di Michele Paris

Ad alimentare le preoccupazioni occidentali per i riflessi che potrebbero avere sulla politica estera USA le possibili tendenze isolazioniste di Donald Trump, sono arrivati nel fine settimana i risultati del voto per le presidenziali in due paesi dell’Europea orientale - Bulgaria e Moldavia - considerati di importanza strategica fondamentale in chiave di contenimento della Russia di Putin. A Sofia e a Chisinau, sia pure senza sorprese, si installeranno infatti due presidenti considerati decisamente meglio disposti nei confronti di Mosca rispetto ai loro predecessori e ai governi attualmente in carica.

Se in molti sui media occidentali hanno caratterizzato le elezioni di Bulgaria e Moldavia come la conferma delle mire espansionistiche del Cremlino sugli ex satelliti sovietici, l’esito delle consultazioni di domenica è solo la logica conseguenza delle disastrose politiche economiche e di confronto con la Russia promosse da Washington e Bruxelles in questi ultimi anni.

In Bulgaria, il ballottaggio per la scelta del nuovo presidente ha confermato il risultato del primo turno, con il candidato appoggiato dal Partito Socialista di opposizione (BSP), Rumen Radev, in grado di ottenere il 59% dei consensi contro appena il 36% della sfidante, Tsetska Tsacheva, del partito di governo GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria).

Radev, presentatosi al voto come indipendente, è un ex pilota e comandante dell’aeronautica bulgara con precedenti di studio  negli Stati Uniti. In campagna elettorale aveva auspicato un approccio più moderato nei confronti della Russia, dicendosi favorevoli alla cancellazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea in seguito all’annessione della Crimea.

Allo stesso tempo, il neo-presidente bulgaro si era impegnato a mantenere il suo paese nella NATO e a non rompere i rapporti con i partner occidentali. Complessivamente, nel quadro dei poteri relativamente limitati della carica di presidente, l’obiettivo di Radev è quello di mantenere la Bulgaria in bilico tra Occidente e Russia, nel tentativo di ricavare i maggiori vantaggi possibili per il paese balcanico. Proprio facendo riferimento all’elezione di Trump alla Casa Bianca e alla promessa distensione con Mosca di quest’ultimo, il neo-presidente bulgaro ha detto domenica di confidare in un abbassamento dei toni tra Stati Uniti e Russia.

L’allineamento di Sofia all’Unione Europea sulla questione dei rapporti con Mosca è costato d’altra parte caro alla Bulgaria sia in termini economici, basti pensare alla cancellazione del progetto per la costruzione del gasdotto South Stream, sia di stabilità politica, considerando soprattutto che l’ingresso nell’UE e le iniziative adottate in conseguenza di ciò hanno determinato un peggioramento nelle condizioni di vita della maggior parte della popolazione.

I governi che si sono succeduti negli ultimi anni alla guida di questo paese hanno poi dovuto quasi sempre fare i conti con una serie di scandali che ne hanno scosso le fondamenta e accorciato la vita, così che lo scontro tra l’Occidente e la Russia, esploso dopo la crisi in Ucraina, ha costituito un ulteriore elemento di destabilizzazione e di divisione tra le diverse fazioni della classe dirigente bulgara.

Il riassetto strategico della Bulgaria promesso dal nuovo presidente era comunque in qualche modo già stato indicato dal governo di centro-destra del primo ministro, Boiko Borisov. Lo scorso mese di giugno, ad esempio, Sofia aveva bocciato la proposta del presidente rumeno, Klaus Iohannis, di creare una flotta permanente della NATO nel Mar Nero, ufficialmente per rispondere alla “aggressione” russa dell’Ucraina.

Come aveva promesso alla vigilia del voto, in ogni caso, il premier Borisov lunedì ha annunciato le proprie dimissioni con una mossa che apre con ogni probabilità la strada a elezioni anticipate di qui a pochi mesi. I leader Socialisti hanno infatti escluso di volere tentare di mettere assieme un nuovo esecutivo. Quello che verrà indetto dal prossimo presidente sarà così il terzo voto in cinque anni prima della scadenza naturale del mandato del Parlamento bulgaro.

L’elezione di Rumen Radev e le dimissioni del governo non prospettano però una soluzione immediata della crisi politica della Bulgaria. Mentre il gabinetto uscente non ha fatto nulla per limitare la corruzione e la povertà dilagante, il Partito Socialista continua a essere gravemente screditato agli occhi degli elettori. Fino alle elezioni del 2014, nelle quali ha incassato una clamorosa sconfitta, il DPS appoggiava un governo di minoranza che fu costretto a dimettersi sull’onda di proteste popolari provocate, tra l’altro, da casi di corruzione e da una crisi bancaria dai contorni oscuri.

In precedenza, peraltro, il governo di centro-destra guidato ancora da Borisov nel 2013 si era a sua volta dimesso in seguito a manifestazioni di piazza seguite a rincari vertiginosi delle tariffe dell’energia elettrica che erano andati a sommarsi a durissime misure di austerity implementate dallo stesso esecutivo.

Radev assumerà il suo incarico di presidente il prossimo 22 gennaio e, fino ad allora, sarà con ogni probabilità un governo tecnico di transizione a guidare la Bulgaria. Secondo le previsioni, il neo-presidente procederà allora con lo scioglimento anticipato del Parlamento e il voto dovrà tenersi almeno 60 giorni più tardi. Nella campagna elettorale che si prospetta è più che probabile che a tenere banco sarà soprattutto la questione dei rapporti con la Russia e i paesi occidentali.

Anche se apparentemente di importanza minore rispetto alla Bulgaria, più di un grattacapo a Bruxelles e Washington deve avere causato domenica anche l’elezione al secondo turno nella piccola Moldavia di un nuovo presidente intenzionato a ristabilire i legami politici ed economici che legano tradizionalmente il suo paese a Mosca.

Anche qui, il quadro politico interno è stato caratterizzato nell’ultimo periodo da una grave instabilità a causa di scandali vari e, più in generale, dalla sovrapposizione ad essi dello scontro strategico tra Russia e Occidente.

Il nuovo presidente sarà il 41enne Igor Dodon, leader del Partito Socialista e della fazione politica che rappresenta le élites moldave che beneficiano dei rapporti con la Russia. Secondo i sondaggi, Dodon avrebbe dovuto essere superato al primo turno dalla sua principale sfidante, Maria Sandu, del Partito Liberal Democratico (PLDM) filo-occidentale, per poi imporsi in maniera relativamente agevole al secondo turno.

Nonostante il ritiro alla vigilia del voto di un altro aspirante alla presidenza gradito all’Occidente, Marian Lupu del Partito Democratico (PDM), la Sandu era invece finita da subito dietro a Dodon, mentre nel ballottaggio di domenica quest’ultimo ha prevalso nuovamente con il 52% dei voti espressi.

Ancor più rispetto al presidente appena eletto in Bulgaria, il nuovo leader moldavo aveva impostato la propria corsa sul ristabilimento dei legami con la Russia. Dodon aveva promesso di abrogare l’accordo commerciale siglato dalla Moldavia con l’Unione Europea nel 2014 per aderire all’Unione Economica Eurasiatica, promossa dalla Russia e di cui fanno parte anche Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan. L’avvicinamento all’Europa aveva provocato la dura reazione di Mosca, da dove erano state prese misure per colpire l’economia moldava, prima fra tutte lo stop alle esportazioni di prodotti alimentari verso la Russia.

Igor Dodon ha definito un grave errore la sottoscrizione dell’accordo con Bruxelles, cavalcando di fatto uno scetticismo diffuso per l’UE tra la popolazione moldava. In molti identificano infatti la classe politica europeista con gli innumerevoli episodi di corruzione emersi in questi anni, a cominciare dalla clamorosa sparizione di un miliardo di euro - pari a circa un ottavo del PIL del paese - dalla banca centrale e finito su conti esteri.

Lo scandalo aveva costretto alle dimissioni il primo ministro, Valeriu Strelet, e il governo a chiedere aiuti finanziari internazionali per evitare il tracollo del paese. La vicenda aveva innescato massicce proteste popolari, culminate tra l’altro nella reintroduzione dell’elezione diretta del presidente, decisa anche per sbloccare la paralisi politica.

Dodon ha fatto sapere lunedì che il suo primo viaggio all’estero da presidente sarà proprio a Mosca e, nel caso dovesse confermare gli orientamenti mostrati in campagna elettorale, provocherà serie preoccupazioni a Bruxelles, dal momento che i vertici europei cercano da tempo di attrarre la Moldavia nella propria orbita in funzione anti-russa, vista la posizione strategica che occupa tra l’Ucraina e la Romania.

Sviluppi favorevoli a Mosca potrebbero verificarsi infine anche nella regione autonoma della Transnistria, dove sono presenti circa duemila soldati russi a difesa del governo indipendentista.

L’Occidente aveva soffiato sul fuoco del nazionalismo a Chisinau per provocare la cacciata del contingente militare russo. Il neo-presidente Dodon, invece, subito dopo la sua elezione ha escluso iniziative di questo genere in relazione allo status della Transnistria, mostrando piuttosto l’intenzione di volerne ratificare l’autonomia, di fatto sotto la protezione del Cremlino.

di Michele Paris

La vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali di martedì ha fatto trarre un sospiro di sollievo a molti, soprattutto al di fuori dei confini degli Stati Uniti, per avere scampato, nel caso fosse stata Hillary Clinton a conquistare la Casa Bianca, una quasi certa escalation militare americana all’estero e un aggravamento del confronto con le potenze emergenti del pianeta.

Se pure esiste la possibilità che la politica estera del presidente-eletto sia improntata a una maggiore prudenza, le sue attitudini e i suoi orientamenti saranno tutti da verificare. Quel che è certo fin da ora, invece, è che sul fronte domestico gli Stati Uniti saranno guidati da un governo dalle connotazioni di estrema destra, improntato alla promozione di politiche nazionaliste, ultra-liberiste e, in sostanza, di duro confronto con lavoratori e classe media.

Con tutta la retorica anti-establishment e gli attacchi ai poteri forti, a cominciare da quelli di Wall Street, su cui Trump ha costruito la sua campagna elettorale, gran parte delle proposte da lui avanzate in ambito economico, energetico e delle regolamentazioni al business sono infatti ascrivibili alla più tradizionale dottrina neo-liberista.

Molti giornali americani già giovedì hanno avanzato ipotesi circa le iniziative che la nuova amministrazione Repubblicana adotterà per stimolare la massiccia crescita economica promessa da Trump. Anzi, proprio uno dei consiglieri economici di quest’ultimo, Stephen Moore, ha indicato la rotta, avvertendo che Trump sarà “il presidente con la maggiore inclinazione alla ‘riforma’ delle regolamentazioni dai tempi di Ronald Reagan”.

In concreto, l’amministrazione Trump intende cioè smantellare quanto più possibile le normative che regolano l’attività del settore privato negli Stati Uniti, da quello bancario a quello industriale, da quello sanitario a quello energetico. A guidare l’azione di Trump in questo campo è il dogma della non ingerenza del governo negli affari come presupposto per la crescita dell’economia.

Su questi temi, oltretutto, il prossimo presidente potrebbe essere in particolare sintonia con un Congresso che, pur essendo a maggioranza Repubblicana, conta numerosi deputati e senatori che nutrono serie riserve sulla sua persona. Soprattutto lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, anch’egli molto tiepido sostenitore di Trump in campagna elettorale, mostra da sempre una chiara tendenza a favore della deregolamentazione dell’economia.

In ambito finanziario, il primo bersaglio di Trump potrebbe essere la già debole riforma di Wall Street approvata dal Congresso all’indomani della crisi del 2008 (“Dodd-Frank”). Se l’intera legge finirà forse per sopravvivere, se non altro perché l’industria finanziaria vi si è in gran parte adattata, potrebbero venire cancellate alcune norme che limitano i profitti, così come i rischi, delle banche, tra cui la cosiddetta “Volcker Rule”, che proibisce alcune attività speculative degli istituti con capitali propri e non a beneficio dei clienti.

Per quanto riguarda l’industria energetica, Trump minaccia di dare seguito alle sue prese di posizione in senso negazionista sul cambiamento climatico e le fonti rinnovabili. Un nuovo impulso all’industria del carbone è da tempo nelle previsioni del miliardario newyorchese, assieme a una marcia indietro sui provvedimenti presi da Obama per ridurre le emissioni inquinanti, come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015.

Secondo le aziende di questo settore, misure e regolamentazioni già adottate e da adottare creano vincoli operativi che limitano i loro profitti. La stesura delle regole è affidata soprattutto all’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA), sulla quale il prossimo governo avrà facoltà di agire per determinare un’impostazione più cauta e ancora più favorevole al business.

Trump potrebbe inoltre ampliare ancor più le aree territoriali e marittime degli Stati Uniti soggette all’estrazione di gas e petrolio, mentre è altrettanto probabile lo sblocco dei permessi per la costruzione del contestato oleodotto Keystone XL che dovrebbe trasportare petrolio dal Canada al Golfo del Messico passando attraverso aree considerate eccezionalmente sensibili da un punto di vista ambientale.

Particolare impegno verrà poi messo da Trump nell’erosione dei diritti del lavoro e delle normative che limitano lo strapotere delle imprese. Anche in questo caso, a essere spazzate via per prime potrebbero essere le già modeste iniziative prese da Obama, come l’aumento del salario minimo e la garanzia di un certo numero di giorni di malattia retribuiti per alcuni dipendenti pubblici e dipendenti di aziende private appaltatrici del governo federale.

Nel quadro neo-liberista in cui si inserirà l’azione di governo di Donald Trump non potranno nemmeno mancare i tagli al carico fiscale delle aziende e dei redditi più elevati. Una delle promesse centrali della sua campagna elettorale è stata appunto la riduzione della tassa sulle imprese, da quella nominale del 35% al 15%. Questa e altre misure fiscali accelererebbero il trasferimento di ricchezza verso le fasce più ricche della popolazione, già favorito durante i due mandati di Obama, e aprirebbero una voragine nei conti pubblici.

Gli orientamenti di Trump sono stati d’altra parte ben compresi dai mercati, visto che dopo un’iniziale crollo degli indici di borsa, seguito all’annuncio della sua vittoria su Hillary, si è verificata una netta risalita, a conferma di come, per il mondo degli affari, le possibilità che si prospettano di maggiori profitti prevalgano sulle incertezze e il rischio di instabilità.

Che gli orientamenti di Trump saranno sostanzialmente quelli descritti è evidente anche dai nomi che già circolano sui possibili membri della sua nascente amministrazione. A scanso di equivoci, il Wall Street Journal ha ad esempio aperto mercoledì un pezzo di analisi post-voto affermando che “svariati banchieri di Wall Street e imprenditori di successo” potrebbero essere nominati a incarichi di primo piano nella nuova amministrazione.

Emblematico è uno dei principali candidati alla guida del dipartimento del Tesoro. Per questo incarico Trump potrebbe scegliere l’ex Goldman Sachs, Steven Mnuchin, amministratore delegato della banca d’investimenti Dune Capital Management e direttore finanziario della campagna elettorale del neo-presidente. L’eventuale nomina di Mnuchin e di altre personalità gradite al mondo degli affari, come ha spiegato un consigliere economico di Trump sempre al Wall Street Journal, servirebbe a dare garanzie circa la condotta della nuova amministrazione in ambito economico-finanziario.

L’entourage presidenziale sarà infatti composto da economisti “conservatori” e uomini d’affari che da sempre promuovono “la deregolamentazione del settore privato e una tassazione più bassa per le imprese”. A conferma di ciò, giovedì è circolata la notizia che il team di Trump che si occupa del processo di transizione alla presidenza avrebbe contattato il “CEO” di JPMorgan, Jamie Dimon, per offrirgli il posto da segretario al Tesoro. Durante la campagna elettorale, Trump aveva in un’occasione definito Dimon come “il peggiore banchiere americano”.

Anche in altri ambiti, Trump sembra propenso a selezionare uomini con salde credenziali reazionarie, molti dei quali hanno fatto campagna elettorale attiva a suo favore negli ultimi mesi. Tra di essi spiccano l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, o il governatore del New Jersey, Chris Christie, entrambi considerati per il ministero della Giustizia. L’ex rivale nelle primarie Repubblicane, Ben Carson, sarebbe in corsa a sua volta per il dipartimento della Salute e dell’Educazione.

Per il dipartimento dell’Interno, che negli USA ha competenze relative alla gestione del territorio e dell’ambiente naturale, i papabili sarebbero invece, tra gli altri, il fondatore di una compagnia petrolifera - Forrest Lucas - e il “venture capitalist” Robert Grady. Sulla stessa linea appaiono i criteri di scelta per il prossimo segretario all’Agricoltura, che per i media americani potrebbe essere uno tra gli imprenditori del settore agricolo Charles Herbster e Mike McCloskey.

Un altro ambito nel quale si prospetta un’evoluzione preoccupante, in linea peraltro con la tendenza registrata negli ultimi otto anni, è quello della “sicurezza interna”. Trump non è esattamente un paladino del diritto alla privacy e sono in molti a temere un nuovo assalto alle residue garanzie contro l’invadenza delle agenzie governative. Uno dei primi obiettivi, perseguito senza successo anche da Obama, potrebbe essere così l’accesso del governo alle informazioni criptate garantite ai propri utenti dalle compagnie tecnologiche americane.

Da tempo nelle mire dei Repubblicani è anche la “riforma” del settore sanitario di Obama. Trump sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda dei suoi colleghi di partito al Congresso e l’intera legislazione rischia di essere cancellata nel prossimo futuro. Politicamente, questa mossa avrebbe tuttavia conseguenze negative, visto che decine di milioni di americani si ritroverebbero nuovamente senza nessuna copertura.

La “riforma” conosciuta come Obamacare è in ogni caso ben lontana dal garantire l’assistenza sanitaria universale gratuita o a basso costo ed è basata principalmente sul settore privato, nonché sul principio del contenimento dei costi. Gli attacchi dei Repubblicani a Obamacare vengono portati però da destra e ciò che viene proposto in alternativa è un sistema che attribuisce ancora più peso alle compagnie private.

Il segno più profondo e duraturo dell’amministrazione Trump potrebbe essere lasciato infine sulla Corte Suprema. Il tribunale costituzionale americano funziona con solo otto dei nove membri che lo compongono fin dal decesso nel mese di febbraio del giudice ultra-conservatore Antonin Scalia. I leader Repubblicani al Senato si sono finora rifiutati anche solo di considerare il candidato nominato da Obama, il giudice Merrick Garland, così che nei prossimi mesi toccherà a Trump indicare un nuovo membro.

La scelta ricadrà su un giudice conservatore e gli equilibri della Corte Suprema torneranno a essere favorevoli alla destra. Tre attuali membri, di cui due moderati e uno moderato-conservatore, sono inoltre vicini o hanno superato gli 80 anni e Trump potrebbe perciò avere la possibilità di effettuare altre nomine nei prossimi quattro anni che suggellerebbero forse per decenni l’orientamento reazionario del più alto tribunale americano. In questo caso, potrebbero essere teoricamente messe in discussione conquiste cruciali, come quella dell’aborto, o affermati in maniera sempre più decisa i diritti del business rispetto a quelli del lavoro.

In definitiva, se pure l’elezione di Trump è il risultato delle legittime frustrazioni di ampie fasce in affanno di una popolazione americana che vede nell’establishment di Washington, incluso quello rappresentato dal Partito Democratico, solo uno strumento dei grandi interessi economici e finanziari, il suo ingresso alla Casa Bianca non costituisce in nessun modo uno sbocco progressista della crisi politica e sociale che attraversa gli Stati Uniti.

Con tutte le leve del potere in mano all’estrema destra - dalla presidenza al Congresso alla Corte Suprema - l’unica prospettiva possibile è infatti un’evoluzione in senso reazionario e l’ulteriore restringimento degli spazi democratici, con tutte le conseguenze che ne deriveranno sul piano dello scontro sociale, come confermano le proteste contro Trump già esplose nelle principali città americane poche ore dopo la sua elezione alla presidenza.

di Fabrizio Casari

La vittoria schiacciante di Donald Trump ha sorpreso l’intero sistema mediatico e politico, dentro e fuori dagli USA. Benché s’intuissero le debolezze di Hillary Clinton, si riteneva che l’impresentabilità di Donald Trump portasse, per consunzione, a votare per la candidata democratica. Il presupposto fondamentale per l’errore di valutazione é stato l’idea che il voto sia ormai ridotto ad esercizio di stile più che a scelta politica, a consuetudine più che a una richiesta di ascolto da parte di un elettorato privato di ogni interlocuzione politica.

E invece no. Il voto, proprio in assenza di una demarcazione ideologica netta tra le forze politiche, quando si manifesta assume le sembianze di un grido destinato a squarciare il silenzio di una globalizzazione che rende possibile una sola idea, un solo programma, un solo destino.

Trump è riuscito a saldare in una candidatura di rottura con l’establishment politico (sia democratico che repubblicano) la parte peggiore degli Stati Uniti e le vittime del suo sistema. Ovvero ha messo insieme l’America più buia, quella dei razzisti e dei suprematisti bianchi, dei fanatici delle armi, del fondamentalismo religioso e del Tea Party - patrimonio elettorale della destra Repubblicana . con l’America più profonda, quella del disagio sociale, che avrebbe dovuto essere rappresentata dai Democratici. Quella che dal 2008 ha visto precipitare nella crisi la sua stessa coesione sociale, determinando l’impoverimento della classe media e lo sprofondamento delle classi più svantaggiate. In una simbolica linea parallela, Trump ha unito le due sponde opposte che sono diventate un unico mare.

Il voto è stato una risposta gridata contro una crisi sociale e di rappresentanza. E’ stato una rivolta contro le elites. Una dichiarazione di sfiducia verso un sistema guidato dal capitale finanziario che ha dichiarato guerra al lavoro, ai diritti sociali e alle politiche di accompagnamento ai settori più deboli. Sono le politiche che hanno innescato un darwinismo sociale che ha strappato il tessuto sociale del paese. L’America muta e quella dei millennials, dei disoccupati e della casse operaia ha votato, magari turandosi il naso ma gridando l’insostenibilità della sua condizione.

E anche l’America dei migranti, di quei latinos verso i quali Trump ha pronunciato le parole peggiori, ha preferito votare contro, esprimere un gesto di rottura contro l’establishment. Persino una parte consistente dell’immigrazione messicana, benché si senta minacciata direttamente e sia stata insultata ignobilmente, ha votato per lui. Lo ha fatto per votare contro Hillary. Perché la protesta sostiene gli outsider e non il potere consolidato. E’ naturale che il rovesciamento del tavolo sul quale si gioca la partita colpisca chi amministra e non chi è fuori dalle logiche.

Proprio per questa caratteristica quella di Trump é una rivoluzione ancor più forte di quella di Reagan. Se la prima ha offerto le premesse ideologiche per il monetarismo neoliberista, questa ne ha raccolto la sua insopportabilità. E sebbene il partito Repubblicano controllerà Camera dei Rappresentanti e Senato, il suo gruppo dirigente non ha molto di cui gioire. Trump ha avuto nella relazione diretta con gli elettori la sua forza e non nel lavoro organizzativo del suo partito, e ha nel suo programma elettorale una sostanziale sconfessione di parti importanti del disegno Repubblicano.

Peraltro, oltre ad essere un outsider, a differenza di Reagan con la sua vittoria ha dichiarato anche la messa in mora dello stato maggiore del partito che, salvo rare eccezioni, ha ritenuto di non doverlo sostenere e che quindi avrà ora una scarsa capacità di condizionarlo nelle scelte presidenziali. Le elezioni hanno chiarito come Trump non sia un prodotto del partito Repubblicano, semmai sono i Repubblicani che devono a Trump la loro affermazione.

Per i Democratici la sconfitta è bruciante, anche per come è maturata. Hillary era la peggior candidata che potessero scegliere. Solo con Sanders avrebbero potuto vincere, perché la candidatura del Senatore del Vermont avrebbe rappresentato l’intenzione di riposizionare il partito all’ascolto delle vittime di un sistema iniquo ed opprimente. Ma il partito Democratico è ormai privo di qualsivoglia profilo coerente con il suo nome e la cacciata di Sanders è stata solo la conferma di ciò.

E nonostante le volgarità sessiste di Trump, nemmeno il voto femminile ha sostenuto la prima campagna elettorale per una donna alla Casa Bianca; perché più che delle donne Hillary Clinton è stata percepita come la rappresentante dell’establishment, dei poteri forti e dei grandi gruppi finanziari. “Voglio una donna alla Casa Bianca, ma non questa donna” è stato il claim di molte elettrici.

Hillary é stata vista come icona dei compromessi e dell’inganno, delle bugie e della lotta sordida per il potere. E l’endorsment di grandi banche e gruppi di potere finanziario, delle corporations, dei grandi media e dello star-siystem, hanno ulteriormente rafforzato questa sua immagine.

Priva di ogni possibile empatia, arrogante e bugiarda, incapace di comunicare con le persone normali, quelle che non siedono nei board delle società finanziarie, ha solo minacciato un inasprimento della guerra con la Russia e il proseguimento delle guerre mediorientali.

Di fronte alla pubblicazione delle sue mail segrete non ha avuto il coraggio di affermare la verità, preferendo inoculare rabbia e veleno contro chi aveva reso pubblico quanto affermava in segreto e minacciare rappresaglie. In una notte, 24 anni di potentato della famiglia Clinton è stato rimosso.

Sconfitti anche i sondaggisti, che avevano vaticinato ben altro risultato. Ma non c’è da stupirsi se non hanno compreso quanto succedeva nel ventre della società americana. Per definizione lavorano in superficie e non scendono verso la parte più profonda del paese, che non considerano negli algoritmi che sottintendono la cultura del marketing politico.

A forza di credere che a politica è solo marketing e che il candidato è solo un brand, ci si dimentica che le persone non sono solo consumatori. Che utilizzano lo spazio minimo concesso per esprimere quello che provano, quello che chiedono e quello che rifiutano. Dunque, se il contesto è quello rappresentato da una globalizzazione che ha distrutto l’identità socioeconomica di milioni di persone, quel voto sarà esattamente il grido di protesta contro la loro perdita di cittadinanza.

Identico errore hanno commesso i media, schierati pancia a terra con Hillary Clinton perché incapaci di leggere la società. Infastiditi da tutto ciò che non emana il profumo del potere, emarginano o nascondono ogni contraddizione sociale, confondendo il popolo con i loro lettori e scambiando il ruolo di giornalisti con quello dei funzionari al servizio dell’ideologia.

Il primo discorso di Trump dopo l’annuncio della sua vittoria è stato improntato su uno stile corretto, completamente diverso per parole e toni da quelli della campagna elettorale. Non solo perché l’immagine di rottura serve per vincere e non per governare, ma perché il compito che lo aspetta non consente una spaccatura netta nel paese.

Difficile immaginare quali saranno le sue prime mosse, ma intanto il temuto crollo dei mercati non c’è stato e le Borse hanno risposto positivamente al nuovo assetto di Washington.

La dose del programma che vorrà o potrà applicare dipenderà da diversi fattori ma con la sua vittoria le scelte di politica estera subiranno modifiche profonde. Quanto e come esse si verificheranno dipenderà dal livello di mediazione con il complesso militar-industriale che il tycoon, ora Presidente, sarà in grado di stabilire.


di Michele Paris

Se c’è una buona notizia nella quasi incredibile vittoria di Donald Trump è che all’America e al mondo sarà risparmiata una nuova presidenza di un membro della famiglia Clinton. Detto questo, l’ingresso di Trump alla Casa Bianca aprirà nelle prossime settimane una serie di scenari e porrà interrogativi a dir poco inquietanti. Le responsabilità per il successo del candidato Repubblicano sono in ogni caso da attribuire per intero al Partito Democratico, alla sua deriva destrorsa, alle politiche anti-sociali e guerrafondaie dell’amministrazione Obama e all’incapacità di offrire una prospettiva progressista a ciò che resta del proprio elettorato di riferimento, presentando invece una candidata tra le più screditate e reazionarie della storia degli Stati Uniti.

Le reali speranze di successo di Hillary Clinton erano svanite in fretta nelle prime ore della notte italiana, quando il leggero vantaggio registrato in stati considerati decisivi come Florida, North Carolina e Ohio ha ben presto lasciato spazio alla rimonta di Trump. La Florida, in particolare, sembrava poter essere ancora una volta in bilico fino alla fine del conteggio, ma i suoi 29 “voti elettorali” sono stati assegnati alla fine senza incertezze a Trump, in grado di raccogliere circa 130 mila voti in più della rivale.

Uno ad uno, sotto gli occhi increduli degli “anchormen” della CNN e di altri network filo-Democratici, quasi tutti gli “swing states” che Trump era in effetti obbligato a conquistare, e nei quali l’ex segretario di Stato era data in vantaggio, sono finiti nella colonna Repubblicana. Probabilmente, oltre che in Florida, fondamentale è stata la superiorità di Trump in North Carolina e in Ohio, stato quest’ultimo vinto da Obama sia nel 2008 che nel 2012.

Con ancora un percorso aperto verso la Casa Bianca, Hillary ha visto poi svanire di fatto le proprie speranze in seguito all’arrivo dei dati di altri stati della cosiddetta “Rust Belt”, generalmente orientati a votare Democratico. Scioccanti sono apparsi i risultati di Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, diventati nel corso della nottata vere e proprie roccaforti a cui Hillary doveva aggrapparsi.

Nella mattinata di mercoledì, questi tre stati, assieme a Minnesota, Arizona, Maine e New Hampshire, erano ancora ufficialmente in bilico ma in quelli che mettevano in palio il maggior numero di “voti elettorali” il miliardario di New York sembrava avere un margine tale da rendere praticamente impossibile un recupero di Hillary. All’alba, la Associated Press aveva comunque già assegnato la Pennsylvania a Trump e poco più tardi sono arrivati i rimanenti stati necessari a chiudere i conti, spingendo quest’ultimo oltre la soglia decisiva dei 270 “voti elettorali”.

Il livello di shock che ha attraversato lo schieramento Democratico e lo staff della Clinton è apparso chiaro dalle reazioni, o dalla mancanza di esse, sui social media, mentre nella notte americana la ex first lady ha addirittura rinunciato a parlare alle migliaia di sostenitori raccolti nel suo quartier generale di New York.

Ad apparire è stato il capo della sua campagna elettorale, John Podesta, ovvero il bersaglio dell’hackeraggio che aveva portato alla rivelazione delle email compromettenti pubblicate da WikiLeaks nelle scorse settimane. L’ex capo di gabinetto del presidente Bill Clinton ha solo invitato ad attendere il conteggio finale, ma poco più tardi la stampa USA ha fatto sapere che Hillary aveva finito per chiamare Trump riconoscendo la sconfitta.

Significativamente, dopo una campagna elettorale dai toni violenti, Trump ha aperto invece il suo discorso riconoscendo il “servizio” prestato da Hillary al paese, prefigurando l’impegno che i media americani considerano inevitabile da parte di un presidente-eletto per “unire” un paese spaccato. Altrettanto rilevante è stato il riferimento alla necessità di stabilire rapporti cordiali con tutti i paesi del pianeta, a conferma di quello che può forse essere considerato uno dei pochi aspetti relativamente positivi dell’elezione di Trump.

In definitiva, se l’affermazione di Trump non è stata evidentemente a valanga, Hillary ha fallito clamorosamente su tutti i fronti. Solo poche settimane fa, la stampa USA parlava di una possibile cancellazione del Partito Repubblicano dalla mappa elettorale americana, così come di una probabile riconquista Democratica del Senato e, nella migliore delle ipotesi, della Camera dei Rappresentanti.

Non solo Hillary non è riuscita in sostanza a strappare nessuno stato tradizionalmente Repubblicano, ma, tra quelli in equilibrio, ha portato a casa solo Virginia, Colorado e Nevada. Il voto di queste presidenziali americane è stato perciò una clamorosa bocciatura dell’establishment, rappresentato principalmente da tutto ciò che incarna Hillary Clinton e dai suoi legami con i grandi interessi economico-finanziari e con l’apparato militare e dell’intelligence. A uscire con le ossa rotte dal voto è stato però anche un sistema mediatico che aveva cercato in tutti i modi di spingerla verso la Casa Bianca, non da ultimo producendo una raffica di sondaggi favorevoli alla candidata Democratica.

Ben lontani dall’assumersi la responsabilità di avere consegnato gli Stati Uniti a un presidente dalle evidenti tendenze fasciste, i politici Democratici e ancor più commentatori e analisti “liberal” hanno continuato e continueranno verosimilmente a collegare il successo di Trump a fattori che, se pure hanno influito, non sono stati determinanti.

Tra questi, in primo luogo, la mai provata interferenza del governo russo nel processo elettorale americano attraverso la penetrazione dei server di posta elettronica del partito e dello staff di Hillary Clinton. Ancor più, la galassia pseudo-progressista e i professionisti delle politiche identitarie e di genere sostengono che il fenomeno Trump sia una pura espressione di un’America retrograda, razzista e misogina che resiste il cambiamento che avrebbe determinato la sola elezione della prima donna alla Casa Bianca.

Se questa fetta di America, il cui peso è peraltro discutibile, ha indubbiamente appoggiato con entusiasmo la candidatura di Donald Trump, la sua affermazione è stata determinata in realtà dalla capacità di proporsi, sia pure soltanto in maniera apparente, come l’unico aspirante alla presidenza in grado di stravolgere l’establishment, dando voce soprattutto a una classe media e a una “working-class” che non hanno sentito se non, tutt’al più, in minima parte la “ripresa” dell’economia. Tutto ciò è stato canalizzato in una direzione reazionaria ed è stato possibile solo grazie al vuoto della sinistra americana e alla crisi irreversibile del Partito Democratico.

La ripresa dell’economia, piuttosto, sotto la gestione Obama ha beneficiato una ristretta élite, di cui fanno invariabilmente parte quegli esponenti della stampa “mainstream” che non si capacitano di come decine di milioni di elettori abbiano mancato di vedere i presunti progressi economici del paese e le rosee prospettive di un’eventuale presidenza Clinton.

La metabolizzazione della vittoria di Trump richiederà comunque tempo e le difficoltà che si prospettano sono state anticipate già mercoledì dal crollo delle borse in tutto il mondo. La storia della campagna elettorale appena terminata, così come i reali orientamenti dei poteri che controllano la politica americana, nasconde ancora molti lati oscuri, ma l’eventuale conciliazione del 45esimo presidente degli Stati Uniti con un sistema che l’ha in larga misura contrastato negli ultimi diciotto mesi non potrà avvenire senza scosse.

Allo stesso modo, la sola discussione delle varie proposte ultra-reazionarie di Trump, alcune delle quali con possibilità concrete di essere implementate vista la maggioranza Repubblicana confermata al Congresso, provocheranno gravi tensioni nel paese, a cominciare da quelle relative all’immigrazione, dalla possibile abolizione della “riforma” sanitaria di Obama e dalla nomina di giudici reazionari alla Corte Suprema.

Per il momento, alla luce del degrado che ha caratterizzato questa stagione elettorale americana e la quasi certezza che nessuno dei veri problemi sociali che affliggono gli Stati Uniti sarà risolto dopo questa elezione, è legittimo per lo meno consolarsi con la consegna probabilmente definitiva alla storia della dinastia politica clintoniana.

di Fabrizio Casari

Con oltre il 72,5% dei voti, il Comandante Sandinista Daniel Ortega Saavedra, presentatosi in tandem con Rosario Murillo alla guida della coalizione Nicaragua Triunfa, è stato rieletto per la terza volta consecutiva Presidente della Repubblica del Nicaragua. Schiacciante il predominio del Frente Sandinista nelle urne, l’insieme delle opposizioni si avvicina solo al 30% dei consensi e, sebbene disporrà di una discreta forza parlamentare, la maggioranza assoluta del FSLN nell’Assemblea Nazionale consentirà a Daniel Ortega e Rosario Murillo di proseguire nell’opera di ricostruzione socioeconomica e di modernizzazione del Paese iniziata dieci anni orsono.

Precisamente dal Gennaio del 2007, da quando cioè Daniel Ortega riprese in mano il destino del paese centroamericano. Raccolse una nazione in macerie che, dopo 16 anni di governi liberali, aveva superato Haiti nella classifica dei paesi più poveri dell’emisfero centroamericano. In dieci anni il governo Ortega ha rivoltato il paese come un guanto, posizionato il Nicaragua al secondo posto - dopo Panama - per la crescita economica costante nella regione .

Proprio i risultati ottenuti al governo negli ultimi dieci anni trovano oggi risposta in un consenso così ampio, che ha quasi doppiato lo zoccolo duro dell’elettorato sandinista, da sempre intorno al 35-38%. Sono effetto di una crescita basatasi sui principi fondanti di una economia sociale di mercato di ispirazione socialista, concentrata sulle politiche orientate alla riduzione della povertà e alla generazione di lavoro. Politiche concertate anche con l’impresa privata, che nella rinascita del paese ha trovato ruolo sociale e margini di profitto altrimenti irraggiungibili.

La rinascita del Nicaragua è stata sostenuta da investimenti pubblici in strade, case, sanità, trasporti, istruzione, assistenza, oltre che facilitazione al credito cooperativo e individuale, sostegno alla piccola e media impresa rurale, elettrificazione (erogata per una quota del 55% con energie rinnovabili), ampliamento della rete Internet in quasi tutto il paese. In conseguenza di queste politiche di coagulo sociale si è raggiunto anche un livello di sicurezza che vede il Nicaragua al primo posto nell’area centroamericana. Non a caso la stessa agenzia di rating Ficht, che ha assegnato al Nicaragua la B+ con prospettiva stabile, in un comunicato dove si complimenta con Ortega afferma che i governi da lui guidati "hanno migliorato la dinamica del debito pubblico, ridotto gli squilibri ed hanno visto una crescita crescente e una inflazione decrescente".

Ma il voto storico di domenica scorsa è anche il risultato di una comunicazione costante e dettagliata tra popolo e governo (della quale va dato merito soprattutto alla ora Vicepresidente Rosario Murillo) che ha rivoluzionato la tradizione della relazione tra rappresentanti e rappresentati costituendo una autentica novità nel panorama politico internazionale.

Difficile dunque, a fronte di simili risultati, svolgere una opposizione che valichi i confini puramente ideologici, ma il voto riflette anche la crisi dell’area liberale e conservatore, sebbene essa ha comunque ottenuto un mandato a rappresentare quella porzione di paese che non si riconosce nel FSLN.

La grande sconfitta di queste elezioni è invece l’ultradestra camuffata da improbabili rinnovatori, che a seguito dei sondaggi che l’accreditavano allo 0,2%, ha preferito non partecipare e lanciare una campagna sguaiata sui media internazionali di delegittimazione del voto. I loro sforzi hanno prodotto una discreta dose di disinformazione mediatica e un imbarazzante abbraccio con i settori più reazionari del partito Repubblicano statunitense, ma è proprio in Nicaragua che non hanno ottenuto seguito.

Gli ex-sandinisti del MRS e gli ex-liberali che hanno puntato sull’astensione hanno cercato con una mossa furba di sovrapporla con il loro proclama politico, ma non ha funzionato. L’assenza dal voto è stata infatti intorno al 35%, in perfetta media storica e comunque inferiore agli altri paesi del continente. Dunque risulta impossibile per loro auto assegnarsi il dato quantitativo dell'astensione e meno che mai raffigurarlo come dato politico. La loro unica vittoria è stata non presentarsi per evitare l’umiliazione della conta.

Ciononostante, fallita la strategia dell’astensione, prosegue senza sosta quella della disinformazione, dove si sentono appoggiati dai media internazionali. In spregio alla decenza hanno diffuso dichiarazioni che invertono completamente la realtà, indicando la quota di astensione al 65 per cento e quella dei votanti al 35!!

Ma nemmeno i loro amici stavolta li seguono. Un portavoce aggiunto del Dipartimento di Stato USA hacriticato l'assenza di osservatori internazionali (ovvero i loro) e ricordato come l'impegno della Casa Bianca è quello di insistere per il rispetto della democrazia e dei diritti umani, ma ruolo di chi ha effettuato le dichiarazioni e contenuto delle stesse appaiono decisamente inferiori alle attese dei loro amici nicaraguensi.

D’altra parte l’esito del voto nei suoi diversi aspetti era stato previsto dai sondaggi di opinione precedenti al voto, che indicavano il consenso al FSLN e all’opposizione, così come i numeri dell’astensione, i dati effettivamente riscontratisi ai seggi, il che rende ulteriormente prive di credibilità le dichiarazioni dell’ultradestra.

L’ampiezza dell’affermazione del Frente Sandinista evidenzia invece il sostegno popolare di cui gode il governo di Daniel Ortega e rende le denunce degli ex di tutto, persino della loro dignità personale, un esercizio di disperazione di chi è completamente privo di prestigio ed è ormai confinato ai margini della storia politica del paese.

A conferma invece di un voto tranquillo, regolare ed ordinato, rispettoso delle procedure e dei suoi esiti, vanno registrate le dichiarazioni del Gruppo di Esperti Elettorali, composto da ex Presidenti, ministri e deputati dei paesi latinoamericani. A nome di tutti l’ex Viceministro degli Esteri dell’Argentina, Raúl Alconada, si è complimentato con il Nicaragua, sottolineando che “mantenere il livello di partecipazione elettorale superiore alla media dei paesi latinoamericani, oltre a costituire una buona notizia, deve essere assunto come una sfida di prim’ordine per tutti i paesi”.

Anche la delegazione del COPPAL (la Conferenza dei partiti politici latinoamericani) in un report dettagliato sulle operazioni di voto monitorate, si è complimentata con tutti i partiti e “con il popolo nicaraguense per la dimostrazione di educazione civica esibita durante il processo elettorale, così come con il Consiglio Supremo Elettorale per la trasparenza e il livello di organizzazione dimostrato..che ha messo in evidenza la maturità del popolo e i progressi in materia elettorale raggiunti in Nicaragua”.

Auguri e complimenti a Ortega e Murillo sono arrivati dal presidente cubano Raul Castro, da quello venezuelano Maduro, dal boliviano Evo Morales e dal governo del Messico, del Guatemala e di El Salvador, ai quali si sono aggiunti quelli di Diego Armando Maradona, che sulla sua pagina Facebook invia i suoi complimenti a Daniel Ortega “da parte di un sandinista in più”.

Il Nicaragua continua quindi il suo cammino verso il futuro sotto lo sguardo vigile di Sandino che, dalla Loma di Tiscapa, si è trasferito in ogni luogo e in ogni urna della sua Nicaragua.


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