di Michele Paris

La decisione degli Stati Uniti di sospendere il dialogo con la Russia su un possibile stop ai combattimenti in Siria è un ulteriore gravissimo segnale del precipitare degli eventi nel paese mediorientale e dei preparativi americani in atto per scatenare un’escalation militare con l’obiettivo di provare a invertire le sorti del conflitto sul campo.

L’allargamento delle divisioni tra Mosca e Washington si sta consumando mentre l’offensiva dell’esercito regolare siriano, appoggiato dalle forze russe, iraniane e di Hezbollah, appare sempre più vicina alla riconquista di Aleppo. In quella che era la città più popolosa e la capitale commerciale della Siria, secondo molti osservatori si potrebbe decidere il destino stesso della guerra in corso da più di cinque anni. Per questa ragione gli Stati Uniti e i loro alleati intendono giocare tutte le carte rimaste per sostenere i “ribelli” sotto assedio, in grandissima parte composti da formazioni jihadiste.

Con il protrarsi della guerra e in particolare dopo l’intervento della Russia a sostegno del regime di Damasco poco più di un anno fa, la credibilità delle motivazioni ufficiali dell’appoggio statunitense alla rivolta contro Assad è a poco a poco crollata, rivelando le manovre per il cambio di regime basate sul finanziamento e la fornitura di armi a formazioni estremiste. Per mantenere almeno le apparenze di un intervento “umanitario” o a favore delle aspirazioni democratiche del popolo siriano, l’amministrazione Obama ha dovuto mettere in atto uno sforzo propagandistico che richiede il costante ribaltamento della realtà dei fatti.

Così ha dovuto fare lunedì il Dipartimento di Stato nel dare notizia della rottura dei colloqui tra Washington e Mosca a una settimana dal crollo dell’accordo sul cessate il fuoco, raggiunto in precedenza tra i capi delle rispettive diplomazie. Nel precisare che la decisione non è stata presa in maniera precipitosa, il portavoce del dipartimento di Stato, John Kirby, ha attribuito alla Russia responsabilità che pesano invece proprio sul governo americano. Le stesse accuse le ha ribadite martedì anche il segretario di Stato, John Kerry, aggiungendo assurdamente che gli Stati Uniti non intendono “abbandonare il perseguimento della pace” in Siria.

Mosca, secondo Washington, sarebbe venuta meno ai propri impegni, dimostrandosi “indisponibile o non in grado” di garantire il rispetto delle condizioni della tregua da parte del regime siriano. La realtà indica al contrario che gli USA hanno utilizzato i primi giorni del cessate il fuoco per consentire ai “ribelli” di riorganizzarsi di fronte all’offensiva di Damasco, mentre hanno mancato di implementare una condizione cruciale prevista dall’accordo, vale a dire la separazione delle formazioni “moderate” dai terroristi.

Ciò avrebbe dovuto spianare la strada a una collaborazione tra Russia e Stati Uniti per individuare e colpire congiuntamente i gruppi fondamentalisti. Viste anche le divisioni tra il Pentagono e la Casa Bianca sull’opportunità di aderire almeno formalmente all’accordo sulla tregua, gli USA hanno dato alla fine il colpo di grazia a quest’ultima, bombardando una ben nota base militare dell’esercito di Damasco nella città di Deir ez-Zor, dove sono rimasti uccisi un centinaio di soldati siriani.

Di questo episodio, giustificato come un “errore” dal Pentagono, né il portavoce del dipartimento di Stato né altri esponenti dell’amministrazione Obama, impegnati a denunciare la Russia, hanno fatto parola nell’annunciare la sospensione del dialogo sulla Siria.

La battaglia di Aleppo è ad ogni modo al centro delle denunce contro la Russia di media e governi occidentali allo scopo di convincere l’opinione pubblica internazionale della necessità di un maggiore sforzo militare per impedire il massacro di civili innocenti. Le recriminazioni e le accuse ai governi di Siria e Russia per la situazione di Aleppo fanno parte però della solita retorica umanitaria che ha come obiettivo non la protezione delle popolazioni colpite dalla guerra, ma l’escalation delle pressioni sui presunti responsabili delle violenze per giustificare un intervento diretto nel conflitto.

La catastrofe che sta interessando Aleppo e la Siria viene poi presentata falsamente come un assalto indiscriminato del regime contro la popolazione civile e le formazioni “ribelli” che si battono eroicamente per un futuro di democrazia e libertà. In realtà, l’opposizione armata al regime ad Aleppo, come altrove, è costituita principalmente da combattenti fondamentalisti, spesso legati ad al-Qaeda, come l’ex Fronte al-Nusra, ora ribattezzato Jabhat Fateh al-Sham.

Queste formazioni, nonostante il silenzio dei media in Occidente, sono responsabili esse stesse di bombardamenti indiscriminati contro i civili nelle zone della città controllate dalle forze governative e spesso impediscono ai residenti rimasti di fuggire e raggiungere la salvezza.

Non solo: come ha rivelato un rapporto delle Nazioni Unite recentemente pubblicato dalla pubblicazione on-line The Intercept, sono state in buona parte le sanzioni applicate da USA e Unione Europea a provocare il disastro umanitario in Siria. In questo modo, il paese è stato destabilizzato e la sua economia distrutta, così come l’accesso a medicinali, cibo, carburante, ricambi ed equipaggiamenti necessari in ogni settore industriale è stato di fatto bloccato.

In generale, se pure le operazioni del regime con l’appoggio russo dimostrano l’assenza di scrupoli nel condurre l’assedio ad Aleppo, è necessario inquadrare i fatti nel contesto più ampio della guerra che sta sconvolgendo la Siria. Il conflitto è stato cioè alimentato deliberatamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente per ragioni di natura esclusivamente geo-strategica e, nel perseguire i propri interessi, questi paesi hanno coltivato e appoggiato forze integraliste, se non apertamente terroristiche.

Le forze di Damasco, infine, operano per riportare il paese sotto il controllo di un governo legittimo e riconosciuto a livello internazionale, che ha richiesto in maniera ugualmente legittima l’assistenza militare dell’alleato russo. Al contrario, gli Stati Uniti e gli appartenenti alla “coalizione” che opera in Siria agiscono totalmente al di fuori del diritto internazionale e sono impegnati in un’operazione di cambio di regime con metodi violenti contando su formazioni terroriste.

Gli ultimi sviluppi della situazione in Siria fanno dunque aumentare anche il rischio di uno scontro diretto tra USA e Russia. Tuttavia, il precipitare della situazione è tutt’altro che sorprendente, malgrado le speranze che molti avevano riposto nei negoziati promossi proprio da Washington e Mosca. I due paesi continuano ad avere obiettivi e interessi diametralmente opposti in Siria e l’inconciliabilità appare sempre più evidente, al di là della reale o presunta volontà di cercare una soluzione pacifica espressa dalle rispettive diplomazie.

L’impressione che si ricava dalle recenti iniziative e dichiarazioni provenienti da Mosca è che il governo russo abbia definitivamente preso atto dell’impossibilità di trattare in maniera onesta con gli Stati Uniti. L’intensificazione dell’impegno militare ad Aleppo è infatti il segnale che il conflitto non può ormai che essere risolto sul campo.

Dal ministero degli Esteri di Mosca giungono così dichiarazioni minacciose, raramente rilevabili nei mesi scorsi. Un comunicato ufficiale emesso questa settimana sostiene ad esempio che gli Stati Uniti sono pronti “a fare un patto col diavolo”, ovvero con i “terroristi più incalliti”, per rovesciare il regime di Assad.

D’altra parte, l’innalzamento dei toni di minaccia era cominciato proprio da Washington, con il già citato portavoce del dipartimento di Stato, John Kirby, che aveva prospettato forti perdite tra le forze di Mosca e addirittura attentati nelle città russe ad opera di gruppi jihadisti se il coinvolgimento del Cremlino nelle vicende siriane fosse proseguito.

Gli interventisti negli Stati Uniti continuano anche a promuovere l’idea di una no-fly zone nei cieli della Siria, pur considerando i rischi che essa comporta. Il capo di Stato Maggiore USA, generale Joseph Dunford, un paio di settimane fa aveva affermato che il ricorso a una simile misura in Siria richiederebbe né più né meno di entrare in guerra contro la Russia e la Siria.

Alle provocazioni americane, Mosca sembra ormai intenzionata a rispondere colpo su colpo. Lunedì il presidente Putin ha firmato un decreto con il quale è stata sospesa la collaborazione con gli Stati Uniti attorno a un accordo, firmato nel 2000, che regola l’utilizzo delle scorte di plutonio di entrambi i paesi per evitare che questo materiale venga usato per la costruzione di nuove armi nucleari.

Secondo quanto riportato lunedì da FoxNews, inoltre, la Russia avrebbe deciso di posizionare in Siria il sistema avanzato di difesa missilistica SA-23 Gladiator, in aggiunta all’S-400 già installato lo scorso anno dopo l’abbattimento di un jet russo da parte dell’aviazione turca. Il nuovo equipaggiamento, secondo le fonti del network americano, potrebbe essere utilizzato contro eventuali lanci di missili Cruise americani.

Se la decisione, presa dall’amministrazione Obama, di interrompere il dialogo con Mosca sulla Siria implica un innalzamento del rischio di guerra tra le due potenze nucleari, sono in molti a credere che la mossa annunciata lunedì dal Dipartimento di Stato sia assieme il riflesso della frustrazione americana per l’evolversi della situazione e la conferma dell’esaurirsi delle opzioni a disposizione di Washington per influenzare gli eventi.

Come ha spiegato martedì il noto giornalista investigativo americano, Gareth Porter, gli Stati Uniti in definitiva “non hanno più nulla da offrire”, non disponendo di un piano alternativo ai negoziati con la Russia. La scelta di rompere il filo diplomatico con Mosca potrebbe essere allora il tentativo disperato di agire da grande potenza, dando l’impressione di avere una certa influenza nella regione, mentre anche la coesione all’interno dell’amministrazione Obama sta andando in pezzi.

Gli Stati Uniti, in altre parole, stanno perdendo sempre più la capacità di influire sugli eventi in Siria, principalmente a causa delle contraddizioni della loro politica estera. L’allontanarsi degli obiettivi che avevano provocato il conflitto non lascia però intravedere una rapida soluzione, bensì, molto più realisticamente, un probabile ulteriore aggravamento della crisi in atto.

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