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di Michele Paris
Il momento della conquista della nomination Repubblicana per le elezioni presidenziali americane da parte di Donald Trump, previsto da pochissimi fino a qualche mese fa, è arrivato nella serata di martedì al termine delle primarie nello stato dell’Indiana. La vittoria molto netta e il ritiro del suo unico vero rivale, il senatore del Texas, Ted Cruz, lo hanno rispettivamente avvicinato alla maggioranza assoluta dei delegati del partito conquistati e messo al riparo da colpi di mano alla convention di luglio per ribaltare i risultati elettorali di questi mesi.
In Indiana, Trump ha ancora una volta superato il 50% dei consensi, attestandosi al 53%, così da intascare tutti e 57 i delegati in palio nello stato. A Trump servirebbero teoricamente meno di 230 dei 445 delegati che restano da assegnare nelle primarie ancora in calendario, quasi tutte con il sistema maggioritario. L’addio anche del governatore “centrista” dell’Ohio, John Kasich, annunciato mercoledì rende però ormai il prosieguo della corsa in casa Repubblicana una pura formalità.
Se tra i leader e i finanziatori Repubblicani rimangono forti riserve nei confronti di Trump, da qualche settimana sono giunti vari segnali di un probabile accomodamento del partito all’ormai quasi certo candidato alla Casa Bianca. Dopo gli scontri verbali dei mesi scorsi, ad esempio, il presidente del Comitato Nazionale Repubblicano, Reince Preibus, ha affermato martedì che Trump è ora il “probabile” candidato del partito ed esso deve unirsi attorno al suo nome.
I giornali americani hanno sottolineato l’eccezionalità della corsa e del successo di Trump, il primo candidato alla Casa Bianca di uno dei due principali partiti dai tempi di Eisenhower a non avere mai ricoperto cariche elettive. Trump, inoltre, ha aderito ufficialmente al Partito Repubblicano solo nel 2012, mentre in precedenza aveva donato centinaia di migliaia di dollari a politici Democratici, inclusi i Clinton.
Per trionfare nelle primarie, inoltre, Trump non ha avuto bisogno di ricorrere all’appoggio finanziario di ricchi donatori, avendo in buona parte pagato di tasca propria le spese della campagna elettorale, mentre ha condotto le operazioni nei vari stati non con un’organizzazione imponente ma con un team ridotto all’osso, trasgredendo così a due condizioni che sembravano imprescindibili fino a pochi mesi fa.
La singolarità della sua più che probabile vittoria è legata però soprattutto alla natura del candidato Trump, un populista di destra che non ha avuto scrupoli a offrire proposte apertamente fasciste, e al travolgente sentimento anti-establishment che sta caratterizzando questa stagione elettorale negli Stati Uniti. Uno scenario di certo sgradito a molti Repubblicani ma che è in definitiva il risultato della promozione di forze reazionarie da parte del loro partito e, più in generale, di tutto il panorama politico americano.
La corsa alla nomination Repubblicana è stata segnata dall’emergere, in maniera decisamente fugace, dei candidati sostenuti dall’apparato di potere del partito e, una volta incassato questo sostegno, dal loro puntuale crollo. Ciò è accaduto per Jeb Bush, poi per Marco Rubio e, infine, per Ted Cruz.
Proprio il senatore ultra-conservatore del Texas aveva provato in tutti i modi a fermare Trump, da ultimo attraverso un patto con Kasich, peraltro mai decollato, per ottenere i voti dei sostenitori di quest’ultimo in Indiana e con l’annuncio insolito della scelta del suo candidato alla vice-presidenza, l’ex amministratore delegato di HP, Carly Fiorina.
Cruz ha alla fine pagato un calendario delle primarie che, dopo il suo momento migliore in Wisconsin un mese fa, ha proposto il voto in una serie di stati favorevoli a Trump. Cruz aveva però già perso molte sfide sul suo terreno all’inizio della competizione, cioè nel sud degli Stati Uniti, e soprattutto le sue posizioni di estrema destra e ispirate al fondamentalismo cristiano sono risultate troppo estreme anche per gli elettori Repubblicani.
A fare il resto sono stati i sentimenti non esattamente benevoli dei leader del partito nei suoi confronti e il conseguente sostegno troppo tiepido ottenuto da questi ultimi per costruire una strategia sufficiente a impensierire Trump.
Molti commentatori negli USA, in particolare sulla stampa “liberal”, già da mercoledì hanno rilevato come Trump parta ora da una posizione di netto svantaggio nella sfida di novembre con Hillary Clinton. I sondaggi indicano un distacco in media di dieci punti percentuali dall’ex segretario di Stato e addirittura in alcuni stati tradizionalmente Repubblicani Trump sarebbe in difficoltà.
Alle presidenziali mancano però parecchi mesi e la storia delle elezioni americane non è priva di rimonte in un periodo di tempo così lungo. Soprattutto, poi, Hillary resta una candidata estremamente debole, disprezzata in misura solo leggermente inferiore rispetto a Trump dagli americani e con un lungo elenco di vulnerabilità, determinate in sostanza dai suoi legami inestricabili con i grandi interessi economico-finanziari e dalle tendenze marcatamente guerrafondaie mostrate in decenni di carriera politica.
Ponendo la questione in altri termini, inoltre, pur avendo entrambi livelli negativi di gradimento tra i potenziali elettori, la sfida di novembre potrebbe assumere i contorni dell’outsider contro la quintessenza stessa dell’establishment di Washington, vale a dire una posizione non invidiabile per Hillary alla luce della disposizione degli americani.
Del genere di candidato che il Partito Democratico presenterà a novembre se ne è avuta un’idea ancora martedì. Dopo i successi in cinque delle ultime sei primarie, tra cui a New York, e almeno due settimane di incessante campagna mediatica incentrata su una nomination ormai in tasca, Hillary è riuscita a farsi battere in Indiana da un Bernie Sanders ormai quasi in modalità post-elettorale.
Ai fini della nomination, la sconfitta non avrà ripercussioni, visto che il senatore del Vermont recupererà solo una manciata di delegati senza intaccare l’ampio margine di vantaggio di Hillary. Tuttavia, la favorita Democratica potrebbe giungere all’incoronazione nella convention di Philadelphia a luglio sull’onda di una serie di sconfitte imbarazzanti, rese ancora più gravi dal fatto che arriverebbero insolitamente dopo essersi di fatto garantita la nomination.
Come ha fatto notare lo stesso Sanders recentemente, è possibile poi che Hillary ottenga la maggioranza assoluta dei delegati solo grazie all’appoggio dei cosiddetti “super-delegati”, ovvero quei membri del partito che hanno diritto di voto alla convention ma senza essere vincolati al risultato delle primarie nei loro stati di origine. Se ciò si verificasse, sarebbe un ulteriore segnale del debole consenso popolare per la candidata alla Casa Bianca, in grado di raggiungere questo status solo grazie al massiccio sostegno dell’apparato del partito.
Sanders, da parte sua, appare deciso a rimanere in corsa, nonostante abbia ridimensionato il suo team in maniera drastica e le donazioni a suo favore abbiano fatto segnare una brusca discesa. Il suo obiettivo sembrerebbe essere diventato però quello di coltivare l’illusione che il Partito Democratico possa essere spinto ad adottare una piattaforma “progressista” in vista del voto di novembre.
Il candidato “perdente”, in ogni caso, martedì sera ha salutato il successo nelle primarie dell’Indiana tenendo un comizio in Kentucky, dove si voterà il 17 maggio. Qui, Sanders è dato per favorito su Hillary Clinton, così come almeno negli altri due stati chiamati alle urne nei prossimi quindici giorni: l’Oregon e il West Virginia.
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di Michele Paris
A giudicare dalle polemiche che da qualche giorno stanno animando il panorama politico della Gran Bretagna, il Partito Laburista si sarebbe improvvisamente rivelato un covo di irriducibili anti-semiti, contro i quali la leadership di Jeremy Corbyn viene ora chiamata ad agire senza troppi riguardi. Ciò che sta accadendo a Londra è in realtà una campagna attentamente studiata per attaccare lo stesso numero uno del principale partito di opposizione, sotto il fuoco della destra del Labour fin dalla sua elezione lo scorso settembre a causa delle sue posizioni eccessivamente di “sinistra”.
Il dibattito in corso ha assunto ben presto toni da farsa, scivolando involontariamente nel ridicolo, soprattutto sui giornali filo-Conservatori. La nuova grana per Corbyn, fin troppo disponibile a piegarsi ai ricatti della galassia Laburista fedele all’ex primo ministro Tony Blair, era iniziata settimana scorsa in seguito alla pubblicazione, da parte del blogger di destra Guido Fawkes (Paul De Laire Staines), di un post apparso nell’agosto del 2014 sulla pagina Facebook della deputata Laburista Naz Shah, nel quale suggeriva come soluzione al conflitto israelo-palestinese il trasferimento dello stato di Israele negli Stati Uniti.
La parlamentare di origine pakistana si era subito scusata, giustificandosi con il fatto che il post risaliva all’ultima aggressione israeliana di Gaza, periodo in cui il “livello emozionale” era estremamente alto, soprattutto per i musulmani. Poco più tardi è stato inoltre reso pubblico un altro post di Naz Shah, questa volta relativo a un’iniziativa che invitava i suoi “followers” a esprimersi in un sondaggio on-line sulla domanda se Israele avesse commesso o meno crimini di guerra a Gaza.
Le scuse della deputata non sono valse a nulla, visto che la leadership del Partito Laburista ha deciso di sospenderla e di sottoporla a un’indagine del comitato esecutivo nazionale. Tutt’altro che casualmente, Naz Shah è vicina a Jeremy Corbyn, il quale le aveva assegnato l’incarico di segretaria parlamentare di John McDonnell, ovvero il più stretto alleato del leader del partito e Cancelliere dello Scacchiere nel governo-ombra Laburista.
La polemica sul presunto anti-semitismo di Naz Shah non si è però chiusa in questo modo, anzi ha finito per coinvolgere un pezzo grosso del Partito Laburista alleato di Corbyn, l’ex sindaco di Londra Ken Livingstone, vittima di una vera e propria caccia alle streghe. Livingstone è stato messo sotto accusa per un’intervista rilasciata a BBC Radio nella quale aveva sostanzialmente difeso la parlamentare Laburista dalle accuse di anti-semitismo.
Inoltre e soprattutto, Livingstone aveva accostato Adolf Hitler al Sionismo. “Non dimentichiamo”, aveva affermato, “che, quando Hitler vinse le elezioni nel 1932, la sua intenzione era allora quella di trasferire gli ebrei in Israele. [Hitler] sosteneva perciò il Sionismo… solo in seguito è impazzito e ha finito con l’uccidere sei milioni di ebrei”.
L’ex primo cittadino della capitale britannica era infine andato al cuore della polemica, sostenendo correttamente che essa fa parte del “tentativo di screditare Jeremy Corbyn e i suoi alleati”, bollandoli come “anti-semiti fin dal momento in cui è diventato il leader” del partito. Semplicemente, ha aggiunto Livingstone, “abbiamo il diritto di criticare” il brutale trattamento del popolo palestinese.
Queste dichiarazioni hanno subito scatenato la destra Laburista, con molti esponenti di primo piano impegnati a chiedere l’espulsione di Ken Livingstone, tra cui i candidati battuti da Corbyn per la leadership del partito - Andy Burnham, Yvette Cooper, Liz Kendall - e il candidato a sindaco di Londra nelle elezioni di giovedì, Sadiq Khan.
L’assalto a Livingstone e, indirettamente, a Corbyn, ha assunto poi contorni grotteschi quando l’ex sindaco di Londra è stato pesantemente insultato per strada dal deputato Laburista John Mann. Lo sfogo di quest’ultimo è stato debitamente filmato e reso pubblico, mentre Livingstone è stato anch’egli sospeso dal partito.
Le accuse di anti-semitismo rivolte a Ken Livingstone sono a dir poco assurde, non solo per le posizioni assunte in quarant’anni di carriera dal veterano della politica Laburista. Infatti, se pure le sue dichiarazioni su Hitler peccano di una certa superficialità, visto anche il contesto in cui sono state rilasciate, esse non mancano di fondamenta storiche e fanno riferimento ai tentativi ben documentati da parte di sezioni del movimento sionista tedesco per trovare un compromesso con il regime nazista.
Con ogni probabilità Livingstone si riferiva soprattutto al cosiddetto Accordo di Haavara, o del Trasferimento, siglato nell’agosto del 1933 tra il ministero dell’Economia nazista e la Federazione Sionista della Germania per facilitare l’emigrazione degli ebrei tedeschi in Palestina.
In maniera purtroppo poco sorprendente, però, gli ambienti sionisti e altre forze reazionarie continuano a rivolgere accuse di anti-semitismo verso chiunque manifesti anche una parvenza di critica ai metodi repressivi e al limite del genocidio utilizzati quotidianamente dal governo israeliano nei confronti dei palestinesi.
Nel caso della diatriba attorno al Labour britannico, quella in atto è un’aperta provocazione delle forze di destra - interne ed esterne al partito - volta a colpire Jeremy Corbyn. La sospensione di Naz Shah e Ken Livingstone non ha arrestato la polemica, tanto che la stampa d’oltremanica ha scritto mercoledì di come i vertici Laburisti abbiano preso provvedimenti nei confronti di almeno una cinquantina di membri, colpevoli di avere espresso opinioni anti-semite.
Articoli come quello pubblicato martedì dal filo-Conservatore Daily Telegraph hanno elencato una interminabile sequenza di dichiarazioni, post e battute varie di politici Laburisti in odore di anti-semitismo. La commissione interna al partito incaricata di fare luce su accuse di questo genere avrebbe addirittura per le mani un numero tale di segnalazioni da non essere in grado di svolgere il proprio lavoro per mancanza di fondi.
Se sentimenti simili possono essere presenti in questo come in altri partiti in Gran Bretagna e non solo, le finalità politiche dell’operazione in atto sono evidenti, tanto più che le presunte frasi anti-semite riportate sono spesso sfoghi o dichiarazioni legittime contro i crimini di Israele e a difesa del popolo palestinese.
Lo stesso Telegraph ha peraltro ammesso come ci sia in ballo ben altro. Per il quotidiano londinese, i vertici del Partito Laburista temono un possibile golpe ai danni di Corbyn in caso di risultato negativo nelle elezioni amministrative di questa settimana. A sostituirlo alla guida del partito sarebbe già pronto nientemeno che il suo alleato, John McDonnell.
Quello a cui si sta assistendo in questi giorni è dunque il tentativo di danneggiare il Labour nel voto di giovedì, in modo da utilizzare un eventuale esito deludente e le stesse vicende legate ai casi di presunto anti-semitismo per fare pressioni sulla leadership del partito e giungere possibilmente a un colpo di mano che deponga Jeremy Corbyn.
Se si dovesse giungere a tanto, quest’ultimo dovrebbe in ogni caso ricercare le responsabilità in primo luogo nella sua gestione del partito in questi mesi. Dopo avere conquistato la leadership Laburista grazie al vastissimo sostegno popolare per la sua agenda progressista in seguito alla deriva reazionaria sotto la guida di Blair e Gordon Brown, Corbyn ha sostanzialmente sprecato il suo capitale politico, finendo da subito per accettare una serie di compromessi con una rinvigorita destra del partito che, pur essendo ampiamente screditata nel paese, non ha mai smesso di tramare per rimuoverlo dal suo incarico alla prima occasione favorevole.
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di Mario Lombardo
L’abbandono in maniera pacifica della cosiddetta Zona Verde di Baghdad da parte dei manifestanti guidati dal leader religioso sciita, Moqtada al-Sadr, ha soltanto messo in pausa la grave crisi in cui si dibatte da mesi il governo iracheno del primo ministro, Haider al-Abadi. Praticamente senza incontrare opposizione nelle forze di sicurezza, nel fine settimana migliaia di dimostranti erano entrati nell’area della capitale off-limits per la popolazione dell’Iraq e che ospita, tra l’altro, le principali istituzioni governative e le rappresentanze diplomatiche straniere.
La protesta, un evento senza precedenti nell’Iraq del dopo Saddam Hussein, è stata il culmine di settimane di scontri politici che stanno paralizzando il governo di Baghdad e che, come temono soprattutto gli Stati Uniti, rischiano di mettere a repentaglio la guerra allo Stato Islamico (ISIS) che controlla ancora circa un terzo del territorio del paese mediorientale.
E’dal mese di febbraio che il premier Abadi sta cercando di ottenere dal Parlamento l’approvazione di un nuovo gabinetto, composto principalmente da “tecnici”, nel quadro di un piano di riforme volte a limitare la suddivisione settaria del potere. L’iniziativa si è però scontrata con la forte opposizione di molte formazioni politiche, tra cui la fazione del suo partito guidata dall’ex premier, Nouri al-Maliki, che temono di veder svanire la rete fatta di favoritismi e clientelismo su cui basano il proprio potere e le ricchezze dei loro affiliati.
La mossa di Abadi, peraltro, riflette il tentativo disperato di stabilizzare il proprio governo, esposto alle pressioni dovute non solo alla sempre più precaria situazione della sicurezza interna, ma anche al rallentamento della crescita economica e al crollo delle quotazione del petrolio.
Nella disputa in atto a Baghdad si è comunque inserito con la consueta astuzia politica al-Sadr, mobilitando i suoi sostenitori nella comunità sciita e chiedendo al governo di portare a termine le riforme promesse da Abadi. All’inizio della scorsa settimana il Parlamento aveva approvato alcune nomine di nuovi membri del governo proposti dal primo ministro, ma il processo si è nuovamente arenato di fronte alle cariche più importanti.
Al-Sadr ha così “ordinato” la marcia sulla Zona Verde della capitale, dove i manifestanti hanno occupato la sede del governo e del Parlamento. Ufficialmente per rispettare un pellegrinaggio sciita che si tiene in questi giorni, al-Sadr ha alla fine richiamato i propri sostenitori, anche se ha minacciato nuove proteste per venerdì prossimo, assieme al possibile ritiro dei parlamentari che fanno capo al suo movimento.
Moqtada al-Sadr e il suo Esercito del Mahdi - successivamente ribattezzato Brigate della Pace - si erano conquistati un certo seguito e prestigio in Iraq grazie alla lotta armata condotta contro l’occupazione americana seguita all’invasione del 2003, nonostante molti leader sciiti avessero all’epoca optato per la collaborazione con le forze di Washington.
Come hanno spiegato vari ritratti di Al-Sadr proposti dai media in questi giorni, quest’ultimo, pur respingendo ideologie politiche ben definite, fa riferimento allo Sciismo e al nazionalismo iracheno. Frequentemente si è scagliato contro l’ingerenza in Iraq di potenze straniere e i suoi sostenitori hanno spesso un atteggiamento critico anche nei confronti dell’Iran. Con esponenti del governo di Teheran, al-Sadr si è scontrato più volte in passato, ma mantiene allo stesso tempo forti legami con la Repubblica Islamica, dove ha vissuto per anni e del cui appoggio politico ha indubbiamente beneficiato.
Le sue fortune politiche in Iraq sono state alterne in questi anni. Il crescente malcontento popolare verso il governo ha permesso però a al-Sadr di tornare a svolgere un ruolo di spicco nelle vicende del suo paese. Nelle ultime settimane ha cavalcato il desiderio ampiamente diffuso tra gli iracheni di mettere fine alle divisioni settarie, utilizzate dalla classe dirigente come sistema di controllo del potere, per chiedere un’amministrazione più efficiente e meno corrotta.
In ultima analisi, tuttavia, è fuori discussione che l’opposizione dei sadristi sia motivata da questioni di opportunismo politico, legate oltretutto agli interessi settari di un movimento che è anch’esso ancorato a sezioni dell’establishment sciita iracheno. La stampa americana, in maniera tutt’altro che sorprendente, non ha mancato di rilevare le motivazioni non sempre così nobili di al-Sadr.
Per il New York Times, ad esempio, quello in atto sarebbe un tentativo di fare pressioni sui “politici che si oppongono agli sforzi [riformisti] di Abadi” e di “ricollocare [al-Sadr] nel quadro politico iracheno”. Altri commentatori hanno poi fatto notare come l’agenda di al-Sadr e del premier non sia molto diversa. Abadi, infatti, avrebbe tutto l’interesse a utilizzare il sostegno popolare dei sadristi per far approvare le proprie riforme politiche.
In molti ritengono d’altra parte che il capo del governo e Moqtada al-Sadr siano impegnati in trattative dietro le quinte. Ciò spiegherebbe la facilità con cui i manifestanti hanno avuto accesso alla Zona Verde di Baghdad, teoricamente super-protetta, e la maniera pressoché indisturbata con cui se ne sono andati domenica malgrado lo stato d’assedio proclamato e Abadi avesse ordinato l’arresto di quanti si fossero resi responsabili di atti di vandalismo.
Le vicende di questi giorni rischiano di innescare nuove pericolose tensioni in Iraq. La crisi alimentata dai sadristi minaccia, per cominciare, l’allargamento della spaccatura che attraversa il fronte sciita, con evidenti conseguenze sulla stessa stabilità di un paese nel pieno della guerra con una forza fondamentalista che, quanto meno fino a pochi mesi fa, ne minacciava addirittura l’esistenza.
Proprio i timori relativi all’efficacia della guerra all’ISIS e alla perdita della residua legittimità della classe politica irachena ha motivato le recenti visite a Baghdad di importanti esponenti dell’amministrazione Obama. Il segretario di Stato, John Kerry, e il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, erano stati in Iraq nel mese di marzo, seguiti settimana scorsa dal vice-presidente USA, Joe Biden.
I vertici di queste settimane hanno avuto con ogni probabilità come oggetto di discussione, oltre alla crisi politica, anche i preparativi della prevista offensiva militare per strappare la città di Mosul al controllo dell’ISIS, dopo i successi nella riconquista di Ramadi e Tikrit. Lo stesso governo americano è di nuovo impegnato massicciamente in Iraq, dopo il ritiro ufficiale delle forze di combattimento nel 2011. A tutt’oggi, si contano in questo paese più di 5.000 soldati USA, tutti o quasi impegnati a “sostegno” delle forze indigene contro l’ISIS.
A livello generale, la causa principale della crisi dell’Iraq rimane ad ogni modo l’invasione americana del 2003 che ha letteralmente devastato la società di questo paese. Tra le conseguenze più nefaste di un’impresa che può essere considerata come uno dei più gravi crimini di guerra da oltre mezzo secolo a questa parte sono proprio le lacerazioni su base settaria che continuano a tormentare l’Iraq e il suo popolo.
L’amministrazione Bush, di fronte alla resistenza all’occupazione delle proprie forze armate, alimentò deliberatamente il conflitto interno tra sunniti e sciiti, provocando un bagno di sangue nella seconda metà del decennio scorso e favorendo la nascita di formazioni jihadiste in precedenza mai esistite in Iraq e che sarebbero sfociate nello Stato Islamico.
La divisione dell’Iraq lungo linee settarie è tuttora sull’agenda di quanti a Washington vedono in essa l’unico modo per stabilizzare il paese e mantenerlo nell’orbita strategica americana o, quanto meno, per evitare che esso, come entità unitaria, finisca in maniera definitiva all’interno di quella iraniana.
Lo stesso vice-presidente Biden, ancora prima di essere reclutato da Obama, un decennio fa aveva ipotizzato la suddivisione dell’Iraq in tre parti indipendenti o semi-indipendenti: una a maggioranza sciita, una sunnita e una curda. Con il persistere della crisi in Iraq e nell’intera regione mediorientale, è indiscutibile che simili piani siano ancora allo studio a Washington, ma anche a Baghdad, e la loro implementazione non farebbe altro che portare a compimento, a oltre tredici anni dall’invasione USA, la completa distruzione del paese che fu di Saddam Hussein.
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di Michele Paris
La fragilissima tregua negoziata per la Siria a febbraio da Russia e Stati Uniti appare sempre più sul punto di crollare dopo l’impennata di violenze registrata negli ultimi giorni, in particolare nella battaglia in corso per la conquista della (ex) capitale economica del paese, Aleppo. Soltanto qui, in meno di due settimane si sono contate almeno 200 vittime, cadute sia sotto i colpi dell’artiglieria e degli aerei da guerra del regime di Assad e della Russia, sia per mano dei “ribelli”.
Gli episodi di cui sono responsabili questi ultimi continuano però a suscitare un livello di indignazione decisamente minore tra governi e stampa occidentali rispetto a quelli attribuiti alle forze di Damasco.
I segnali del nuovo aggravamento della situazione nel paese mediorientale sono evidenti da tempo e questa settimana l’inviato speciale dell’ONU per la Siria, Staffan de Mistura, è sembrato prenderne atto nonostante il cauto ottimismo ostentato in precedenza.
Il diplomatico italo-svedese ha espresso estrema preoccupazione per quanto sta accadendo ad Aleppo e giovedì ha rivolto un appello disperato ai governi di Russia e Stati Uniti per prendere “iniziative ai più alti livelli” e cercare di salvare il cessate il fuoco, condizione necessaria per far segnare un minimo progresso sul fronte diplomatico.
Anche i negoziati di pace di Ginevra sono inevitabilmente a un punto morto, dopo che i leader del cosiddetto Alto Comitato per i Negoziati (HNC), che dovrebbe rappresentare i gruppi di opposizione al regime di Damasco, la settimana scorsa hanno abbandonato il tavolo delle trattative in segno di protesta per il mancato accoglimento di alcune richieste preliminari.
Secondo de Mistura non ci sarebbe motivo per cui Mosca e Washington non debbano mostrare la volontà di rimettere in piedi un processo diplomatico per il quale “hanno investito un così ingente capitale politico”. In realtà, le ragioni del sostanziale stallo delle trattative sulla Siria e della ripresa delle ostilità sul campo non sono per nulla risolte e hanno a che fare con il persistere di interessi totalmente divergenti tra USA e Russia sul futuro di questo paese.
L’intesa sul cessate il fuoco era stata accettata dall’amministrazione Obama principalmente per testare la disponibilità degli alleati della Siria a favorire un’uscita di scena pacifica del presidente Assad, sia pure facendo qualche concessione, come la presenza di uomini legati al regime in un eventuale governo di transizione. In questo modo, Washington intendeva provare a raggiungere per via diplomatica l’obiettivo perseguito militarmente per cinque anni, cioè installare, quanto meno nel medio periodo, un regime con un orientamento strategico opposto a quello di Assad.
Se la Russia ha più volte segnalato di essere disposta a valutare un cambio alla guida della nuova Siria, ciò da cui non intende transigere è però il mantenimento della propria influenza nel paese. La fermezza con cui da Damasco si continua inoltre a respingere qualsiasi ipotesi di esclusione di Assad da un futuro governo sembra limitare le opzioni di Mosca, dove si è ben consapevoli della doppiezza degli Stati Uniti e dei loro alleati, pronti a sfruttare qualsiasi concessione per avanzare la propria agenda.
De Mistura, dopo avere chiuso mercoledì la sessione di due settimane di colloqui indiretti a Ginevra, ha fatto sapere che il prossimo round di negoziati dovrebbe essere convocato a maggio, anche se l’assenza di una data precisa lascia intendere che si stia valutando un nuovo rinvio.
Il capo della delegazione siriana a Ginevra, Bashar Ja’afari, qualche giorno fa aveva comunque definito “utili e costruttivi” i colloqui. Da parte sua, de Mistura avrebbe fatto una proposta che prevede la permanenza di Assad alla guida nominale della Siria ma con alcuni suoi poteri trasferiti a tre o quattro vice-presidenti graditi a entrambe le parti. Sia il regime sia le opposizioni hanno tuttavia respinto l’ipotesi. Il che, secondo la stampa occidentale, potrebbe avere contribuito all’abbandono dei negoziati da parte di queste ultime.
Giovedì, intanto, i giornali occidentali hanno dato ampio rilievo alla distruzione di un ospedale di Aleppo in un’area della città controllata dai “ribelli”. I bombardamenti, attribuiti alle forze governative dai negoziatori dell’opposizione, avrebbero fatto decine di morti, tra cui medici e bambini. Decisamente meno spazio viene invece dato alle atrocità commesse nella città siriana dai gruppi armati anti-Assad e, soprattutto, alla composizione di questi ultimi contro cui il governo e le forze aeree russe stanno combattendo.
Ad Aleppo vi è una forte presenza di formazioni legate ad al-Qaeda, a cominciare dalla filiale dell’organizzazione jihadista in Siria, il Fronte al-Nusra. Non solo, anche i gruppi ritenuti “moderati” dall’Occidente si mescolano o collaborano in maniera più o meno intensa con quello qaedista.
A confermare questo quadro non è solo la propaganda di Mosca o Damasco, ma anche le dichiarazioni di svariati esponenti del governo e delle forze armate americane. Qualche giorno fa, il segretario di Stato, John Kerry, aveva affermato in un’intervista al New York Times che la Russia si stava “muovendo ad Aleppo” perché membri del Fronte al-Nusra operano assieme ad altri gruppi sostenuti dai governi occidentali.
Lo stesso concetto lo ha ribadito mercoledì anche il portavoce delle forze USA in Iraq, colonnello Steve Warren, il quale ha definito “complicati” gli scenari di Aleppo, visto che in questa città opera il Fronte al-Nusra che non è incluso nell’accordo sulla tregua in Siria.
Le richieste presentate dall’opposizione a Ginevra appaiono dunque difficilmente accettabili, sia per la situazione sul campo sia per la natura di questi gruppi e il ruolo destabilizzante che continuano a svolgere in Siria senza avere nessuna base di consenso tra la popolazione.
In maniera legittima, il governo di Mosca martedì ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di aggiungere due gruppi armati alla lista di quelli considerati terroristi attivi in Siria. Le due formazioni sono Jaish al-Islam e Ahrar al-Sham, entrambe rappresentate nei colloqui di Ginevra. Addirittura, il negoziatore capo dell’HNC, Mohammed Alloush, è uno dei leader di Jaish al-Islam.
L’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, si è detto certo che le due organizzazioni hanno “stretti legami” con al-Qaeda, ma anche con lo Stato Islamico (ISIS). Da Washington, la richiesta è stata accolta con irritazione. Il portavoce del dipartimento di Stato, Mark Toner, ha sostenuto che la proposta di Mosca rischia di mettere ancora più a rischio la tregua in Siria, senza però discuterne il merito.
Dietro a queste formazioni ci sono paesi come Turchia e Arabia Saudita e la loro presenza al tavolo dei negoziati rappresenta uno dei principali ostacoli a una risoluzione pacifica del conflitto. D’altra parte, anche gli Stati Uniti continuano a mantenere un atteggiamento per lo meno ambiguo nei confronti dei gruppi fondamentalisti che combattono in Siria, poiché, malgrado le preoccupazioni che possono suscitare, sono le uniche forze che operano con una certa efficacia per il cambio di regime a Damasco.
La malafede dei governi che auspicano il rovesciamento di Assad è evidente anche dai piani che l’amministrazione Obama sta valutando in previsione del definitivo fallimento dei negoziati di Ginevra. In tal caso, come hanno riportato di recente i media, scatterebbe l’implementazione di un “piano B” che consiste nell’aumento delle spedizioni di armi letali ai “ribelli”, a cui vanno aggiunti i 250 uomini delle forze speciali USA che il Pentagono ha da poco annunciato di volere inviare in Siria a sostegno dei 50 già presenti sul campo.
Preoccupante è infine un’altra iniziativa avallata dagli Stati Uniti su richiesta della Turchia. Proprio qualche giorno fa il regime di Erdogan ha dato notizia del dispiegamento di batterie missilistiche americane lungo il confine con la Siria. La decisione è motivata ufficialmente da ragioni difensive dopo un bombardamento attribuito all’ISIS contro la città turca di Kilis che ha fatto cinque morti lo scorso fine settimana.
Il sistema missilistico sarebbe però anche a poche decine di chilometri da Aleppo, possibile obiettivo turco nel caso la situazione per le formazioni jihadiste sostenute da Ankara dovesse precipitare e mettere a rischio gli ingenti investimenti fatti da Erdogan, ma anche da Washington e
dagli altri partner nella regione, per abbattere il regime di Damasco.
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di Michele Paris
Sull’onda dei risultati delle primarie di New York della settimana scorsa, gli stati del nord-est americano che si sono recati alle urne martedì hanno consegnato vittorie piuttosto nette sia a Donald Trump che a Hillary Clinton, consolidando le rispettive posizioni nella corsa a una nomination ormai a portata di mano di entrambi.
Viste anche le modalità di assegnazione dei delegati in palio previste dal Partito Repubblicano, in prevalenza con il metodo maggioritario, l’affermazione in cinque stati su cinque ha permesso a Trump di fare un passo quasi decisivo verso l’obiettivo finale. Trump ha superato la soglia del 50% dei consensi in Connecticut (58%), Delaware (61%), Maryland (54%), Pennsylvania (57%) e Rhode Island (64%), mentre nella prima fase delle primarie aveva quasi sempre vinto solo con la maggioranza relativa dei voti.
Un dato, quest’ultimo, particolarmente significativo e legato in parte a condizioni elettorali e demografiche a lui più favorevoli nel nord-est degli Stati Uniti, ma dovuto probabilmente anche ai riflessi delle recenti polemiche con i vertici del partito e degli attacchi che gli sono stati rivolti nel tentativo di ostacolare la sua corsa alla nomination. Una dinamica solo apparentemente insolita e che conferma invece il forte sentimento anti-sistema che anima anche gli elettori Repubblicani.
Del tutto deludente è stata ancora una volta la prestazione dell’unico vero sfidante di Trump rimasto in gara, il senatore del Texas di estrema destra, Ted Cruz, in grado di superare il 20% solo in Pennsylvania. A parte questo stato, Cruz è finito alle spalle anche del governatore dell’Ohio, John Kasich, in tutte le competizioni di martedì.
Il saldo di Trump dopo il più recente appuntamento elettorale è ormai di oltre 950 delegati. Per assicurarsi automaticamente la nomination Repubblicana ne sono necessari 1.237 e, secondo gli osservatori americani, a Trump sarebbe sufficiente ottenere successi anche modesti in due stati a questo punto decisivi: Indiana e California.
Una manciata di altri stati che ancora mancano all’appello in queste primarie sembrano già orientati piuttosto nettamente a favore di Trump o di Cruz, mentre Indiana e California - al voto rispettivamente martedì prossimo e il 7 giugno - risultano a tutt’oggi in bilico, anche se i sondaggi più recenti assegnano un leggero margine a Trump.
L’unica ambizione di Cruz, e ancor più di Kasich, resta in ogni caso quella di impedire al miliardario newyorchese di raggiungere la maggioranza assoluta dei delegati alla chiusura del calendario delle primarie. In questo caso, nella convention Repubblicana di Cleveland a luglio i delegati avranno facoltà di scegliere il candidato preferito alla Casa Bianca senza essere vincolati ai risultati del voto nei vari stati.
In Indiana, Cruz si giocherà così il tutto per tutto e, per impedire la vittoria di Trump, nei giorni scorsi aveva annunciato il raggiungimento di un accordo con Kasich. I termini di questa intesa già traballante prevedono che quest’ultimo rinunci a correre in Indiana, in modo da favorire Cruz, il quale, a sua volta, sospenderebbe di fatto la campagna elettorale in Oregon e New Mexico in modo da spingere i suoi sostenitori a votare per Kasich.
Il cammino di Trump continua ad ogni modo a disorientare sia l’establishment Repubblicano sia i media ufficiali. Nelle ultime settimane, l’imprenditore e showman è passato da probabile vittima delle macchinazioni del partito a super-favorito inarrestabile, come lo era stato già a inizio anno, da “outsider” con propensione alle gaffes a candidato sulla via del politicamente corretto dopo un rimpasto del suo staff.
Al di là di tutto, Trump rimane un candidato difficilmente inquadrabile per la politica di Washington, vista la ovvia mancanza di esperienza in questo ambito. A una prima analisi, è chiarissimo il suo tentativo di capitalizzare le frustrazioni dell’elettorato di destra - quasi sempre decisivo nelle primarie Repubblicane - con una retorica populista e in odore di fascismo.
Soprattutto il relativo successo tra la “working-class” bianca si spiega però in maniera differente, a meno di non volere etichettare quest’ultima come un blocco demografico e sociale con tendenze prevalentemente razziste e fasciste.
Assieme alle sparate contro gli immigrati, Trump ha saputo comunicare un messaggio che ha fatto presa su una parte considerevole, ancorché disorientata, delle classi più colpite dal degrado economico e sociale che affligge gli Stati Uniti, grazie principalmente alla completa trasformazione del Partito Repubblicano nella casa dei ricchi e potenti e al drastico spostamento a destra di quello Democratico.
Come ha commentato mercoledì il Washington Post, Trump “ha dato voce alle frustrazioni che sono state in incubazione per anni tra molti elettori, promettendo di trasformare Washington e agire in maniera ferma per smantellare i trattati di libero scambio e rilanciare le città industriali che hanno visto sparire posti di lavoro ben pagati”. Che, poi, queste aspettative siano destinate a essere deluse su tutti i fronti appare evidente, ma nella dinamica delle primarie di questi mesi hanno indubbiamente giocato un ruolo fondamentale nell’affermazione di Trump.
Sul fronte Democratico, la sfida era apparsa già segnata dopo il successo di Hillary Clinton a New York settimana scorsa. Con tutti i giornali “liberal” impegnati a proclamare la sostanziale fine della corsa alla nomination, molti potenziali sostenitori di Bernie Sanders hanno probabilmente deciso di disertare le urne. Ciò sembra essere almeno in parte confermato dal sensibile calo della percentuale degli elettori più giovani che hanno votato martedì rispetto a quasi tutte le primarie precedenti.
Sanders ha comunque vinto in maniera netta in Rhode Island, non a caso l’unico stato tra i cinque chiamati a esprimersi questa settimana che prevedeva primarie aperte, cioè non limitate ai soli elettori registrati come Democratici. Il senatore del Vermont ha fatto segnare fin qui numeri migliori rispetto all’ex segretario di Stato tra gli “indipendenti”, una fetta di elettorato solitamente considerata cruciale nelle elezioni presidenziali vere e proprie.
La strada di Sanders verso la nomination è dunque ormai di fatto chiusa, visto che dovrebbe conquistare circa il 70% dei delegati ancora in palio per superare Hillary, cosa impossibile se non altro per il fatto che nelle primarie Democratiche vige il sistema proporzionale. Un numero consistente di delegati sarà comunque in gioco soprattutto il 7 giugno prossimo, quando voteranno sei stati, tra cui California e New Jersey, ma la matematica e soprattutto la campagna a favore di Hillary dell’apparato del partito e della stampa avranno probabilmente già decretato la fine sostanziale della competizione con Sanders.
Dopo il voto di martedì, Hillary si è dedicata in gran parte al prossimo sfidante Repubblicano per la Casa Bianca, ignorando Sanders sia pure senza giungere a chiederne il ritiro dalle primarie. Il faccia a faccia che sembra ormai profilarsi con Trump farà dell’elezione di novembre la prima negli Stati Uniti tra due candidati visti con sfavore dalla maggioranza degli americani.
Per quanto riguarda la Clinton, la macchina del Partito Democratico si è già attivata non solo per convincere Sanders ad abbassare i toni e a sostenere senza riserve la beneficiaria della nomination, ma anche per ripulire l’immagine di una candidata ampiamente screditata agli occhi di decine di milioni di elettori.
Le manovre in questo senso stanno procedendo in due direzioni. Da un lato sono chiari gli sforzi di minimizzare gli strettissimi legami della famiglia Clinton con Wall Street e i poteri forti americani, da cui dipende interamente la fortuna politica e la ricchezza dell’ex presidente e della candidata alla presidenza. Dall’altro, visto il successo di Sanders e il desiderio di buona parte dell’elettorato di politiche veramente progressiste, c’è invece il ricorso a una retorica “liberal” da parte di Hillary, sia sui temi domestici sia, almeno a giudicare dalle ultimissime uscite, su quelli relativi alla politica estera.
L’uscita di scena di Bernie Sanders sembra quindi sempre più vicina. Il candidato auto-definitosi “democratico-socialista” ha per ora promesso di rimanere in corsa fino al termine del calendario delle primarie, anche se martedì ha lasciato intendere che le speranze di conquistare la nomination sono ormai svanite. In un comizio in West Virginia davanti a migliaia di sostenitori, Sanders si è impegnato a presentarsi alla convention Democratica della prossima estate “con il maggior numero possibile di delegati” e soltanto “per battersi per una piattaforma progressista” del Partito Democratico.
Con la fine delle ambizioni di nomination, insomma, Sanders e il suo team mostrano di essere pronti a tornare a svolgere il ruolo che i vertici del partito auspicavano oltre un anno fa, cioè quello di intercettare e dare sfogo alle frustrazioni degli elettori potenzialmente di sinistra, per poi convogliarle in maniera inoffensiva verso il candidato alla Casa Bianca preferito dall’establishment Democratico.