di Mario Lombardo

Le dimissioni nel fine settimana del segretario del Partito Socialista Spagnolo (PSOE), Pedro Sánchez, sono state il risultato di manovre messe in atto da una fazione interna alla principale forza di opposizione allo scopo di consentire la nascita di un governo di minoranza di centro-destra alla guida del paese iberico dopo due elezioni inconcludenti.

Con l’avvicinarsi della scadenza per la formazione di un nuovo gabinetto ed evitare una terza consultazione popolare, i “ribelli” Socialisti si sono mobilitati settimana scorsa in seguito alle dichiarazioni dell’ex primo ministro, Felipe González, nel corso di una visita in Cile. Il 74enne ex leader del PSOE aveva denunciato Sánchez per essersi presumibilmente rimangiato la promessa di fare astenere i parlamentari del partito nel recente voto di fiducia perso dal premier incaricato, Mariano Rajoy, del Partito Popolare (PP) di centro-destra.

A pesare sulla sorte di Sánchez era stata anche l’ennesima batosta patita alle urne nelle elezioni regionali di settimana scorsa. In Galizia e nei paesi Baschi, il PSOE era giunto rispettivamente terzo e quarto, superato in entrambi i casi dal neo-nato partito di protesta Podemos (Possiamo).

A livello nazionale, il PP aveva ottenuto il maggior numero di consensi dopo le elezioni del dicembre 2015 e del giugno di quest’anno, ma in entrambi i casi senza assicurarsi la maggioranza assoluta per governare in autonomia. Il primo ministro in carica aveva siglato un accordo con un’altra formazione di centro-destra, il partito dei Cittadini (Ciudadanos), ma per riuscire a conquistare la fiducia in parlamento serviva un altro partner o, al secondo voto in aula, un numero di astensioni tale da raggiungere almeno la maggioranza relativa dei seggi.

Quest’ultima soluzione era ed è tuttora possibile solo con l’astensione di almeno 85 parlamentari Socialisti. Tuttavia, nonostante le pressioni di molti all’interno del suo partito, Sánchez era riuscito finora a mantenere compatta la delegazione del PSOE, frustrando i tentativi di Rajoy di restare alla guida del governo spagnolo.

Poco dopo le già citate dichiarazioni di Felipe González, 17 su 35 membri del comitato esecutivo del partito si sono però dimessi dal loro incarico e, aggiungendosi a tre posti già vacanti, hanno fatto scattare una norma dello statuto del PSOE che, in caso di assenza della metà più uno dei componenti il direttivo nazionale, prevede la convocazione di un congresso straordinario e il trasferimento degli incarichi del segretario a una leadership provvisoria.

Sánchez ha dovuto così indire l’assemblea e nella giornata di sabato ha finito per dimettersi dopo la bocciatura per 132 a 107 di una sua risoluzione che chiedeva un voto per eleggere un nuovo segretario il 23 ottobre prossimo. In un appuntamento cruciale per la nascita di un possibile governo di minoranza a Madrid, un altro comitato del PSOE dovrà ora esprimersi sull’eventuale astensione del partito nel prossimo voto di fiducia che affronterà in parlamento il primo ministro Rajoy.

Le vicende interne al Partito Socialista Spagnolo sono la conseguenza del terremoto elettorale degli ultimi nove mesi che ha fatto crollare l’architettura sostanzialmente bipartitica su cui si basava il panorama politico post-franchista. Il PSOE, in particolare, ha raccolto i peggiori risultati della propria storia, sprofondando in una gravissima crisi, acuita dalle divisioni tra coloro che intendevano favorire la nascita di un nuovo governo guidato dal PP - tramite l’astensione o la partecipazione diretta all’Esecutivo - e quanti spingevano per una qualche alleanza con Podemos.

L’apparente successo dei primi nella lotta per la leadership del partito contraddice con ogni probabilità il volere della maggioranza degli elettori del PSOE. Durante il congresso del partito a Madrid nel fine settimana numerosi manifestanti hanno espresso il loro appoggio a Pedro Sánchez e denunciato come “golpisti” e “traditori” i membri della fazione contraria a quella del segretario, guidata dalla numero uno dei Socialisti in Andalusia, Susana Díaz. Un recentissimo sondaggio ha inoltre mostrato come circa il 60% dei sostenitori del PSOE fosse favorevole alla linea di Sánchez.

La scelta che opereranno i leader Socialisti nel prossimo futuro porterà in ogni caso conseguenze negative per il partito. Il dilemma del PSOE indica uno stato di crisi difficilmente reversibile e nei giorni scorsi è stato riassunto ad esempio dal Wall Street Journal, per il quale l’astensione dei suoi parlamentari e il via libera a un governo di minoranza del PP provocherebbe una rivolta da parte dei suoi elettori più orientati a sinistra, ovvero la maggioranza.

Allo stesso tempo, la continua opposizione a Rajoy e il conseguente prolungamento dello stallo politico a Madrid farebbero aumentare le pressioni sul partito da parte di quegli ambienti - della politica, della stampa e degli affari - che vedono come unica soluzione per la stabilizzazione del sistema la rapida formazione di un governo e l’allontanamento dello spettro di un terzo voto in dodici mesi.

L’accelerazione impressa alle manovre all’interno del PSOE per mettere da parte Pedro Sánchez e facilitare la creazione di un esecutivo a guida Popolare corrisponde al crescere delle preoccupazioni nella classe dirigente spagnola ed europea per la mancanza a Madrid di un esecutivo pienamente legittimato a proseguire con le politiche di rigore che hanno caratterizzato l’azione degli ultimi governi di entrambi i partiti.

Se alla fine dell’anno l’economia spagnola potrebbe fare segnare un tasso di crescita pari addirittura al 3%, gli allarmi per gli effetti dell’impasse politica si fanno sentire da tempo. Ai primi di settembre, l’agenzia di rating Moody’s aveva avvertito ad esempio che l’assenza di un governo avrà effetti negativi sull’economia del paese. Nello specifico, il persistere di questa situazione metterebbe in dubbio “le capacità della Spagna di rispettare i propri obiettivi fiscali” e l’impegno nell’affrontare “la debolezza strutturale dei conti pubblici”.

L’eventuale nascita di un governo di minoranza guidato da Rajoy grazie all’astensione di almeno una parte dei parlamentari Socialisti consentirebbe in definitiva di proseguire con le politiche di riduzione della spesa pubblica e con la ristrutturazione dei rapporti di lavoro a favore di una sempre maggiore flessibilità.

Che questo processo sia favorito dal PSOE non è d’altra parte sorprendente, visto che era stato inaugurato dopo la crisi globale del 2008 proprio dal governo Socialista dell’allora premier, José Luis Zapatero. Anzi, questa stessa eredità rappresenta il fardello più pesante che grava sui Socialisti, il cui scontro interno testimonia del disfacimento in atto nel più vecchio partito spagnolo, in costante spostamento verso destra a fronte della radicalizzazione del proprio elettorato di riferimento.

La stessa strategia politica di Sánchez, d’altronde, non rappresentava un’alternativa progressista all’uscita dalla crisi politica spagnola. Il leader dimissionario del PSOE aveva prospettato qualche apertura nei confronti di Podemos soltanto per evitare il tracollo del suo partito in caso di complicità nella formazione di un governo di centro-destra.

Infatti, dopo le elezioni dello scorso dicembre, Sánchez aveva sottoscritto un accordo con il partito di centro-destra Ciudadanos, nella speranza, poi frustrata, di ottenere il sostegno di Podemos per un progetto di governo solo apparentemente alternativo a quello promosso dal Partito Popolare.

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