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di Mario Lombardo
Il riposizionamento strategico delle forze navali e degli armamenti americani in Estremo Oriente ha da tempo innescato una pericolosa corsa verso la militarizzazione di questa parte del continente asiatico, confermata nuovamente da una decisione ancora non ufficiale che avrebbe preso il governo cinese per evitare di vedere neutralizzato il proprio deterrente nucleare da parte degli Stati Uniti.
A riportare la notizia è stato qualche giorno fa il quotidiano britannico Guardian, il quale ha rivelato come Pechino intenda utilizzare per la prima volta sottomarini dotati di missili nucleari nell’Oceano Pacifico. Questa misura sarebbe dovuta alle recenti iniziative militari americane che hanno logorato a tal punto il potenziale di deterrenza cinese da non lasciare alternative alla leadership comunista.
Fonti all’interno del governo di Pechino non hanno indicato le tempistiche del dispiegamento dei sottomarini ma, a conferma della consapevolezza americana delle conseguenze delle proprie azioni in Asia orientale, un recente rapporto del Pentagono destinato al Congresso aveva previsto “a un certo punto del 2016” la conduzione del primo “pattugliamento nucleare in funzione di deterrente” da parte cinese.
La molla che ha fatto scattare la decisione di Pechino è in particolare il piano di posizionamento del sistema anti-balistico USA denominato THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”) in Corea del Sud. A livello ufficiale, il THAAD dovrebbe far fronte alla minaccia nordcoreana e la possibile installazione era stata annunciata dopo il recente quarto test nucleare del regime di Pyongyang. In realtà, esso va principalmente a compromettere il sistema di deterrenza cinese.
Sempre secondo il Guardian, le preoccupazioni che hanno portato a valutare l’opzione dell’impiego di sottomarini equipaggiati con testate nucleari sono legate anche a piani di sviluppo USA di missili “ipersonici”, in grado di colpire la Cina entro un’ora dal loro lancio. Ciò, com’è evidente, minaccia di rendere inefficaci i sistemi di deterrenza cinesi posizionati sulla terraferma. Da qui la necessità di espandere quelli navali, a cui peraltro la Cina lavora da più di tre decenni, anche se “l’impiego effettivo è stato rimandato a causa di difficoltà tecniche, rivalità interne e decisioni di natura politica”.
La notizia riportata dal giornale britannico comporta dunque un cambiamento di rotta significativo da parte di un regime cinese che si era mosso finora con estrema cautela in questo ambito. Il governo di Pechino, a differenza di quello americano, si dichiara pronto a usare armi nucleari solo in risposta a un eventuale attacco e conserva perciò separatamente le testate e i missili, entrambi sotto lo stretto controllo dei leader politici.
Il cambiamento degli equilibri determinato dalla “svolta” asiatica degli Stati Uniti avrebbe ora convinto i cinesi a dotare i propri sottomarini di missili con testate nucleari, in modo da consentire una risposta molto più rapida in caso di attacco.
La presenza di sottomarini nucleari cinesi nelle acque dell’Oceano Pacifico minaccia di portare il rischio di un aperto conflitto con gli Stati Uniti a un livello del tutto differente. Ipotizzando uno scenario probabilmente fin troppo ottimistico, un docente di Relazioni Internazionali all’università Renmin di Pechino ha affermato in un’intervista al Guardian che la presenza di sottomarini nucleari nel Mar Cinese Meridionale porterà la “marina americana a inviare navi spia”, cosa che irriterà il governo cinese, il quale a sua volta “cercherà di respingerle”, con tutti i possibili rischi del caso.
La decisione relativa ai sottomarini rivela comunque l’ansia crescente a Pechino per le disparità tuttora esistenti tra l’arsenale nucleare americano e quello cinese, stimato in circa 260 testate - contro le 7 mila degli USA - e in larga misura composto da missili posizionati sulla terraferma, quindi vulnerabili di fronte a un attacco preventivo da parte degli Stati Uniti.
In una simile eventualità, in assenza cioè del potenziale per rispondere con un secondo attacco, la Cina resterebbe di fatto senza un reale deterrente, così che la possibilità di reagire a un’aggressione potrebbe dipendere anche dalla disponibilità di sottomarini nucleari pronti a colpire in tempi rapidi.
La notizia pubblicata dal Guardian non ha avuto conferme ufficiali dal governo cinese, anche se è stata ripresa e di fatto ratificata da un editoriale della testata governativa on-line Global Times. L’articolo, apparso domenica, ha fatto riferimento alla necessità di un “deterrente nucleare reale ed efficace” affinché esso possa giocare un “ruolo importante nell’elaborazione della politica cinese da parte del governo americano”.
Inoltre, “con l’aumento delle tensioni tra USA e Cina, è necessario che Pechino rafforzi il proprio potenziale di risposta nucleare”. Ciò, continua il Global Times, “contribuirà a equilibrare [i rapporti di forza] nella regione asiatico-pacifica” e ad aumentare le probabilità che gli Stati Uniti cerchino una soluzione pacifica alla rivalità con la Cina.
Se quest’ultimo auspicio potrebbe rivelarsi drammaticamente illusorio, è evidente che la responsabilità principale dell’evolversi della situazione in Estremo Oriente è da attribuire agli Stati Uniti. L’amministrazione Obama sta infatti perseguendo un piano strategico deliberato per aumentare le pressioni sulla Cina in ambito diplomatico, militare ed economico, con l’obiettivo di limitare l’influenza e l’espansione di questo paese che minaccia il predominio degli USA nel continente asiatico.
Il ricorso a sottomarini pronti a lanciare missili nucleari da parte di Pechino è così solo l’ultima testimonianza della pericolosità delle manovre americane, a cui vanno ricondotti sia il riesplodere delle contese territoriali tra la Cina e vari paesi del sud-est asiatico sia gli incidenti sfiorati negli ultimi mesi tra le forze aeree e navali delle prime due potenze economiche del pianeta.
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di Michele Paris
Come primo presidente degli Stati Uniti in carica a visitare la città di Hiroshima, in Giappone, Barack Obama ha impartito qualche giorno fa una lezione pubblica di moralità che stride fortemente con la condotta della sua amministrazione in questi anni. Inoltre, il presidente americano non si è prevedibilmente scusato per lo sganciamento della bomba atomica sulla città il 6 agosto 1945 e tre giorni più tardi su Nagasaki.
Obama ha così mostrato di continuare a sposare la tradizionale versione ufficiale del governo americano, cioè che la decisione presa dall’allora presidente Truman fosse giustificata dalla necessità di accelerare la fine della Seconda Guerra Mondiale e di evitare centinaia di migliaia se non milioni di morti in seguito a un’eventuale invasione del Giappone.
In realtà, il crimine commesso a Hiroshima e Nagasaki fu tutt’altro che una necessità, come hanno dimostrato numerosi documenti storici, e servì sostanzialmente a terrorizzare un intero popolo, nonché soprattutto a mandare un messaggio intimidatorio all’Unione Sovietica.
Già nel 1963, l’ex presidente ed ex comandante durante la guerra, Dwight Eisenhower, aveva affermato in un’intervista che nell’estate del 1945 “i giapponesi erano pronti ad arrendersi” e non era dunque necessario “colpirli in un modo così orribile”.
Allo stesso modo, l’ammiraglio William Leahy, capo di Stato Maggiore durante la presidenza Truman, avrebbe sostenuto che “l’uso di questa arma barbara a Hiroshima e Nagasaki non fu di nessuna utilità pratica per la nostra guerra contro il Giappone”. Infatti, i giapponesi erano già sconfitti e pronti ad arrendersi”, vista “l’efficacia del blocco navale e il successo dei bombardamenti con armi convenzionali”.
Le mancate scuse di Obama a oltre settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale dipendono d’altra parte anche dal ruolo destabilizzante, e spesso distruttivo, che gli Stati Uniti continuano a svolgere a livello planetario. Chiedere perdono per quei fatti implicherebbe anche mettere in discussione le ragioni del coinvolgimento americano nella guerra contro il nazi-fascismo, spazzando via la rimanente apparenza di legittimità degli USA come modello democratico esportabile in ogni angolo del pianeta.
L’inquilino della Casa Bianca ha così ricordato come il 6 agosto 1945 “la morte cadde dal cielo e il mondo cambiò”. Senza nominare esplicitamente la provenienza della distruzione, le responsabilità di quei fatti Obama le ha attribuite a una sorta di malvagità innata degli esseri umani”. La Seconda Guerra Mondiale, a suo dire, scaturì quindi “dallo stesso istinto di dominazione o conquista che causò i conflitti” tra le tribù più antiche.
Dall’equazione dell’evento che quasi cancellò le due città giapponesi, secondo l’interpretazione di Obama, resta fuori perciò il fattore decisivo, quello dell’imperialismo americano, portatore ancora oggi di morte e distruzione. Da qui l’impossibilità di chiedere scusa da parte di un presidente a capo di un governo responsabile di guerre che hanno fatto complessivamente più vittime delle bombe sul Giappone, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, dallo Yemen alla Somalia.
L’altra questione toccata inevitabilmente da Obama a Hiroshima è stata quella della proliferazione di armi nucleari. Sempre in riferimento ai fatti del 1945 e al possesso da parte degli USA di un arsenale nucleare, il presidente ha invitato ad avere “il coraggio di fuggire dalla logica della paura” e di battersi per “un mondo senza [armi atomiche]”. Obama ha poi parlato di una “responsabilità condivisa” affinché si eviti che in futuro venga usato un altro ordigno nucleare.
A questa retorica, come quasi sempre è il caso con Obama, non corrispondono però in nessun modo le azioni dell’amministrazione Democratica. Con Obama, infatti, gli sforzi per la riduzione dell’arsenale nucleare USA sono stati ridimensionati in maniera drastica. Ciò è dovuto in definitiva all’aumento delle tensioni sul piano internazionale, principalmente tra gli Stati Uniti e Russia e tra Stati Uniti e Cina, dovuto all’impulso al militarismo di Washington per far fronte al declino della propria influenza su scala globale.
Gli USA continuano ad esempio a riservarsi la facoltà di colpire in maniera “preventiva” con armi nucleari non solo i paesi nemici che posseggono anch’essi tali armi ma anche quelli che non ne dispongono.
L’amministrazione Obama, infine, ha annunciato recentemente un colossale piano di modernizzazione dell’arsenale nucleare americano. I progetti erano stati descritti da una lunga esclusiva del New York Times e prevedono lo stanziamento di mille miliardi di dollari nei prossimi trent’anni.
Al di là delle vuote parole di pace pronunciate da Obama sul luogo di uno dei più atroci crimini mai commessi dagli Stati Uniti, la realtà dei fatti indica piuttosto un paese e un governo intento sempre più a perseguire politiche fatte di militarismo, violenza e nuove guerre con effetti potenzialmente devastanti.
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di Michele Paris
Sempre più vicina alla conquista ufficiale della nomination per il Partito Democratico, Hillary Clinton si ritrova in una posizione imbarazzante e decisamente poco comune per un candidato alla Casa Bianca a questo punto della corsa. Il suo sfidante nelle primarie, il senatore del Vermont Bernie Sanders, continua a essere una presenza ingombrante sulla strada della convention Democratica di luglio e il seguito popolare che ha suscitato negli Stati Uniti sta facendo emergere tutte le debolezze della prima donna candidata alla presidenza per uno dei due principali partiti americani.
L’ammissione indiretta dei timori che circolano nel clan Clinton per una possibile ulteriore perdita di consensi e di gradimento all’interno del suo stesso partito è apparsa chiara questa settimana quando Hillary ha respinto una proposta del network FoxNews di partecipare a un ultimo dibattito pubblico con Sanders.
L’evento, per il quale Sanders aveva dato la propria disponibilità, avrebbe dovuto svolgersi alla vigilia del penultimo appuntamento delle primarie in calendario, previsto per il 7 giugno prossimo. In quella data voteranno sei stati, di cui quattro con un numero trascurabile di delegati in palio (Montana, New Mexico, North Dakota e South Dakota) e due con un bottino molto più ricco, il New Jersey con 126 e soprattutto la California con 475.
Sanders ha detto di non essere sorpreso dall’atteggiamento di Hillary, ma comunque deluso, poiché i due candidati Democratici si erano impegnati a confrontarsi almeno ancora una volta prima della fine della stagione delle primarie. La spiegazione data dalla Clinton ha lasciato intendere che un dibattito a questo punto sarebbe una perdita di tempo e una distrazione dai preparativi appena iniziati per la campagna presidenziale vera e propria contro il candidato Repubblicano, Donald Trump.
Apparentemente, la marcia indietro di Hillary sul dibattito lascia perplessi. Anche se vicinissima alla nomination, teoricamente Sanders avrebbe la possibilità di sopravanzarla. Soprattutto, il senatore del Vermont ha finora vinto un numero consistente di stati e generato un entusiasmo con pochi precedenti nella storia recente degli Stati Uniti. Considerarlo una semplice distrazione sembra avere quindi poco senso.
La vera ragione del rifiuto è da ricercare piuttosto nella debolezza stessa della candidata Clinton, la quale evidentemente ritiene che un’apparizione televisiva con Sanders non potrebbe che costarle dei voti e far aumentare il discredito nei suoi confronti tra gli elettori. In altre parole, Hillary è giunta alla conclusione che una sua maggiore esposizione mediatica con un vero contraddittorio la renderebbe ancora più impopolare.
Queste conclusioni e le ansie che devono attraversare lo staff di Hillary Clinton sono d’altronde supportate dai risultati dei sondaggi di opinione diffusi negli Stati Uniti in queste settimane. Hillary e Trump continuano a competere innanzitutto nel grado di ostilità che suscitano tra i potenziali elettori. Entrambi sono ben oltre il 50% per quanto riguarda il livello di impopolarità e una vasta maggioranza degli intervistati considera la ex first lady “disonesta”.
A pesare è una carriera spesa al servizio di multinazionali e grandi banche, grazie alle quali la famiglia Clinton ha potuto mettere assieme un’autentica fortuna. Moltissimi americani vedono poi con disprezzo e preoccupazione i precedenti di Hillary sul versante della politica estera, fatti di sostegno convinto e promozione in prima persona di numerose aggressioni militari.
I più recenti sondaggi stanno registrando inoltre su base nazionale un netto recupero di Donald Trump, dopo che fino a poche settimane fa indicavano un vantaggio più che consistente per Hillary. Se è vero che la campagna elettorale in vista di novembre è ancora tutta da fare, è altrettanto evidente che la candidata Democratica rischia di ritrovarsi a breve con altre grane che potrebbero costarle molti consensi.
Non solo eventuali sconfitte nelle ultime primarie la manderebbero alla convention di Philadelphia sull’onda di un umiliante trend negativo, ma le vicende giudiziarie e politiche che la vedono coinvolta potrebbero esploderle tra le mani da un momento all’altro, garantendo ai Repubblicani nuove linee d’attacco.
La questione delle e-mail gestite da un server privato quando era al dipartimento Stato ha dato vita a vari procedimenti di indagine. Un rapporto interno dell’Ispettore Generale è stato consegnato al Congresso proprio mercoledì e ha concluso che Hillary ha violato le norme federali sull’utilizzo della corrispondenza quando era segretario di Stato. Inoltre, l’indagine ha evidenziato come Hillary e gli ex membri del suo staff al dipartimento di Stato si fossero rifiutati di collaborare con l’ufficio dell’Ispettore Generale.
Sul caso continua a indagare anche l’FBI e, a breve, almeno un paio di collaboratori di Hillary saranno chiamati a testimoniare in un’aula di tribunale nell’ambito di una causa sullo stesso argomento intentata dall’organizzazione conservatrice Judicial Watch.
I Repubblicani al Congresso stanno inoltre continuando a tenere alta la pressione su Hillary per fare luce sulle sue possibili responsabilità nella carenza di misure di sicurezza alla rappresentanza diplomatica americana di Bengasi, in Libia, attaccata da fondamentalisti islamici nel settembre del 2012. L’assalto si concluse con la morte dell’ambasciatore USA, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini americani. Su questi fatti si attende un rapporto della Camera dei Rappresentanti che, quasi certamente, punterà il dito contro l’ex segretario di Stato.
Come se non bastasse, Hillary Clinton deve gestire con estrema prudenza le relazioni con il team di Bernie Sanders e soprattutto con i suoi sostenitori. Senza dubbio, Hillary e l’apparato di potere Democratico che ha favorito in tutti i modi la sua candidatura vedono con ostilità, se non disprezzo, la spinta in senso progressista emersa attorno alla candidatura del suo rivale.
Non solo ciò è profondamente contrario alle inclinazioni di Hillary, ma le impedisce anche di operare lo spostamento a destra che ritiene necessario per sottrarre voti a Donald Trump tra l’elettorato Repubblicano e per accreditarsi come la candidata più affidabile agli occhi di Wall Street e dell’apparato militare e dell’intelligence.
La questione Sanders promette comunque di rimanere all’ordine del giorno del Partito Democratico ancora per qualche tempo. Dopo la campagna di discredito condotta nei confronti del veterano senatore nelle ultime settimane, la tendenza dei vertici del partito sembra essere parzialmente cambiata, dal momento che rischiava di alienare ancor più i suoi elettori.
Questa settimana, così, il Comitato Nazionale Democratico ha concesso a Sanders la facoltà di nominare cinque membri della commissione che dovrà redigere la “piattaforma” politica del partito da presentare alla convention di luglio. Hillary Clinton potrà scegliere invece sei membri e i rimanenti quattro li nominerà la presidente del Comitato, la deputata clintoniana della Florida, Debbie Wasserman Schultz.
La mossa è stata studiata appositamente per cercare di pacificare i rapporti tra il partito e un Sanders che aveva denunciato in maniera molto dura le manovre messe in atto fin dall’inizio delle primarie per favorire la candidatura della Clinton. Se Sanders appare ancora incerto sull’atteggiamento che intende tenere una volta che Hillary si sarà assicurata ufficialmente la nomination, la presenza di suoi rappresentanti nella commissione che stilerà il programma elettorale del partito potrebbe fornirgli l’occasione per un’uscita di scena indolore, anche se non esattamente coraggiosa.
In questo modo, cioè, Sanders avrebbe la possibilità di fare includere una serie di proposte progressiste, che un eventuale presidente Clinton dovrebbe impegnarsi ad attuare, consentendogli di affermare che Hillary si è conquistata il suo appoggio e che la sua campagna ha dato qualche frutto nonostante la sconfitta.
Com’è noto a chiunque mastichi di politica negli Stati Uniti, però, le “piattaforme” programmatiche presentate dai principali partiti alle convention sono, nelle parole del Washington Post, sostanzialmente “documenti simbolici” a cui, in pratica, “nessuno sembra interessarsi”.
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di Mario Lombardo
L’assassinio mirato del leader Talebano Akhtar Muhammad Mansour da parte di un drone delle forze armate degli Stati Uniti, avvenuto la settimana scorsa in territorio pakistano, ha riproposto in maniera clamorosa tutte le divisioni che stanno segnando i rapporti tra i due paesi teoricamente alleati. L’incursione americana non rappresenta infatti un caso isolato, ma si collega a una serie di altre questioni che negli ultimi mesi hanno agitato gli equilibri diplomatici in Asia centrale, nonché ai riflessi strategici degli sforzi di Washington nel districarsi dall’ultradecennale conflitto sul doppio fronte di Pakistan e Afghanistan.
Le versioni proposte dalla stampa USA del raid che ha liquidato il successore del Mullah Omar hanno lasciato poco spazio ai dubbi sullo stato delle relazioni bilaterali. Il Wall Street Journal, citando fonti interne all’amministrazione Obama, ha scritto che il governo e i militari americani non avevano notificato anticipatamente al Pakistan l’attacco contro Mansour di sabato scorso. Non solo, l’operazione è avvenuta nella provincia sudoccidentale del Belucistan, considerata dagli Stati Uniti off-limits per i propri droni.
La reazione ufficiale di Islamabad confermerebbe questa versione, visto che il ministro degli Esteri pakistano ha fatto sapere lunedì di avere convocato l’ambasciatore americano per presentare una protesta formale in seguito alla violazione della sovranità territoriale del suo paese da parte degli USA.
Com’è noto, Mansour aveva contatti molto stretti con l’intelligence e i militari pakistani, i quali tengono tradizionalmente un atteggiamento a dir poco ambiguo nei confronti di determinate fazioni Talebane, ritenute uno strumento fondamentale per consentire a Islamabad di esercitare una certa influenza sulle vicende del vicino Afghanistan.
Parallelamente, però, il New York Times ha rivelato come gli USA avessero fatto sapere al governo pakistano che Mansour era finito sulla lista nera di Obama e quindi esposto al rischio uccisione tramite droni. Anzi, gli stessi pakistani avrebbero fornito agli americani informazioni sulle attività e le località frequentate dall’ormai ex leader Talebano.
In questo caso, l’ambiguità pakistana si moltiplicherebbe, spiegandosi forse, come ha ipotizzato ancora il Times, nel desiderio dei servizi segreti di questo paese di favorire l’ascesa alla guida dei Talebani di un altro loro protetto, Sirajuddin Haqqani.
Proprio contro i militanti fondamentalisti alleati dei Talebani e che fanno capo alla famiglia Haqqani gli Stati Uniti avrebbero da tempo chiesto al Pakistan di agire, senza però ottenere alcun riscontro. Di fronte all’inerzia di Islamabad, allora, Washington avrebbe adottato alcune misure punitive, come il congelamento di circa 300 milioni di dollari in aiuti militari e, più recentemente, lo stop a sussidi per oltre 400 milioni destinati all’acquisto di otto aerei da guerra F-16. Il blitz con i droni di sabato rientrerebbe dunque in questa logica.
Un’altra motivazione per la morte di Mansour, offerta tra gli altri dallo stesso presidente Obama questa settimana dal Vietnam, sarebbe da collegare ai tentativi degli Stati Uniti di promuovere il processo di “riconciliazione” tra il governo afgano e i Talebani, a cui l’ex leader di questi ultimi si opponeva.
Ferma restando la discutibilità di una strategia di “pace” perseguita attraverso l’assassinio deliberato del leader di una delle due parti che dovrebbero sedersi al tavolo dei negoziati, la più recente missione dei droni americani va letta principalmente come un messaggio diretto a Islamabad.
L’ex ambasciatore pakistano negli Stati Uniti, Husain Haqqani, ha definito l’eliminazione di Mansour come il segnale del “venir meno da parte dell’amministrazione Obama della già calante fiducia nei confronti del Pakistan”. Per l’ex diplomatico USA, Barnett Rubin, la morte di Mansour non avrà inoltre un impatto rilevante sull’atteggiamento dei Talebani, anche perché sarà rimpiazzato da un nuovo leader senza troppe difficoltà. Molto più significativi saranno piuttosto gli effetti sul governo pakistano, il quale dovrà “fare i conti con una serie di circostanze imbarazzanti”.
Singolare sarebbe oltretutto ricondurre l’operazione di sabato scorso in Belucistan agli sforzi americani per la pace in Afghanistan proprio mentre è in corso un’accelerazione dell’impegno militare degli Stati Uniti sul fronte centro-asiatico.
Da alcuni mesi, il Pentagono ha intensificato le operazioni contro gli “insorti”, nonostante a livello ufficiale le operazioni di combattimento da parte delle forze di occupazione USA siano terminate. Nei circoli militari e alla Casa Bianca si continua poi a discutere dell’opportunità di estendere l’occupazione dell’Afghanistan, mentre voci autorevoli chiedono addirittura un ampliamento del mandato in questo paese.
L’ex generale ed ex direttore della CIA, David Petraeus, ha ad esempio auspicato di recente una campagna di bombardamenti più intensa sull’Afghanistan, poiché essa risulta oggi di gran lunga inferiore a quelle condotte in Iraq e in Siria.
I legami tra l’apparato militare e dell’intelligence del Pakistan con alcuni gruppi estremisti che operano oltre il confine, in Afghanistan, sono noti da tempo. Le critiche e le iniziative adottate dagli Stati Uniti contro questo paese non trovano però giustificazioni, se non nella brutale promozione degli interessi strategici di Washington.
Tralasciando i rapporti più o meno clandestini che anche gli USA intrattengono con svariate formazioni fondamentaliste islamiche in Asia e in Africa, le ragioni dell’ambiguità pakistana vanno ricercate nel senso di insicurezza di questo paese, dovuto pressoché del tutto proprio al fattore destabilizzante rappresentato dagli Stati Uniti.
Le ramificazioni della condotta americana in Asia centrale hanno gettato il Pakistan in una situazione di profonda crisi politica, militare e sociale. Innanzitutto, i ripetuti bombardamenti con i droni in territorio pakistano hanno alimentato violenze settarie e un fronte armato che da anni combatte il governo centrale a furia di attentati sanguinosi, spesso contro obiettivi civili.
La risposta delle autorità politiche e militari a questa offensiva si è concretizzata in ulteriori violenze, a loro volta ingigantite dalle continue pressioni americane a fare di più per combattere la minaccia fondamentalista, responsabile di attacchi contro le forze occidentali di occupazione in Afghanistan.
L’altro fattore collegato al tentativo di stabilizzare quest’ultimo paese, nonché al contenimento della Cina, è inoltre il piano statunitense di costruire una partnership strategica con l’India, ovvero l’arcinemico storico del Pakistan. Ciò si è tradotto anche con l’invito a Delhi a svolgere un ruolo più attivo nella ricostruzione dell’Afghanistan, suscitando a Islamabad i timori di un pericoloso accerchiamento, da sventare attraverso il mantenimento delle relazioni con i Talebani come strumento di pressione su Kabul.
La rivalità storica tra Pakistan e India e le manovre degli Stati Uniti si sono infine intersecate inevitabilmente con le conseguenze della crescente rivalità tra Washington e Pechino, ma anche, in misura relativamente minore, di quella tra Washington e Mosca. In una chiara convergenza di interessi, il Pakistan e la Cina, i cui rapporti risultano storicamente cordiali, hanno avviato da qualche tempo un percorso di avvicinamento, basato in larga misura sulla collaborazione economica e commerciale.
Molto più complicate sono sempre state invece le relazioni tra il Pakistan e la Russia, ma le manovre strategiche americane hanno stimolato un evidente disgelo, confermato da una serie di gesti reciproci registrati negli ultimi due anni. Come ha ricordato un’analisi del magazine on-line The Diplomat, nel 2014 Mosca ha cancellato l’embargo sulla vendita di armi a Islamabad, autorizzando l’anno successivo la fornitura di alcuni elicotteri da combattimento.
Sempre nel 2015, la Russia ha accolto con favore l’ingresso del Pakistan nell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), l’organo euroasiatico che promuove la collaborazione in ambito politico, economico e militare tra una ventina di paesi tra membri, partner e osservatori. Ancora, i due paesi hanno sottoscritto un’intesa per un progetto di trasporto di gas naturale liquefatto (LNG) in territorio pakistano, mentre entro la fine del 2016 dovrebbe tenersi la prima esercitazione militare in assoluto tra le forze armate di Mosca e di Islamabad.
Tutte queste iniziative bilaterali tra Pakistan e Cina e tra Pakistan e Russia hanno contribuito a far aumentare l’irritazione degli Stati Uniti, i quali, per tutta risposta, hanno a loro volta intrapreso nuove iniziative dirette contro il governo di Islamabad, finendo per destabilizzare ulteriormente i già precari scenari della regione centro-asiatica.
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di Antonio Rei
Il pericolo scampato è motivo di sollievo, ma non va accolto come un trionfo. In tutta Europa schiere di commentatori hanno ululato di gioia nell’apprendere lunedì che in Austria era avvenuto il miracolo: rimontando uno svantaggio del 14% al primo turno, Alexander Van der Bellen si è imposto al ballottaggio delle presidenziali su Norbert Hofer. Così Vienna, invece di essere la prima capitale europea a ospitare un presidente della Repubblica di estrema destra, si ritrova con il primo capo di Stato verde del continente. Un risultato certamente insperato e importante, ma non tale da rimuovere tutte le preoccupazioni che queste elezioni hanno suscitato.
Quando si riesce a frenare pochi centimetri prima del burrone, una volta smaltita l’adrenalina, è il caso di domandarsi come si è arrivati così vicini al precipizio. E l’analisi del voto austriaco non è per nulla rassicurante. A ben vedere, Van der Bellen l’ha spuntata con un margine di appena 31.026 voti, per giunta arrivati via posta dai residenti all’estero. In termini percentuali, significa che ha vinto con il 50,3% contro il 49,7% di Hofer. Pochi centimetri, appunto.
L’Austria è perciò un Paese quanto mai diviso e la spaccatura, a leggere i dati, divide in modo netto i livelli socioeconomici e culturali. Van der Bellen ha prevalso in tutte le grandi città del paese, arrivando a ottenere il 70% a Vienna (in alcuni quartieri addirittura all’80%). Anche gli elettori in possesso almeno del diploma di scuola superiore hanno scelto in massa il candidato ecologista, preferendolo nel 69% dei casi. In modo speculare, Hofer è stato di gran lunga il più votato nelle campagne, fra gli strati sociali meno abbienti e fra quelli meno istruiti.
Pur senza cadere negli sproloqui sulla lotta di classe, non si può non rilevare che l’elettorato austriaco è polarizzato intorno a due grandi binomi: pro e contro la logica europeista, pro e contro l’accoglienza dei migranti. Per intenderci, Van der Bellen è contrario a ogni tipo di barriera fisica contro il flusso delle persone (compresa quella concepita e poi abortita al Brennero) e ritiene che la libera circolazione sia un principio da difendere, mentre Hofer ha incentrato la propria campagna elettorale contro gli immigrati che, secondo lui, “rubano posti di lavoro e risorse”, danneggiando le condizioni di vita e lo Stato sociale degli austriaci purosangue.
Ora, una frattura di questo tipo suscita alcuni motivi di riflessione. Innanzitutto, è il caso di ricordare che in Austria il ruolo del Presidente della Repubblica non è particolarmente determinante. Le elezioni che conteranno davvero saranno le politiche del 2018. In questa prospettiva, è evidente che sarebbe un suicidio adagiarsi sugli allori della vittoria di Van der Bellen e sottovalutare l’ascesa del Fpoe. Il partito di Hofer, dichiaratamente xenofobo e anti-immigrati, esce comunque da queste presidenziali forte del suo miglior risultato di sempre ed è più che mai in corsa per la partita che davvero conta.
In secondo luogo, il dilagare di populismo e nazionalismo in Austria è tanto più significativo perché si tratta di un Paese mediamente ricco. In assenza di svolte nella politica europea in tema di crescita, inclusione sociale e accoglienza dei migranti, perciò, viene da chiedersi cosa potrà accadere in altri Paesi europei dove la disoccupazione è molto più alta, la povertà molto più diffusa e l’afflusso di migranti molto più significativo.
Infine, l’unica sentenza definitiva che gli austriaci hanno consegnato alla storia con le ultime elezioni presidenziali è la bocciatura dei grandi partiti politici tradizionali. Socialdemocratici e popolari sono attualmente al governo insieme, amalgamati in una grande coalizione che traghetta il Paese dal 2007, e dal 1945 fino alla settimana scorsa si erano scontrati in ogni singolo ballottaggio per le presidenziali. Stavolta, però, hanno ceduto entrambi di schianto al primo turno, non riuscendo a portare i rispettivi candidati oltre l’11%.
Forse qualcosa cambierà da qui in avanti, visto che la settimana scorsa è arrivata la nomina di un nuovo cancelliere socialdemocratico, Christian Kern, in sostituzione dell’impopolare Werner Faymann. Le promesse di cambiare rotta, com’è ovvio, si sprecano, ma stavolta - visto che l’estrema destra è più che mai attrezzata per vincere e andare al governo - c’è da sperare che una nuova fase inizi davvero, anche nei rapporti con Bruxelles. Altrimenti, dopo tanti cori di giubilo per Van der Bellen, l’Austria si unirà al club di Ungheria e Polonia, scivolando nelle braccia del populismo nero.