di Mario Lombardo

Il leader dei Laburisti britannici, Jeremy Corbyn, è diventato il bersaglio di una prevedibile rivolta interna al partito dopo il risultato del referendum di settimana scorsa sull’uscita di Londra dall’Unione Europea. La sua colpa sarebbe quella di non essersi impegnato a sufficienza durante la campagna elettorale a sostegno della permanenza nell’UE. In realtà, il tentativo di golpe nei suoi confronti è stato preparato da tempo e, in definitiva, non fa che confermare tristemente la deriva reazionaria di quello che dovrebbe essere il principale partito della sinistra in Gran Bretagna.

Gli sviluppi interni al Labour erano stati previsti con una certa esattezza ad esempio da un’analisi del giornale filo-Conservatore Daily Telegraph più di una settimana prima del voto sulla Brexit. L’articolo avvertiva che la maggioranza dei parlamentari Laburisti, in caso di sconfitta nel referendum, avrebbe operato un “blitz” mediatico nelle ore successive alla chiusura delle urne al fine di rimuovere Corbyn dalla leadership del partito.

Subito dopo sarebbero partite le dimissioni di massa dei membri del governo-ombra Laburista e un’ondata di critiche pubbliche al numero uno del partito, mentre in pochi giorni avrebbe preso il via la corsa alla sua successione.

In effetti, per chi ha seguito anche in maniera approssimativa le vicende del Labour britannico negli ultimi dieci mesi questi sviluppi non erano così difficili da prevedere. La presunta incapacità di Corbyn di battersi efficacemente per il successo del “Remain” nel referendum è infatti una giustificazione patetica esibita dalla maggioranza di destra del partito per portare a termine un colpo di mano che essa aveva in serbo fin dall’elezione del nuovo leader nel settembre del 2015.

Corbyn era stato eletto con quasi il 60% dei consensi degli iscritti al partito e dei suoi simpatizzanti, i quali avevano potuto scegliere direttamente il leader Laburista grazie alle modifiche al sistema di voto decise nel febbraio del 2014 dall’allora segretario, Ed Miliband, per cercare di avvicinare gli elettori britannici al Labour.

Il suo successo a sorpresa era stato nettissimo, soprattutto grazie alla popolarità della sua agenda progressista dopo decenni di spostamento a destra del partito. Il voto per Corbyn era stato anche una testimonianza dell’ostilità popolare nei confronti dei parlamentari e leader Laburisti vicini agli ex premier Tony Blair e Gordon Brown, come avevano confermato appunto i miseri 19% e 17% raccolti dagli altri due principali candidati alla guida del partito, rispettivamente Andy Burnham e Yvette Cooper.

Il sostegno a Corbyn è stato così garantito dai sostenitori del Labour nel paese e dai principali sindacati, mentre la direzione del partito e la gran parte dei membri del Parlamento si sono rivelati feroci oppositori e hanno cercato costantemente di manovrare per la sua estromissione dalla leadership.

Dopo avere sfruttato una serie di polemiche nei mesi scorsi per esercitare pressioni su Corbyn, i golpisti Laburisti hanno fatto scattare un piano ben congegnato immediatamente dopo il referendum sulla Brexit. Già venerdì, le deputate Margaret Hodge e Ann Coffey avevano presentato una mozione di sfiducia contro Corbyn. Domenica, poi, il ministro-ombra degli Esteri, Hilary Benn, aveva comunicato a quest’ultimo di avere perso ogni fiducia nella sua leadership, venendo quindi subito sollevato dal suo incarico.

Il doveroso licenziamento di Benn ha innescato a partire da lunedì una valanga di dimissioni tra i membri del governo-ombra, tanto che Corbyn ha faticato a scegliere tutti i sostituti da nominare ai posti rimasti vacanti. A questa clamorosa manifestazione di dissenso si sono aggiunti numerosi commenti sui principali giornali che hanno diligentemente invitato Corbyn a farsi da parte o i suoi oppositori a portare a termine il cambio alla guida del partito, quasi sempre in nome del bene del Labour e della Gran Bretagna.

Martedì, infine, l’assemblea dei parlamentari Laburisti ha votato a larga maggioranza una mozione di sfiducia contro il proprio leader (172 a 40), ma la mossa non costituisce affatto l’epilogo della vicenda. Infatti, come ha risposto correttamente Corbyn, la mozione non è vincolante e lo statuto del Labour non prevede l’avvicendamento della leadership tramite un voto di questo genere.

Corbyn si è così rifiutato di dimettersi, almeno per il momento, e ha invitato i suoi oppositori a sfidarlo in una nuova elezione a cui dovranno partecipare, come lo scorso anno, gli iscritti e i sostenitori del partito. I fedelissimi di Corbyn in questi giorni stanno facendo appello al rispetto delle norme previste dal partito, essendo ben consapevoli della determinazione della destra del Labour nel raggiungere il proprio obiettivo al di là delle regole e della volontà degli elettori.

Se, normalmente, un candidato alla segreteria ha bisogno di una cinquantina di membri del Parlamento che lo sponsorizzino, numero difficile da raggiungere al momento per Corbyn, il leader in carica del partito può automaticamente prendere parte alla competizione. Corbyn e i suoi puntano precisamente su quest’ultima norma, certi che una nuova consultazione darà un esito simile a quello dello scorso anno.

Mentre in Parlamento e negli uffici del Labour andava in scena la rivolta contro Corbyn, a Londra si sono mobilitati decine di migliaia di suoi sostenitori e una petizione on-line a favore del segretario del partito ha raccolto ben 230 mila firme, cioè circa la metà del numero dei votanti nell’ultima elezione per la leadership Laburista.

Se la destra del partito rispetterà le regole di voto attuali, Corbyn sembra avere buone probabilità di essere confermato alla guida del Labour, sia pure a costo di una possibile spaccatura o scissione del partito. I suoi oppositori stanno cercando invece di coalizzarsi attorno a un unico candidato, in modo da non disperdere il voto di coloro che non sono intenzionati a scegliere Corbyn.

Secondo le notizie che arrivano da Londra, sarebbero due i contendenti rimasti, l’ex ministro-ombra delle Attività Produttive, Angela Eagle, e il numero due del Labour, Tom Watson. La prima venne promossa a incarichi di rilievo nel partito da Tony Blair e ha fatto parte del governo Brown, così come Watson.  Quest’ultimo, però, ha invitato a rallentare sulla questione del voto per la leadership, preferendo attendere che Corbyn si faccia da parte volontariamente.

Watson comprende perfettamente che un voto popolare nel breve periodo riconsegnerebbe con ogni probabilità a Corbyn la leadership del partito. Per questa ragione invita ad attendere che le pressioni, gli attacchi e le denunce facciano il loro corso fino a spingere alle dimissioni un leader che non si è certo distinto finora per risolutezza e decisione.

La Brexit ha dunque offerto l’occasione alla destra Laburista di provare a dare la spallata definitiva alla leadership di Jeremy Corbyn, nonostante la sconfitta nel referendum costituisca senza dubbio un motivo di imbarazzo soprattutto per il primo ministro Conservatore, David Cameron. Anzi, secondo una strategia sensata, il colpo subito dal capo del governo avrebbe dovuto suggerire al Labour di unirsi attorno al proprio leader e accelerare la crisi dei “Tories”, così da giungere a elezioni anticipate con realistiche chances di successo.

Il Labour ha al contrario optato per una strategia suicida su iniziativa dell’accozzaglia di parlamentari della galassia “Blairita”, già responsabili della trasformazione del partito in un baluardo delle politiche guerrafondaie e di libero mercato. L’impressione, osservando le vicende di questi giorni, è che la destra Laburista veda con orrore un successo del proprio partito alle elezioni sotto la leadership di Corbyn.

Un governo guidato da quest’ultimo potrebbe d’altronde mobilitare, almeno potenzialmente, milioni di giovani, lavoratori e appartenenti alle classi medie contro guerre e austerity, complicando l’implementazione dell’agenda reazionaria imposta dai grandi interessi economici e finanziari, a cui gli oppositori di Corbyn nel Labour fanno appunto riferimento.

In ultima analisi, comunque, le responsabilità di Corbyn nella situazione di crisi in cui si trova il suo partito e la sua leadership non sono da trascurare. Dopo l’elezione a settembre, infatti, la sua gestione è stata improntata alla ricerca dell’unità e del compromesso con i suoi oppositori interni, coltivando l’illusione - oggettivamente fuori dalla realtà - di poter cambiare il Labour e farlo diventare un partito al servizio delle classi più disagiate.

di Michele Paris

L’inaspettata decisione degli elettori britannici di trascinare il proprio paese fuori dall’Unione Europea sta avendo ripercussioni tutt’altro che indifferenti sugli Stati Uniti, alla luce dell’importanza di Londra nell’assicurare che gli orientamenti strategici ed economici del vecchio continente rimangano indirizzati verso Washington.

Il voto della settimana scorsa è arrivato oltretutto in un frangente storico segnato da una particolare aggressività americana nel promuovere i propri interessi in Europa, come confermano ad esempio i progetti legati al trattato transatlantico di libero scambio (TTIP) e all’accerchiamento della Russia, entrambi in pericolo senza la presenza della Gran Bretagna nell’Unione.

Il sintomo dei malumori e delle apprensioni che circolano negli ambienti di potere a Washington si può dedurre forse proprio dalle insistenti rassicurazioni di vari membri dell’amministrazione Obama sul fatto che le relazioni con Londra e Bruxelles rimarranno sostanzialmente immutate.

Già domenica scorsa, il consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente, Susan Rice, aveva detto di attendersi dalla Brexit “relativamente poche” implicazioni immediate sulla sicurezza degli USA. Lunedì a Londra, il segretario di Stato, John Kerry, nel corso di una conferenza stampa con il suo omologo britannico, Philip Hammond, ha a sua volta ribadito la “relazione speciale” che lega i due alleati, sia pure sentendosi in dovere di chiedere agli altri paesi UE di evitare sentimenti di “rabbia” o “ritorsioni” nelle trattative con il governo di Londra.

Come già aveva fatto il giorno prima a Roma incontrando il ministro degli Esteri Gentiloni, l’ex senatore Democratico ha invitato entrambe le parti a mostrare “saggezza” e “responsabilità” nelle scelte che dovranno essere prese, facendo trasparire il desiderio di Washington di conservare gli equilibri attuali in larga misura favorevoli agli Stati Uniti.

I toni accomodanti mantenuti a livello ufficiale dall’amministrazione Obama in questi giorni si accompagnano però probabilmente all’espressione privata di un netto disappunto per l’esito del referendum e delle prospettive future sull’asse Washington-Londra-Bruxelles.

Un assaggio della reale disposizione del governo USA nei confronti della Brexit si era avuto lo scorso mese di aprile durante la visita del presidente Obama in Gran Bretagna. In quell’occasione, discutendo dei negoziati sul TTIP, con toni insolitamente duri l’inquilino della Casa Bianca aveva avvertito i cittadini e soprattutto il governo britannico che l’uscita dall’UE avrebbe potuto mettere il loro paese “in fondo alla coda” per quanto riguarda la stipula di simili trattati con Washington, lasciando intendere possibili conseguenze negative sulle relazioni bilaterali.

A dare sfogo alle preoccupazioni che circolano negli USA dopo la Brexit sono stati allora alcuni organi di stampa ufficiali, come il New York Times, spesso vero e proprio portavoce dell’amministrazione Obama. In un’analisi apparsa questa settimana, il giornale di New York ha descritto la Gran Bretagna come l’alleato americano meglio disposto sul fronte della sicurezza, ma anche “il “più efficiente nell’ambito dell’intelligence” e il più “entusiasta” nell’abbracciare i principi del libero mercato tradizionalmente promossi dagli Stati Uniti.

Soprattutto, prosegue il Times, “pochi paesi erano pronti”, come la Gran Bretagna, “a intervenire nel dibattito europeo per orientarlo verso le direzioni preferite dagli Stati Uniti”. L’influenza di Londra a favore degli USA, ora “improvvisamente ridimensionata”, si faceva sentire in particolare nel “porre un limite alle richieste europee in ambito commerciale” e nel “convincere gli altri paesi a contribuire maggiormente alle missioni militari della NATO”.

Le recriminazioni di Washington in merito alla Brexit appaiono dunque evidenti. Il timore principale è quello di perdere lo strumento privilegiato con cui gli Stati Uniti avevano la possibilità di influenzare, almeno in parte, le scelte dell’Unione Europea. Il ruolo di Londra all’interno dell’UE, secondo gli USA, era cioè di garantire l’accoglimento delle posizioni americane nel vecchio continente e, assieme, di evitare un eccessivo allontanamento da esse.

L’eventuale perdita della Gran Bretagna come trait d’union tra le due sponde dell’Atlantico è tanto più dolorosa per Washington in quanto giunge in un momento in cui il lavoro di Londra sarebbe risultato cruciale nel portare a compimento una serie di iniziative ritenute fondamentali per gli interessi americani.

Queste ultime, come già anticipato, sono principalmente l’approvazione della travagliata Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP), strumento di penetrazione del capitale USA in Europa e osteggiato da molti governi, e l’espansione verso est della Nato attraverso la militarizzazione dei confini con la Russia.

L’ansia trapelata dalle parole pronunciate da Kerry a Roma, Londra e Bruxelles in questi giorni è d’altra parte comprensibile, visto che su queste e altre questioni sono emersi da tempo disaccordi e divisioni anche profonde all’interno dell’UE. L’incubo di Washington è legato così all’esplosione delle forze centrifughe che erano state in parte contenute anche dalla Gran Bretagna e che ora rischiano invece di mettere in discussione l’idea stessa di un’Europea ancorata strategicamente ed economicamente agli Stati Uniti.

In sostanza, gli scenari post-Brexit potrebbero riservare il crollo del regime delle sanzioni contro Mosca, l’attenuarsi della spinta verso est dell’Alleanza Atlantica e lo svincolo, da parte di svariati paesi europei, a cominciare dalla Germania, dal rigore dettato da Washington nei confronti della Russia.

Proprio il ruolo tedesco è stato valutato con attenzione nel già citato articolo del New York Times. Nell’escludere di fatto la possibilità che Berlino possa ricoprire in futuro i compiti svolti da Londra a beneficio degli USA, il Times prefigura chiaramente l’emergere di possibili conflitti tra Stati Uniti e Germania, pur mancando di spiegarne la ragione principale, ovvero che anche quest’ultimo paese nutre sempre più ambizioni da grande potenza e i suoi interessi tendono a divergere da quelli americani.

Nella peggiore delle ipotesi per gli USA, infine, l’uscita della Gran Bretagna dall’UE potrebbe ridurre sensibilmente le pressioni sulla Russia, ma anche sulla Cina, favorendo nel medio e lungo periodo il processo d’integrazione economico-strategica dell’immensa regione euro-asiatica. Un’evoluzione, quest’ultima, peraltro già in atto e che rappresenta un’autentica minaccia per gli Stati Uniti e per il miraggio di un mondo unipolare sotto la guida di un’unica grande potenza.

di Mario Lombardo

Il voto di domenica scorsa in Spagna ha sostanzialmente confermato la generale disaffezione degli elettori verso il sistema bipartitico che ha dominato il paese dalla fine del Franchismo. I risultati, tuttavia, anche se di poco differenti da quelli della consultazione di dicembre, hanno fatto registrare, assieme al nuovo arretramento del Partito Socialista (PSOE) e all’aumento dell’astensione, una relativa battuta d’arresto delle forze autodefinitesi del cambiamento. Allo stesso tempo, il Partito Popolare (PP) al governo dovrebbe finalmente riuscire a mettere assieme un nuovo esecutivo, la cui forma e base di sostegno saranno però tutte da verificare.

Come per la “Brexit”, i sondaggi della vigilia hanno fallito nel prevedere l’esito del voto spagnolo, quanto meno in relazione all’aspetto probabilmente più importante. A differenza di quanto annunciato, l’alleanza elettorale nata dall’unione di Podemos (Possiamo) e Sinistra Unita (IU), ribattezzata Unidos Podemos, ha mancato infatti il sorpasso ai danni del PSOE per proporsi come seconda forza politica del paese e dettare da una posizione di forza una possibile alleanza di governo con i Socialisti.

La coalizione, composta dal movimento scaturito dalle proteste di piazza degli “Indignados” e dalla formazione di sinistra in cui erano confluiti il Partito Comunista Spagnolo e altre formazioni minori, ha aggiunto due seggi a quelli ottenuti il 20 dicembre scorso, ma ha fatto nuovamente peggio del PSOE e ha visto di fatto ridimensionate le proprie ambizioni.

I voti totali raccolti da Unidos Podemos sono stati circa un milione in meno rispetto alla somma di quelli ottenuti separatamente sei mesi fa dalle due formazioni che hanno dato vita all’alleanza elettorale, a conferma che il numero di spagnoli che vede quest’ultima come una valida alternativa politica è oggi in netto calo.

Alcune delle responsabilità del suo leader, Pablo Iglesias, appaiono evidenti e hanno a che fare principalmente con l’eccessivo ammorbidimento dell’agenda progressista del movimento, così da accreditarsi come forza di governo agli occhi delle élites spagnole e internazionali, e al corteggiamento del PSOE dopo il voto di dicembre per mandare in porto un accordo che avrebbe potuto far nascere un gabinetto di centro-sinistra.

Podemos era nato come un movimento anti-establishment fortemente critico sia della “casta” che domina in Spagna sia delle politiche di austerity che hanno messo a durissima prova le classi più disagiate. Il PSOE, appunto, è uno dei due pilastri del sistema politico “corrotto” denunciato da Iglesias e i suoi, mentre, prima di essere sostituito dal PP, fu proprio il governo Socialista di Zapatero a implementare diligentemente le prime misure di rigore dopo la crisi del 2008.

Anche se numericamente un accordo di governo potrebbe essere ancora possibile tra il PSOE, Unidos Podemos e la galassia di partiti su base regionale entrati in Parlamento, il nuovo record negativo di consensi dei Socialisti e l’aura di sconfitta che pesa su Iglesias rendono questa soluzione ancora più improbabile rispetto a qualche mese fa.

Il PP è al contrario uscito rinfrancato da un voto anticipato che i suoi leader indubbiamente temevano. Il premier uscente, Mariano Rajoy, ha preso da subito l’iniziativa, proponendosi di creare un nuovo governo entro un mese. Come dopo il voto di dicembre, i seggi del PP e dell’altro partito di centro-destra, il neo-nato Ciudadanos (Cittadini), non bastano però a raggiungere la maggioranza assoluta, così che Rajoy dovrà percorrere altre strade per poter restare alla guida del governo.

Le ipotesi sono essenzialmente due, entrambe già valutate e scartate nei mesi seguiti alle elezioni di sei mesi fa. La prima prevede un accordo tra il PP e Ciudadanos, sempre che il leader di quest’ultimo movimento, Albert Rivera, lasci cadere la pregiudiziale della sostituzione di Rajoy, ritenuto troppo compromesso con i casi di corruzione emersi negli ultimi anni all’interno del suo partito.

I vertici di Ciudadanos, peraltro, non sembrano rispondere in maniera troppo rigorosa agli imperativi morali auto-imposti se in ballo vi è l’accesso alle stanze del potere. Già nei mesi seguiti al voto di fine 2015, infatti, Rivera aveva sottoscritto un accordo con il PSOE, accolto tuttavia non troppo favorevolmente dai suoi elettori, visto che domenica Ciudadanos ha perso circa l’1% dei consensi e 8 seggi alla Camera bassa (Congresso dei Deputati) del Parlamento di Madrid. Un’intesa su un governo di minoranza con Ciudadanos, in ogni caso, richiederebbe la disponibilità del Partito Socialista a fare astenere i suoi 85 deputati durante il voto di fiducia al nuovo gabinetto.

L’altra opzione che Rajoy sta valutando, e di gran lunga la preferita non solo sua ma anche degli ambienti economici e finanziari domestici e internazionali, è un governo di unità nazionale o una sorta di inedita “grande coalizione” con il PSOE. Questa soluzione permetterebbe all’apparenza di stabilizzare un sistema stravolto dal voto dello scorso dicembre.

A sottolineare questo punto, lunedì il sito web del magazine The Economist, ovvero uno dei principali organi di stampa della finanza internazionale, ha salutato il voto di domenica come un passo avanti nella risoluzione della crisi politica, individuando in una “grande coalizione” lo strumento più adatto a operare “i cambiamenti necessari… a consolidare la ripresa dell’economia, a frenare il separatismo catalano e a restituire legittimità al sistema politico”.

In definitiva, l’attestato di sfiducia alle forze che per quasi 40 anni hanno guidato la Spagna e che negli ultimi otto hanno portato avanti un processo di ristrutturazione dell’economia e dei rapporti di classe con conseguenze durissime per la gran parte della popolazione dovrebbe risolversi, almeno momentaneamente, con la conferma del predominio di queste stesse forze e con l’intensificazione delle odiate politiche di rigore, invocate da The Economist attraverso una serie di perifrasi attentamente studiate.

Che una di queste due soluzioni porti allo sblocco dello stallo nelle prossime settimane appare verosimile anche alla luce del fatto che Unidos Podemos sarà in grado di recuperare la spinta e l’entusiasmo affievolitisi dopo il voto di domenica solo agendo da opposizione a un governo PP-PSOE – o PP-Ciudadanos con tacito appoggio dei Socialisti – che, è facile prevedere, diventerà presto impopolare.

L’ostacolo principale resta piuttosto il PSOE stesso, al cui interno si era già discusso in maniera molto accesa dopo le elezioni di dicembre sull’opportunità di favorire un governo a guida Popolare, così come di accettare la proposta avanzata da Podemos. Lunedì, il numero uno Socialista, Pedro Sanchez, ha di nuovo escluso sia l’astensione che l’ingresso in un governo Rajoy. Le dichiarazioni non sono sembrate però una chiusura totale, anzi, Sanchez ha forse gettato le basi per una trattativa con il PP, ipotizzando l’astensione del deputato delle Canarie, Pedro Quevedo, indipendente eletto nelle file del PSOE, in un eventuale voto di fiducia a Rajoy.

Aperture, smentite, messaggi in codice e altro ancora si moltiplicheranno nei prossimi giorni, almeno fino a quando il PSOE prenderà una posizione ufficiale, con ogni probabilità il 9 luglio prossimo, data in cui è stata convocata la direzione del partito.

I dubbi che agitano i leader Socialisti non sono tanto per la natura fondamentalmente reazionaria che avrebbe il nuovo governo Rajoy, visto lo spostamento a destra del PSOE in questi anni, quanto le ripercussioni elettorali su un partito che ha già imboccato una netta parabola discendente negli ultimi appuntamenti con le urne e che rischia di finire nell’irrilevanza politica come è accaduto ad esempio al PASOK in Grecia.

Il caos esploso dopo il voto sulla “Brexit”, che ha in parte anche favorito il parziale recupero del PP rispetto a sei mesi fa, la situazione economica e finanziaria precaria della Spagna e le pressioni internazionali per risolvere la crisi politica a Madrid spingeranno però probabilmente il PSOE ad accettare un qualche accomodamento per far nascere un nuovo governo guidato dalla destra.

Rajoy, da parte sua, lunedì ha già anticipato la disponibilità del PSOE a trattare, mentre alcuni media hanno citato anonimi esponenti di rilievo di quest’ultimo partito che, nonostante la posizione ufficiale contraria del numero uno, Pedro Sanchez, hanno lasciato intendere non solo la disponibilità quanto meno a consentire la nascita di un esecutivo di minoranza del PP, ma a fare di tutto perché si giunga a un simile esito nel più breve tempo possibile.

di Fabrizio Casari

Con una distanza di quattro punti percentuali, la Gran Bretagna si concede una distanza definitiva dall’Unione Europea. A determinare la vittoria della Brexit sono stati gli elettori inglesi (in particolare quelli dei piccoli centri e delle campagne), mentre in Scozia e Irlanda ha prevalso il Remain. La specificazione non è un mero dettaglio, dal momento che Edimburgo è già intenzionata a riproporre il referendum sull’uscita dal Regno Unito, proprio con l’intenzione di non voler uscire dalla Ue.

Per alcuni analisti, l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue è l’inizio della fine della UE e, contemporaneamente, anche della stessa Gran Bretagna, ma qui siamo sul terreno delle ipotesi futuribili.

Le conseguenze immediate sono state politiche, con le annunciate dimissioni di Cameron e l’indizione di elezioni il prossimo ottobre; e qui invece si apre uno scenario inquietante, vista l’inconsistenza dei Laburisti e la crescita esponenziale di Farage. Sul piano finanziario la reazione era quella che si prevedeva. Nonostante, infatti, le rassicurazioni di prassi fornite dalle rispettive banche centrali e dai diversi governi, le piazze finanziarie europee sono andate in apnea. Mercati azionari mai così in basso, tracollo delle borse, sterlina ai minimi storici, panico generalizzato nella comunità degli affari. E meno male che si diceva che era tutto sotto controllo.

Va detto che l’uscita della Gran Bretagna dalla UE è una sconfitta per Bruxelles e Berlino oltre che per Londra. La quale, seppure dovrà rinunciare alle clausole commerciali favorevoli tra i paesi membri della UE, avrà mano libera negli scambi con Cina e Russia, oltre che con gli USA, con i quali da sempre ha un rapporto privilegiato. Sarà tutto da dimostrare se sul breve e medio termine non ne ricavi benefici maggiori rispetto ad oggi.

L’Unione Europea, che perde volumi di stati, superficie, popolazione e PIL, subirà un impatto relativo sul piano della stabilità monetaria, dal momento che Londra non era parte dell’Unione Monetaria. Ma sebbene il Regno Unito sia sempre stato un membro particolare della UE, per storia, cultura, modello politico e alleanza militare, indissolubilmente legato agli Stati Uniti più che alla Commissione Europea, non vi sono dubbi che l’aspetto politico rappresenta uno schiaffo violento per la UE.

Il voto della Gran Bretagna è certamente espressione di una vocazione isolazionista che mal digerisce l'idea dell'integrazione europea. Non c'è dubbio che il populismo di destra è riuscito ad intercettare il malessere sociale e veicolarlo contro la dimensione continentale. Ma, parallelamente, non vi sono dubbi che sia anche indicativo di come l'attuale disegno europeo risulti inadeguato e a tratti ostile. La UE ha abbandonato da anni il sentimento federalista proposto dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli. I valori fondamentali che animavano un progetto continentale costruito su un modello socioeconomico includente ed alternativo al monetarismo, sono stati invertiti.

Il “modello renano”, sul quale si basava il progetto sociale europeo è stato seppellito proprio da quel monetarismo che si voleva contrastare e, in preda alle convulsioni isolazioniste dei suoi paesi membri nell’approccio ai grandi temi - dall’immigrazione al dumping sociale - il vecchio continente ha dimostrato solo la sua mancanza d’integrazione culturale e politica. Molti sono i punti dei trattati ignorati o addirittura stravolti in assenza di qualunque presa di posizione dell’Unione e, nello stesso tempo, nessun progetto unitario sul piano della politica estera e di difesa è mai stato prossimo alla costruzione. E sia chiaro: Londra, che oggi esce, è stata soggetto preminente di queste scelte, dunque nel voto sulla Brexit è implicito anche un voto sull’establishment britannico.

Dopo un decennio a trazione tedesca, che ha consentito per Berlino un costante surplus di bilancio ai danni degli altri paesi cui è toccato un surplus di crisi economica, la UE è stata incapace di proporre politiche di crescita, al punto di collocare l’eurozona agli ultimi posti al mondo per la capacità di recupero dei livelli pre-2008. La promessa di generazione di ricchezza diffusa è stata sostituita dalla più grande crisi continentale del mercato del lavoro degli ultimi sessant’anni, a fronte di un arricchimento sproporzionato della Germania, e le regolette sulla misura dei mitilli sono state avvertite come le uniche aree di competenza del Parlamento Europeo.

L’Unione Europea si è rivelata un club esclusivo di banchieri e burocrati, che con le politiche di austerity dall’evidente conseguenza recessiva hanno ridotto in pezzi l’identità sociale ed economica delle popolazioni. Per questo Bruxelles rappresenta oggi un governo ostile agli occhi dei 500 milioni di europei.

E non hanno certo giovato l’applicazione burocratica di norme e regolamenti che, indifferenti al senso delle proporzioni ed anche alla decenza, hanno aperto lo spazio europeo a paesi che, per proporzioni e peso specifico, non possono certo rappresentare i valori e principi su cui la UE venne costruita. Basti pensare all'Ungheria di Orban nelle vesti di presidente di turno della Ue o a Romania o Polonia, che dopo aver inondato di migranti l’intera Europa, rappresentano oggi la voce più intransigente contro l’immigrazione. Peraltro la connessione sentimentale della destra nostalgica con i populismi euroscettici trova proprio nel rifiuto dell'accoglienza dei migranti il cortocircuito decisivo. I festeggiamenti di oggi della Le Pen e camerati vari indicano come sia la distruzione dell'idea di Europa, più che della UE, l'obiettivo finale. E' quindi il momento d'invertire la rotta dell'Europa, prima che essa s'incagli definitivamente sugli scogli del nuovo fascismo.

Certo, si deve riconoscere che Khol e Mitterrand non hanno avuto eredi all’altezza: Merkel, Hollande o Junker - quest’ultimo poi rappresenta una banca off-shore che si fa stato - non sono certo assimilabili alla categoria degli statisti che servirebbero per affrontare una crisi di civiltà come quella che il mondo intero attraversa e che dei valori che indicarono l'unità continentale avrebbe più che mai bisogno. La guerra del capitale contro il lavoro, la progressiva caduta dei livelli di welfare che azzera ogni principio di perequazione interna, l’approfondirsi della contraddizione tra sviluppo e ambiente, i rigurgiti di ideologie autoritarie che si richiamano al nazifascismo e si diffondono in parte del continente, assumono il volto di un epoca buia. Proprio ora servirebbe più Europa.

L’Unione Europea, purtroppo, dichiara invece la sua incapacità di proporre un modello d’interpretazione della realtà e, presa dalla priorità assoluta delle politiche finanziarie, si dimostra incapace di assumere la sfida culturale e politica alle grandi incognite di inizio secolo e di prefigurarne uno sbocco progressista. Viene percepita come uno spazio angusto, soffocante, privo di spinta propulsiva, che mentre aumentano povertà, disoccupazione e disagio, imprigiona l'eurozona nei dettami ideologici dell'ultramonetarismo, che elegge a faro della sua identità il rigore di bilancio.

Per l’Europa, la Brexit può divenire l’occasione per ridurre il peso politico della Germania, unica possibilità di fermare l’effetto domino di una volontà di rottura con la UE che appare difficilmente arrestabile per quanto sbagliata. Serve più Europa proprio per ridisegnare un progetto diverso da quello applicato fino ad ora. Per Londra, in attesa di verificare quanto e come pagherà lo strappo, è il momento di ripetersi il loro vecchio detto che in caso di maltempo sulla Manica, recita: “Il continente è isolato”.

di Michele Paris

Dopo il ritiro dei rivali dalla corsa alla nomination per il Partito Repubblicano ai primi di maggio, Donald Trump ha visto la sua campagna elettorale per la Casa Bianca sprofondare in un grave stato di crisi. Oggi, l’imprenditore miliardario si trova nettamente indietro rispetto a Hillary Clinton, sia nei sondaggi su scala nazionale sia in quelli condotti negli stati decisivi per il successo di novembre, mentre la macchina della raccolta fondi arranca pericolosamente ed è tornata all’ordine del giorno anche l’ipotesi clamorosa di dirottare il sostegno del partito verso un altro candidato nel corso della convention di luglio.

Sugli affanni di Trump in questa fase della sfida per la presidenza degli Stati Uniti pesa indubbiamente la sua inesperienza politica e il confronto con una vera e propria corazzata organizzativa come quella della ex first lady, in grado di contare su agganci formidabili con ampie sezioni della classe dirigente americana e sull’appoggio compatto dell’establishment Democratico.

Tenendo in considerazione però che Hillary Clinton è la seconda personalità politica di primo piano più disprezzata dagli elettori negli USA, dopo Donald Trump, gli stenti di quest’ultimo sono tutto fuorché il risultato dell’aumento della popolarità della sua rivale.

Le ultime settimane hanno visto piuttosto una serie di episodi nei quali Trump è riuscito ancora una volta a tirarsi addosso una valanga di critiche da parte della stampa e di buona parte dei suoi stessi compagni di partito. Particolarmente deleteria sembra essere stata la sua accusa a un giudice americano di origine latino-americana di non poter essere imparziale nel giudicarlo nell’ambito di un procedimento legale che lo vede indagato per avere truffato alcuni ex studenti della defunta Trump University.

Le critiche del candidato alla Casa Bianca facevano riferimento a possibili pregiudizi del giudice viste le numerose uscite razziste e xenofobe di Trump nei confronti degli immigrati ispanici. Dello stesso tono è stato poi anche il commento seguito alla strage di Orlando dello scorso 13 giugno, in seguito alla quale Trump aveva rilanciato la proposta di impedire l’ingresso negli USA a tutti i musulmani.

I sentimenti e le opinioni che circolano all’interno del Partito Repubblicano non sono in realtà molto più progressisti di quelli espressi da Trump. La censura nei suoi confronti ha a che fare più che altro con i timori che i Repubblicani possano perdere ulteriori consensi tra gli appartenenti a minoranze etniche, già poco orientati a sostenere il loro partito.

Le polemiche attorno alla candidatura di Trump riflettono ad ogni modo le dinamiche che hanno caratterizzato la sua ascesa e gli aspetti di una campagna decisamente diversa da quella di un qualsiasi tipico candidato Repubblicano alla nomination per la Casa Bianca.

Trump ha potuto cioè sbaragliare i suoi rivali più graditi ai vertici del partito e conquistare il numero record di 14 milioni di voti nel corso delle primarie in larga misura proprio grazie a una campagna tutt’altro che convenzionale, costruita al preciso scopo di creare un’immagine da “outsider”.

Allo stesso tempo, però, gli aspiranti alla presidenza per i due principali partiti americani devono in qualche modo adeguarsi o trovare un compromesso con le esigenze dell’establishment, sia in termini formali che di sostanza, soprattutto nel passaggio dalle primarie alla campagna per la presidenza vera e propria.

Questo conflitto si è consumato in qualche modo all’interno dello stesso team di Donald Trump e si è forse risolto nei giorni scorsi con il licenziamento del responsabile delle operazioni, Corey Lewandowski, vero e proprio punto di riferimento per gli elementi fascistoidi emersi fin qui nella campagna elettorale dell’uomo d’affari di New York.

Con l’uscita di scena forzata di Lewandowski, il comando delle operazioni in casa Trump è passato al suo rivale interno già assunto qualche mese fa, Paul Manafort, ex lobbysta con una lunga esperienza nelle campagne elettorali Repubblicane e quindi molto più ben visto dai leader del partito.

Questi ultimi rimangono comunque in ansia per la gestione delle operazioni dell’organizzazione di Trump. Il candidato Repubblicano alla presidenza, secondo i dati più recenti, dispone di appena 1,3 milioni di dollari contro i 42 di Hillary, mentre da quasi due mesi non ha commissionato un solo spot elettorale negli stati che si prevede saranno maggiormente in bilico a novembre.

La questione del finanziamento della campagna elettorale e della raccolta fondi è determinante nel sistema americano, dove la selezione del potere è sostanzialmente affidata al denaro e a chi ne detiene in misura tale da potere influenzare la politica. I grandi finanziatori Repubblicani sono attualmente alla finestra, sia per la precarietà della posizione di Trump sia perché qualsiasi donazione andrebbe in buona parte nelle sue casse private e in quelle della sua famiglia.

Trump ha infatti usato finora svariati milioni di dollari per pagare servizi forniti alla sua campagna elettorale da aziende di sua proprietà o di qualche famigliare. Allo stesso modo, i quasi 50 milioni di dollari del suo patrimonio usati per finanziare le operazioni delle primarie sono in realtà un prestito - di fatto a se stesso - che dovrà essere ripagato con le donazioni dei sostenitori Repubblicani.

L’ostilità dei finanziatori Repubblicani nei confronti di Trump è dunque accentuata da queste circostanze e potrebbe risultare decisiva nel prosieguo della sfida con Hillary Clinton. Il commentatore conservatore George Will, ostile a Trump, ha scritto ad esempio recentemente sul Washington Post che i ricchi donatori “possono salvare il loro partito negando il loro aiuto al suo candidato”.

Le speranze dell’ampio fronte Repubblicano anti-Trump sono legate anche ai tentativi di alcuni delegati che saranno presenti alla convention di Cleveland per modificare in parte le regole di voto stabilite dal partito. Anche se il processo appare complicato, teoricamente esiste un modo per svincolare dai risultati delle primarie i delegati chiamati a scegliere ufficialmente il candidato alla Casa Bianca già alla prima votazione. In questo modo, a Trump sarebbe negata la maggioranza dei consensi dei delegati, così che in una seconda votazione la nomination potrebbe essere assegnata a un candidato diverso.

La testata on-line Politico ha spiegato questa settimana come ci siano già alcune decine di delegati intenzionati a percorrere questa strada e altri ancora potrebbero essere convinti nelle prossime settimane a liquidare Trump. Nomi importanti dell’orbita Repubblicana hanno d’altra parte evitato di sostenere formalmente Trump o si sono addirittura espressi contro di lui, come il candidato alla Casa Bianca del 2012, Mitt Romney, o più recentemente il governatore del Wisconsin, Scott Walker, per un breve periodo tra i contendenti alla nomination in questa tornata elettorale.

L’impressione prevalente è comunque che un simile colpo di mano per estromettere Trump dalle presidenziali non sarà alla fine attuato. Questo piano rischierebbe di spaccare il Partito Repubblicano e di consegnare non solo la Casa Bianca ma forse anche il Congresso ai Democratici. La sola esistenza di disegni di questo genere, presi in considerazione seriamente da una parte del partito, è però indicativa della situazione di crisi esistente tra i Repubblicani.

Le elezioni di novembre sono in ogni caso ancora lontane e gli equilibri della corsa alla Casa Bianca potrebbero facilmente cambiare in maniera anche rapida. Gli scenari politici e il clima sociale negli USA risultano estremamente instabili, mentre l’avversione per tutto ciò che viene identificato con il sistema di Washington è in continua crescita.

Non solo, la stessa Hillary Clinton, oltre a essere vista correttamente come un mero strumento delle élite economico-finanziarie, dei militari e dell’intelligence, continua a essere minacciata dalla questione dell’uso illegale di un server di posta elettronica privato quando era al Dipartimento di Stato.

A giudicare dall’atteggiamento della stampa ufficiale e dei poteri forti in queste prime battute delle presidenziali, tuttavia, appare evidente la loro netta preferenza per la candidata Democratica, identificata come quella maggiormente affidabile per la difesa e la promozione degli interessi delle forze che rappresentano il tradizionale apparato di potere degli Stati Uniti.


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