di Michele Paris

In un discorso pubblico tenuto a Praga nella primavera del 2009, l’allora neo-presidente americano Obama promise un impegno per la riduzione delle armi nucleari in tutto il pianeta, in modo da mettere fine alla persistente “mentalità da Guerra Fredda”. Quasi otto anni più tardi e a quattro mesi dall’uscita definitiva dalla Casa Bianca, però, non solo sono proprio gli Stati Uniti ad avere aggravato le tensioni internazionali, ma la sua amministrazione sembra avere dato un impulso come poche altre alle capacità nucleari americane.

Un altro voltafaccia di Obama in questo ambito riguarda anche la politica del cosiddetto “primo colpo” nucleare, la strategia per la quale una potenza dotata di ordigni atomici si riserva la possibilità di attaccare per prima con questi ultimi un paese nemico.

Nei mesi scorsi, alcuni giornali americani avevano previsto una dichiarazione formale da parte di Obama con la quale avrebbe ufficializzato la rinuncia da parte degli Stati Uniti a questa dottrina preventiva. Con questa presa di posizione, l’arsenale nucleare USA sarebbe stato attivato solo in risposta a un attacco atomico di un altro paese.

Questa mossa era stata presa in considerazione dal presidente uscente per lasciare una qualche eredità “pacifista” di un’amministrazione tra le più guerrafondaie, se non la più guerrafondaia in assoluto, della storia americana. Pur essendo fortemente simbolica, la decisione sul “primo colpo” nucleare non avrebbe fatto che ratificare in maniera ufficiale una posizione tenuta tacitamente da tutti i governi USA dalla fine della Seconda Guerra  Mondiale.

Un articolo pubblicato questa settimana dal New York Times, che cita anonimi membri dell’amministrazione Obama, rivela invece come, dopo un dibattito interno, il presidente abbia alla fine deciso di evitare di pronunciare una rinuncia alla dottrina del “primo colpo” nucleare, mantenendo così l’ambiguità che ha prevalso finora e, quindi, l’opzione di attaccare preventivamente un paese nemico con questo genere di armi.

La ricostruzione del Times propone uno scenario nel quale esponenti di spicco del gabinetto e consiglieri del presidente hanno fatto pressioni per mantenere lo status quo in materia di politica nucleare. Le ragioni principali sono legate ufficialmente al timore che paesi alleati, come il Giappone e la Corea del Sud in Asia, o i paesi Baltici in Europa, possano interpretare il gesto di Obama come un segno di debolezza, fino a ritenere di non essere coperti dal cosiddetto “ombrello nucleare” americano.

Gli alleati in Europa occidentale, come aveva spiegato un commento del Washington Post a metà agosto, temono invece che le loro dottrine nucleari e quelle degli Stati Uniti possano finire per divergere e creare problemi di “coordinamento” nel caso di una crisi internazionale.

A insistere maggiormente affinché Obama rinunci all’abbandono formale della strategia del “primo colpo” nucleare è stato il segretario alla Difesa, Ashton Carter. Il capo del Pentagono sembra avere sottolineato, tra l’altro, che una decisione in questo senso giungerebbe nel momento sbagliato, viste le tensioni esistenti con Russia e Cina.

Identiche obiezioni, anche se espresse in maniera più cauta, caratterizzano le posizioni del segretario di Stato, John Kerry, e di quello dell’Energia, Ernest Moniz, al cui dipartimento è affidata la responsabilità del mantenimento dell’arsenale nucleare americano.

All’interno dell’amministrazione Obama sembra essere avvenuto comunque un acceso dibattito sulla questione. Malgrado le posizioni dei responsabili della politica estera e dell’apparato militare, in molti vicino al presidente sollecitavano una rinuncia ufficiale all’opzione del “primo colpo”.

Questi ultimi non sono comunque animati da spirito pacifista, ma ritengono piuttosto che un’azione di questo genere da parte di Obama contribuirebbe almeno in parte a riabilitare gli Stati Uniti dopo oltre un decennio di guerre e crimini vari. Per costoro, in sostanza, un’eventuale dichiarazione che ripudi il “primo colpo” nucleare sarebbe un utile esercizio di pubbliche relazioni, senza di fatto intaccare il potenziale offensivo della macchina da guerra americana.

Uno dei principali consiglieri di Obama in materia di armi nucleari, l’ex capo di Stato Maggiore, generale James Cartwright, lo aveva ammesso indirettamente in un articolo firmato per il New York Times lo scorso mese di agosto. Cartwright ricordava infatti come gli USA possano contare su mezzi di “persuasione”  formidabili anche senza ricorrere alle armi nucleari. Tra di essi elencava l’arsenale convenzionale e informatico, ma anche il presunto vantaggio tecnologico, la forza diplomatica e alleanze con paesi di tutti i continenti.

Se l’inversione di rotta sul nucleare di Obama sembra apparentemente non cambiare nulla nell’ambito della dottrina militare a stelle e strisce e, infatti, non ha suscitato particolare interesse tra i media americani né, tantomeno, tra quelli esteri, essa ha in realtà dei risvolti estremamente preoccupanti.

Innanzitutto, la notizia si inserisce in un quadro segnato dalle ripetute provocazioni americane nei confronti di paesi rivali dotati di armi nucleari, come Russia e Cina, che hanno fatto salire alle stelle il rischio di uno scontro militare diretto. Nel primo caso vanno ricordati almeno il golpe di estrema destra in Ucraina, che ha deposto un presidente filo-russo democraticamente eletto, e il costante processo di militarizzazione dei paesi NATO in Europa orientale.

Per quanto riguarda la Cina, invece, l’attenzione degli USA è rivolta in particolare ai mari del sud-est asiatico, dove vengono alimentate in maniera deliberata le dispute territoriali con gli altri paesi della regione e condotte missioni di “pattugliamento” in aree contese ma controllate da Pechino.

In definitiva, il passo indietro di Obama sull’uso dichiarato delle armi nucleari risponde a una logica oggettiva, determinata dagli sforzi della classe dirigente americana di invertire il proprio declino ed esercitare il controllo sulle aree cruciali del globo, contenendo parallelamente la crescita e l’influenza di nuove potenze emergenti.

In altre parole, la notizia riportata dal New York Times sulla probabile mancata rinuncia alla politica del “primo colpo” nucleare implica che gli Stati Uniti non intendono fare alcun passo indietro rispetto all’attuale atteggiamento aggressivo nei confronti di Russia e Cina, ma anche di Iran o Corea del Nord. Anzi, per difendere i propri interessi strategici, i vertici politici e militari americani affermano di essere pronti a far ricorso preventivamente anche alle armi più distruttive in loro possesso.

Che questa situazione sia stata favorita dal presidente Obama può apparire singolare, viste le promesse di combattere contro la proliferazione del nucleare all’inizio del suo mandato alla presidenza. In realtà, come ha dimostrato uno studio della Federazione degli Scienziati Americani, Obama è il presidente che ha smantellato il minor numero di testate nucleari a partire dalla fine della Guerra Fredda.

Non solo, mentre in svariate uscite pubbliche proclamava la necessità di abbandonare “la logica della paura” e di costruire un mondo “senza armi nucleari”, come in una recente storica visita a Hiroshima, Obama ha lanciato un colossale piano per l’ammodernamento dell’arsenale atomico americano che, secondo alcuni studi indipendenti, dovrebbe costare qualcosa come mille miliardi di dollari nei prossimi tre decenni.

di Michele Paris

Uno dei protagonisti principali della campagna elettorale per le presidenziali in corso negli Stati Uniti continua a essere insolitamente il presidente russo, Vladimir Putin. Contro quest’ultimo continuano infatti a puntare il dito la candidata Democratica alla Casa Bianca, Hillary Clinton, e i media allineati al suo partito, secondo i quali, pur senza una sola prova concreta, il Cremlino starebbe manovrando segretamente per favorire il rivale Repubblicano, Donald Trump.

I Democratici americani accusano ormai da tempo Mosca di voler manipolare il risultato del voto di novembre screditando l’ex segretario di Stato, ritenuta molto più pericolosa del suo sfidante in una futura eventuale escalation delle tensioni tra le due potenze.

Una nuova offensiva contro Putin e il suo governo sembra essere però in corso da qualche giorno e l’inizio è stato probabilmente segnato martedì da una “esclusiva” del Washington Post che ha fatto sapere come alcune agenzie federali abbiano aperto un’indagine sui (molto) presunti attacchi informatici russi ai danni di alcuni uffici elettorali negli Stati Uniti.

Secondo il giornale della capitale, i “cyber-attacchi” condotti sotto la direzione del governo russo avrebbero l’obiettivo di “alimentare la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche americane e nelle imminenti elezioni presidenziali”. Fermo restando che difficilmente al livello di sfiducia degli elettori negli Stati Uniti verso il sistema politico del loro paese possa essere aggiunto qualcosa dalla presunta ingerenza di un paese straniero, la notizia ha fornito un autentico assist alla propaganda Democratica.

In un intervento pubblico di questa settimana, Hillary ha avvertito i potenziali elettori di qualsiasi orientamento a considerare attentamente la “reale minaccia” rappresentata dall’atteggiamento russo. La candidata alla Casa Bianca ha poi riproposto la tesi dell’esistenza di un qualche accordo tra Putin e Trump. Contro il miliardario newyorchese si è scagliato anche il candidato Democratico alla vice-presidenza, Tim Kaine, durante un discorso in North Carolina. Il senatore della Virginia è tornato in particolare sulle dichiarazioni di Trump relativamente alla NATO, definita un’alleanza obsoleta, e alla sua intenzione di adoperarsi per riallacciare rapporti cordiali con Mosca.

Hillary e il suo staff insistono nell’attaccare la Russia senza elementi concreti che facciano luce sulle responsabilità delle recenti violazioni dei sistemi informatici negli Stati Uniti. Sempre Putin sarebbe poi colpevole anche dell’hackeraggio ai danni del Comitato Nazionale Democratico, finito con la pubblicazione da parte di WikiLeaks di migliaia di e-mail che hanno dimostrato, tra l’altro, il complotto all’interno del partito per far naufragare nelle primarie la candidatura di Bernie Sanders.

La questione dell’ingerenza russa viene utilizzata e ingigantita da Hillary Clinton e i suoi sostenitori principalmente per promuovere le credenziali da “falco” in materia di politica estera e sicurezza nazionale della candidata Democratica. Non a caso, la ex first lady sta raccogliendo un ampio consenso nella la galassia “neo-con”, così come tra i numerosi potenziali criminali di guerra che in precedenti amministrazioni Democratiche o Repubblicane hanno ricoperto incarichi connessi alla promozione dell’imperialismo americano all’estero.

Nei giorni scorsi, le critiche contro la Russia di Hillary si sono infatti allargate al ruolo di questo paese nel conflitto siriano. La Clinton ha ricordato il mancato accordo su una tregua in Siria, dopo il faccia a faccia tra Putin e Obama a margine del G20 di questa settimana in Cina, per denunciare il sostegno di Mosca al regime di Assad e per proporre nuovamente la creazione di una “no-fly zone” nel nord della Siria, che servirebbe come base di partenza per una possibile offensiva contro Damasco.

Il collegamento tra gli attacchi al presidente Putin e lo stallo in Siria fa appunto intravedere un’intensificazione del conflitto in quest’ultimo paese, se non addirittura contro la Russia, in caso di successo Democratico nelle elezioni di novembre. La campagna di Hillary Clinton, incentrata sulle sue credenziali da “comandante in capo”, e la denuncia di Trump come un agente più o meno consapevole del Cremlino hanno perciò lo scopo di preparare l’opinione pubblica americana a un nuovo intervento militare a tutto campo nel prossimo futuro.

Anche per questi motivi e per la repulsione che entrambi i candidati suscitano tra la popolazione americana, i toni e i contenuti della campagna elettorale per le presidenziali in corso negli USA hanno raggiunto un livello tale di degrado da far dimenticare le già difficilmente sopportabili sfide del recente passato.

Limitatamente alla questione delle operazioni attribuite alla Russia, va notato che gli attacchi portati contro Mosca da Hillary, dai suoi sostenitori e dai media si basano praticamente soltanto su dichiarazioni di esponenti di agenzie governative che assicurano come hacker al servizio del Cremlino stiano violando impunemente i computer degli uffici del Partito Democratico e delle autorità elettorali americane.

A queste voci si aggiungono spesso quelle di compagnie private che operano nel campo della sicurezza informatica, mentre quasi sempre fuori dai media “mainstream” restano le opinioni di quanti, inclusi ex pezzi grossi “pentiti” dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale Americana (NSA) come William Binney, attribuiscono piuttosto gli attacchi informatici e, soprattutto, le fughe di informazioni a fonti interne alle agenzie violate.

Lo stesso Edward Snowden era intervenuto sulla questione, facendo notare che, se l’FBI o la NSA avessero a disposizione prove certe del coinvolgimento russo, le avrebbero già rese pubbliche senza esitazioni.

Invece, essendo poco più che propaganda, l’offensiva in atto contro la Russia si basa su una campagna orchestrata ad arte e che prevede il ripetersi di accuse senza fondamento, di insinuazioni e affermazioni date per incontrovertibili di presunti “esperti” informatici ed esponenti dell’intelligence che devono essere per forza di cose a conoscenza della verità.

Questo “dibattito” che sta caratterizzando la campagna per la Casa Bianca non sembra comunque giovare particolarmente a Hillary Clinton. La decisione di incentrare la propria campagna non sugli affanni dell’economia, cavalcando l’entusiasmo generato dall’agenda progressista di Sanders, ma sulle questioni che stanno a cuore solo alla classe dirigente americana spiega in parte i numeri proposti dai più recenti sondaggi negli Stati Uniti.

Con un rivale Repubblicano al limite dell’impresentabilità, gravato oltretutto da una serie infinita di polemiche e bersagliato quotidianamente dalla stampa “liberal”, a due mesi dal voto Hillary Clinton ha visto svanire il vantaggio che aveva sfiorato in media i dieci punti percentuali dopo la convention Democratica di luglio.

Tra le altre, l’indagine della CNN ha dato questa settimana Trump in vantaggio su Hillary 45% a 43% su scala nazionale, evidenziando anche un altro dato particolarmente allarmante per l’ex segretario di Stato. Il 49% di una sezione dell’elettorato ritenuta cruciale, quella composta dagli “indipendenti”, vale a dire quanti non sono registrati per nessuno dei due principali partiti, ha cioè affermato di volere optare per un voto a Donald Trump, contro appena il 29% orientato a scegliere Hillary Clinton.

di Michele Paris

Le frizioni tra Stati Uniti e Filippine, che animano il rapporto tra i due alleati da un paio di mesi a questa parte, sono esplose lunedì dopo che il neo-presidente dell’arcipelago del sud-est asiatico, Rodrigo Duterte, ha rivolto un “invito” a dir poco esplicito a Obama a non immischiarsi nelle drammatiche vicende interne del suo paese. Il clamoroso scontro sta impensierendo non poco il governo americano ed è il risultato del processo di revisione delle priorità strategiche filippine in corso a Manila dopo la fine della presidenza del fedelissimo di Washington, Benigno Aquino.

In una conferenza stampa alla vigilia della partenza per il vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) in Laos, a Duterte è stato chiesto come avrebbe risposto a Obama se il presidente americano, nel corso di un vertice bilaterale che avrebbe dovuto tenersi il giorno successivo, avesse sollevato la questione degli assassini extra-giudiziari di presunti criminali nelle Filippine. A partire dall’insediamento di Duterte a inizio luglio, più di 2 mila persone sono state uccise sommariamente dalla polizia o da sicari nel quadro di una sorta di crociata anti-crimine promossa dallo stesso neo-presidente.

Il governo USA aveva lasciato intendere che Obama avrebbe appunto chiesto spiegazioni sulla strage in atto al presidente filippino durante l’incontro previsto in Laos. Duterte ha risposto alla domanda del giornalista, spiegando di non essere un “burattino degli Stati Uniti”, ma il “presidente di un paese sovrano”, dando sostanzialmente a Obama del “figlio di p…”.

Duterte ha chiesto anche le scuse del presidente USA per i 600 mila filippini caduti nella guerra filippino-americana all’inizio del secolo scorso, mentre ha collegato i problemi sociali e di criminalità del suo paese proprio all’eredità del periodo coloniale statunitense.

Che la campagna di assassini sommari che stanno conducendo le forze di sicurezza nelle Filippine con la benedizione del presidente Duterte sia profondamente anti-democratica e di stampo fascista è fuori discussione. Tuttavia, i crimini che ha commesso in poco più di due mesi la nuova amministrazione filippina sono ben poca cosa rispetto a quelli che hanno visto protagonisti gli Stati Uniti nella sola era di Obama.

Soprattutto, gli scrupoli di quest’ultimo, che hanno convinto la delegazione americana in Asia a cancellare l’incontro con Duterte, non hanno niente a che vedere con i diritti umani e democratici della popolazione filippina. Piuttosto, le critiche sia pure misurate rivolte a Duterte sono legate alla crescente impazienza nei confronti del presidente di un paese alleato che continua a esitare nell’allinearsi agli interessi strategici degli Stati Uniti.

Nelle intenzioni americane, Duterte avrebbe dovuto utilizzare tempestivamente la recente sentenza sfavorevole alla Cina, emessa dal Tribunale Arbitrale Permanente de L’Aja sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, per aumentare le pressioni su Pechino. Al contrario, il presidente filippino ha finora tenuto una condotta prudente su questo fronte, cercando anzi di attenuare le tensioni e di promuovere le relazioni commerciali con il vicino cinese.

Questo atteggiamento ha indubbiamente irritato l’amministrazione Obama, la quale, seguendo un copione ben collaudato, ha iniziato a esprimere preoccupazione per la situazione dei diritti umani nelle Filippine, nonostante all’inizio del mandato di Duterte avesse espresso pieno appoggio alla lotta al crimine e al narco-traffico lanciata dal nuovo governo.

Agli insulti di Duterte, il presidente americano ha comunque reagito in maniera contenuta, almeno a livello pubblico. Obama si è limitato a definire “pittoresco” il collega filippino, per poi precisare che il suo staff è stato incaricato di valutare i modi e i tempi per una “conversazione costruttiva” con Duterte. Infine, Obama non ha mancato di mandare un avvertimento all’alleato, ricordando che la questione delle procedure democratiche, relativamente all’operato della polizia filippina, “sarà sollevata” in un eventuale faccia a faccia nel prossimo futuro.

L’apparente pacatezza della risposta dell’inquilino della Casa Bianca non dipende solo dalla consapevolezza che il suo ultimo mandato sta per scadere e che anche la partnership con le Filippine dovrà essere gestita dal suo successore. Soprattutto, l’amministrazione Obama sembra ritenere che ci sia ancora spazio per imbarcare Rodrigo Duterte nel progetto strategico americano in Asia orientale, diretto al contenimento della Cina con pressioni diplomatiche e militari.

Duterte, da parte sua, ha infatti operato una parziale marcia indietro martedì, quando si è scusato con Obama per le parole pronunciate il giorno prima. Duterte ha poi assicurato di non avere alcuna intenzione di volersi confrontare con “il più potente presidente del pianeta”.

In generale, i messaggi provenienti da Manila in questi mesi sono stati spesso ambigui. Alle prese di posizione pubbliche di Duterte contro gli Stati Uniti e alle iniziative per favorire la distensione dei rapporti con la Cina, il governo filippino ha alternato dichiarazioni ostili nei confronti di Pechino.

In questo gioco delle parti, è stato in particolare il ministro degli Esteri, Perfecto Yasay, a prendere frequentemente le parti degli Stati Uniti. Nei giorni scorsi, ad esempio, il capo della diplomazia filippina aveva convocato l’ambasciatore cinese a Manila per chiedere spiegazioni sulla presenza di un’imbarcazione della guardia costiera di Pechino nelle acque contese dell’atollo di Scarborough, nel Mar Cinese Meridionale.

Duterte, da parte sua, ha espresso il proprio appoggio al discusso trattato, firmato dalla precedente amministrazione Aquino, che consente alle forze armate USA di tornare a occupare alcune basi militari in territorio filippino.

Gli Stati Uniti temono in ogni caso che anche le Filippine possano sfuggire al controllo americano sotto la spinta di interessi economici che pendono decisamente in favore della Cina. Pechino ha d’altra parte già offerto ingenti progetti di investimento al paese-arcipelago, evidentemente legati all’ammorbidimento delle posizioni di Manila sulla contese territoriali alimentate invece da Washington.

Già i prossimi mesi chiariranno forse le intenzioni del nuovo governo filippino, con il presidente Duterte che, dopo avere nominato uno dei suoi predecessori, Fidel Ramos, a inviato speciale per i negoziati con Pechino, si recherà in visita ufficiale in Cina prima della fine dell’anno.

Se l’impegno americano in Asia orientale in funzione anti-cinese appare massimo, i risultati incassati in questi ultimi anni non sembrano delineare un’espansione significativa dell’influenza degli Stati Uniti. Anzi, numerose circostanze indicano un inesorabile indebolimento della posizione di Washington e il venir meno della capacità americana di indirizzare gli eventi secondo i propri interessi.

Significativo in questo senso è ad esempio il tentativo, frustrato da anni, di inserire in un comunicato ufficiale dell’ASEAN una qualche dichiarazione che punti il dito contro la Cina nelle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale. La stessa ratifica dell’impopolare trattato di libero scambio TPP (Partnership Trans Pacifica) tra una dozzina di paesi asiatici e del continente americano continua inoltre a essere bloccata dal Congresso USA.

L’eventuale naufragio di un trattato che è costato enormi sforzi diplomatici e parecchio capitale politico a molti governi, a cominciare da quello dell’alleato giapponese, rischia di dare un colpo letale alla residua credibilità degli Stati Uniti in Asia.

Il fallimento del TPP aprirebbe ulteriormente la strada alle iniziative di integrazione continentale promosse dalla Cina e già in grado di riscuotere un vasto successo, lasciando gli Stati Uniti a contare ancor più sulla dimensione militare per mantenere in vita quel che resta del miraggio di un mondo unipolare sotto il controllo di Washington.

di Michele Paris

L’incapacità di tradurre in azioni concrete i propositi dichiarati dai più importanti capi di stato e di governo, per risolvere i problemi economici e non solo che affiggono il pianeta, sembra avere segnato anche il summit del gruppo dei G-20, conclusosi nella giornata di lunedì a Hangzhou, in Cina. A prevalere sono state ancora una volta rivalità che appaiono sempre più accentuate dal persistere un po’ ovunque di livelli di crescita economica modesti, se non del tutto inesistenti.

Degli inviti fatti dal presidente cinese, Xi Jinping, nel suo discorso di apertura del summit a focalizzare l’attenzione sulla “crescita” e a respingere le tentazioni protezionistiche è rimasto ben poco al termine dei lavori. Uno dei temi più caldi dell’incontro è stato l’eccesso di capacità dell’industria dell’acciaio cinese, la quale sta letteralmente inondando il mercato mondiale e provocando la chiusura di molti impianti in Occidente.

Della questione ne hanno parlato Xi e il presidente americano Obama in un faccia a faccia a margine del vertice. La posizione più dura nei confronti di Pechino l’ha assunta però l’Unione Europea, con il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, che ha sollecitato il governo cinese a intervenire e ad accettare un meccanismo condiviso che consenta un monitoraggio internazionale sulle proprie acciaierie.

Stati Uniti, UE e Giappone avevano addirittura proposto che quest’ultimo compito fosse assegnato all’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), cioè un organo di cui la Cina non fa nemmeno parte. L’ovvia opposizione di Pechino ha portato allo stralcio della proposta, anche se un riferimento più attenuato al problema della sovracapacità dell’industria dell’acciaio della seconda economia del pianeta è comunque finito nel comunicato finale dei G-20.

La disputa si è incrociata con la decisione che l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) dovrà prendere a breve per assegnare o meno a quella cinese lo status di “economia di mercato”, cosa che, tra l’altro, renderebbe più difficile agli altri paesi adottare ritorsioni contro le politiche commerciali di Pechino. La questione, in maniera più o meno esplicita, è stata indubbiamente al centro delle discussioni dei giorni scorsi, collegandosi agli inviti rivolti ai leader cinesi ad accelerare sulle “riforme” di liberalizzazione dell’economia.

Più in generale, l’inconsistenza dei propositi dei governi presenti a Hangzhou è facilmente riscontrabile se si pensa a quanto accaduto dopo l’esplosione della crisi nel 2008. In seguito al tracollo finanziario di quell’anno, i summit dei G-20 che seguirono furono dominati dalle promesse di intraprendere azioni coordinate per far ripartire l’economia globale, evitando nel contempo le politiche protezionistiche che, dopo la Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso, avevano inasprito le rivalità globali fino a contribuire allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Gli scenari osservabili a otto anni di distanza indicano invece un’evoluzione diametralmente opposta. Un recente rapporto dell’OMC ha infatti evidenziato come nel mese di giugno le “restrizioni” al libero commercio nei paesi membri abbiano fatto segnare il livello più elevato dall’inizio della crisi.

L’inadeguatezza del G-20 a far fronte ai problemi del pianeta è risultata chiara dalla stessa quantità di questioni citate nel comunicato finale emesso al termine del vertice cinese. Il documento finale è stato ironicamente definito una sorta di “albero di Natale” da un diplomatico europeo citato dal Wall Street Journal, nel quale il moltiplicarsi dei piani di intervento globale - dall’emigrazione al terrorismo, dall’energia alla diffusione del virus Zika - lascia l’impressione di un organismo sopraffatto dagli eventi e fiaccato dalle spinte nazionalistiche che dominano la maggior parte dei paesi che lo compongono.

A ben vedere, nella metropoli cinese che ha ospitato il G-20 si è avuta anche la conferma del formarsi di un blocco economico e, in misura decisamente minore, strategico che gravita attorno a Cina e Russia o, per meglio dire, ai cosiddetti BRICS, e che si propone come alternativa all’unilateralismo statunitense. Il dato più significativo su questo fronte, ed emerso in parte anche a Hangzhou, sembra essere la possibile attrazione in questa orbita anche della Turchia, ovvero uno dei membri cruciali della NATO.

Questa evoluzione determina però essa stessa la destabilizzazione delle relazioni internazionali consolidate, già di per sé complicate dagli eventi di questi anni. Obama, nel suo incontro con il presidente cinese, ha ad esempio criticato la condotta di Pechino nelle dispute marittime e territoriali del Mar Cinese Meridionale. Washington ha ribadito la propria intenzione di contrastare la Cina su questo fronte e, indirettamente, di continuare ad alimentare gli scontri tra Pechino e gli altri paesi della regione.

Le tensioni generate dal riorientamento strategico americano in Asia orientale sono alla base anche delle frizioni tra Cina e Australia, ugualmente emerse al G-20. Pechino ha in particolare criticato il governo di Canberra, virtualmente allineato agli interessi strategici dell’alleato americano, per le iniziative che hanno fatto naufragare alcune acquisizioni di grandi compagnie australiane da parte del capitale cinese.

Le divisioni e i conflitti sono tuttavia sempre più trasversali e riguardano anche paesi alleati. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (“Brexit”) è stato un tema tra i più discussi al G-20 e i tentativi del neo-premier Conservatore, Theresa May, di minimizzare gli effetti negativi del referendum di giugno sono stati almeno in parte frustrati proprio da Obama, il quale ha confermato che le priorità di Washington dopo la Brexit non coincidono con quelle di Londra.

Già alla vigilia del G-20, peraltro, si aveva avuto un assaggio delle forze centrifughe in atto su scala globale e che gli USA faticano a tenere sotto controllo. A Vladivostok, il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, aveva incontrato Putin nel corso di un forum sull’economia, manifestando al presidente russo la propria disponibilità a siglare un trattato di pace per mettere fine al gelo che prevale tra i due paesi fin dalla fine del secondo conflitto mondiale per via di una disputa territoriale. L’iniziativa del premier nipponico ha di fatto spaccato il fronte anti-russo che caratterizza il G-7 fin dall’esplosione della crisi in Ucraina.

Il suggello sull’ennesimo G-20 evanescente è arrivato anche dal mancato accordo su una possibile tregua in Siria, nonostante l’atteso faccia a faccia tra Obama e Putin in Cina. Al di là delle dichiarazioni pubbliche, l’impossibilità a raggiungere un’intesa tra le due potenze con i maggiori interessi nel paese mediorientale in guerra è dovuto in sostanza al rifiuto da parte americana di rinunciare in maniera inequivocabile a sostenere o, quanto meno, a difendere gruppi “ribelli” legati ad al-Qaeda che si battono contro il regime di Assad.

Le differenze tra Mosca e Washington sulla Siria sono ad ogni modo sostanziali, mentre l’amministrazione Obama ha visto fallire completamente la propria strategia in questo conflitto, tanto che la maggior parte degli osservatori sembra condividere l’opinione che il presidente intenda soltanto prendere tempo e passare la questione al suo successore di qui a pochi mesi.

Come se non fossero stati sufficienti i motivi di scontro descritti, sul G-20 di Hangzhou sono piombati lunedì infine tre missili balistici, lanciati dal regime stalinista nordcoreano di Kim Jong-un. Gli ordigni sono precipitati in mare al largo della Corea del Nord e hanno rappresentato l’ennesimo messaggio di Pyongyang alle potenze regionali e agli Stati Uniti.

Poche ore prima del lancio, i presidenti di Cina e Corea del Sud, rispettivamente Xi Jinping e Park Geun-hye, avevano discusso della crisi perenne nella penisola di Corea. Pechino, soprattutto, aveva ricordato al governo di Seoul la propria opposizione alla decisione di ospitare il sistema americano di difesa missilistico THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”), ritenuto correttamente una minaccia alla sicurezza cinese, malgrado le rassicurazioni che esso sia rivolto esclusivamente alla Corea del Nord.

L’installazione del THAAD è una priorità del governo USA nell’ambito della propria strategia anti-cinese e, come si è visto nei giorni scorsi, ha aggiunto un nuovo motivo di scontro in Asia orientale, complicando ulteriormente gli sforzi di pace che coinvolgono la Nordcorea e avvelenando i rapporti diplomatici tra due paesi, come Cina e Corea del Sud, che hanno ormai costruito solidissimi legami sul fronte economico e commerciale.

di Michele Paris

L’invasione della Siria, iniziata ormai più di una settimana fa, da parte dell’esercito turco ha ulteriormente complicato una situazione già abbastanza complessa nel paese mediorientale in guerra dal 2011. L’azione militare decisa dal presidente Erdogan era programmata da tempo, ma la sua attuazione è alla fine avvenuta forse nel momento più delicato attraversato da entrambi i paesi in questi ultimi anni.

Nel cercare di interpretare il primo deliberato ingresso di truppe regolari straniere in territorio siriano dall’inizio del conflitto senza il consenso del governo di Damasco, è necessario separare gli obiettivi di Ankara dalle aspettative delle altre forze coinvolte nel teatro di guerra.

Come hanno spiegato i media di tutto il mondo, il governo di Erdogan è passato all’azione dopo che le forze curde siriane avevano strappato al controllo dello Stato Islamico (ISIS/Daesh) alcune città a ovest dell’Eufrate, come Jarablus e Manbij. L’avanzata delle Unità di Protezione Popolare curde (YPG) è percepita come una grave minaccia dal governo turco, il quale intende a tutti i costi impedire la formazione di un’entità curda di fatto autonoma nel nord della Siria per evitare spinte indipendentiste promosse dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) entro i propri confini.

L’obiettivo primario della Turchia in Siria è dunque quello di annullare parte delle conquiste curde, mentre la guerra all’ISIS/Daesh, le cui operazioni Ankara ha a lungo favorito, appare più che altro come una copertura per incassare il consenso all’invasione da parte americana. Gli uomini dello pseudo-califfato non hanno d’altra parte opposto praticamente resistenza all’avanzata turca nei giorni scorsi, mentre intensi sono stati gli scontri con le forze curde, prima del ritiro di queste ultime anche dietro indicazione degli Stati Uniti.

L’invasione turca della Siria, a tutti gli effetti in violazione del diritto internazionale, ha messo a nudo le contraddizioni di una condotta americana ormai quasi allo sbando. L’amministrazione Obama ha subito dato il proprio sostegno all’iniziativa militare di Erdogan, con ogni probabilità intravedendo in essa un modo per accelerare il rovesciamento del regime di Assad, tuttora il proprio principale obiettivo nella guerra siriana.

Allo stesso tempo, l’alleato turco si è scontrato con le milizie curde che, nell’ambito delle cosiddette Forze Democratiche della Siria (SDF), sono sostenute dal Pentagono e hanno rappresentato finora la forza più efficace nella lotta all’ISIS/Daesh promossa da Washington. Gli scenari appaiono però ancora più complicati, visto che gli uomini di Ankara stanno avanzando oltreconfine assieme a gruppi armati sunniti che fanno parte del redivivo Libero Esercito della Siria (FSA), a sua volta appoggiato dalla CIA.

Il pericolo del protrarsi di uno scontro fratricida su più livelli ha spinto perciò Washington a invitare la Turchia a cessare gli attacchi contro i curdi. Martedì, gli Stati Uniti avevano annunciato il raggiungimento di un cessate il fuoco nel nord della Siria, ma il governo di Ankara il giorno dopo ha smentito qualsiasi accordo con i curdi, ribadendo anzi la volontà di continuare a combattere fino a quando questi ultimi “non rappresenteranno più una minaccia per la popolazione turca” o, quanto meno, fino a che non si saranno ritirati a est dell’Eufrate.

Le scintille tra USA e Turchia sembrano dunque smentire la tesi di quanti ritengono che l’invasione in atto della Siria sia una manovra contro la Russia concordata in pieno dai due alleati NATO, i cui rapporti rimarrebbero perciò ottimi nonostante lo scontro seguito al fallito colpo di stato contro Erdogan del luglio scorso.

Ciò sarebbe teoricamente possibile, anche perché la Turchia continua a ritenere che Assad non possa far parte del futuro della Siria, nonostante un qualche attenuamento dei toni nei confronti del regime di Damasco negli ultimi mesi. Tuttavia, lo scontro tra Ankara e Washington sembra essere reale e i passi fatti da Erdogan per ristabilire relazioni cordiali con la Russia difficilmente possono essere considerati una semplice cortina di fumo.

Gli Stati Uniti hanno inoltre visto complicarsi i loro progetti di guerra all’ISIS/Daesh dopo un’iniziativa turca che ha costretto il Pentagono di fatto a scaricare le milizie curde. Come hanno fatto notare molti commentatori, le forze dell’YPG avrebbero dovuto guidare l’assalto alla capitale dello pseudo-califfato in Siria - Raqqa - ma il trattamento avuto dagli USA rende improbabile un loro nuovo sacrificio nel prossimo futuro.

L’impressione che si ricava dalle vicende di queste settimane è piuttosto che l’amministrazione Obama, rimasta relativamente spiazzata dalla mossa di Erdogan, non abbia avuto altra scelta che assecondarla, anche per impedire un ulteriore spostamento della Turchia verso l’orbita russa.

Mosca e Damasco, da parte loro, malgrado l’inevitabile condanna a livello ufficiale, hanno accettato, probabilmente a denti stretti, l’invasione turca come una sorta di ricompensa per l’inversione di rotta strategica di Erdogan, in modo anche da consentire a quest’ultimo di non ritrovarsi a mani vuote in un eventuale processo di pace, a cui invece avrebbero potuto prendere parte i curdi forti dei recenti successi militari.

Un’analisi pubblicata nei giorni scorsi dalla testata kuwaitiana AlRai ha inoltre ipotizzato che “la Russia ha accettato l’incursione turca in territorio siriano a causa della dichiarata ostilità dei curdi nei confronti del governo di Damasco”. L’YPG aveva infatti attaccato l’esercito di Assad nella città di al-Hasakah, espellendolo dai suoi sobborghi con l’appoggio americano.

Per l’autore del pezzo, questi scontri tra i curdi e l’esercito regolare, dopo un lungo periodo di tacita collaborazione, sarebbero il segnale delle intenzioni striscianti di giungere a una suddivisione della Siria su base settaria. Un obiettivo, quest’ultimo, che incontra i favori, oltre che della minoranza curda, degli Stati Uniti, ma non della Russia né, ovviamente, del regime di Assad.

Un altro giornale mediorientale - il libanese As Safir - ha addirittura azzardato l’esistenza di un accordo militare tra Ankara e Damasco che potrebbe anticiparne un altro ancora più clamoroso di natura politica. In sostanza, secondo questa tesi, i turchi dovrebbero allentare la pressione su Aleppo, chiudendo le vie di rifornimento ad alcuni gruppi armati “ribelli” che si battono contro il regime, in cambio del via libera nel nord della Siria per “distruggere il progetto [indipendentista] curdo”.

Uno scenario simile comporta la fissazione di limiti ben precisi all’azione turca, secondo alcuni dettati a Erdogan da Putin. La natura imprevedibile e impulsiva del presidente turco, a differenza di quello russo, comporta però un margine più o meno ampio di dubbio sull’evoluzione delle vicende siriane. Anche perché la Russia, così come l’Iran, pur avendo a disposizione varie opzioni per colpire una Turchia che dovesse trasgredire alla presunta intesa raggiunta sulla Siria, non appare pronta a mobilitarsi a tal punto da aprire un fronte di guerra contro un paese NATO per salvare l’alleato Assad.

Per sciogliere i nodi del quadro siriano dopo i fatti più recenti, così come per comprendere in pieno le intenzioni di Erdogan, sarà dunque necessario attendere ancora. Finché gli equilibri sul campo non si saranno assestati è improbabile attendersi progressi nei colloqui di pace o iniziative di ampio respiro, in particolare da parte del paese teoricamente con la maggiore influenza sulle vicende del conflitto, cioè gli Stati Uniti.

La strategia siriana dell’amministrazione Obama appare d’altronde nel caos più completo e le decisioni su un conflitto che ha letteralmente devastato uno dei paesi più avanzati del Medio Oriente potrebbero essere ormai lasciate al prossimo presidente che di qui a pochi mesi si installerà alla Casa Bianca.


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