di Mario Lombardo

L’assegnazione ufficiale della nomination Repubblicana per le elezioni presidenziali di novembre a Donald Trump è avvenuta martedì sera a Cleveland nell’atmosfera quanto mai appropriata di una convention che ha dato libero sfogo alle tendenze più retrograde e reazionarie di una politica e di una società americane in stato di profondissima crisi.

Il miliardario di New York è riuscito alla fine a scongiurare tutti i tentativi di quanti all’interno del partito intendevano ostacolare la sua nomina a candidato alla Casa Bianca, nonostante il record di consensi ottenuto durante le primarie. Il conteggio dei voti espressi dai delegati riuniti nella città dell’Ohio ha però mostrato le forti resistenze alla scelta di Trump. Il numero dei contrari alla nomination del candidato Repubblicano che correrà quest’anno per la presidenza degli Stati Uniti è stato infatti il più alto dal 1976, quando a Kansas City Gerald Ford sconfisse di misura Ronald Reagan.

Anche per coloro che hanno una qualche esperienza nelle convention dei due principali partiti americani, cioè notoriamente eventi che offrono spesso uno spettacolo degradante, il livello toccato da quella Repubblicana in corso è oggettivamente difficile da commentare.

Non solo i delegati del partito hanno consegnato la nomination per la prima volta a un candidato dalle inclinazioni apertamente fasciste, ma praticamente tutti gli interventi sul palco della convention sono stati all’insegna della celebrazione dell’autoritarismo, dell’ultra-liberismo, del razzismo e del presunto “eccezionalismo” statunitense.

Se la desolazione di Cleveland è la manifestazione di un processo che ha visto da almeno tre decenni lo spostamento a destra della classe politica americana, è opportuno domandarsi, visti gli scenari odierni, cosa ne sarà, anche a livello soltanto formale, dei rimanenti principi democratici negli USA in caso di una presidenza Trump o che spazio resterà per questi ultimi tra quattro o otto anni.

Visti i discorsi dei vari leader Repubblicani e il clima della convention, dunque, è apparso meno sorprendente che a correre per la presidenza sia un individuo come Donald Trump. In un panorama segnato dalle esplosive tensioni sociali, generate da un sistema che tende ad ampliare sempre più la forbice tra i super-ricchi e il resto della popolazione, e dalla crescente indifferenza della classe dirigente americana per i meccanismi della democrazia rappresentativa, il degno rappresentante del Partito Repubblicano non può che essere un uomo d’affari miliardario che incarna la natura corrotta e fondamentalmente criminale del capitalismo a stelle e strisce.

La stagione elettorale 2016 e l’epilogo della competizione interna tra i Repubblicani segnano insomma una tappa cruciale nella degenerazione della “democrazia” negli Stati Uniti. Con buona pace di quanti, soprattutto a destra, vedono l’emergere di Trump come un’anomalia transitoria in un sistema tutto sommato sano.

I suoi successi nelle primarie non sono stati peraltro casuali né dovuti alla sua notorietà derivata dall’ampia esposizione mediatica di cui gode da decenni. Di fronte a una schiera di candidati che erano l’emanazione dell’establishment Repubblicano, Trump ha saputo intercettare un malessere radicato tra gli elettori americani, in buona parte bianchi e di reddito medio-basso.

Trump ha in definitiva riconosciuto la situazione di crisi dell’economia e della posizione internazionale degli Stati Uniti, prospettando una visione populista che contrasta, almeno a parole, con il sistema di governo consolidato e promettendo la salvaguardia dei programmi di assistenza sociale, la creazione di posti lavoro nell’industria, lo stop all’immigrazione clandestina e il relativo ridimensionamento degli impegni militari all’estero.

Le problematiche sollevate da Trump sono effettivamente sentite dagli americani e gli hanno permesso di trionfare contro un partito che ha abbandonato da tempo ogni pretesa anche esteriore di difendere interessi che vadano al di là di quelli dei super-ricchi. Le frustrazioni raccolte da Trump vengono in ogni caso convogliate in una direzione completamente reazionaria, evidente da alcune delle proposte avanzate in campagna elettorale. Tristemente nota è ad esempio la costruzione di un muro lungo tutto il confine con il Messico, ma anche l’espulsione dagli USA di 11 milioni di immigrati clandestini, lo stop all’ingresso nel paese di chiunque professi la fede islamica e l’autorizzazione alle torture negli interrogatori di presunti terroristi.

Alcune delle proposte di Trump sono finite per entrare nella piattaforma del Partito Repubblicano approvata dalla convention a inizio settimana. Nel documento spiccano iniziative come l’abbattimento del carico fiscale che grava sulle aziende, il sostanziale smantellamento delle rimanenti regolamentazioni al business statunitense, la drastica riduzione del programma pubblico di assistenza sanitaria per i redditi più bassi, Medicaid, e la trasformazione di quello riservato agli anziani, Medicare, in semplici sussidi per l’acquisto di polizze private.

Ancora, il programma Repubblicano include la costruzione del muro per ostacolare l’immigrazione da sud, teoricamente a spese del governo messicano, mentre minaccia di rendere illegale l’aborto, respinge la legalizzazione dei matrimoni gay, definisce la pornografia come una “crisi sanitaria pubblica” e il carbone come una fonte di “energia pulita”.

Dalle implicazioni inquietanti è inoltre la sezione dedicata alla politica estera degli Stati Uniti. In sostanza, tutto il mondo dovrebbe sottomettersi agli interessi del capitalismo americano e, in particolare, vengono enunciate posizioni estremamente rigide nei confronti di Cina, Russia, Iran e Siria, nonostante in varie occasioni Trump abbia prospettato rapporti più distesi, ad esempio, con Mosca.

Come già anticipato, il Partito Repubblicano è ben lontano dall’essere integralmente allineato al proprio candidato alla Casa Bianca. Alcune personalità invitate a parlare alla convention hanno lasciato trasparire le differenze con Trump e gli imbarazzi provocati dalla presenza di quest’ultimo alla guida del “ticket” presidenziale.

Uno degli esempi più evidenti delle divisioni interne al partito è stato il discorso dello “speaker” della Camera del Rappresentanti di Washington, Paul Ryan. Il candidato alla vice-presidenza con Mitt Romney nel 2012 ha parlato più che altro della propria visione per il futuro degli Stati Uniti, praticamente senza nessun riferimento a Trump. I due leader Repubblicani hanno opinioni parzialmente diverse su varie questioni, con Trump che, soprattutto per ragioni elettorali, non ha finora sposato le idee “riformistiche” di Ryan in materia di spesa pubblica.

Trump, in ogni caso, ha cercato di placare gli animi attorno alla sua candidatura scegliendo settimana scorsa come candidato alla vice-presidenza un politico legato all’ala conservatrice del partito. Il governatore dell’Indiana ed ex deputato, Mike Pence, ha messo in atto nel suo stato misure discriminatorie nei confronti degli omosessuali e ha reso più complicato l’accesso all’aborto, mentre durante la sua permanenza al Congresso ha appoggiato le guerre degli Stati Uniti all’estero e svariati provvedimenti anti-immigrazione.

La qualità principale di Pence è però quella di avere stretti legami con la rete dei ricchi finanziatori del partito, a cominciare dai multi-miliardari ultra-conservatori fratelli Koch, finora decisamente cauti nell’elargire fondi proprio a causa della presenza di Donald Trump.

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