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di Mario Lombardo
Dopo la recente serie di vittorie ottenute da Bernie Sanders nelle primarie Democratiche, lo staff e i sostenitori della sua rivale, Hillary Clinton, hanno intensificato gli sforzi per convincere il senatore del Vermont a ritirare la propria candidatura, viste le ormai quasi nulle possibilità di prevalere nella corsa alla nomination per la presidenza degli Stati Uniti.
Con le pesanti e, a tratti, inaspettate sconfitte in Ohio, Illinois e Missouri lo scorso 15 marzo, Sanders sembrava essere tagliato fuori dalla competizione in maniera definitiva, consentendo presumibilmente a Hillary di percorrere una sorta di marcia trionfale verso la convention dell’estate e le elezioni di novembre.
Tra il 22 e il 26 di marzo, Sanders è riuscito invece a riprendersi e a prevalere in sei delle sette sfide che erano in calendario, spesso con margini molto ampi. Il senatore indipendente diventato Democratico ha ottenuto successi in Idaho, Utah, Alaska, Hawaii, nello stato di Washington e tra gli americani residenti all’estero, mentre Hillary si è dovuta accontentare della sola Arizona.
I risultati della scorsa settimana hanno comunque modificato solo in minima parte i numeri dei due candidati, dal momento che Sanders ha ridotto di appena una cinquantina il divario nel numero di delegati conquistati dall’ex segretario di Stato. Secondo il conteggio tenuto dalla Associated Press, quest’ultima ha oggi 1.243 delegati contro i 975 di Sanders. Per assicurarsi la nomination Democratica di delegati ne servono 2.383.
Considerando anche il fatto che i cosiddetti “superdelegati” Democratici - coloro cioè che alla convention potranno votare senza vincoli per il candidato preferito - sembrano schierati a larghissima maggioranza per Hillary Clinton e che primarie e caucuses di questo partito assegnano delegati con il metodo proporzionale, le speranze di Sanders di ribaltare la situazione rimangono minime se non inesistenti.
Tuttavia, la sua capacità di continuare a mettere a segno successi in numerosi stati, grazie al sostegno soprattutto di giovani e lavoratori affascinati dalla sua agenda progressista, non solo legittima la permanenza nella competizione per la nomination ma solleva enormi dubbi sull’adeguatezza della candidatura di Hillary, anche valutandola secondo gli standard della politica “mainstream” americana.
Forse proprio per questa ragione, parte della strategia Clinton sembra consistere nello spegnere le ambizioni di Sanders e convincere lui e i suoi sostenitori dell’inevitabilità della vittoria della ex first lady, al di là dei risultati altalenanti nei vari stati. Hillary, ad esempio, ha fatto sapere questa settimana che non intende partecipare ai rimanenti dibattiti pubblici in programma con il suo sfidante se quest’ultimo e il suo team non cesseranno di condurre una campagna dai toni negativi nei suoi confronti.
La presa di posizione serve in realtà a ridurre la visibilità di Sanders, privandolo di un palcoscenico televisivo che attrae potenzialmente decine di milioni di possibili elettori. Sul fronte dei dibattiti, inoltre, Sanders era già stato penalizzato dal Partito Democratico con la decisione presa mesi fa di organizzare un numero minore di questi eventi rispetto agli anni scorsi.
Le accuse a Sanders si riferiscono agli attacchi del senatore contro Hillary per i suoi legami - innegabili e ben documentati - con Wall Street, al cui servizio la famiglia Clinton ha conquistato potere e ricchezza. Soprattutto alla vigilia delle primarie del 19 aprile nello stato di New York, per il quale è stata senatrice, Hillary intenderebbe evitare di essere additata in diretta televisiva come la candidata dell’industria finanziaria americana.
Le accuse relative alla presunta campagna negativa di Sanders nei suoi confronti sono comunque ridicole. La sfida in casa Democratica si sta svolgendo su toni infinitamente più moderati rispetto a quella Repubblicana e, ad ogni modo, attacchi, colpi bassi e insulti tra compagni di partito non sono certo una rarità nelle primarie americane, come dimostrò anche la campagna della stessa Clinton nel 2008 contro Obama.
Un’altra strategia per cercare di scoraggiare Sanders e i suoi sostenitori è poi quella di rafforzare l’impressione di una nomination già nelle mani di Hillary Clinton. La stessa favorita nelle sue uscite pubbliche tende a evitare riferimenti al suo sfidante o alle primarie ancora in corso, mentre si concentra negli attacchi contro i Repubblicani e, in particolare, contro Donald Trump.
I membri dello staff di Hillary e i principali giornali americani sostanzialmente allineati al Partito Democratico continuano inoltre a produrre dichiarazioni e analisi che evidenziano il percorso estremamente arduo che attende Sanders per recuperare terreno nel numero di delegati.
Lo stratega capo del team Clinton, Joel Benenson, ha delineato così i prossimi scenari da qui alla fine di aprile, quando i giochi dovrebbero essere ormai fatti. Secondo le sue previsioni, Hillary vincerà le primarie di New York, per poi incassare un numero di delegati sufficiente a chiudere matematicamente il discorso nomination negli appuntamenti del 26 aprile in alcuni stati del nord-est, tra cui Pennsylvania, Maryland e Connecticut.
Questi stessi calcoli avevano iniziato a farli molti deputati e senatori Democratici già una decina di giorni fa. Un articolo del sito Politico.com aveva citato svariati membri del Congresso, impegnati a chiedere a Sanders di trarre le dovute conclusioni dai risultati delle primarie.
Pur senza parlare apertamente di abbandono della corsa, e manifestando rispetto per la sua capacità di attrarre un numero consistente di elettori, i leader Democratici invitavano il senatore a rivolgere le armi contro i Repubblicani invece di continuare a mettere in risalto le debolezze di Hillary, a loro dire già certa della nomination.
Se Hillary resta la super-favorita, Sanders continua a intravedere più di una possibilità almeno per restare in corsa. Ad esempio, buone appaiono per lui le possibilità di fare suo il Wisconsin martedì prossimo e, ancor più, di aggiudicarsi i caucuses del Wyoming quattro giorni più tardi. Anche con queste vittorie, la strada per il senatore del Vermont resterebbe però tutta in salita, ma la precarietà che sembra avvolgere la candidatura della Clinton e il clima di crescente ostilità nei confronti di tutti i politici legati all’establishment di Washington rendono quanto meno legittime le residue speranze di Bernie Sanders.
Al di là della sicurezza mostrata a livello pubblico, i vertici Democratici e i media che gravitano in maniera non ufficiale attorno al partito nutrono parecchi timori per la loro candidata, proprio perché ne conoscono le debolezze e il meritato discredito agli occhi di moltissimi americani. Le preoccupazioni riguardano probabilmente non tanto l’esito delle primarie quanto la sua vulnerabilità a novembre contro qualsiasi pretendente Repubblicano alla Casa Bianca.
A questo proposito, il Wall Street Journal ha rivelato qualche giorno fa come il partito stia valutando l’impiego del vice-presidente Joe Biden per aiutare Hillary a raccogliere consensi tra quella fetta di elettorato che le è stata finora più ostile, cioè i lavoratori bianchi. Biden, secondo i cliché perpetuati dagli ambienti di Washington e dalla stampa ufficiale, manterrebbe infatti un certo appeal tra la “working-class” americana.
I più recenti sondaggi di opinione mostrano poi una realtà preoccupante per la Clinton, la quale, secondo un’indagine commissionata dalla CNN, avrebbe il livello di gradimento più basso tra i rimanenti candidati alla nomination di entrambi i partiti, ad eccezione di Trump. Su base nazionale il vantaggio su Sanders è virtualmente svanito, mentre il senatore del Vermont sembra avere maggiori probabilità di battere il favorito Repubblicano rispetto a Hillary.
Ad agitare i sonni di Hillary continua a esserci infine anche la vicenda legale collegata al suo utilizzo di un account di posta elettronica privato negli anni in cui ha ricoperto la carica di segretario di Stato. Questa pratica è vietata dalla legge americana per quanto riguarda la corrispondenza ufficiale, la quale deve essere gestita da un server governativo.
Proprio martedì, un secondo giudice federale ha accolto l’istanza di un’organizzazione no-profit di destra per chiedere la deposizione giurata di alcuni membri dell’entourage della ex numero uno della diplomazia USA e per rendere pubbliche ulteriori informazioni sulle sue e-mail gestite privatamente.
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di Michele Paris
Il bilancio del gravissimo attentato che il giorno di Pasqua ha colpito un parco di divertimenti di Lahore, la capitale della provincia pakistana del Punjab, ha superato ormai le 70 vittime, tra cui una trentina di bambini. A rivendicare il crimine è stata una fazione dissidente dei Talebani pakistani (Tehrik-e-Taliban, TTP), chiamata Jamaat ul-Ahrar, distintasi nell’ultimo periodo per una serie di operazioni violente e per avere espresso il desiderio di trasformarsi in un affiliato dello Stato Islamico (ISIS).
La strage, che ha colpito principalmente pakistani di fede cristiana, ha segnato l’irruzione della violenza fondamentalista su vasta scala nella provincia più ricca e popolosa del paese centro-asiatico, nonché base di potere del primo ministro in carica, Nawaz Sharif, e del suo partito, la Lega Musulmana del Pakistan (PML-N).
Il comunicato di un portavoce di Jamaat ul-Ahrar per rivendicare l’attentato ha fatto riferimento proprio al premier e al fatto che il gruppo integralista è ormai “entrato a Lahore”. Secondo la stampa pakistana e internazionale, il massacro indiscriminato del fine settimana rientrerebbe nella strategia dei Talebani e dei gruppi che ruotano attorno a essi, volta a destabilizzare il governo di Islamabad con l’obiettivo di creare un regime fondamentalista basato sulla legge islamica (Sharia).
Se la violenza, diretta soprattutto contro le minoranze religiose da parte del terrorismo di matrice sunnita, non è mai venuta meno in Pakistan in questi anni, è però vero anche che l’attentato di Lahore giunge in un frangente nel quale il governo Sharif stava tentando di stabilizzare il paese (ri)costruendo legami economici e strategici con paesi come Cina e Iran. Questo percorso, ancora in fase poco più che embrionale, deve avere suscitato più di un malumore nei due principali alleati di Islamabad, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita.
La condanna dell’attentato proveniente da Washington ha d’altra parte lasciato intendere che il Pakistan trarrebbe maggiori vantaggi nel consolidare l’alleanza con gli USA. Il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale del presidente Obama, Ned Price, ha infatti assicurato che gli Stati Uniti continueranno a lavorare con il Pakistan per “sradicare la piaga del terrorismo”.
In realtà, proprio l’impegno americano in questa parte del continente asiatico ha contribuito e continua a contribuire alla destabilizzazione del Pakistan a causa del proliferare di formazioni integraliste. All’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush costrinse di fatto il regime dell’allora presidente-dittatore Pervez Musharraf a tagliare, almeno ufficialmente, ogni legame con i Talebani in Afghanistan e a procedere con la repressione dei militanti fondamentalisti attivi in territorio pakistano, soprattutto nelle aree tribali di confine.
Una serie di spedizione delle forze armate pakistane contro questi gruppi armati, assieme alla campagna di bombardamenti con i droni condotta da Washington, ha così radicalizzato l’opposizione contro il governo di Islamabad, traducendosi in un’ondata di attentati sia contro obiettivi militari che civili. Allo stesso tempo, però, soprattutto i potenti servizi segreti militari (Inter-Services Intelligence, ISI), hanno mantenuto rapporti quanto meno ambigui almeno con alcune di queste formazioni, consentendo loro di rimanere attive non solo nel vicino Afghanistan ma anche all’interno dei confini pakistani.
La violenza settaria scatenata da queste manovre strategiche orchestrate da Washington è andata così aumentando in Pakistan e tutti i primi segnali seguiti all’attentato di domenica a Lahore indicano che difficilmente ci sarà un’inversione di rotta nel prossimo futuro.
Il governo pakistano, l’apparato militare e dell’intelligence si sono infatti riuniti nei giorni scorsi per decidere il lancio di una nuova offensiva anti-terrorismo, questa volta nel Punjab. Un ministro del governo di quest’ultima provincia ha annunciato martedì che quella già in corso è un’operazione che coinvolge tutte le forze politiche, religiose e militari del paese e solo nelle prime ore migliaia di raid sono stati portati a termine, risultanti in oltre 5 mila arresti.
L’iniziativa decisa da Islamabad comporterà quasi certamente nuove violazioni dei diritti civili e democratici su larga scala, determinati in primo luogo dall’attribuzione di poteri speciali alle forze armate. Un’evoluzione simile era già stata registrata in seguito all’attentato dei Talebani pakistani (TTP) che nel dicembre del 2014 uccise 133 giovani in una scuola di Peshawar.
In quell’occasione, erano stati tra l’altro introdotti tribunali militari per processare civili accusati di terrorismo, anche tramite procedimenti segreti, così come venne ripristinata la pena di morte. Varie organizzazioni umanitarie avrebbero poi documentato il puntuale abuso dei nuovi poteri assegnati ai militari.
L’emergere di Jamaat ul-Ahrar, ad ogni modo, ha riaperto in maniera dolorosa la piaga del settarismo che colpisce il Pakistan, a sua volta connessa alle manovre strategiche accennate in precedenza e basate sull’islamizzazione della società, principalmente in funzione di contenimento delle tensioni sociali in un paese dove la povertà è dilagante.
Questa situazione risulta chiara ad esempio dal caso ampiamente riportato dai media occidentali di Aasia Bibi, la donna cristiana in carcere con l’accusa di blasfemia per avere insultato il profeta Muhammad. Questo mese, alcuni manifestati avevano paralizzato alcuni quartieri della capitale, Islamabad, chiedendo alle autorità di procedere con l’impiccagione della donna.
Nel 2011, inoltre, l’allora governatore del Punjab, Salman Taseer, era stato assassinato da una sua guardia del corpo, Mumtaz Qadri, dopo avere espresso pubblicamente la sua opposizione all’utilizzo della legge sulla blasfemia nella condanna di Aasia Bibi. Lo stesso Qadri è stato poi giustiziato a fine febbraio per l’assassinio, ma dopo l’esecuzione centinaia di persone sono scese per le strade di Islamabad e delle altri principali città del Pakistan per protestare e chiedere addirittura la sua proclamazione a “martire”.
Come ha spiegato il giornalista pakistano Salman Rafi questa settimana sulla testata on-line Asia Times, le radici degli attacchi settari contro le minoranze religiose, a cominciare da quelli che prendono di mira i cristiani, non sono cosa nuova in Pakistan e vanno anzi ricercati in parte nella promozione di questo paese da parte della sua classe dirigente come “bastione dell’Islam” e “terra dei puri” già all’indomani dell’indipendenza nel 1947.
Più di recente, secondo lo stesso autore, questo processo di natura fortemente reazionaria appare evidente anche nella “graduale trasformazione delle università più prestigiose in luoghi dove viene predicato l’estremismo [religioso]”, mentre, con l’approvazione di fatto delle autorità, “gli elementi progressisti vengono emarginati”.
Il problema del settarismo e dell’estremismo religioso in Pakistan, perciò, “non è semplicemente ed esclusivamente limitato a certi gruppi Talebani” in “zone remote” del paese, bensì è ormai penetrato “nei centri urbani” e coinvolge molti degli appartenenti alle classi “più educate”.
Quel che è certo, tuttavia, è che il governo e gli altri centri di potere pakistani continuano a mantenere quanto meno un atteggiamento ambivalente nei confronti di quella che da decenni considerano come un’arma utile al perseguimento dei propri obiettivi. Ugualmente, una soluzione che metta fine alla violenza rimarrà fuori dalla portata e, anzi, il problema rischia di aggravarsi, se si ricorrerà soltanto a “operazioni militari e di intelligence”, esattamente come quella appena lanciata dal governo in risposta alla strage di Lahore.
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di Michele Paris
Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, si appresta a visitare il Pakistan tra venerdì e sabato con un’agenda ricca di significato e che si inserisce nel progressivo riallineamento strategico in corso negli ultimi anni in Asia centrale. Nel concreto, al centro dell’incontro tra Rouhani e il primo ministro pakistano, Nawaz Sharif, ci sarà il rafforzamento dei legami commerciali e, soprattutto, la collaborazione sul fronte energetico, visti i problemi cronici di Islamabad in questo ambito.
La missione del presidente della Repubblica Islamica ha anche a che fare con i rinnovati sforzi di Teheran per costruire relazioni più solide non solo in Medio Oriente, ma anche in Asia centrale e orientale, dopo l’accordo sul suo programma nucleare del luglio scorso e lo smantellamento delle sanzioni internazionali.
Oltre alle possibili forniture di petrolio e gas naturale, le discussioni del fine settimana torneranno alla decennale questione del gasdotto che dovrebbe collegare i due paesi confinanti. La sezione in territorio iraniano di quest’opera - definita “gasdotto della pace” - è stata realizzata già da qualche anno, ma quella in Pakistan si è arenata, nonostante l’annuncio della ripresa dei lavori già tre anni fa, a causa delle sanzioni che gravavano su Teheran e dei problemi economici di Islamabad.
Gli Stati Uniti fanno poi pressioni da tempo sul governo pakistano per abbandonare il progetto, anche se gli sviluppi più recenti suggeriscono un probabile, anche se lento, superamento degli ostacoli. A chiarire ancora una volta le intenzioni del Pakistan è stato in questi giorni il ministro del Petrolio, Shahid Khaqan Abbasi, il quale ha assicurato che il suo governo “è certamente e senza dubbio impegnato nella realizzazione del gasdotto”.
Determinante per portare a buon fine la vicenda sembra essere l’impegno cinese in Pakistan, rilanciato dalla visita dello scorso anno del presidente, Xi Jinping, durante la quale fu promesso un pacchetto di prestiti e progetti d’investimento pari a 45 miliardi di dollari. Pechino ha infatti avviato recentemente i lavori per la costruzione di una parte del gasdotto in territorio pakistano, lasciando a Islamabad solo un centinaio di chilometri da completare per ultimare il collegamento con il confine iraniano.
Se le questioni energetiche riceveranno prevedibilmente la maggior parte delle attenzioni durante la visita di Rouhani, esse non esauriranno le discussioni. Per il nuovo ambasciatore iraniano a Islamabad, Mehdi Honardoost, dovranno essere gettate le basi per portare gli scambi commerciali bilaterali a cinque miliardi di dollari l’anno, obiettivo fissato nel maggio 2014 nel corso di un incontro a Teheran tra il premier pakistano Sharif e lo stesso Rouhani. A sua volta, secondo l’agenzia di stampa iraniana Fars, nei giorni scorsi il ministro pakistano per il Commercio aveva ordinato la preparazione di una “strategia complessiva” per accrescere gli scambi con il vicino.
Non solo, un’altra iniziativa sembra prospettarsi con implicazioni ben più ampie. Per il quotidiano di Karachi, The Express Tribune, la Banca Centrale pakistana avrebbe dato cioè indicazione ai “trader” locali di utilizzare l’euro invece del dollaro nelle transazioni con l’Iran. La decisione sarebbe stata presa per evitare imprevisti alla luce delle rimanenti sanzioni finanziare applicate alla Repubblica Islamica, ma non può che essere vista con una certa apprensione negli Stati Uniti.
La visita di Rouhani, in definitiva, conferma la tendenza del Pakistan a cercare di svincolarsi dall’alleanza che, per quanto disagevole, ha legato e continua a legarlo agli USA. Ugualmente, i rapporti molto cordiali intrattenuti con Teheran e l’impegno a rafforzarli sembrano apparentemente scontrarsi con quello privilegiato mantenuto storicamente con un alleato cruciale di Washington: l’Arabia Saudita.
La monarchia assoluta sunnita è il tradizionale rivale dell’Iran sciita per la supremazia nella regione e le frizioni tra i due paesi sono aumentate considerevolmente dopo la firma dell’accordo sul nucleare a Ginevra tra Teheran e le potenze del gruppo dei P5+1.
L’Arabia Saudita assicura aiuti finanziari consistenti al Pakistan e nel paese del Golfo Persico vivono e lavorano circa due milioni di cittadini pakistani, le cui rimesse verso la madrepatria rappresentano un’altra importante fonte di entrate.
Il Pakistan non ha perciò nessuna intenzione di incrinare i rapporti con il regime saudita, come dimostrano le recenti visite a Riyadh del premier Nawaz Sharif e del capo delle forze armate, generale Raheel Sharif, o la partecipazione a una recente esercitazione militare nel regno con altri paesi musulmani. Tuttavia, i tentativi di mantenere un atteggiamento quanto meno equidistante tra Arabia Saudita e Iran appaiono evidenti.
Un esempio per molti clamoroso di ciò si era avuto nelle prime fasi della guerra di aggressione scatenata dall’Arabia Saudita in Yemen per fermare l’avanzata dei “ribelli” Houthi sciiti. In quell’occasione, pur appoggiando formalmente l’operazione di Riyadh, il governo pakistano aveva respinto gli inviti a partecipare in maniera diretta a un conflitto che viene universalmente considerato come una guerra per procura volta a colpire gli interessi iraniani.
D’altra parte, se la crescente freddezza tra Islamabad e soprattutto Washington è la diretta conseguenza delle scelte di politica estera del governo USA, a cominciare dalla promozione di una partnership strategica in funzione anti-cinese con l’India, ovvero l’arcinemico storico del Pakistan, i rapporti di quest’ultimo paese con l’Iran sono storicamente buoni nonostante le difficoltà dei decenni più recenti.
L’Iran, ad esempio, fu il primo paese a riconoscere la sovranità del Pakistan dopo l’indipendenza nel 1947 e negli anni della Guerra Fredda garantiva a quest’ultimo il proprio appoggio nell’ambito della rivalità e nei conflitti con l’India. Le differenze emersero se mai in seguito, in particolare riguardo l’Afghanistan e il sostegno di Islamabad ai Talebani e al fondamentalismo sunnita. I rapporti non sono mai tuttavia precipitati, anche perché un quinto della popolazione pakistana è di fede sciita, e le relazioni commerciali hanno continuato a espandersi. Nel 1999, poi, i due paesi riuscirono anche a siglare un trattato di libero scambio.
Il riassetto della politica estera pakistana è infine ancora più chiaro dal già ricordato rafforzamento dei rapporti con la Cina, peraltro alleato storico di Islamabad. L’intenzione di Pechino è quella di integrare il Pakistan nella propria strategia di espansione economica rivolta a molti paesi dell’Asia centrale e sud-orientale, in modo anche da rompere o prevenire l’accerchiamento americano, pianificato formalmente dall’amministrazione Obama con l’offensiva strategica nota come “svolta” asiatica.
La classe dirigente pakistana, da parte sua, non può che guardare a Teheran e a Pechino con grande interesse visti i potenziali vantaggi in termini di investimenti e di sicurezza energetica che si prospettano, dal momento che la rete infrastrutturale del paese, così come, più in generale, la situazione economica interna, è in stato di semi-sfacelo.
L’evoluzione degli equilibri a cui si sta assistendo è dunque determinata principalmente dai cambiamenti registrati in Medio Oriente, dall’emergere di nuove opportunità sul fronte economico e dalle manovre degli Stati Uniti in Afghanistan e per contrastare la crescita cinese. I relativi effetti, però, il Pakistan dovrà mostrare di saperli gestire con estrema cautela, alla luce sia della posizione strategica cruciale che continua a ricoprire nello scacchiere dell’Asia centrale sia, proprio per questa ragione, dell’esposizione alle consuete manovre delle potenze globali e regionali.
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di Mario Lombardo
Il giorno successivo al doppio attentato di Bruxelles, con inattesa tempestività le autorità belghe hanno reso nota l’identità dei tre terroristi sospettati di essersi fatti esplodere all’aeroporto di Zaventem e alla stazione della metropolitana di Maelbeek. Due degli attentatori sarebbero i fratelli El Bakraoui, già ricercati dalle autorità in connessione con le stragi di Parigi dello scorso novembre. Vista la manifesta incompetenza della polizia e dei servizi di sicurezza belgi, è molto probabile che in questi mesi fossero entrambi nascosti più o meno tranquillamente a Bruxelles o nei dintorni della città.
Secondo la stampa belga, infatti, Khalid El Bakraoui aveva affittato sotto falso nome un appartamento di Forest, comune alle porte della capitale, perquisito dalla polizia il 15 marzo scorso durante la caccia all’unico membro ancora in vita del commando responsabile degli attentati di Parigi, Salah Abdeslam.
Prevedibilmente, come è sempre accaduto in occasione degli attentati di questi anni attribuiti al fondamentalismo islamista in Europa e altrove, i fratelli El Bakraoui erano ben noti alle forze dell’ordine, anche se prevalentemente per avere commesso crimini comuni. Khalid era stato condannato a cinque anni di carcere nel 2011 per furto, mentre il fratello maggiore, Ibrahim, a nove anni per avere sparato sugli agenti che lo stavano inseguendo dopo una rapina.
Le sorti del terzo uomo che avrebbe partecipato agli attentati di martedì sono sembrate chiarirsi solo nel tardo pomeriggio di mercoledì. In mattinata due testate belghe avevano dato la notizia del suo arresto a Anderlecht per poi fare marcia indietro. Più tardi, invece, le autorità di Bruxelles hanno spiegato che si trattava del terzo kamikaze, ovvero il secondo a colpire all’aeroporto.
L’uomo sarebbe Najim Laachraoui, alias Soufiane Kayal, 24enne, anch’egli coinvolto nell’organizzazione degli attentati di Parigi. Tracce del suo DNA erano state ritrovate sul materiale esplosivo utilizzato dai terroristi al teatro Bataclan e allo stadio Saint- Denis. Secondo il sito web del settimane francese Le Nouvel Observateur, nel febbraio 2013 Laachraoui era stato “uno dei primi belgi di origine araba a unirsi alla jihad siriana” e il 18 marzo 2014 le polizie europee avevano emesso nei suoi confronti un mandato di arresto internazionale.
Laachraoui era stato inoltre identificato alla frontiera autro-ungarica nel settembre 2015 assieme a Salah e a un altro organizzatore della strage di Parigi, Mohamed Belkaïd, ucciso nel già ricordato blitz nei pressi di Bruxelles la scorsa settimana.
Come già i movimenti di Salah Abdeslam e l’organizzazione degli stessi attentati di Parigi, anche le prime informazioni su quanto accaduto questa settimana a Bruxelles sollevano moltissimi dubbi e interrogativi. Per cominciare, se i responsabili sono da ricercare nell’entourage di Salah e quindi legati ai fatti di Parigi di novembre, com’è stato possibile che gli attentatori abbiano potuto organizzare una nuova operazione dal territorio belga ?
Gli oltre 100 morti di Parigi, oltre ad avere fatto scattare uno stato d’emergenza ancora in vigore in Francia con l’implementazione di misure da stato di polizia, avevano portato sul Belgio l’attenzione della comunità internazionale e, soprattutto, sulle forze di sicurezza di questo paese. La gravità degli attentati aveva o avrebbe dovuto perciò far salire al massimo il livello di allarme, almeno fino alla cattura dei responsabili ancora in vita.
Questi ultimi, invece, non solo sono rimasti pressoché indisturbati probabilmente in Belgio per più di quattro mesi, ma si sono sentiti talmente al sicuro da organizzare una nuova strage di massa in una città dove i controlli avrebbero dovuto essere eccezionali.
Ancora, la cattura di Salah avrebbe dovuto fare innalzare ulteriormente il livello di guardia, come avevano suggerito le stesse dichiarazioni delle autorità circa il pericolo di attentati nei giorni successivi. Ciononostante, un gruppo di super ricercati è riuscito a colpire in maniera multipla proprio in luoghi dove la sorveglianza è solitamente maggiore, come un aeroporto e la rete metropolitana.
Le circostanze insolite sono state poi numerose riguardo sia la ricostruzione dei fatti di martedì sia le fasi iniziali dell’indagine. Con un’altra analogia agli attentati di Parigi, ad esempio, le forze di polizia belghe avrebbero rinvenuto un computer portatile in un cestino della spazzatura nel quartiere Schaerbeek contenente il “testamento” di Ibrahim El Bakraoui.
Nello stesso quartiere di Bruxelles, gli investigatori hanno inoltre trovato in un appartamento del materiale esplosivo e un’immancabile bandiera dello Stato Islamico (ISIS). Questi ritrovamenti lasciano com’è ovvio molti dubbi sul comportamento dei terroristi, in grado da un lato di portare a termine operazioni sofisticate nonostante la sorveglianza di forze di sicurezza dotate di poteri enormi e, dall’altro, talmente sprovveduti da lasciare maldestramente indizi e tracce della loro presenza.
Anche dando per certo che le falle nei sistemi di sicurezza resi evidenti dagli attentati in Belgio, così come almeno parzialmente in quelli dei mesi scorsi in altri paesi, siano da attribuire esclusivamente all’incompetenza delle forze di polizia e dei servizi segreti, a livello generale è inevitabile constatare come questi fatti di sangue alimentino un clima di paura e isteria di cui è fin troppo facile individuarne i beneficiari.
Le stragi deliberate che fanno vittime innocenti hanno una natura profondamente reazionaria proprio perché finiscono col confondere e disorientare l’opinione pubblica, permettendo ai governi dei paesi colpiti di giustificare interventi legislativi che comprimono i diritti democratici e di intensificare l’impegno militare all’estero per difendere o promuovere i propri interessi strategici.
A riprova di ciò, già nelle ore successive agli attentati, politici, capi di stato e di governo in Europa e dall’altra parte dell’Atlantico hanno minacciato misure e interventi più duri per combattere la minaccia terroristica. Le iniziative promesse, va ricordato, dovrebbero così aggiungersi a quelle messe in atto in oltre un decennio di “guerra al terrore” e che hanno eroso drammaticamente diritti democratici e la privacy di tutti i cittadini in Occidente e non solo.
Per quanto odiosa e condannabile, la violenza a cui l’Europa ha nuovamente assistito con la strage di Bruxelles non nasce però dal nulla né, tantomeno, da un presunto odio senza fondamento di una minoranza di fondamentalisti islamici per la libertà o la civiltà occidentale, peraltro intaccata da un processo di grave deterioramento per ben precise ragioni di natura economica e sociale.
Al contrario, il terrore di matrice jihadista è indissolubilmente legato alle manovre e agli interventi militari nel mondo arabo promossi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, responsabili della destabilizzazione se non la completa distruzione di interi paesi. L’invasione illegale dell’Iraq del 2003, l’intervento “umanitario” in Libia del 2011 e, ancor più, la guerra scatenata in Siria per il rovesciamento del regime di Assad sono gli esempi più macroscopici di queste politiche dissennate condotte da Washington, Parigi e Londra.
Utilizzando un modello inaugurato oltre tre decenni fa in Afghanistan, gli USA e il loro alleati hanno favorito e apertamente appoggiato l’attività di gruppi fondamentalisti per fare il lavoro sporco contro regimi sgraditi. L’ISIS, assieme ad altre milizie integraliste violente, è la diretta emanazione di queste politiche, tanto che nei primi anni di guerra in Siria le formazioni jihadiste furono responsabili di attentati sanguinosi a Damasco e altrove con le stesse modalità osservate a Parigi o a Bruxelles, spesso senza suscitare nemmeno la condanna formale dei governi occidentali.
La stessa guerra avviata dall’amministrazione Obama contro l’ISIS in Iraq e in Siria è apparsa ben presto come una farsa, vista l’inefficacia di mesi di bombardamenti laddove l’intervento della Russia in tempi relativamente brevi ha ridotto considerevolmente le capacità dei gruppi più estremi.
Una reale strategia di contrasto al terrorismo dovrebbe perciò scaturire, ancor prima che dal rafforzamento dei controlli e dei poteri delle forze di sicurezza o dal coordinamento di queste ultime a livello europeo, da una profonda auto-critica da parte dei governi occidentali.
Una simile prospettiva è però virtualmente impossibile all’interno del quadro politico attuale, sia perché significherebbe ammettere l’utilizzo e la collaborazione di questi governi con la stessa galassia fondamentalista che oggi colpisce nel cuore dell’Europa, sia perché la stampa ufficiale è essa stessa responsabile in larga misura della promozione delle guerre e degli interventi “umanitari” che hanno alimentato il mostro jihadista.
Se, dunque, pur essendo quella del terrorismo islamista una minaccia concreta per l’Europa, che richiede iniziative di contrasto ferme, seppure nel rispetto dei diritti democratici universali, qualsiasi strategia che escluda l’assunzione di responsabilità nella creazione del clima tossico attuale da parte dell’Occidente è destinata non solo a fallire ma, ancora peggio, ad aggravare la minaccia stessa e a compromettere ulteriormente quel modello di società che tutti i governi assicurano di voler difendere dalla “barbarie” fondamentalista.
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di Michele Paris
Lo scontro interno al Partito Conservatore in Gran Bretagna attorno al referendum sull’uscita del paese dall’Unione Europea si è aggravato in questi giorni a seguito delle polemiche che hanno accompagnato la proposta per il prossimo bilancio statale presentata dal Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne. Sui nuovi tagli alla spesa sociale previsti nei prossimi anni si è scatenata una guerra aperta che è confluita in quella già in atto sulla cosiddetta “Brexit” e ha costretto il primo ministro, David Cameron, a intervenire personalmente per limitare il danno politico sofferto dal suo governo.
La decisione di Osborne di tagliare i fondi destinati al sostegno delle persone con disabilità per altri 4,4 miliardi di sterline ha fornito l’occasione al ministro per il Lavoro e le Pensioni, Iain Duncan Smith, per dare le proprie dimissioni dall’esecutivo. L’uscita di scena di quest’ultimo, aperto sostenitore dell’abbandono dell’UE, è stata pianificata per nuocere il più possibile alla leadership Conservatrice e, allo stesso tempo, per favorire il coagulo degli anti-europeisti britannici attorno a una campagna populista e anti-elitaria, peraltro del tutto retorica, in grado di attrarre il maggior numero di elettori in vista del voto di giugno.
Duncan Smith ha così accusato Cameron e Osborne di avere abbandonato la promessa di governare non soltanto per i ricchi, tradizionale base di sostegno dei “Tories”, denunciando come “profondamente ingiusti” i tagli e mettendo in guardia dal pericolo di “dividere invece che unire la società” britannica.
Secondo molti osservatori, la strategia di Duncan Smith, degli altri cinque ministri del governo Cameron e del centinaio di parlamentari Conservatori che appoggiano l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea sarebbe quella di forzare un cambio alla guida del partito dopo il referendum, se non addirittura provocare una scissione, così da mettere da parte non solo il primo ministro ma anche il suo successore designato, vale a dire lo stesso Osborne.
Quest’ultimo ha poi peggiorato la situazione dopo che lunedì non si è presentato alla Camera dei Comuni per dare chiarimenti sulla proposta di bilancio in seguito all’annuncio della cancellazione dei tagli ai fondi per la disabilità. Per il Tesoro è rimasto il vice di Osborne a fronteggiare l’aula, anche se il Cancelliere ha fatto alla fine la sua apparizione nella giornata di martedì.
Cameron ha dovuto così difendere il suo protetto, assicurando nel contempo che il governo non intende abbandonare la linea della “compassione”. Il successore di Duncan Smith, da parte sua, ha inoltre escluso altri tagli al welfare, almeno per il momento, mentre lo stato di agitazione interno al partito sembra avere convinto il Tesoro anche a rimandare di alcuni mesi la decisione sulle misure da adottare per chiudere il buco di bilancio provocato dal reintegro dei fondi a favore dei disabili.
Questa marcia indietro, se nulla ha fatto per far tornare sui suoi passi Duncan Smith o per alleviare il danno provocato dalle sue dimissioni, ha invece messo seriamente nei guai Osborne, quanto meno agli occhi dei sostenitori dell’austerity a oltranza. Le modifiche al “budget” aggraveranno infatti il già previsto sforamento del tetto di spesa per il welfare e, allo stesso tempo, potrebbero mettere a rischio anche l’obiettivo di annullare il deficit di bilancio entro il 2020, data in cui si terranno le prossime elezioni.
Gli scrupoli di Duncan Smith e degli altri Conservatori che hanno criticato il Cancelliere per i tagli troppo pesanti alla spesa pubblica sono comunque tutt’altro che sinceri. Il ministro dimissionario, ad esempio, come ha lasciato intendere Cameron lunedì, è stato uno dei principali artefici del processo di smantellamento del welfare britannico in questi anni, assieme proprio a Osborne. Gli stessi aiuti ai disabili sono già stati privati di oltre 28 miliardi di sterline negli ultimi cinque anni.
Come già anticipato, gli attacchi al governo sui tagli da parte dei Conservatori favorevoli alla “Brexit” servono perciò più che altro a facilitare la creazione di una sorta di piattaforma attorno alla quale possano convergere la destra populista - anche estrema, come il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) - e la “sinistra”, visto che anche tra i Laburisti vi è una minoranza considerevole che chiede di votare per l’addio a Bruxelles.
Esemplari in questo senso sono state le dichiarazioni di questi giorni di svariati politici britannici, tra cui il leader dell’UKIP, Nigel Farage, o l’ex ministro Conservatore nei governi Thatcher e Major, Peter Lilley, i quali hanno sostanzialmente definito assurdi i tagli agli aiuti e ai servizi pubblici destinati ai poveri del Regno Unito mentre Londra continua a contribuire al finanziamento dell’Unione Europea.
Cameron, d’altra parte, ha egli stesso favorito involontariamente l’esplosione delle tensioni nel suo partito con la decisione, presa a causa delle crescenti pressioni interne, di consentire ai membri Conservatori del Parlamento e, addirittura, ai suoi ministri anti-europeisti di fare campagna elettorale a favore della “Brexit”.
A sua volta, la spaccatura nel Partito Conservatore su quest’ultima questione è il riflesso della crisi economica globale e delle divisioni tra le classi dirigenti domestiche circa le modalità più efficaci per proteggere i loro interessi. In definitiva, europeisti e anti-europeisti basano le proprie posizioni non sui vantaggi che possono derivare per la popolazione, bensì per le aziende e gli istituti finanziari a seconda dell’importanza attribuita da essi ai legami più o meno stretti con il mercato europeo.
Che i fautori della “Brexit” possano presentarsi come i difensori delle classi più disagiate e dello stato sociale in fase di smantellamento è dovuto poi alla natura stessa dell’UE, resa ancor più evidente dalla presenza nel campo degli europeisti di leader politici come Cameron e Osborne.
L’Unione Europea e il suo apparato burocratico, cioè, in questi anni di crisi sono apparsi agli occhi di centinaia di milioni di persone come nient’altro che lo strumento dei mercati finanziari e dei grandi interessi economici per implementare, a fronte della fortissima resistenza popolare, misure senza precedenti di devastazione sociale e impoverimento di massa in tutti i paesi membri.