di Fabrizio Casari

Alle parole non sono seguiti i fatti. Questa è, in estrema sintesi, la situazione in corso per quanto riguarda i rapporti tra Stati Uniti e Cuba. Grazie al silenzio mediatico che ha fatto seguito alla visita di Obama sull'isola, si è ingenuamente portati a pensare che il nodo gordiano delle sanzioni statunitensi contro L’Avana sia stato sciolto e che l'avvenuta normalizzazione delle relazioni diplomatiche sia stato solo un aspetto della normalizzazione generale nei rapporti tra i due paesi. Così non è. Certo, proseguono positivamente i colloqui bilaterali ma, nella sostanza, l’impianto criminogeno del blocco contro Cuba è vigente e, in alcuni casi, rafforzato.

Il ripristino delle relazioni diplomatiche, sebbene sia stato un fatto di proporzioni storiche - sostanzialmente l’ammissione statunitense di aver sbagliato grossolanamente più di 60 anni di rapporto con Cuba - non ha per ora innescato le conseguenze positive che alcuni speravano si producessero.

Parallelamente, si mantiene l’illegale ed illegittima occupazione di Guantanamo, in barba al riconoscimento dell'integrità territoriale di Cuba ed anche delle mancate promesse di Obama che da otto anni avrebbe dovuto chiudere il lager, che invece resta aperto. In sostanza, l’atteggiamento imperiale si conferma e il blocco economico e commerciale unilaterale, che dal 1962 colpisce Cuba, non solo resta intatto ma, addirittura, sotto certi aspetti si é persino rinforzato.

Il complesso legislativo e normativo che sottintende il blocco è complesso e, oggettivamente, è rimovibile solo con un voto del Parlamento statunitense, tanto alla Camera dei Rappresentanti come al Senato. E’ noto come la maggioranza nei due rami del Parlamento sia dei Repubblicani e questo potrebbe essere considerato il principale ostacolo ad una iniziativa parlamentare. Ma in realtà non è questo l’elemento decisivo, dal momento che una delle leggi peggiori contro Cuba, che hanno rafforzato ed esteso il blocco, è la Legge Torricelli, dal nome del deputato democratico che l’ha presentata.

Il Presidente Obama, che pure si è già espresso chiaramente affinché il Congresso volti pagina una volta per tutte ed abolisca il blocco, sembra aver rimosso dalla sua agenda il tema. Ma se il complesso di leggi che stabiliscono il blocco economico e commerciale contro Cuba può essere rimosso solo con un voto del Parlamento USA (e quindi dovranno darsi le condizioni politiche perché ciò avvenga) la sua efficacia concreta - che per Cuba significa danni enormi, soprattutto per quanto attiene alla salute - potrebbe essere ridotta enormemente con una serie di iniziative presidenziali che lo svuotino progressivamente, lasciandone a Congresso e Senato statunitensi il solo valore politico e ideologico.

Del resto la visita di Barak Obama ha di per sé già smontato un pezzo del blocco, ovvero quello diplomatico. Senza interpellare né il Congresso né il Senato, Obama ha deciso di assumere una iniziativa presidenziale riaprendo le relazioni diplomatiche con l’isola socialista. Potrebbe quindi, se lo volesse, con le prerogative presidenziali di cui dispone, assumere ulteriori iniziative che intacchino in profondità l’efficacia operativa del blocco, a partire almeno dall'estensione extraterritoriale dello stesso.

Perché nonostante la sospensione presidenziale di alcuni commi della legge Helms-Burton, vero e proprio concentrato di pirateria internazionale che estende al mondo intero la legislazione statunitense, le ricadute in termini di multe pesantissime alle organizzazioni finanziarie internazionali che operano con Cuba sono vigenti e complicano enormemente l’attività economica dell’isola.

Idem dicasi per le società di import-export o per le compagnie di navigazione: queste ultime, ove attraccassero a Cuba, sarebbero inibite per sei mesi all’attracco nei porti statunitensi. Facile immaginare l’indisponibilità ad accollarsi una riduzione al lavoro in un mercato immenso come quello americano per aver lavorato con l’isola. Facile dunque comprendere come, per accedere a ciò a cui ogni altro paese accede a prezzi competitivi e condizioni di pagamento rateizzate, per Cuba si trasformi in costi immediati e proibitivi.

Ebbene, sia sotto il profilo dell’operatività finanziaria, come nell’ambito del commercio internazionale e nella liberazione del flusso turistico, per non dire dell’urgenza per quanto attiene a sanità ed alimentazione, Obama ha un ampio spettro di soluzioni per svuotare il blocco. Si tratta di volontà politica ed anche di coerenza.

E’ possibile da un lato ripristinare le relazioni politiche e diplomatiche con un Paese mentre dall’altro lo si continua a ritenere meritevole di sanzioni così dure? E’ coerente sedersi al tavolo dei negoziati con la premessa di dover azzerare 60 anni di errori mentre resta vigente un blocco che, ad ogni effetto, è un atto di guerra? Com’è possibile applicare verso paesi con i quali si è in pace e contro i quali si è in guerra le stesse sanzioni? E' ingiustificabile in nome del buon senso prima ancora che della decenza.

Un simile comportamento risulta illogico ed incoerente anche se si vuole prendere in esame la dimensione ideologica del confronto. Certo, Cuba è e continuerà ad essere un paese socialista. E allora? Con la Cina per Washington non c’è nessun elemento di condivisione ideologica e, anzi, il braccio di ferro strategico ed anche militare nel Pacifico sottopone a prove severe lo stesso clima di pace tra i due paesi; nonostante ciò la Cina non subisce nessuna sanzione ed anzi è il paese destinatario della “clausola di nazione favorita negli scambi” con gli Stati Uniti. L’Avana non pretende tanto, si accontenterebbe di un trattamento coerente con le norme che regolano il consesso internazionale.

Il governo cubano ha deciso di aprire una campagna d’informazione sullo stato dei rapporti con gli USA che culminerà con il voto alle Nazioni Unite del prossimo 26 Ottobre. Cuba, come ogni anno, presenterà all’Assemblea Generale una mozione per chiedere alla comunità internazionale di pronunciarsi contro il bloqueo, una misura genocida ed anacronistica che aggredisce nel profondo gli stessi diritti umani dei cubani e serve solo ad accontentare le pulsioni dell’ultradestra statunitense. Vedremo come voterà il rappresentante statunitense a New York. Come prassi, il voto vedrà l’adesione del mondo intero, fatta eccezione forse per Israele, che di fronte ai diritti umani di chiunque non viva nello Stato ebraico ha un insopprimibile istinto di rifiuto.

Cuba discute, si confronta, media su ogni aspetto dell’agenda politica che compone i rapporti bilaterali e multilaterali. Ma, diversamente da quanto auspicano in Europa o negli Stati Uniti, non transige sui principi, né si siederà mai a discutere in assenza di un riconoscimento della sua identità politica e della propria sovranità nazionale. Non lo ha fatto per 58 anni, non vi sono ragioni per cui dovrebbe farlo ora, visto che proprio la sua resistenza ha determinato il riconoscimento statunitense degli errori commessi.

Le gravi privazioni che il popolo cubano patisce dal 1962 hanno nel blocco economico e commerciale la loro ragione. Un blocco che, se in assenza di relazioni era comunque ingiusto e genocida, diventa paradossale dopo la riapertura delle relazioni diplomatiche. Le sofferenze dei cubani non possono proseguire oltre. Spetta a Obama darsi da fare, passare dalle parole ai fatti. E dimostrare che l’accettazione di un errore serve soprattutto a non ripeterlo all’infinito.

di Mario Lombardo

Le notizie della guerra scatenata l’anno scorso dall’Arabia Saudita in Yemen sono tornate ad affacciarsi sui media di tutto il mondo in questi giorni dopo l’ennesima strage di civili commessa nel più povero dei paesi arabi dalle forze della “coalizione” guidata dal regime di Riyadh. Anche tra gli alleati dei sauditi, a cominciare dagli Stati Uniti, sta iniziando a diffondersi una certa preoccupazione per le conseguenze di un’avventura bellica che ha tutti i contorni di un colossale crimine di guerra.

Il doppio bombardamento effettuato sabato scorso su un funerale nella capitale yemenita, Sanaa, ha suscitato lo sdegno della comunità internazionale e un’ondata di manifestazioni di protesta nello stesso paese sotto attacco. L’incursione dell’aviazione saudita aveva provocato la morte di almeno 140 civili e il ferimento di altre 500 persone.

Impiegando una tattica raccapricciante a cui ricorrono spesso gli USA nell’operare gli attacchi con i droni in Pakistan, le forze di Riyadh hanno dapprima colpito la cerimonia, per poi tornare a bombardare lo stesso luogo una volta raggiunto dai soccorritori.

Alle proteste a Sanaa hanno partecipato decine di migliaia di yemeniti, infuriati non solo nei confronti dell’Arabia Saudita, ma anche degli alleati occidentali - USA, Gran Bretagna, Francia - che continuano a garantire supporto logistico e di intelligence alla monarchia wahabita nel conflitto in corso. La rabbia contro gli Stati Uniti è stata alimentata anche dalla diffusione di immagini di frammenti degli ordigni impiegati sabato, i quali riportavano codici che hanno rivelato la provenienza americana.

L’attacco di sabato aveva come obiettivo il ministro dell’Interno del governo dello Yemen guidato dalle forze ribelli “Houthi” sciite, contro cui combatte la “coalizione” saudita. Al di là dell’orrore per il massacro, in molti hanno fatto notare come il bombardamento possa risultare controproducente per Riyadh, visto che rischia di spingere un numero sempre maggiore di persone in Yemen a sostenere la resistenza Houthi.

L’Arabia Saudita era intervenuta militarmente in Yemen nella primavera del 2015 dopo la cacciata del presidente-fantoccio Abd Rabbuh Mansour Hadi. Quest’ultimo era stato eletto nel 2012 in un’elezione-farsa con un solo candidato e promossa da Washington e Riyadh per risolvere la crisi che aveva paralizzato il paese dopo le proteste esplose nell’ambito della cosiddetta “primavera araba”.

L’accordo prevedeva le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, a lungo utilizzato per i propri interessi dai due paesi con maggiore influenza sullo Yemen. Lo stesso Saleh e le fazioni delle forze armate del paese a lui fedeli si sarebbero poi schierate a fianco dei ribelli Houthi, a loro volta insorti contro il nuovo regime che aveva disatteso la promessa di integrarli nella gestione del potere.

L’intervento saudita ha anche implicazioni regionali, dal momento che Riyadh accusa gli Houthi di essere appoggiati dall’Iran, la cui influenza in Yemen sarebbe perciò intollerabile in un quadro di crescente ostilità tra le due principali potenze mediorientali.

Fin dall’inizio, la guerra in Yemen è stata caratterizzata da attacchi deliberati da parte dei sauditi contro obiettivi civili. Scuole, ospedali, mercati e altre strutture di nessuna importanza militare sono finiti sotto i bombardamenti, provocando ripetute stragi condannate dalle organizzazioni a difesa dei diritti umani, menzionate di sfuggita dai media e quasi sempre ignorate da quegli stessi governi occidentali che si dicono sconcertati dalle operazioni di Russia e Siria ad Aleppo.

Oltre alle bombe, la popolazione yemenita ha dovuto subire le conseguenze di un crudele blocco navale imposto dall’Arabia Saudita che impedisce l’ingresso nel paese di cibo e medicinali. Infine, il virtuale dissolvimento dell’autorità civile in Yemen ha permesso all’organizzazione integralista al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), da tempo in cima alla lista dei nemici dell’Occidente e dei regimi arabi, di guadagnare terreno nel paese.

Con il procedere del conflitto aumenta anche il rischio di un coinvolgimento ancora maggiore di altre potenze, come gli stessi Stati Uniti. Lunedì, due missili provenienti dal territorio controllato dagli Houthi sono stati lanciati contro la nave da guerra americana USS Mason che opera al largo delle coste dello Yemen nello stretto di Bab el-Mandeb. I missili sono finiti in mare ma il lancio conferma non solo la persistente capacità offensiva dei “ribelli” dopo oltre un anno e mezzo di guerra, ma anche che questi ultimi considerano gli USA interamente complici dell’aggressione militare contro il loro paese per ristabilire il governo del deposto presidente Hadi.

Proprio gli Stati Uniti si trovano in una posizione estremamente delicata in relazione allo Yemen. Il Pentagono e la CIA continuano a garantire assistenza ai sauditi, mentre il Congresso e la Casa Bianca non intendono interrompere il flusso di armi destinate all’alleato.

Il coinvolgimento americano rischia però di diventare sempre più imbarazzante dopo i recenti attacchi sauditi. Tanto più che il Segretario Generale uscente delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ha chiesto un’indagine internazionale sull’attacco di sabato scorso, criticando l’atteggiamento del regime saudita, il quale aveva inizialmente negato di essere responsabile del massacro nonostante non vi siano altre forze aeree attive nei cieli dello Yemen.

Martedì, poi, anche l’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha invocato un’indagine indipendente per crimini di guerra in Yemen, definendo “vergognoso” il bombardamento sul funerale a Sanaa.

Con l’aumentare delle pressioni internazionali, l’amministrazione Obama si è sentita in dovere di emettere almeno un comunicato relativamente critico nei confronti del regime saudita, assieme alla minaccia di “riconsiderare” l’appoggio ad esso assicurato nel conflitto in Yemen.

A Washington, d’altra parte, è in corso un dibattito interno sulla crisi in questo paese, con particolare attenzione alle possibili implicazioni dal punto di vista del diritto internazionale. Il governo americano teme cioè che la collaborazione con Riyadh nella guerra in Yemen possa portare ad accuse di crimini di guerra nei confronti dei vertici politici e militari di Washington.

La discussione nell’amministrazione Obama è stata raccontata da una esclusiva pubblicata lunedì dalla Reuters. Il lungo articolo evidenzia soprattutto l’ipocrisia del governo USA, preoccupato non tanto per i massacri di civili in Yemen, quanto di trovare un modo per continuare a conservare la partnership con l’Arabia Saudita nonostante i ripetuti crimini commessi dalla monarchia assoluta nella guerra in corso.

I consiglieri legali del governo americano sembrano non avere raggiunto una conclusione definitiva sulle possibili conseguenze legali dell’appoggio alla guerra criminale di Riyadh in Yemen. Allo stesso tempo, la Reuters elenca una serie di iniziative che gli USA avrebbero preso per evitare che le bombe saudite colpiscano obiettivi civili, come ad esempio la consegna alle autorità del regno di elenchi di strutture ed edifici off-limits alle incursioni aeree.

Evidentemente, queste precauzioni non hanno avuto nessuna efficacia. Né le stragi di civili né il rischio che membri del governo o dei vertici militari americani possano essere processati per crimini di guerra hanno comunque ostacolato la fornitura di ingenti quantità di armi a Riyadh.

A partire dal marzo del 2015, mese di inizio dell’aggressione saudita, gli USA hanno garantito al regime armi per oltre 22 miliardi di dollari, tra cui una fornitura da 1,29 miliardi approvata dal Congresso di Washington nel novembre scorso e destinata specificatamente a rimpiazzare munizioni e pezzi di artiglieria utilizzati nel conflitto in Yemen.

di Michele Paris

Il secondo dei tre dibattiti previsti tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti era stato anticipato da due controversie che hanno scosso una campagna elettorale già tra le più avvilenti della storia americana recente. Per i media, lo scontro di domenica notte tra Hillary Clinton e Donald Trump è stato sostanzialmente più equilibrato rispetto al primo, anche se la vera sfida tra le forze che sostengono i due candidati continua a consumarsi in larga misura dietro le quinte della campagna.

All’ennesimo “scandalo” che ha coinvolto Trump è stato dato come al solito ampio spazio sui media americani. Il miliardario di New York ha dovuto fare i conti con la diffusione di una registrazione del 2005 nella quale quest’ultimo informava il conduttore di una trasmissione della NBC di come sia facile per una celebrità “conquistare” qualsiasi donna desideri.

Le parole utilizzate da Trump sono state a tratti rivoltanti ma, oltre a rientrare probabilmente nel lessico consueto di molti personaggi noti, politici inclusi, con ambizioni da maschio alfa, non sono evidentemente l’aspetto più importante della vicenda. Considerando la predisposizione della stampa e dei network americani a ingigantire storie e rivelazioni con particolari piccanti, assieme alla tendenza della classe dirigente USA a regolare i propri conti tramite scandali sessuali, la notizia della registrazione di Trump è apparsa quasi certamente nel momento in cui poteva causare il danno maggiore alla campagna del candidato Repubblicano.

A un mese dal voto, Trump è stato infatti colpito da una rivelazione su un fatto relativamente trascurabile risalente a oltre un decennio fa, con il preciso scopo di far naufragare la sua campagna e, elemento tutt’altro che trascurabile, di far passare in secondo piano i problemi della sua rivale.

Infatti, i documenti pubblicati venerdì da WikiLeaks e la testata on-line The Intercept su Hillary Clinton sono stati trattati in maniera tutto sommato marginale dai principali media americani. Anzi, quando ne hanno parlato, giornali e televisioni hanno rilevato più che altro l’ingerenza nelle vicende elettorali americane del governo russo, accusato senza nessuna prova di essersi impossessato illegalmente di e-mail e documenti riservati da diffondere per penalizzare la Clinton.

Il materiale reso pubblico nei giorni scorsi riporta il contenuto di alcuni discorsi tenuti da Hillary Clinton, e pagati profumatamente, di fronte a platee selezionate di grandi banche o prestigiosi studi legali. Queste conferenze erano state citate nel corso delle primarie Democratiche dal senatore del Vermont, Bernie Sanders, per denunciare la vicinanza dell’ex segretario di Stato a quegli stessi poteri forti che dichiarava di voler combattere.

La Clinton si era finora sempre rifiutata di rendere noti i contenuti di questi discorsi e le rivelazioni di WikiLeaks ne hanno spiegato la ragione. In uno di questi interventi, ad esempio, Hillary discuteva della necessità per un politico di avere “una posizione pubblica e una privata” su determinate questioni. In altre parole, agli elettori si deve mentire, mentre in privato, cioè con interlocutori privilegiati, si possono esprimere liberamente le proprie intenzioni e idee politiche.

Ancora, Hillary aveva ammesso in un altro discorso di avere “lavorato e rappresentato” innumerevoli individui e istituzioni di Wall Street, a favore dei quali si era adoperata in tutti i modi, così da assicurare che continuassero a “prosperare”. A questo proposito, Hillary assicurava che le regolamentazioni dell’industria finanziaria non avrebbero messo in pericolo il modus operandi di Wall Street, anche perché, ammetteva la ex first lady, la riforma del sistema finanziario approvata dal Congresso nel 2010 era stata scritta in parte proprio con il contributo delle grandi banche.

Il senso di appartenenza di Hillary Clinton alla classe dei super-ricchi era emerso poi in un discorso del 2014, nel quale si descriveva “lontana” dalla classe media americana, nonostante le origini della sua famiglia, vista la vita condotta con il marito e la “fortuna” di cui entrambi possono godere. Proprio grazie a questi discorsi di fronte a ricchi committenti, i coniugi Clinton hanno incassato decine di milioni di dollari a partire dall’addio di Bill alla Casa Bianca nel 2001. In definitiva, le somme erogate ai Clinton rappresentano il compenso per i servizi di entrambi a favore dei grandi interessi economico-finanziari americani.

In un'altra serie di rivelazioni pubblicate da The Intercept, è apparso chiaro come il team di Hillary Clinton operi a stretto contatto con un certo numero di giornalisti negli Stati Uniti che possono garantire una copertura della candidata alla presidenza in termini favorevoli. I rapporti con giornalisti compiacenti anche molto famosi, come Rachel Maddow della MSNBC, George Stephanopoulos della ABC, Wolf Blitzer della CNN e molti altri, sono gestiti in modo tale da ottenere la pubblicazione o la trasmissione di notizie che evidenzino i lati positivi della candidata.

Altre personalità vicine al Partito Democratico vengono inoltre utilizzate come “surrogati” di Hillary, apparendo in trasmissioni televisive dove sostengono il punto di vista di quest’ultima. Simili “esperti” sono talvolta pagati direttamente dalla campagna di Hillary Clinton, senza però che ciò sia reso noto pubblicamente.

La questione della doppiezza di Hillary Clinton e del finto atteggiamento progressista spesso ostentato in campagna elettorale è stata comunque sollevata solo in maniera marginale dai due moderatori del dibattito di domenica alla Washington University di St. Louis, in Missouri. Prevedibilmente, Hillary ha evitato di rispondere alle domande, portando il discorso su altri argomenti.

Uno di questi è stata la Russia, accusata da Hillary di essere dietro agli hackeraggi che hanno portato alla pubblicazione dei documenti riservati da parte di WikiLeaks e The Intercept. La candidata Democratica ha ribadito la sua linea dura nei confronti di Mosca, al contrario di Trump che auspicherebbe una certa distensione delle relazioni bilaterali.

Il precipitare dei rapporti tra USA e Russia e i preparativi per una possibile guerra contro quest’ultimo paese sono da collegare precisamente allo schieramento quasi compatto dell’apparato militare e della sicurezza nazionale americana a sostegno della candidatura di Hillary Clinton.

Trump viene infatti considerato troppo imprevedibile e quindi inaffidabile nel perseguire le politiche di confronto con le potenze che minacciano l’egemonia statunitense nelle aree cruciali del globo. Il timore non è legato tanto alla possibilità che Trump metta in atto le promesse prospettate in questi mesi nell’ambito della politica estera, quanto che la polarizzazione del paese seguita a una sua vittoria nelle presidenziali possa alimentare in maniera pericolosa lo scontro sociale e ostacolare le mire dell’imperialismo USA.

Dietro a Trump vi è indubbiamente una parte della classe dirigente americana, intenzionata a promuovere un progetto di stato sempre più autoritario se non di stampo apertamente fascista, ma la maggior parte dell’establishment lo reputa pericoloso e considera esaurita la sua funzione, volta sostanzialmente a incanalare in direzione populista e ultra-nazionalista il malcontento e le frustrazioni diffuse nel paese.

Lunedì, a dimostrazione dei malumori nei confronti di Trump anche all’interno del suo partito, lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti di Washington, Paul Ryan, ha affermato di non essere più disposto a “difendere” il candidato alla Casa Bianca, pur evitando di ritirare l’appoggio ufficiale che gli aveva a stento offerto qualche mese fa.

In questo scenario, è probabile attendersi ulteriori rivelazioni e colpi bassi nelle rimanenti settimane di campagna elettorale tra due delle personalità pubbliche più odiate negli Stati Uniti. Il terzo e ultimo dibattito tra Hillary e Trump andrà in scena invece il 19 ottobre prossimo e sarà ospitato dal campus di Las Vegas dell’Università del Nevada.

di Michele Paris

La distanza tra i propositi dei governi e delle istituzioni europee sul trattamento dei migranti provenienti da paesi in guerra e le loro azioni è notoriamente abissale e un nuovo esempio dell’assenza di scrupoli in questo ambito si è avuto nei giorni scorsi durante la conferenza internazionale di Bruxelles sugli aiuti finanziari da destinare all’Afghanistan.

Nel corso del summit è emerso che l’Unione Europea ha imposto un accordo al governo di Kabul per costringerlo e ricevere un numero illimitato di migranti afgani, le cui richieste di asilo nel vecchio continente sono o saranno respinte. Se le autorità UE hanno smentito che dall’accordo di rimpatrio dei migranti dipenda lo stanziamento degli aiuti all’Afghanistan, quello che è accaduto a Bruxelles indica precisamente l’esistenza di questa sorta di ricatto nei confronti di Kabul.

Già la settimana scorsa, il Guardian aveva pubblicato un “memorandum” datato 3 marzo 2016 e indirizzato dalla Commissione Europea al Comitato dei Rappresentanti Permanenti sulla questione dei migranti afgani in vista del vertice di Bruxelles. In questo documento si diceva chiaramente come almeno una parte degli aiuti debba dipendere dalle “politiche del governo [afgano] sull’emigrazione”, sui rimpatri e sull’implementazione dell’accordo, denominato “Joint Way Forward”.

Nello stesso memorandum si leggeva inoltre che lo stanziamento di fondi all’Afghanistan durante la conferenza “dovrebbe essere usato come incentivo… per l’adozione dell’accordo Joint Way Forward”. L’imposizione al governo di Kabul dell’accettazione di decine se non centinaia di migliaia di migranti, fuggiti dal paese in guerra, come condizione per l’erogazione di aiuti finanziari vitali è resa ancora più odiosa dal fatto che la stessa Unione Europea riconosce esplicitamente la gravità della situazione nel paese centro-asiatico.

Con oltre 196 mila domande nel 2015, quella afgana è la seconda nazionalità più numerosa tra i migranti richiedenti asilo in Europa. Il testo dell’accordo Afghanistan-UE non indica il numero dei rimpatri, ma stabilisce che ogni singolo volo diretto a Kabul con migranti deportati forzatamente non debba superare i 50 passeggeri.

Non ci sono tuttavia limiti al numero di voli che possono essere organizzati dagli aeroporti europei diretti in Afghanistan con questo carico. Le previsioni devono essere comunque per un flusso ingente, visto che allo studio ci sarebbe addirittura la costruzione di un terminal presso l’aeroporto internazionale di Kabul appositamente dedicato alla ricezione dei migranti rimpatriati.

L’accordo prevede la deportazione anche di donne e bambini, così come di afgani nati o cresciuti in paesi come Iran e Pakistan. Costoro, nel caso fossero deportati in Afghanistan, oltre ai pericoli legati alla guerra, si ritroverebbero in un paese che di fatto non conoscono e, senza contatti in una società estranea, a fare i conti con difficoltà enormi nel trovare una sistemazione e un lavoro per sopravvivere.

I dati relativi ai migranti afgani indicano che tra il 50 e il 60% delle richieste di asilo di coloro che sono giunti in Europa nel 2015 sono state respinte. Questi numeri danno l’idea della portata dei rimpatri che potrebbero iniziare a breve, mettendo con ogni probabilità in crisi un governo afgano che, ad esempio, nel corso del 2016 ha dovuto ricevere solo 5 mila migranti che hanno lasciato volontariamente l’Europa.

Gli stessi membri della delegazione afgana presenti a Bruxelles hanno lasciato intendere che l’accordo rientra in una sorta di scambio con l’UE per l’ottenimento di fondi destinati a integrare entrate domestiche che, secondo i dati della Banca Mondiale, ammontano ad appena il 10,4% del PIL.

L’UE non ha in ogni caso lasciato molta scelta al governo di Kabul, tanto che il ministro afgano per i rifugiati e i rimpatri, Sayed Hussain Alemi Balkhi, si sarebbe rifiutato di sottoscrivere personalmente l’accordo sulle deportazioni, lasciando il compito di firmarlo al suo vice. Per l’esperta dei fenomeni migratori di stanza a Kabul, Liza Schuster, non c’è stata poi nessuna trasparenza nei negoziati sul Joint Way Forward, né l’UE ha ritenuto di dovere consultare o informare organizzazioni che si occupano di migranti o di diritti umani.

Poco sorprendentemente, l’imbarazzante accordo non è stato discusso pubblicamente durante la conferenza di Bruxelles. Qui sono stati promessi 3,75 miliardi di dollari in aiuti per lo “sviluppo” dell’Afghanistan e il summit è stato caratterizzato da ridicoli interventi che hanno celebrato i presunti miglioramenti della situazione economica e della sicurezza nel paese occupato dal 2001.

Come ha ricordato giovedì il New York Times, mentre alla conferenza si discuteva dei miglioramenti dell’Afghanistan, nel paese “veniva messa in discussione anche la sola idea di poter mettere al sicuro [dalla guerriglia Talebana] anche i principali centri urbani”. Infatti, proprio nei giorni scorsi i Talebani avevano iniziato una nuova offensiva nel nord dell’Afghanistan, riprendendo temporaneamente il controllo della città di Kunduz che già era caduta nelle mani degli “insorti” dodici mesi fa.

Nella provincia meridionale di Helmand alcuni dei distretti che erano ancora nelle mani del governo sono stati inoltri conquistati dai Talebani. Ad oggi, questi ultimi controllano una porzione di territorio afgano mai così ampia dall’invasione americana nell’autunno di quindici anni fa.

L’accordo sui rimpatri con l’Afghanistan contraddice dunque tutti i principi stabiliti dall’Europa per garantire che i migranti non vengano rimandati in paesi dove la loro incolumità potrebbe essere messa a rischio. A ciò va aggiunto anche che la situazione economica di questo paese è a dir poco disastrata, con il dato ufficiale della disoccupazione, decisamente sottostimato, attorno al 35%.

L’Unione Europea e i governi che ne fanno parte non riconoscono tuttavia la legittimità di quelli che definiscono “migranti economici”, anche se la devastazione economica nei paesi d’origine è spesso o quasi sempre la diretta conseguenza delle politiche occidentali e, nel caso dell’Afghanistan, di un’invasione militare a cui in molti in Europa hanno partecipato.

L’intenzione di Bruxelles è quella di sfuggire alle proprie responsabilità e di limitare al massimo e in tutti i modi il numero di migranti presenti nel continente. L’accordo raggiunto o imposto all’Afghanistan rientra in una strategia inaugurata con il vergognoso trattato stipulato mesi fa con la Turchia, a cui sono stati promessi sei miliardi di euro in cambio della consegna dei rifugiati siriani giunti in Europa, senza alcun interesse per il loro trattamento.

In seguito sono stati studiati possibili ulteriori accordi per limitare i flussi migratori, anche con paesi i cui regimi sono notoriamente repressivi e vengono regolarmente condannati a livello internazionale, tra cui l’Etiopia e, addirittura l’Eritrea e il Sudan.

di Michele Paris

La decisione degli Stati Uniti di sospendere il dialogo con la Russia su un possibile stop ai combattimenti in Siria è un ulteriore gravissimo segnale del precipitare degli eventi nel paese mediorientale e dei preparativi americani in atto per scatenare un’escalation militare con l’obiettivo di provare a invertire le sorti del conflitto sul campo.

L’allargamento delle divisioni tra Mosca e Washington si sta consumando mentre l’offensiva dell’esercito regolare siriano, appoggiato dalle forze russe, iraniane e di Hezbollah, appare sempre più vicina alla riconquista di Aleppo. In quella che era la città più popolosa e la capitale commerciale della Siria, secondo molti osservatori si potrebbe decidere il destino stesso della guerra in corso da più di cinque anni. Per questa ragione gli Stati Uniti e i loro alleati intendono giocare tutte le carte rimaste per sostenere i “ribelli” sotto assedio, in grandissima parte composti da formazioni jihadiste.

Con il protrarsi della guerra e in particolare dopo l’intervento della Russia a sostegno del regime di Damasco poco più di un anno fa, la credibilità delle motivazioni ufficiali dell’appoggio statunitense alla rivolta contro Assad è a poco a poco crollata, rivelando le manovre per il cambio di regime basate sul finanziamento e la fornitura di armi a formazioni estremiste. Per mantenere almeno le apparenze di un intervento “umanitario” o a favore delle aspirazioni democratiche del popolo siriano, l’amministrazione Obama ha dovuto mettere in atto uno sforzo propagandistico che richiede il costante ribaltamento della realtà dei fatti.

Così ha dovuto fare lunedì il Dipartimento di Stato nel dare notizia della rottura dei colloqui tra Washington e Mosca a una settimana dal crollo dell’accordo sul cessate il fuoco, raggiunto in precedenza tra i capi delle rispettive diplomazie. Nel precisare che la decisione non è stata presa in maniera precipitosa, il portavoce del dipartimento di Stato, John Kirby, ha attribuito alla Russia responsabilità che pesano invece proprio sul governo americano. Le stesse accuse le ha ribadite martedì anche il segretario di Stato, John Kerry, aggiungendo assurdamente che gli Stati Uniti non intendono “abbandonare il perseguimento della pace” in Siria.

Mosca, secondo Washington, sarebbe venuta meno ai propri impegni, dimostrandosi “indisponibile o non in grado” di garantire il rispetto delle condizioni della tregua da parte del regime siriano. La realtà indica al contrario che gli USA hanno utilizzato i primi giorni del cessate il fuoco per consentire ai “ribelli” di riorganizzarsi di fronte all’offensiva di Damasco, mentre hanno mancato di implementare una condizione cruciale prevista dall’accordo, vale a dire la separazione delle formazioni “moderate” dai terroristi.

Ciò avrebbe dovuto spianare la strada a una collaborazione tra Russia e Stati Uniti per individuare e colpire congiuntamente i gruppi fondamentalisti. Viste anche le divisioni tra il Pentagono e la Casa Bianca sull’opportunità di aderire almeno formalmente all’accordo sulla tregua, gli USA hanno dato alla fine il colpo di grazia a quest’ultima, bombardando una ben nota base militare dell’esercito di Damasco nella città di Deir ez-Zor, dove sono rimasti uccisi un centinaio di soldati siriani.

Di questo episodio, giustificato come un “errore” dal Pentagono, né il portavoce del dipartimento di Stato né altri esponenti dell’amministrazione Obama, impegnati a denunciare la Russia, hanno fatto parola nell’annunciare la sospensione del dialogo sulla Siria.

La battaglia di Aleppo è ad ogni modo al centro delle denunce contro la Russia di media e governi occidentali allo scopo di convincere l’opinione pubblica internazionale della necessità di un maggiore sforzo militare per impedire il massacro di civili innocenti. Le recriminazioni e le accuse ai governi di Siria e Russia per la situazione di Aleppo fanno parte però della solita retorica umanitaria che ha come obiettivo non la protezione delle popolazioni colpite dalla guerra, ma l’escalation delle pressioni sui presunti responsabili delle violenze per giustificare un intervento diretto nel conflitto.

La catastrofe che sta interessando Aleppo e la Siria viene poi presentata falsamente come un assalto indiscriminato del regime contro la popolazione civile e le formazioni “ribelli” che si battono eroicamente per un futuro di democrazia e libertà. In realtà, l’opposizione armata al regime ad Aleppo, come altrove, è costituita principalmente da combattenti fondamentalisti, spesso legati ad al-Qaeda, come l’ex Fronte al-Nusra, ora ribattezzato Jabhat Fateh al-Sham.

Queste formazioni, nonostante il silenzio dei media in Occidente, sono responsabili esse stesse di bombardamenti indiscriminati contro i civili nelle zone della città controllate dalle forze governative e spesso impediscono ai residenti rimasti di fuggire e raggiungere la salvezza.

Non solo: come ha rivelato un rapporto delle Nazioni Unite recentemente pubblicato dalla pubblicazione on-line The Intercept, sono state in buona parte le sanzioni applicate da USA e Unione Europea a provocare il disastro umanitario in Siria. In questo modo, il paese è stato destabilizzato e la sua economia distrutta, così come l’accesso a medicinali, cibo, carburante, ricambi ed equipaggiamenti necessari in ogni settore industriale è stato di fatto bloccato.

In generale, se pure le operazioni del regime con l’appoggio russo dimostrano l’assenza di scrupoli nel condurre l’assedio ad Aleppo, è necessario inquadrare i fatti nel contesto più ampio della guerra che sta sconvolgendo la Siria. Il conflitto è stato cioè alimentato deliberatamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente per ragioni di natura esclusivamente geo-strategica e, nel perseguire i propri interessi, questi paesi hanno coltivato e appoggiato forze integraliste, se non apertamente terroristiche.

Le forze di Damasco, infine, operano per riportare il paese sotto il controllo di un governo legittimo e riconosciuto a livello internazionale, che ha richiesto in maniera ugualmente legittima l’assistenza militare dell’alleato russo. Al contrario, gli Stati Uniti e gli appartenenti alla “coalizione” che opera in Siria agiscono totalmente al di fuori del diritto internazionale e sono impegnati in un’operazione di cambio di regime con metodi violenti contando su formazioni terroriste.

Gli ultimi sviluppi della situazione in Siria fanno dunque aumentare anche il rischio di uno scontro diretto tra USA e Russia. Tuttavia, il precipitare della situazione è tutt’altro che sorprendente, malgrado le speranze che molti avevano riposto nei negoziati promossi proprio da Washington e Mosca. I due paesi continuano ad avere obiettivi e interessi diametralmente opposti in Siria e l’inconciliabilità appare sempre più evidente, al di là della reale o presunta volontà di cercare una soluzione pacifica espressa dalle rispettive diplomazie.

L’impressione che si ricava dalle recenti iniziative e dichiarazioni provenienti da Mosca è che il governo russo abbia definitivamente preso atto dell’impossibilità di trattare in maniera onesta con gli Stati Uniti. L’intensificazione dell’impegno militare ad Aleppo è infatti il segnale che il conflitto non può ormai che essere risolto sul campo.

Dal ministero degli Esteri di Mosca giungono così dichiarazioni minacciose, raramente rilevabili nei mesi scorsi. Un comunicato ufficiale emesso questa settimana sostiene ad esempio che gli Stati Uniti sono pronti “a fare un patto col diavolo”, ovvero con i “terroristi più incalliti”, per rovesciare il regime di Assad.

D’altra parte, l’innalzamento dei toni di minaccia era cominciato proprio da Washington, con il già citato portavoce del dipartimento di Stato, John Kirby, che aveva prospettato forti perdite tra le forze di Mosca e addirittura attentati nelle città russe ad opera di gruppi jihadisti se il coinvolgimento del Cremlino nelle vicende siriane fosse proseguito.

Gli interventisti negli Stati Uniti continuano anche a promuovere l’idea di una no-fly zone nei cieli della Siria, pur considerando i rischi che essa comporta. Il capo di Stato Maggiore USA, generale Joseph Dunford, un paio di settimane fa aveva affermato che il ricorso a una simile misura in Siria richiederebbe né più né meno di entrare in guerra contro la Russia e la Siria.

Alle provocazioni americane, Mosca sembra ormai intenzionata a rispondere colpo su colpo. Lunedì il presidente Putin ha firmato un decreto con il quale è stata sospesa la collaborazione con gli Stati Uniti attorno a un accordo, firmato nel 2000, che regola l’utilizzo delle scorte di plutonio di entrambi i paesi per evitare che questo materiale venga usato per la costruzione di nuove armi nucleari.

Secondo quanto riportato lunedì da FoxNews, inoltre, la Russia avrebbe deciso di posizionare in Siria il sistema avanzato di difesa missilistica SA-23 Gladiator, in aggiunta all’S-400 già installato lo scorso anno dopo l’abbattimento di un jet russo da parte dell’aviazione turca. Il nuovo equipaggiamento, secondo le fonti del network americano, potrebbe essere utilizzato contro eventuali lanci di missili Cruise americani.

Se la decisione, presa dall’amministrazione Obama, di interrompere il dialogo con Mosca sulla Siria implica un innalzamento del rischio di guerra tra le due potenze nucleari, sono in molti a credere che la mossa annunciata lunedì dal Dipartimento di Stato sia assieme il riflesso della frustrazione americana per l’evolversi della situazione e la conferma dell’esaurirsi delle opzioni a disposizione di Washington per influenzare gli eventi.

Come ha spiegato martedì il noto giornalista investigativo americano, Gareth Porter, gli Stati Uniti in definitiva “non hanno più nulla da offrire”, non disponendo di un piano alternativo ai negoziati con la Russia. La scelta di rompere il filo diplomatico con Mosca potrebbe essere allora il tentativo disperato di agire da grande potenza, dando l’impressione di avere una certa influenza nella regione, mentre anche la coesione all’interno dell’amministrazione Obama sta andando in pezzi.

Gli Stati Uniti, in altre parole, stanno perdendo sempre più la capacità di influire sugli eventi in Siria, principalmente a causa delle contraddizioni della loro politica estera. L’allontanarsi degli obiettivi che avevano provocato il conflitto non lascia però intravedere una rapida soluzione, bensì, molto più realisticamente, un probabile ulteriore aggravamento della crisi in atto.


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