di Michele Paris

Il sostanziale epilogo delle primarie Democratiche per la presidenza degli Stati Uniti è stato degnamente suggellato questa settimana dallo stesso genere di manovre messe in atto fin dallo scorso anno dai vertici del partito e dalla stampa ufficiale “liberal” per garantire l’assegnazione della nomination alla candidata di gran lunga favorita dall’establishment, Hillary Clinton.

A giudicare dai sondaggi che erano circolati nei giorni precedenti il voto di martedì, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, era dato nettamente in vantaggio in quattro dei sei stati chiamati alle urne, mentre la sfida in California sembrava doversi risolvere in un testa a testa. Alla fine, Sanders ha prevalso solo in Montana e nei “caucuses” del North Dakota, mentre l’ex segretario di Stato ha messo le mani, oltre che sulla California con un margine di ben 13 punti percentuali, su New Mexico, South Dakota e, come previsto, New Jersey.

Il raffreddamento degli entusiasmi dei sostenitori di Sanders appare dunque chiaro ed è stato dovuto in larga misura al clima di inevitabilità creato da media e politici Democratici attorno alla candidatura di Hillary Clinton. Clamorosa è stata soprattutto la decisione presa lunedì dalla Associated Press di annunciare l’ormai certa conquista della nomination da parte di Hillary in seguito a un riconteggio, per mano della stessa agenzia di stampa e dal tempismo infallibile, del numero di delegati raccolti dai due aspiranti alla Casa Bianca.

Hillary aveva vinto nelle primarie di Porto Rico e nei “caucuses” delle Isole Vergini nel fine settimana, ma l’incoronazione dell’autorevole agenzia di stampa americana è stata possibile solo tenendo in considerazione l’orientamento di voto dei “superdelegati” Democratici, quelli cioè non assegnati dal voto popolare nei singoli stati.

I “superdelegati”, ovvero membri del Congresso o esponenti di spicco del partito, hanno diritto di scegliere liberamente il candidato da appoggiare alla convention. Tuttavia, nonostante la maggior parte avesse deciso di schierarsi dalla parte della Clinton, essi hanno facoltà di cambiare idea fino alla votazione ufficiale dell’assemblea dei delegati durante la convention. Per questa ragione, tecnicamente la competizione alla vigilia delle primarie di martedì era ancora aperta e la notizia della vittoria di Hillary circolata con un giorno di anticipo ha molto probabilmente influito sui risultati finali.

L’uscita della Associated Press è stata subito ripresa dalle altre testate negli Stati Uniti. Hillary e il suo team hanno invece invitato ad attendere l’esito del voto, ben sapendo però che la notizia sarebbe stata sufficientemente amplificata dalla stampa americana.

Se e quali macchinazioni recenti e meno recenti a favore della ex first lady siano risultate decisive nel decidere l’assegnazione della nomination per il Partito Democratico è difficile da valutare. Certo è che l’atteggiamento dei leader Democratici e dei media in questa tornata elettorale negli USA ha fornito indicazioni interessanti sullo stato del partito e della sua candidata alla presidenza.

L’ansia di liquidare Sanders e di dichiarare chiuse le primarie a favore di Hillary, ad esempio, non indica affatto la forza di quest’ultima, bensì al contrario l’estrema debolezza della sua candidatura. Il protrarsi della sfida tra i Democratici ha rischiato cioè di esporre sempre più la vera natura di Hillary, vista giustamente con avversione dalla maggior parte degli americani, e di favorire il candidato Repubblicano, Donald Trump.

La fragilità di Hillary e l’insofferenza di decine di milioni di americani nei suoi confronti l’avevano spinta un paio di settimane fa anche a rifiutare la proposta di Sanders di apparire in un ultimo dibattito televisivo prima della fine delle primarie. Hillary aveva valutato che un evento nel quale il suo rivale avrebbe potuto attaccarla per il suo curriculm politico reazionario si sarebbe risolto in un disastro per la sua immagine.

La permanenza di Sanders nella corsa ha anche contribuito al processo di radicalizzazione dell’elettorato Democratico, già galvanizzato dalla campagna di un candidato presentatosi con un programma progressista e addirittura auto-definitosi “democratico-socialista”. Questa tendenza potrebbe minacciare una diserzione di una parte degli elettori del partito a novembre, tutt’altro che disposti a turarsi il naso e a votare una candidata legata a doppio filo con Wall Street e l’apparato militare e della sicurezza nazionale americano.

Per prevenire uno scenario di questo genere, Sanders sarà sollecitato a svolgere fino in fondo il ruolo che la sua candidatura doveva avere fin dall’inizio, ovvero quello di convogliare l’opposizione delle classi più disagiate verso il Partito Democratico, impedendo che essa prenda una qualche forma autonoma e alternativa all’attuale sistema politico di Washington.

Sanders non ha per il momento riconosciuto la sconfitta e ha anzi invitato i suoi sostenitori nella capitale degli Stati Uniti a recarsi alle urne per l’ultima tappa delle primarie 2016 che si terrà martedì prossimo proprio a Washington. Il senatore del Vermont ha però richiesto e ottenuto un faccia a faccia con il presidente Obama giovedì, nel quale verosimilmente i due discuteranno le mosse necessarie a “unificare” il Partito Democratico attorno a Hillary Clinton.

Svanite le chances di nomination, a Sanders non resterà che cercare di trasferire il suo capitale politico dalla sfida con la rivale all’impegno per la definizione della piattaforma programmatica del partito. In realtà, la linea del Partito Democratico rimarrà invariabilmente “pro-business” a prescindere da quanto verrà proposto durante la convention di luglio a Philadelphia. Tuttavia, anche per non apparire troppo remissivo di fronte a Hillary e ai vertici del partito dopo una battaglia durata mesi, Sanders finirà per promuovere l’illusione di un Partito Democratico in grado di guardare ai bisogni di lavoratori e classe media, spingendo per l’adozione di alcune sue proposte di stampo progressista.

In questo modo, Sanders riuscirà a giustificare il suo appoggio alla Clinton, assicurando a quest’ultima il voto a novembre della maggior parte dei suoi sostenitori. Hillary, da parte sua, potrà imprimere l’attesa svolta a destra della sua campagna elettorale, così da provare a intercettare i voti degli elettori Repubblicani non intenzionati ad appoggiare Trump.

L’altro pilastro della strategia di Hillary per le presidenziali vere e proprie sarà l’accento sulla natura “storica” della candidatura della prima donna alla Casa Bianca per uno dei due principali partiti americani. La nomination della ex first lady è già stata festeggiata con toni trionfali, e a tratti disonesti e ripugnanti, da quasi tutti i media ufficiali negli USA e non solo.

Il New York Times, ad esempio, è uscito mercoledì con un apposito editoriale per celebrare l’evento, definito una “pietra miliare” per i diritti delle donne, lasciando intendere che la sola presenza sulle schede elettorali di un candidato di sesso femminile, ancorché guerrafondaio, reazionario e al servizio di ricchi e potenti, costituisca un qualche progresso per la società.

La fissazione “liberal” sulle questioni di genere e di razza era apparsa già evidente nel 2008 dopo la conquista per la prima volta da parte di un politico di colore della nomination Democratica e poi della presidenza. Il totale abbandono delle pretese riformiste di quell’esperienza elettorale si sarebbe tradotto in conflitti sanguinosi, crimini di guerra, smantellamento dei diritti democratici e dei lavoratori, cioè precisamente quanto è di nuovo in serbo per gli americani e il resto del pianeta in caso di vittoria a novembre della candidata Hillary Clinton.

di Michele Paris

Si chiama “Anaconda”, ha preso il via lunedì in Polonia ed è la più imponente esercitazione militare condotta dalla NATO in Europa orientale a partire dalla fine della Guerra Fredda. L’Operazione “Anaconda” coinvolgerà 31 mila soldati di 24 paesi e, fino al 17 giugno prossimo, prevede la simulazione di scenari di guerra provocati da una “azione offensiva” condotta dalle forze armate russe. Sinistramente, per partecipare alle manovre i carri armati tedeschi hanno varcato il confine polacco da Ovest verso Est per la prima volta dall’invasione nazista di questo paese nel 1941.

Ufficialmente, l’operazione dovrebbe testare il livello di cooperazione tra i comandi alleati e i soldati dei diversi paesi in risposta a minacce di natura militare, chimica e tecnologica. L’esercitazione consiste però di fatto in una prova di un’invasione del territorio russo da parte delle truppe dei paesi europei occidentali e orientali. I contingenti più numerosi sono quelli di Stati Uniti e Polonia, con rispettivamente 14 mila e 12 mila uomini, mentre sono presenti anche soldati di paesi non membri della NATO, tutti sotto il comando del generale polacco Marek Tomaszycki.

Un anonimo diplomatico di un paese europeo di stanza a Varsavia ha rivelato al Guardian che lo scenario “da incubo” evocato dall’esercitazione potrebbe essere causato da un “incidente, un errore di calcolo che la Russia interpreti, o decida di interpretare, come un’azione offensiva”.

L’Operazione “Anaconda” s’inserisce d’altra parte in un quadro generale fatto di pericolose provocazioni militari nei confronti della Russia, con le quali la NATO intende precisamente suscitare la reazione di Mosca, sia per legittimare il costante dispiegamento di uomini e armamenti lungo il proprio fianco orientale sia, nel medio o lungo periodo, per giustificare una possibile aggressione militare dagli esiti difficilmente calcolabili.

Sempre il Guardian, nello stesso articolo dedicato all’esercitazione NATO, ha dimostrato come i partecipanti siano consapevoli della natura provocatoria delle operazioni. “Esperti” in materia di difesa citati dal quotidiano britannico hanno avvertito che una “qualsiasi incomprensione potrebbe generare una reazione offensiva da parte di Mosca”. Allo stesso modo, l’analista polacco Marcin Zaborowski, di un istituto di ricerca di Varsavia, ha definito il clima attorno all’esercitazione “teso” e nel quale non è da escludere il verificarsi di “incidenti”.

La mobilitazione militare in territorio polacco ha suscitato la prevedibile irritazione del governo russo. Fonti militari hanno fatto sapere che Mosca ha disposto l’invio di tre divisioni - ciascuna composta da 10 mila uomini - ai confini occidentali in risposta all’esercitazione dei paesi NATO.

Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha invece risposto alle dichiarazioni al limite dell’isteria soprattutto di vari governi dell’Europa orientale, affermando che “ogni politico serio e onesto è ben consapevole che la Russia non invaderà mai nessun membro della NATO”. Per questa ragione, ha proseguito il capo della diplomazia russa, “non esistono minacce in questa parte del mondo che giustifichino un’escalation” militare.

Quasi ogni giorno, i governi NATO mettono in guardia dal pericolo esistenziale rappresentato dalla Russia e da una rinnovata aggressività che caratterizzerebbe le decisioni del Cremlino. In quest’ottica, i paesi dell’ex Patto di Varsavia rischierebbero, letteralmente da un momento all’altro, di vedere i carri armati russi attraversare le loro frontiere.

Questo tentativo di ribaltamento della realtà, amplificato dalla stampa ufficiale, trae spunto dalla crisi in Ucraina, provocata, secondo l’interpretazione “mainstream”, dall’intrusione di Mosca nelle vicende interne di questo paese e culminata con l’annessione della Crimea, con buona pace di quanti continuano a considerare le vicende del 2014 come un colpo di stato guidato da forze apertamente fasciste sotto la direzione di Washington e Berlino.

Le manovre della NATO in Europa orientale sono quindi di natura interamente offensiva e l’Operazione Anaconda è solo la più recente, e non certo l’ultima, delle iniziative intraprese negli ultimi due anni. Solo qualche settimana fa, l’Alleanza aveva annunciato l’attivazione di un nuovo sistema anti-missilistico in Romania, giustificato (assurdamente) con la necessità di neutralizzare eventuali missili provenienti dall’Iran, ma in realtà rivolto contro la Russia.

Sempre lunedì, poi, 5 mila truppe NATO hanno inaugurato un’altra esercitazione militare, in questo caso in Lituania, paese, assieme agli altri due del Baltico, tra i più ostinatamente anti-russi del continente europeo.

Una nuova accelerazione in questo senso è prevista durante il summit NATO in programma l’8 e il 9 di luglio proprio a Varsavia. Qui dovrebbero essere ratificate le decisioni di schierare in maniera stabile quattro battaglioni in altrettanti paesi dell’Europa orientale (Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania), di istituire nuovi centri di comando sempre ai confini con la Russia e di rafforzare i legami militari con paesi come Georgia e Ucraina, se non addirittura di spianare la strada al loro ingresso nell’Alleanza.

L’esercitazione in corso in Polonia serve anche al governo populista di destra di questo paese per alimentare la feroce retorica anti-russa che l’ha contraddistinto fin dal suo insediamento nell’autunno scorso. Il gabinetto guidato dal Partito Diritto e Giustizia (PiS) della premier, Beata Szydlo, e dell’ex primo ministro, Jaroslaw Kaczynski, vede con sospetto sia l’Unione Europea sia la Germania, mentre ambisce alla costruzione di legami più stretti con NATO e Stati Uniti, a cui intende legare la sicurezza del paese.

A dare un’idea dell’attitudine nei confronti di Mosca del governo di Varsavia era stato un paio di mesi fa il ministro degli Esteri polacco, Witold Waszcykowski, il quale durante una visita in Slovacchia aveva definito la Russia una “minaccia esistenziale” ben più grave del terrorismo e dello Stato Islamico (ISIS).

L’Operazione “Anaconda” segna infine l’impiego per la prima volta da parte polacca della forza paramilitare “territoriale” istituita dal governo e composta da circa 35 mila uomini, in larga misura reclutati in ambienti di estrema destra. La creazione di questa milizia si colloca in una fase segnata da tensioni tra gli ambienti militari e l’esecutivo dopo che quest’ultimo ha liquidato o costretto alle dimissioni un quarto dei generali polacchi.

All’esercitazione appena inaugurata dovrebbero partecipare due brigate di volontari a fianco dell’esercito regolare, ma la loro presenza sta suscitando non pochi malumori e preoccupazioni tra i vertici delle forze armate.

Il malcontento registrato tra i militari a Varsavia non è peraltro un fattore isolato, visto che gli orientamenti strategici del governo del PiS sono visti con sospetto da almeno una parte della classe dirigente polacca. Ugualmente, dietro all’ostentazione di unità delle forze armate degli oltre venti paesi impegnati nell’esercitazione in Polonia si nascondono divisioni significative sul corso delle relazioni da tenere nei confronti della Russia.

Molti governi europei, infatti, pur allineandosi formalmente alla linea dura dettata da Washington, continuano ad auspicare un abbassamento dei toni e il sostanziale ritorno alla normalità, così da non danneggiare ulteriormente gli interessi economici ed energetici che li legano a Mosca.

di Michele Paris

Per il governo americano, qualsiasi palcoscenico internazionale in Asia orientale è diventato ormai l’occasione per sollevare la questione delle contese territoriali nei mari che bagnano la Cina e per moltiplicare polemiche e tensioni nei confronti di Pechino. Questo stesso copione si è ripetuto a Singapore e nella capitale cinese, dove sono andati in scena due attesi eventi annuali, rispettivamente il cosiddetto “Dialogo Shangri-La”, organizzato dall’Istituto Internazionale per gli Studi Strategici britannico, e il “Dialogo Strategico ed Economico” tra le prime due potenze economiche del pianeta.

Il primo appuntamento ha riunito nel fine settimana vari ministri di paesi asiatici, europei e del continente americano. Durante il summit si è assistito alla definizione delle rispettive posizioni di USA e Cina sulle dispute sempre più accese nel Mar Cinese Meridionale. Il clima minaccioso osservato a Singapore è stato in qualche modo amplificato dalla consapevolezza dell’imminenza di un verdetto molto delicato di un tribunale ONU con sede a L’Aia, in Olanda, sulla legittimità delle rivendicazioni cinesi sulle isole Spratly, nel Mar Cinese Meridionale.

La causa è stata intentata dal governo delle Filippine, il quale rivendica queste stesse isole, in seguito alle pressioni di Washington e l’esito dovrebbe essere quasi certamente sfavorevole a Pechino. Il governo cinese ha già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di riconoscere il risultato di un procedimento la cui legittimità non ha mai riconosciuto.

A Singapore erano comunque presenti per gli Stati Uniti il segretario alla Difesa, Ashton Carter, e il comandante delle forze armate USA nel Pacifico, ammiraglio Harry Harris. Sabato, il “falco” Carter è stato protagonista di un discorso provocatorio che ha ricordato il massiccio dispiegamento di armamenti americani nella regione “Asia-Pacifico”.

Il capo del Pentagono ha anche elencato una serie di paesi alleati, a cominciare da Australia e Giappone, o con cui gli USA hanno siglato accordi di partnership militare. In maniera assurda, Carter ha assicurato che le manovre del suo paese in Estremo Oriente “non sono dirette contro nessun paese in particolare”, salvo contraddirsi subito dopo nel ricordare le “ansie crescenti… per le attività della Cina nei mari, nel cyberspazio e nei cieli della regione”.

Carter ha infine proposto nel suo intervento un’immagine ampiamente riportata dalla stampa internazionale riguardo alla Cina, la quale rischierebbe di “erigere una Grande Muraglia di auto-isolamento”. Ferma restando la discutibilità di questa asserzione, viste le relazioni economico-commerciali fittissime intrattenute da Pechino praticamente con tutti i propri vicini, le parole del segretario alla Difesa USA hanno evocato scenari di guerra, a cui lo stesso Carter ha fatto riferimento esplicito nel corso di altri eventi della due giorni di Singapore.

In particolare, Carter ha affermato che un eventuale impulso all’attività di costruzione da parte di Pechino sulle isole oggetto del prossimo verdetto del tribunale de L’Aia potrebbe spingere gli USA e altri paesi nella regione ad “agire” in un modo che farebbe aumentare le tensioni e l’isolamento della Cina. L’ammiraglio Harris, invece, ha parlato della presunta volontà americana di collaborare con la Cina, assicurando tuttavia che il suo paese “deve essere pronto al confronto militare, nel caso fosse necessario”.

La risposta del governo cinese alle provocazioni degli Stati Uniti è stata altrettanto minacciosa e con ogni probabilità irrobustita dall’irritazione per le iniziative di Washington nei mesi scorsi, come il ripetuto invio di imbarcazioni da guerra al largo delle isole contese e controllate da Pechino in missioni ufficialmente destinate ad affermare il principio della “libertà di navigazione” nel Mar Cinese Meridionale.

Il vice-capo di Stato Maggiore cinese, ammiraglio Sun Jianguo, ha ricordato come “alcuni paesi con ambizioni egemoniche hanno fatto in modo che paesi più piccoli si sentano autorizzati a provocare quelli più grandi”. La Cina, ha proseguito l’alto ufficiale di Pechino, “non tollererà le conseguenze né consentirà intrusioni nella propria sovranità e nella propria sicurezza, o rimarrà indifferente nei confronti dei paesi che intendono alimentare il caos nel Mar Cinese Meridionale”.

Molti ministri presenti a Singapore hanno assecondato la linea americana, puntando il dito sostanzialmente contro la Cina per le tensioni nella regione. Soprattutto il rappresentante del Vietnam, paese recentemente visitato dal presidente Obama, ha usato toni minacciosi nell’ipotizzare un possibile “conflitto militare” se Pechino non dovesse ammorbidire le proprie posizioni.

Il “Dialogo Shangri-La” ha registrato dunque la tendenza all’inasprirsi dello scontro tra USA e Cina in parallelo al procedere delle operazioni americane di accerchiamento ai danni di quest’ultimo paese. Le ragioni dietro la strategia americana hanno a che fare con i tentativi di ostacolare l’ascesa della Cina a potenza in grado di minacciare la supremazia di Washington nel continente asiatico.

Le tensioni esplosive tra i due paesi hanno segnato solo un parziale e apparente allentamento nella prima giornata del vertice bilaterale in programma tra lunedì e martedì a Pechino. La sessione inaugurale del “Dialogo Strategico ed Economico” ha visto la presenza del presidente cinese, Xi Jinping, il quale ha auspicato relazioni basate sulla “fiducia reciproca” tra USA e Cina, in modo da gestire i conflitti ed evitare “errori di valutazione strategici”. Per il numero uno del Partito Comunista Cinese, inoltre, “l’oceano Pacifico dovrebbe essere un teatro di cooperazione” e non un’area nella quale si manifestano le rivalità tra le potenze mondiali.

A ribadire nel concreto la posizione ufficiale cinese sulle contese territoriali è stato il Consigliere di Stato, Yang Jiechi, ovvero uno degli architetti della politica estera di Pechino. Yang ha ricordato la consuetudine di discutere con i paesi del sud-est asiatico le dispute territoriali, seguendo il principio preferito dalla Cina, cioè il perseguimento di trattative bilaterali e senza ingerenze di paesi terzi, con un chiaro riferimento agli Stati Uniti.

Il segretario di Stato USA, John Kerry, sempre dalla capitale cinese ha invece invitato Pechino a non annunciare in maniera “unilaterale” la creazione di una Zona di Identificazione per la Difesa Aerea (ADIZ) nelle aree contese del Mar Cinese Meridionale. L’ADIZ è un’area situata al di fuori dello spazio aereo di un determinato paese e impone ai velivoli che l’attraversano di fornire informazioni sulla loro rotta alle autorità, in modo che esse abbiano tempo a sufficienza per identificare possibili minacce e prendere le misure necessarie a prevenirle. La Cina aveva già adottato questa iniziativa due anni fa nel Mar Cinese Orientale, suscitando le proteste degli Stati Uniti.

Il “Dialogo Strategico ed Economico” tra USA e Cina si tiene annualmente da circa un decennio, ma l’obiettivo di attenuare le tensioni bilaterali e di ridurre la distanza tra le rispettive posizioni sulle questioni più controverse è stato in larga misura mancato sotto la spinta di fattori oggettivi, determinati in sostanza dall’evoluzione degli interessi strategici di Washington.

Il vertice bilaterale in corso questa settimana prevede colloqui incentrati non solo sulle questioni legate alla sicurezza e alla politica estera, ma anche all’economia. Anche su questo fronte i rappresentanti dell’amministrazione Obama hanno fatto pressioni sulle loro controparti cinesi.

Oltre alle solite accuse rivolte a Pechino circa la violazione della proprietà intellettuale di molte aziende americane, il segretario al Tesoro USA, Jack Lew, ha sollevato una questione molto dibattuta negli ultimi mesi negli Stati Uniti e non solo. Lew ha cioè invitato il governo a porre rimedio all’eccesso di produzione che si riscontra in vari settori industriali cinesi.

Soprattutto la produzione in eccesso di acciaio e alluminio cinesi sta inondando i mercati globali di questo materiale, spingendo verso il basso le quotazioni con effetti rovinosi sulle industrie occidentali. Il governo di Pechino, da parte sua, aveva in realtà già annunciato qualche settimana fa iniziative per ridimensionare alcuni settori industriali dominati dai colossi pubblici, con tutte le conseguenze del caso in termini di perdita di posti di lavoro.

La questione si incrocia però con un’altra vicenda delicata, quella del riconoscimento dello status ufficiale di “economia di mercato” da parte di Stati Uniti e Unione Europea. Ciò consentirebbe alla Cina di evitare l’imposizione di dazi doganali punitivi sui propri prodotti destinati alle esportazioni, ma anche in questo caso la decisione finale dipenderà da fattori non solo economici, bensì, in definitiva, dagli sviluppi nell’immediato futuro della rivalità tra Washington e Pechino.

di Mario Lombardo

L’offensiva delle forze armate irachene, con il sostegno di quelle americane, per la riconquista della città di Falluja, nella provincia occidentale di Anbar e sotto il controllo dello Stato Islamico (ISIS/Daesh), rischia concretamente di provocare l’ennesima catastrofe umanitaria nel martoriato paese mediorientale. In questi esatti termini si è espressa un paio di giorni fa un’organizzazione non governativa norvegese che assiste la popolazione civile nell’area della località a una sessantina di chilometri a ovest di Baghdad.

I civili che sono riusciti a lasciare la città sono una netta minoranza, mentre si stima che a circa 50 mila abitanti di Falluja sia impedito di mettersi in salvo dagli uomini del califfato. Mercoledì si è aggiunto l’appello dell’UNICEF ai soldati iracheni e all’ISIS per risparmiare i 20 mila bambini intrappolati a Falluja.

Questi ultimi e i civili in genere sarebbero utilizzati dall’ISIS come scudi umani, così da scoraggiare i bombardamenti della “coalizione” internazionale guidata da Washington. Non solo: le poche centinaia di ragazzi al di sopra dei 12 anni che hanno raggiunto le linee del fronte vengono fermati e interrogati dalle truppe irachene per il timore che tra di essi vi siano possibili affiliati all’ISIS.

La situazione per coloro che sono rimasti nella città diventa ogni giorno peggiore. All’assenza di cibo, medicinali ed energia elettrica si deve aggiungere quella di acqua potabile, tanto che la responsabile dello sforzo umanitario dell’ONU in Iraq, Lise Grande, ha prospettato l’imminenza di un’epidemia di colera. Lo stesso assedio delle forze di Baghdad ha inoltre reso complicato il transito delle forniture di beni di prima necessità.

La popolazione tuttora a Falluja deve fare i conti anche con i raid degli “alleati”. Martedì, ad esempio, i media locali hanno raccontato di intensi bombardamenti da parte degli aerei della “coalizione” anti-ISIS sulle postazioni di difesa del califfato nell’area di al-Shuhada, a sud di Falluja.

Se le incursioni aeree e l’assedio di Falluja sono in genere descritti positivamente in Occidente, e le eventuali vittime civili considerate danni collaterali inevitabili, iniziative simili condotte dall’esercito di Bashar al-Assad e dall’aviazione russa nelle città siriane controllate dai “ribelli” sono invece regolarmente condannate come “crimini di guerra”.

Le operazioni per la riconquista della città a maggioranza sunnita erano state annunciate la settimana scorsa dal governo iracheno del primo ministro, Haider al-Abadi. A prendere parte all’offensiva di terra non è solo l’esercito regolare, ma anche i corpi speciali dell’anti-terrorismo e le milizie sciite sostenute dall’Iran.

Queste forze erano sembrate giungere rapidamente alle porte della città nei giorni immediatamente successivi all’inizio delle manovre, ma l’ISIS, forte di un’occupazione che dura da oltre due anni, ha mostrato di poter resistere a lungo. Anzi, a inizio settimana sono circolate le notizie di un contrattacco da parte dell’ISIS, sempre a sud di Falluja, contrastato però efficacemente dalle forze di Baghdad. Mercoledì, invece, l’esercito iracheno, con l’appoggio aereo americano, ha attaccato le linee di difesa dell’ISIS sia a nord che a sud della città, anche se finora non si sono registrati progressi significativi.

I timori per la popolazione civile di Falluja sono ingigantiti dalla storia particolarmente drammatica di questa città nell’ultimo decennio. Primo centro urbano di rilievo in Iraq a cadere nelle mani dell’ISIS nel 2014, Falluja aveva subito due assedi sanguinosi da parte dell’esercito americano esattamente dieci anni prima.

Questa città era considerata il cuore della resistenza sunnita all’invasione illegale degli Stati Uniti, i quali imposero un prezzo carissimo ai suoi abitanti, vittime di una vera e propria punizione collettiva. Oltre alle migliaia di vittime civili, i militari americani distrussero oltre la metà degli edifici di Falluja e lasciarono una tragica scia di morte in seguito all’uso di uranio impoverito. Numerosi studi medici successivi avrebbero documentato un’incidenza altissima tra la popolazione di tumori, malattie genetiche, deformità e mortalità infantile.

Falluja rischia anche di subire la stessa sorte di altre città strappate nei mesi scorsi all’ISIS in Iraq. Ramadi e Tikrit, ad esempio, sono state in larga misura distrutte e i rispettivi abitanti tuttora impossibilitati a fare ritorno nelle proprie abitazioni.

In entrambi i casi, poi, la presenza di milizie sciite in appoggio all’esercito di Baghdad era sfociata in massacri di civili sunniti come ritorsione delle atrocità commesse dall’ISIS. L’identificazione delle forze governative con l’oppressione della maggioranza e del governo sciita aveva d’altra parte spinto molti iracheni sunniti a unirsi all’ISIS nei primi mesi del 2014.

Attorno all’operazione anti-ISIS a Falluja era emerso un certo disaccordo tra il governo di Baghdad e gli Stati Uniti, nonostante il Pentagono stia comunque appoggiando le operazioni di questi giorni. A Washington l’obiettivo primario della guerra rimane infatti la città di Mosul, nella provincia settentrionale di Ninive, abbandonata dall’esercito nel giugno di due anni fa di fronte all’avanzata dell’ISIS.

Mosul è la seconda città dell’Iraq per numero di abitanti - circa due milioni prima dell’arrivo dei jihadisti - e l’amministrazione Obama intende probabilmente disporre di un successo militare simbolico nei prossimi mesi, sia per non lasciare la Casa Bianca con importanti aree del Medio Oriente ancora in mano all’ISIS sia per favorire il suo ex segretario di Stato, Hillary Clinton, in vista delle elezioni presidenziali di novembre.

Se per gli USA l’offensiva di Falluja è considerata una distrazione dall’operazione che dovrebbe interessare Mosul, il premier iracheno Abadi ha invece insistito per la liberazione della città nella provincia di Anbar. Il governo sciita di Baghdad ha bisogno di un qualche successo in tempi brevi per cercare di contrastare il crescente movimento di protesta concretizzatosi recentemente in un paio di occupazioni della cosiddetta Zona Verde della capitale irachena.

In questa prospettiva, Falluja è considerata verosimilmente un obiettivo più semplice rispetto a Mosul e, inoltre, il governo ha spesso sostenuto che i numerosi attentati terroristici che hanno colpito Baghdad nelle ultime settimane, facendo crescere ancor più il risentimento dei suoi abitanti, erano stati pianificati proprio in questa città.

Un’altra preoccupazione degli Stati Uniti riguarda anche la presenza nel corso delle operazioni anti-ISIS condotte dall’esercito iracheno delle già ricordate milizie sciite, fortemente legate alla Repubblica Islamica. Questi timori sono collegati alla minaccia di un possibile allineamento ancora più marcato dei rispettivi interessi strategici di Iraq e Iran, dopo che Teheran ha già esteso in maniera significativa la propria influenza sul paese vicino in seguito al rovesciamento del regime di Saddam Hussein.

L’operazione in corso a Falluja si inserisce in un quadro composto da svariate offensive militari contro l’ISIS che stanno interessando non solo l’Iraq ma anche e soprattutto la Siria. In particolare, fazioni delle forze ribelli siriane, nelle quali prevalgono le milizie curde dell’YPG (Unità di Protezione Popolare), stanno facendo segnare alcuni successi in combattimenti che dovrebbero preparare l’assalto a Raqqa, ovvero la capitale dell’auto-proclamato califfato islamico.

Anche in questo caso, in appoggio alle forze locali operano l’aviazione “alleata” e soldati americani, sia pure ufficialmente in veste di “consiglieri” militari. Le località liberate o in fase di liberazione in Siria sono spesso a maggioranza sunnita e, in più di un’occasione, gravi episodi di violenze e ritorsioni, per mano delle stesse milizie curde, sono stati riportati dalla stampa e dalle organizzazioni umanitarie.

Inoltre, il ruolo di primo piano giocato dai curdi nel nord della Siria, in un’alleanza di fatto con gli USA, sta provocando tensioni tra Washington e Ankara, dove il regime di Erdogan continua a ritenere l’YPG e il suo braccio politico, il Partito dell’Unione Democratica (PYD), organizzazioni terroriste perché legate al PKK turco. Allo stesso tempo, però, la Turchia sostiene più o meno clandestinamente gruppi fondamentalisti anti-Assad in Siria.

In definitiva, i vari fronti di guerra che stanno infiammando il Medio Oriente non sono che una delle conseguenza più gravi delle manovre degli Stati Uniti nella regione, inaugurate con l’invasione dell’Iraq nel 2003, da cui discende direttamente la nascita dell’ISIS, e proseguite con le successive rovinose politiche di incitamento delle divisioni settarie per la promozione degli interessi strategici americani.

di Michele Paris

Davanti all’ondata di scioperi e proteste che continuano ad attraversare la Francia, il governo Socialista del presidente, François Hollande, e del primo ministro, Manuel Valls, sembra deciso a proseguire nell’implementazione dell’odiata legge di “riforma” del mercato del lavoro (“legge Khomri” o “loi travail”) in fase di discussione al Parlamento di Parigi.

Martedì ha preso il via un nuovo sciopero in Francia, con i lavoratori delle ferrovie che hanno incrociato le braccia a partire dalle ore 19. La protesta, promossa dalla Confederazione Generale del Lavoro (CGT), ovvero il secondo sindacato francese per numero di iscritti, dovrebbe creare disagi non indifferenti. Secondo la società ferroviaria francese (SNCF), il 40% dei treni ad alta velocità (TGV) e i due terzi del normale trasporto nazionale su rotaia dovrebbero essere interessati dall’agitazione.

La più moderata Confederazione Francese Democratica del Lavoro (CFDT) ha però annullato lo sciopero dei propri membri in seguito alla promessa di concessioni da parte del governo, attenuando parzialmente l’impatto della protesta. I ferrovieri francesi sono infatti in sciopero non solo contro la “riforma” Khomri, ma anche contro un piano di riorganizzazione interna che prevede un netto peggioramento delle condizioni di lavoro.

Il calendario degli scioperi annunciato dai sindacati d’oltralpe è comunque ricco. Giovedì toccherà ai lavoratori della metropolitana parigina, mentre il settore aereo non ha ancora fissato una data precisa per uno sciopero dettato anche da previsti tagli delle retribuzioni. Altre categorie avevano già manifestato nelle scorse settimane, tra cui quella petrolifera, causando forti disagi. Il blocco di raffinerie e depositi di carburante aveva spinto il governo in alcuni casi a impiegare le forze dell’ordine per rompere la resistenza dei lavoratori e garantire le forniture nel paese.

La legge in questione prende il nome dal ministro del Lavoro, Myriam El Khomri, e minaccia di stravolgere il codice che ha garantito per decenni diritti e una certa sicurezza ai lavoratori francesi. La resistenza al provvedimento è tale da avere costretto il governo ad adottare una manovra profondamente anti-democratica per favorirne l’approvazione in Parlamento.

Tre settimane fa, cioè, il gabinetto Valls era ricorso all’articolo 49, paragrafo 3, della Costituzione francese, per forzare il passaggio della legge all’Assemblea Nazionale senza un voto dei suoi membri. Questo espediente manda la legge direttamente al Senato e la Camera bassa ha la possibilità di ostacolarne l’approvazione solo sfiduciando il governo. Vista la necessità dei voti di un numero consistente di deputati Socialisti, tutt’altro che disposti a far cadere l’esecutivo, le mozioni di sfiducia dell’opposizione erano prevedibilmente fallite.

Ad ogni modo, le proteste e l’ondata di scioperi nel paese erano iniziate subito dopo il colpo di mano in Parlamento di Hollande e Valls. Alla guida della mobilitazione si è messa appunto la CGT e il suo leader, Philippe Martinez, ben intenzionato a rilanciare la sua immagine di sindacalista radicale di fronte a un sentimento di ostilità irrefrenabile verso il governo tra i lavoratori francesi.

Fino a pochi giorni fa, i vertici della CGT chiedevano il ritiro senza condizioni della “legge Khomri”, focalizzando il proprio malcontento in particolare sull’articolo 2 del testo, quello cioè che prevede per le aziende la possibilità di negoziare direttamente le condizioni di lavoro con i propri dipendenti, aggirando i contratti e le regolamentazioni nazionali per sfruttare la posizione di debolezza dei lavoratori.

Secondo i sondaggi pubblicati in Francia, d’altra parte, non solo i lavoratori iscritti ai sindacati ma anche la maggioranza della popolazione è favorevole al ritiro della legge, nonostante la campagna di discredito nei confronti degli scioperanti portata avanti da politici e media ufficiali.

Il governo e il presidente sono apparsi scossi dalla resistenza emersa nel paese contro il loro tentativo di ristrutturare i rapporti di classe in Francia. Tanto più che, tutt’altro che casualmente, l’introduzione della legge era stata decisa mentre è in vigore lo stato di emergenza, deciso dopo gli attentati terroristici del novembre scorso a Parigi. Grazie ad esso, le forze di polizia hanno poteri straordinari per contrastare qualsiasi genere di “minaccia” all’ordine pubblico.

Ciononostante, pubblicamente sia Valls sia Hollande hanno continuato a sostenere che il governo non farà passi indietro sulla “loi travail”. Recentemente erano però circolate dichiarazioni che lasciavano intendere possibili modifiche alla legge, ma la sostanziale linea dura è stata ribadita proprio in questi giorni dal presidente. In un’intervista rilasciata al quotidiano Sud Ouest nel corso di una visita a Bordeaux, Hollande ha confermato che “la legge non sarà ritirata”.

Lo stesso inquilino dell’Eliseo ha concesso che gli accordi contrattuali negoziati nelle singole aziende dovranno essere approvati “dai sindacati che rappresentano la maggioranza dei lavoratori”, anche se “lo spirito e il principio” dell’articolo 2 rimarrà immutato.

L’affondo di Hollande su una legge che è un sostanziale regalo agli imprenditori francesi è giunto probabilmente dopo i segnali lanciati dal numero uno della CGT Martinez nei giorni precedenti. Lo stesso riferimento del presidente alla collaborazione dei sindacati nell’implementazione di contratti ad hoc, che rifletteranno di fatto le esigenze del management aziendale, è a sua volta un messaggio alla CGT e un invito a procedere con l’inizio della smobilitazione dei lavoratori.

Se Martinez continua a proclamare la necessità degli scioperi e a tuonare contro la “riforma”, i suoi toni sono evidentemente cambiati da qualche giorno a questa parte. Inoltre, la stessa strategia di organizzare scioperi settoriali in maniera separata è a ben vedere un modo per contenere le tensioni, visto che un’arma ben più efficace sarebbe stata la mobilitazione di massa con uno sciopero generale.

In un’intervista televisiva nel fine settimana, il leader della CGT ha lasciato intendere comunque di essere segretamente in contatto con il governo per trovare una soluzione negoziata allo scontro in atto. Inoltre, nel suo intervento non vi è stata traccia delle precedenti richieste di ritirare il provvedimento.

Lunedì, poi, il ministro Khomri ha affermato alla radio RTL di essere in attesa di una proposta della CGT ma che non ci potrà essere nessun accordo se la posizione del sindacato resterà invariata. Martinez, infine, nella serata di lunedì ha fatto sapere di essere disposto ad accettare l’invito al dialogo “senza pre-condizioni”.

Evidentemente, la CGT e il suo leader non intendono rompere i legami con il Partito Socialista e il governo Hollande-Valls. Peggio ancora, i sindacati francesi intravedono la possibilità di conservare un ruolo privilegiato nella nuova legge, malgrado gli effetti disastrosi sui loro iscritti e sui lavoratori in genere.

Se molti prevedono dunque un’attenuazione della linea dura della CGT, questa operazione non risulterà semplice vista l’attitudine dei lavoratori francesi verso il governo e la legge sul lavoro. Fondamentale risulterà la capacità di convincere manifestanti e scioperanti dell’importanza delle eventuali concessioni che farà il governo, anche se, come hanno assicurato svariati esponenti di quest’ultimo, essi saranno tutt’al più marginali.

Intanto, le pressioni del governo e di tutta la classe politica francese su lavoratori e sindacati per far rientrare la mobilitazione continua a crescere. Una delle armi che verrà utilizzata a questo scopo con sempre maggiore frequenza è il campionato europeo di calcio, ospitato appunto dalla Francia.

L’appuntamento prenderà il via il 10 giugno prossimo e già da ora si sprecano gli appelli per il ritorno alla normalità in un paese che sembra non potersi permettersi una brutta figura con gli occhi di tutta l’Europa puntati addosso.


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