi durissimi anni.
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di Mario Lombardo
Il previsto esito delle elezioni presidenziali e parlamentari di sabato scorso a Taiwan rischia di introdurre un nuovo elemento generatore di tensioni in un continente asiatico già segnato dalle conseguenze destabilizzanti del riallineamento strategico operato dagli Stati Uniti. Anche se il successo del Partito Democratico Progressista (DPP) di opposizione, tradizionalmente più freddo nei confronti di Pechino rispetto ai rivali del Kuomintang (KMT), non comporterà mosse clamorose nel prossimo futuro, come una possibile dichiarazione formale di indipendenza dalla Cina, il processo di integrazione di Taiwan con la madrepatria potrebbe infatti subire una battuta d’arresto e invertire la tendenza che ha segnato questi ultimi otto anni.
Le previsioni che indicavano un cambio della guardia alla guida dell’isola non sono state dunque smentite alla chisura delle urne. La candidata del DPP, Tsai Ing-wen, è stata eletta presidente con il 56% dei consensi, contro appena il 31% raccolto da Eric Chu del KMT. Quattro anni fa, Tsai era stata battuta di misura dal presidente uscente, Ma Ying-jeou, impossibilitato a ricandidarsi quest’anno dopo avere esaurito il massimo di due mandati previsti dalla legge.
Il DPP ha anche ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento unicamerale di Taiwan (68 su 113), sottratto al controllo del KMT per la prima volta dal 1949. L’ormai ex partito di maggioranza ha ottenuto solo 36 seggi, mentre quelli rimanenti sono andati a partiti minori e a candidati indipendenti.
La campagna elettorale che ha preceduto il voto dello scorso fine settimana aveva avuto al centro dell’attenzione la situazione economica di Taiwan, visto il peggioramento dello scenario in seguito alla contrazione registrata nell’ultimo trimestre del 2015 e a una crescita di appena l’1% su base annua. Parallelamente, il rallentamento dell’economia cinese e le difficoltà dell’economia mondiale hanno pesato in maniera decisiva sull’export taiwanese, crollato di oltre il 10% nel 2015.
Tutto ciò ha influito in maniera decisiva sulle fortune del KMT, visto soprattutto che il presidente uscente aveva promesso livelli di crescita sostenuta grazie alla distensione e al rafforzamento dei legami economici con Pechino. A partire dal 2008, Ma Ying-jeou e il suo governo avevano siglato una serie di accordi commerciali e di investimento con la Cina, generando di conseguenza un clima di distensione come mai si era visto in passato. Lo scorso novembre a Singapore, Ma e il presidente cinese, Xi Jinping, erano stati anche i primi leader di Taiwan e Repubblica Popolare Cinese a incontrarsi di persona dal 1949.
Al di là dei recenti affanni dell’economia cinese che hanno avuto effetti negativi su Taiwan, gli ostacoli alla politica del KMT erano già apparsi evidenti nel 2014 con la nascita di un movimento studentesco di protesta (“Movimento dei Girasoli”) che contestava un nuovo accordo commerciale con Pechino relativo al settore dei servizi.
La mobilitazione aveva avuto il proprio culmine nell’occupazione del parlamento di Taipei per impedire la ratifica dell’accordo e rifletteva sostanzialmente le posizioni degli interessi economici taiwanesi preoccupati per le conseguenze della concorrenza cinese sull’isola. A queste sezioni del business indigeno fa riferimento anche il DPP della neo-presidente Tsai, la quale è riuscita inoltre a raccogliere il consenso degli elettori più colpiti dal rallentamento dell’economia con una serie di proposte di stampo populista.
Nella serata di sabato, comunque, Tsai si è affrettata ad assicurare che la sua amministrazione non intende provocare alcuna scossa sul fronte delle relazioni con Pechino, da dove sono subito giunti “inviti” al DPP a evitare anche solo la retorica dell’indipendentismo. In un intervento televisivo in campagna elettorale, inoltre, la candidata alla presidenza per l’opposizione aveva assicurato che, una volta eletta, non avrebbe “messo in atto provocazioni” o preso iniziative “a sorpresa”. Allo stesso tempo, la neo-presidente ha però ribadito la necessità del rispetto della “identità nazionale” e dello “spazio internazionale” di Taiwan per non “compromettere la stabilità delle relazioni” bilaterali.
Le questioni economiche di Taiwan sono d’altra parte intrecciate a quella dei rapporti con la Cina e, secondo gli osservatori, la sfida del DPP nei prossimi quattro anni consisterà principalmente nel riuscire a mantenere le promesse di crescita soddisfacendo le aspettative dei propri sostenitori che chiedono politiche più autonome da Pechino rispetto a quelle perseguite dal Kuomintang.
La differenza principale tra il KMT e il DPP, e che potrebbe generare tensioni in prospettiva futura, risiede nel fatto che quest’ultimo partito – di orientamento indipendentista – non condivide l’intesa informale con Pechino sul principio di “una sola Cina”, sia pure interpretato in maniera differente dalle due parti.
La leadership cinese vede cioè Taiwan come una provincia che deve tornare prima o poi sotto il proprio controllo, anche se all’interno di un sistema che prevede una più o meno ampia autonomia, mentre il KMT si considera il governo legittimo di tutta la Cina fin dalla fuga sull’isola del governo nazionalista di Chang Kai-shek nel 1949 dopo la sconfitta nella guerra civile.
Da Pechino le preoccupazioni per l’avvicendamento alla guida di Taiwan sono già emerse in maniera abbastanza chiara. L’atteggiamento tenuto finora sembra però essere di pragmatismo e di attesa, almeno fino a quando il nuovo presidente formulerà con chiarezza la posizione del prossimo governo sulla questione dei rapporti con la Cina.
La leadership “comunista”, se pure non si aspetta dichiarazioni di indipendenza o altri gesti plateali da parte della nuova amministrazione a Taipei, è ben consapevole che anche solo una parziale deviazione dalle politiche del KMT potrebbe ulteriormente aggravare le tensioni in Asia orientale.
Ad esempio, Tsai Ing-wen ha più di una volta manifestato il desiderio di fare aderire Taiwan alla cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), il mega-trattato di libero scambio sui generis promosso dagli Stati Uniti per cercare di limitare l’influenza economica della Cina sulle due sponde dell’oceano Pacifico.
Più in generale, gli interessi a cui fa riferimento il DPP auspicano politiche più autonome che consentano al business locale di superare gli ostacoli rappresentati dal mancato riconoscimento internazionale di Taiwan da parte delle principali potenze del pianeta. Qualsiasi mossa in questo senso rischierebbe però di provocare durissime reazioni da parte di Pechino.
L’elezione del nuovo presidente a Taipei si inserisce così inevitabilmente nel quadro delle manovre americane per contenere Pechino, fatte di iniziative economiche, diplomatiche e militari per intensificare i legami con vari paesi dell’Estremo Oriente. Washington ha già intrapreso una serie di azioni provocatorie nei confronti della Cina, alimentando lo scontro tra la seconda economia del pianeta e alcuni suoi vicini, in particolare attorno a rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale e Meridionale fino a poco tempo fa di secondaria importanza.
Anche solo un eventuale accenno di interesse per un allineamento strategico agli USA da parte della nuova leadership taiwanese potrebbe quindi infiammare in maniera pericolosa lo scontro tra Washington e Pechino.
Gli Stati Uniti, almeno ufficialmente, non sembrano peraltro interessati al momento ad aggiungere un altro motivo di tensioni nei rapporti con la Cina. La reazione al voto di sabato da Washington è stata infatti piuttosto cauta e ha evidenziato soprattutto la necessità di salvaguardare la stabilità raggiunta negli ultimi otto anni con i governi del KMT.
Gli USA, tuttavia, intendono continuare a mantenere le relazioni con Taiwan a un livello tale da potere utilizzare l’isola come strumento per esercitare pressioni su Pechino, come conferma la recente decisione dell’amministrazione Obama di dare il via libera alla vendita di armi all’isola per un valore di quasi due miliardi di dollari.
Anzi, prima e dopo il voto che ha riportato al potere una forza tendenzialmente anti-cinese a Taipei, all’interno della classe dirigente americana si sono già fatte sentire le voci dei tradizionali “falchi” che spingono per aprire un nuovo fronte nello scontro con la Cina, pur essendo perfettamente a conoscenza delle possibili gravi implicazioni di un’aperta provocazione su un tema così delicato per Pechino.