di Michele Paris

L’aspetto più indicativo del fallito colpo di stato contro il presidente Erdogan in Turchia è forse il momento scelto dagli ambienti ribelli delle forze armate per mettere in atto il loro piano. Il tentativo di rovesciare il governo eletto di Ankara è giunto cioè a poche settimane da quella che è sembrata essere a tutti gli effetti l’inaugurazione di un cambio di rotta strategico deciso da Erdogan dopo le drammatiche conseguenze della disastrosa politica estera degli ultimi anni e osservabile principalmente nel ritorno a rapporti cordiali con la Russia di Putin.

Tra le svariate ipotesi circolate sul web e sulla stampa internazionale attorno alle origini del tentato golpe, la più vicina alla realtà è probabilmente quella del contributo degli Stati Uniti, o quanto meno di sezioni dell’intelligence americana, al progetto di presa del potere dei militarti turchi.

Oltre alla ormai nota reazione estremamente fredda del segretario di Stato, John Kerry, nelle ore seguite alla notizia del golpe, è stata quella del governo di Ankara a dare la netta impressione dello strappo tra i due paesi alleati a causa del possibile ruolo giocato da Washington nei fatti di venerdì notte.

Il più esplicito era stato il ministro del Lavoro e della Sicurezza Sociale, Suleyman Soylu, il quale sabato scorso aveva appunto accusato gli USA di essere dietro al colpo di stato. Solo un po’ più moderate erano state invece le dichiarazioni del primo ministro, Binali Yildirim, intenzionato da subito a collegare la sollevazione all’influente predicatore turco Fehtullah Gulen, arcinemico di Erdogan, nonché uomo della CIA, in esilio negli Stati Uniti.

Il governo turco è giunto a bollare come nemico della Turchia qualsiasi paese assicuri protezione a Gulen, per il quale Ankara starebbe preparando una richiesta di estradizione da presentare a Washington. Richiesta che gli USA respingerebbero peraltro quasi certamente per non privarsi di uno strumento che garantisce una certa influenza sulle vicende interne alla Turchia.

Ancora più significative sono state le misure prese da Erdogan sul fronte militare e che hanno rappresentato un chiaro messaggio agli Stati Uniti. Il governo turco, una volta ripreso il controllo della situazione, aveva di fatto tagliato fuori gli USA dalle proprie armi atomiche, custodite nella base aerea di Incirlik nell’ambito del cosiddetto programma di “condivisione nucleare” della NATO.

Ciò è avvenuto in seguito alla decisione di imporre una no-fly zone sui cieli della Turchia e di tagliare le forniture di energia elettrica alla base, il cui comandante, generale Bekir Ercan Van, sarebbe poi finito agli arresti in quanto coinvolto nel tentato golpe.

Il risentimento di Washington, ma anche di Berlino e Bruxelles, nei confronti di Erdogan è apparso decisamente più forte rispetto alla condanna dei ribelli che hanno tentato di sovvertire gli equilibri democratici in Turchia. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, politici e commentatori hanno infatti lanciato avvertimenti al presidente turco, invitandolo al rispetto del diritto e dei principi democratici dei militari golpisti.

La cancelliera Merkel ha minacciato lo stop alle discussioni in corso sull’ingresso nell’Unione Europea se la Turchia dovesse ripristinare la pena di morte per punire i responsabili della rivolta, mentre Kerry ha addirittura ipotizzato l’espulsione dalla NATO di Ankara in caso di mancato rispetto dei principi di democrazia che sarebbero alla base dell’Alleanza.

Alla luce dello scarso interesse per il rispetto anche solo delle formalità democratiche, se esse ostacolano i loro interessi, com’è accaduto ad esempio in Ucraina, i governi occidentali, a cominciare da quello americano, hanno inteso in realtà inviare un messaggio al presidente Erdogan che ha a che fare quasi esclusivamente con questioni strategiche.

Se il golpe potrebbe essere stato un tentativo per impedire una svolta strategica che minaccia il deterioramento dei rapporti tra l’Occidente e un paese cruciale per gli equilibri euroasiatici, allo stesso modo gli avvertimenti indirizzati ad Ankara nei giorni successivi alla fallita rivolta servirebbero a far capire a Erdogan che un’eventuale riallineamento strategico del suo paese a favore di Russia, Iran e forse anche Siria, non resterebbe senza conseguenze.

I media americani in questi giorni sono letteralmente inondati da commenti e analisi sulla Turchia che manifestano forti preoccupazioni per il futuro dei rapporti tra questo paese e gli Stati Uniti. In molti hanno dunque correttamente identificato il tentato golpe come una sorta di spartiacque nelle relazioni tra Ankara e l’Occidente.

La stampa ufficiale e i governi sollevano le questioni strategiche però solo marginalmente, mentre provano a far credere che le ansie della classe politica di Washington o Berlino siano legate alle tendenze autoritarie di Erdogan, accentuate dai provvedimenti adottati o minacciati contro i rivoltosi, trascurando il fatto che la deriva autoritaria era già evidente da tempo.

Per il presidente turco, il colpo di stato rientrato nella nottata di venerdì ha rappresentato effettivamente un’occasione per accelerare il consolidamento del potere nelle sue mani, ma questo processo era già in atto e a uno stadio avanzato. Piuttosto, i fatti dello scorso fine settimana potrebbero costituire lo scenario ideale per lanciare il mutamento degli indirizzi di politica estera di cui si è parlato in precedenza.

La portata delle implicazioni di questa svolta sono tali da mandare brividi lungo la schiena dei leader politici e militari di Washington, Berlino e Bruxelles. Innanzitutto, il ristabilimento di normali relazioni diplomatico-energetico-commerciali con Mosca mettono potenzialmente a repentaglio la strategia occidentale di contenimento della Russia. I riflessi di ciò si potranno ad esempio osservare sul fronte delle forniture di gas all’Europa, facendo saltare gli sforzi di emarginazione delle compagnie energetiche russe dal mercato continentale, ma anche su quello mediorientale.

Qui, è inutile sottolineare le preoccupazioni americane per le conseguenze che potrebbero esserci sui progetti legati alla Siria, mirati in sostanza alla rimozione del regime di Assad, ovvero l’unico alleato di Mosca nella regione. D’altra parte, la serietà degli sforzi di Erdogan nel cercare la distensione con la Russia sarà testata dalla disponibilità a mettere fine ai legami a dir poco ambigui intrattenuti dalla Turchia con i gruppi fondamentalisti che combattono contro Damasco, incluso lo Stato Islamico (ISIS).

Già una settimana fa, in un’apparizione televisiva il premier Yildirim aveva affermato di essere sicuro che i rapporti con la Siria sarebbero tornati alla normalità. Le dichiarazioni sarebbero state parzialmente corrette in seguito ma difficilmente l’uscita può essere considerata casuale.

Un’evoluzione di questo genere, da parte di un paese che ha svolto un ruolo fondamentale nel finanziamento e nel supporto logistico all’opposizione armata in Siria, rappresenterebbe perciò un colpo mortale per i disegni americani in Medio Oriente.

La svolta strategica di Erdogan rischia così di trasformarsi in una nuova clamorosa sconfitta per un’amministrazione Obama che, a pochi mesi dall’uscita di scena, nel proprio fascicolo dedicato alla politica estera ha dovuto registrare una lunga serie di fallimenti e operazioni disastrose.

Le ragioni del guastarsi dei rapporti tra Washington e Ankara e la conseguente distensione tra Erdogan e Putin sono dovute non solo alla presa di coscienza da parte turca delle conseguenze rovinose delle proprie iniziative per tentare di incidere sugli equilibri regionali. A influire sono state anche e soprattutto le scelte degli Stati Uniti che hanno in sostanza generato caos e destabilizzazione, principalmente in seguito alla decisione di sostenere una finta rivoluzione in Siria per effettuare il cambio di regime attraverso il sostegno a forze di matrice jihadista.

A tutto ciò va aggiunto poi il sostegno americano alle formazioni curde siriane, di fatto le uniche in grado di combattere efficacemente l’ISIS, ma considerate dalla Turchia l’equivalente del PKK che opera sul proprio territorio. I successi dei curdi siriani sono perciò visti dal governo di Ankara come una minaccia alla sicurezza nazionale, visto che la creazione di una provincia autonoma oltre il confine meridionale potrebbe alimentare simili aspirazioni anche in Turchia.

Il possibile allontanamento di quest’ultimo paese dagli Stati Uniti e dall’Europa si preannuncia ad ogni modo come un processo tutt’altro che lineare, tanto più che Ankara resta uno dei pilastri del sistema militare della NATO. Il riallineamento strategico ai confini sud-orientali dell’Europa sembra essere però un dato di fatto e il golpe sventato sul nascere venerdì notte ne ha forse accelerato le dinamiche. Quali saranno le conseguenze è difficile prevedere, ma gli Stati Uniti, costretti a incassare l’ennesimo rovescio in Medio Oriente, difficilmente assisteranno da spettatori passivi alle vicende della regione nell’immediato futuro.

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