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di Michele Paris
La visita a sorpresa nel fine settimana in Afghanistan del segretario di Stato americano, John Kerry, è giunta nel pieno della grave crisi politica che sta attraversando il fragile governo di “unità nazionale” del paese sotto occupazione USA dal 2001. Il capo della diplomazia statunitense ha cercato di invitare tutte le parti coinvolte a collaborare per il bene del paese, ribadendo la fiducia in un esecutivo che egli stesso aveva contribuito in maniera decisiva a far nascere nel 2014 dopo le ennesime elezioni contestate.
L’accordo che Kerry aveva mediato quasi due anni fa prevedeva l’affiancamento al presidente, Ashraf Ghani, della figura di un “chief executive” nella persona di Abdullah Abdullah, cioè il principale sfidante di Ghani nelle elezioni. I due avrebbero dovuto costituire una sorta di super-governo per superare le divisioni etniche e gli interessi di parte che minacciavano di far scivolare il paese nuovamente nella guerra civile.
Il ruolo assegnato a Abdullah non era previsto dalla costituzione afgana, così che alcune modifiche a quest’ultima avrebbero dovuto creare la posizione di primo ministro per legittimare l’intesa tra i due contendenti alla presidenza. Quello che era stato salutato nel 2014 come un successo della diplomazia USA è diventato però l’ennesimo incubo, soprattutto per la popolazione afgana, costretta a far fronte alle conseguenze della paralisi politica che ne è derivata, ma anche della consueta corruzione dilagante, dell’aggravamento della sicurezza interna e del persistere dello sfacelo dell’economia.
Sabato a Kabul, Kerry ha provato comunque a ostentare un qualche ottimismo o, per lo meno, ad assicurare i vertici politici afgani della fiducia dell’amministrazione Obama in un processo che, come hanno ammesso molti diplomatici occidentali alla stampa internazionale, non ha al momento alternative percorribili. Così, anche se la scadenza del governo di “unità nazionale” era stata fissata per il prossimo mese di ottobre, data in cui dovrebbero tenersi le elezioni parlamentari, già si parla di un quasi certo rinvio almeno alla primavera del 2017, vista l’assenza di progressi sulla riforma elettorale promessa.
Lo stesso Kerry ha affermato che il patto tra Ghani e Abdullah ha validità per tutto il mandato elettorale – cinque anni – e il governo in carica ha legittimità per proseguire con l’attuale formula, quindi anche senza modifiche alla Costituzione. La benedizione americana al gabinetto di Kabul non è necessariamente di buon auspicio per la stabilità afgana, anzi, il permanere dello stallo che ha caratterizzato questi mesi rischia di aggravare i già enormi problemi del paese ma, ancora una volta, per le forze di occupazione l’alternativa potrebbe risultare anche peggiore.
Qualche progresso o, meglio, la sopravvivenza di una struttura di governo a livello centrale con un livello minimo di legittimità agli occhi della comunità internazionale è d’altra parte condizione indispensabile per convincere i paesi occidentali già scettici a non interrompere il flusso di denaro che tiene in piedi l’economia dell’Afghanistan e le sue forze di sicurezza.
A Varsavia nel mese di luglio si terrà un importante summit della NATO nel quale dovrebbero essere discusse le modalità per finanziare il rafforzamento delle forze armate afgane, mentre a ottobre a Bruxelles sarà l’entità degli aiuti finanziari civili a essere al centro dell’attenzione. A sottolineare quanto siano cruciali questi appuntamenti per il futuro del governo-fantoccio di Kabul è stato Kerry nel fine settimana, quando nella conferenza stampa con il presidente Ghani ha inviato quest’ultimo ad “assicurarsi che tra oggi e i vertici di Varsavia e Bruxelles, l’Afghanistan si mantenga nella giusta direzione”.
Intanto, forse anche grazie alla presenza di Kerry a Kabul, sabato il parlamento afgano ha finalmente approvato la nomina di due membri del governo, il ministro dell’Interno e il Procuratore Generale, i quali, assieme al ministro della Difesa e al capo dell’intelligence, hanno ricoperto finora i loro incarichi in via provvisoria. Il nuovo ministro dell’Interno – generale Taj Mohammad Jahid – è un fedelissimo di Abdullah ed era stato nominato nel mese di febbraio in seguito alle dimissioni del suo predecessore.
Proprio una serie di dimissioni nelle ultime settimane ha ulteriormente indebolito il governo, contribuendo a intensificare le richieste di dimissioni rivolte a Ghani da parte di svariati leader dell’opposizione e di membri del precedente governo dell’ex presidente, Hamid Karzai.
La stabilità del governo di Kabul e la situazione relativa alla sicurezza interna influenzeranno poi la decisione di Washington di mantenere o ridurre il contingente di occupazione in Afghanistan, peraltro legata anche alle dinamiche strategiche in Asia centrale che appaiono in fase di riallineamento soprattutto riguardo la Cina e il Pakistan.
Obama aveva già congelato il numero di truppe USA a 9.800 per l’intero 2016, ma a partire dal 2017 gli uomini dovrebbero scendere a 5.500. I leader militari americani mettono però in guardia da mosse affrettate, se di fretta si può parlare dopo quasi 15 anni di occupazione, facendo notare come nell’ultimo periodo la situazione interna in Afghanistan sia nuovamente peggiorata. Kerry, da parte sua, ha affermato che la riduzione nel numero dei propri soldati non è in discussione, salvo poi vincolare ogni iniziativa al “parere” dei generali.
I Talebani sono tornati d’altronde a condurre operazioni con un certo successo, in taluni casi anche in maniera clamorosa, e controllano oggi circa un terzo del territorio afgano. I colloqui di pace con gli studenti del Corano appaiono inoltre in alto mare, nonostante Kerry abbia rinnovato una vaga offerta di sedersi al tavolo delle trattative con gli “insorti” nel corso della sua visita.
La precarietà degli scenari afgani e le prospettive ben poco rosee per il futuro di questo paese sono apparse evidenti proprio subito dopo la partenza di Kerry da Kabul, quando un paio di esplosioni hanno colpito il quartiere diplomatico della capitale.
Al di là delle dichiarazioni ottimistiche e degli inviti, seguiti da immancabili promesse, alla costruzione di istituzioni democratiche in Afghanistan, il bilancio della più lunga guerra della storia americana continua a essere rovinoso. Gli stessi giornali ufficiali negli USA faticano a nascondere una realtà che, nelle parole ad esempio del Washington Post, è fatta prevalentemente di “illegalità, corruzione” ed “espansione dell’influenza dei Talebani”.
Il caso della provincia meridionale di Helmand è emblematico del fallimento del progetto americano di stabilizzazione dell’Afghanistan a oltre 14 anni dall’invasione seguita agli attentati dell’11 settembre 2001. Un’indagine pubblicata settimana scorsa dal New York Times ha messo in luce come Helmand continui a fornire i due terzi dell’eroina prodotta in Afghanistan, paese da cui a sua volta proviene il 90% del totale consumato nel pianeta.
In questa provincia, per quest’anno non è in programma nessuna operazione per sradicare le coltivazioni della materia prima destinata alla produzione di eroina, il papavero da oppio, a causa dell’avanzata dei Talebani ma anche della corruzione “fuori controllo”.
La marcia indietro rispetto agli sforzi del 2014 e del 2015 è dovuta infatti principalmente proprio agli interessi economici che sostengono la coltivazione del papavero da oppio, la quale consente a molti uomini di potere, sia a livello locale che a Kabul, sia tra i Talebani che gli esponenti del governo, di intascare centinaia di migliaia, se non milioni, di dollari.
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di Michele Paris
Le primarie di martedì in Wisconsin per le presidenziali USA hanno segnato una prevista battuta d’arresto per i due candidati favoriti nella corsa alla Casa Bianca. Per quanto riguarda gli equilibri numerici in chiave nomination, la sconfitta di Donald Trump appare nettamente più pesante rispetto a quella incassata da Hillary Clinton, la quale continua però a mostrare evidenti punti deboli che vengono sfruttati in maniera sempre più frequente dal suo lanciatissimo rivale, Bernie Sanders.
Il senatore del Vermont ha ottenuto il 56,5% dei consensi nelle primarie dell’unico stato chiamato a votare martedì, lasciando all’ex segretario di Stato il 43,1%. Il margine di vantaggio di Sanders è stato ancora una volta superiore rispetto a quello previsto da molti sondaggi, la maggior parte dei quali lo stimava non troppo al di sopra dei 5 punti percentuali.
Se pure con un elettorato Democratico dalle caratteristiche che sembrano adattarsi perfettamente a Sanders, il Wisconsin non è uno stato marginale nella mappa politica degli Stati Uniti e la portata del suo successo può essere difficilmente sottostimata se si pensa allo status di super-favorita attribuito a Hillary da tutti i principali media americani e dai vertici del partito.
Sanders ha prevalso in 69 delle 72 contee in cui è suddiviso lo stato, così come nella città culturalmente più vivace - Madison - e in svariati centri industriali. Le rilevazioni fuori dai seggi hanno evidenziato come il veterano senatore abbia di nuovo stravinto tra gli elettori più giovani, tra i bianchi e quelli che considerano come temi elettorali più importanti le disuguaglianze di reddito e la crisi economica.
Forse per la prima volta dall’inizio delle primarie, poi, Sanders ha fatto registrare un chiaro vantaggio su Hillary tra gli afro-americani e gli appartenenti ad altre minoranze etniche, anche se limitatamente alle fasce di età più basse.
Il fattore che ha proiettato Sanders alla vittoria in Wisconsin e, più in generale, che gli ha permesso da tempo di scrollarsi di dosso l’etichetta di candidato marginale sembra essere in primo luogo lo spostamento a sinistra dell’elettorato americano, soprattutto quello tendenzialmente orientato a votare per il Partito Democratico.
A dimostrare questa evoluzione sono stati molti sondaggi negli ultimi mesi. Alcuni di essi hanno ad esempio rivelato la crescita consistente in questi anni del numero di elettori Democratici che si autodefiniscono “progressisti” o “molto progressisti”, se non addirittura “socialisti” o meglio disposti verso il socialismo rispetto al capitalismo.
Quello Democratico rimane e rimarrà peraltro un partito fortemente ancorato a determinate sezioni delle élite economico-finanziarie americane e contraddistinto da una drammatica deriva verso destra, sia che il “ticket” presidenziale presenti alla fine Hillary o Sanders. La mobilitazione popolare attorno a quest’ultimo e alla sua piattaforma elettorale di “sinistra” - sia pure non su tutte le questioni - indica però il diffusissimo desiderio di cambiamento in senso progressista tra le classi medio-basse che non possono trovare altre alternative nell’attuale sistema politico americano.
Il quasi totale sostegno per Hillary Clinton dell’establishment Democratico e della stampa che conta è la diretta conseguenza di questi fattori, soprattutto del timore non tanto dell’affidabile Sanders, per decenni sostanzialmente allineato all’ala “liberal” del partito, quanto per i chiarissimi segnali del radicalizzarsi dell’opposizione popolare contro il sistema.
Hillary e il suo staff, dunque, cominciano a mostrare le apprensioni che nutrono per la possibile rimonta di Sanders, ben conoscendo la vulnerabilità di una candidata guerrafondaia e legata a doppio filo a Wall Street e ai poteri forti negli USA. La ex first lady non è ad esempio apparsa in pubblico martedì sera dopo la chiusura delle urne in Wisconsin e mercoledì il sito di informazione Politico.com ha pubblicato un’intervista nella quale è apparsa a tratti spazientita dalla permanenza del rivale nella corsa, tanto da mettere in discussione la fedeltà di Sanders al Partito Democratico.
In termini numerici, comunque, Sanders ha ancora moltissima strada da fare per chiudere il divario di delegati da Hillary. Il successo di martedì gli ha infatti permesso di recuperarne appena una decina e di ridurre il margine a circa 230. Sanders ha però vinto sette delle ultime otto primarie (o “caucuses”) e già sabato si prospetta un nuovo successo in Wyoming che potrebbe dare al senatore un’altra spinta in vista delle sfide decisive dopo la metà di aprile, nonostante il numero totale dei delegati in palio in questo stato non arrivi a 20.
Cruciale sembra essere il voto del 19 aprile nello stato che mette a disposizione il numero maggiore di delegati dopo la California, quello di New York, per il quale Hillary ha servito al Senato di Washington. La Clinton è data attualmente in vantaggio e può contare come al solito sull’appoggio di tutto il potente apparato Democratico dello stato. Sanders, nativo di Brooklyn, spera però in un clamoroso sorpasso grazie all’entusiasmo generato dalle recenti vittorie e dal denaro che esse hanno fatto entrare nelle casse della sua campagna elettorale.
Nelle primarie per il Partito Repubblicano, Donald Trump ha dovuto incassare la sconfitta più pesante dal primo appuntamento a inizio febbraio in Iowa. Come in quel caso, anche in Wisconsin a batterlo è stato il senatore ultra-conservatore cristiano fondamentalista del Texas, Ted Cruz. L’esito del voto è stato piuttosto netto (48% a 35%, con il governatore dell’Ohio, John Kasich, fermo al 14%) e potrebbe avere frustrato in maniera definitiva le speranze di Trump di conquistare la maggioranza assoluta dei delegati e, quindi, la nomination al termine delle primarie.
Per i giornali americani, l’imprenditore miliardario dovrebbe infatti conquistare quasi il 70% dei delegati ancora da assegnare per evitare una battaglia alla convention Repubblicana di luglio, in programma a Cleveland, nell’Ohio. Se si dovesse arrivare senza un candidato in grado di giungere alla soglia dei 1.237 delegati necessari per ottenere automaticamente la nomination, tutti i votanti alla convention potranno in sostanza scegliere liberamente a chi assegnarla.
In uno scenario simile, al momento Trump sembra avere poche chances di prevalere, viste le manovre che i vertici del Partito Repubblicano e i suoi finanziatori stanno mettendo in atto per far naufragare la candidatura del favorito. Una campagna sostenuta da milioni di dollari in donazioni, assieme a una lunga serie di gaffes e controversie in cui si è venuto a trovare lo stesso Trump, hanno avuto un certo effetto nel rallentare la corsa di quest’ultimo.
L’apparato di potere Repubblicano, o quanto meno una buona parte di esso, è insomma disposto a rischiare una spaccatura nel partito e la diserzione dei sostenitori di Trump nelle presidenziali pur di impedire la sua presenza sulle schede elettorali a novembre. Allo stesso tempo, il partito sembra avere digerito l’ipotesi di candidare Cruz alla Casa Bianca, nonostante anch’egli non risulti particolarmente ben visto dai leader Repubblicani e sia attestato su posizioni decisamente estreme.
La profonda opposizione che Trump sta incontrando all’interno del suo stesso partito si spiega in parte con il suo atteggiamento più adatto a un uomo di spettacolo che a un politico e alle posizioni in odore di fascismo evidenziate durante la campagna elettorale. Un simile candidato, insomma, risulterebbe ineleggibile, col rischio di consegnare nuovamente la presidenza ai Democratici.
Questa spiegazione non esaurisce però le ragioni dello scontro sulla candidatura di Trump, tanto più che di candidati al limite del presentabile i Repubblicani ne hanno avuti molti, basti pensare a George W. Bush, o che talune sue “proposte” di estrema destra differiscono da quelle normalmente accettate dal resto del partito solo nelle modalità e nei toni con cui vengono esposte.
Trump, probabilmente, suscita preoccupazione tra l’establishment Repubblicano anche per la sua relativa indipendenza dai grandi centri economici e finanziari e, soprattutto, per avere ipotizzato alcune iniziative che contrasterebbero con le mire strategiche ben consolidate a Washington, come il ridimensionamento della NATO o la convivenza pacifica degli USA con Russia e Cina.
Che Trump riesca o sia intenzionato a seguire questa strada una volta alla Casa Bianca è comunque in fortissimo dubbio, come dimostra anche la scelta del suo team di consiglieri in materia di politica estera, fatto prevalentemente di “neo-con” e “falchi” dell’interventismo a stelle e strisce.
Anche Trump ha in ogni caso accusato il colpo martedì, visto che insolitamente non ha tenuto discorsi pubblici dopo il voto in Wisconsin, lasciando il commento sulle primarie a un breve comunicato che ha descritto Cruz come “peggio di un burattino” e “un cavallo di Troia usato dai capi del partito” per cercare di derubarlo della nomination.
Se l’obiettivo di chiudere il discorso nomination prima della convention sembra dunque allontanarsi, per Trump si tratta ora di accumulare il maggior numero di delegati in modo da scoraggiare clamorosi ribaltoni a Cleveland. Anche per lui l’appuntamento chiave nel breve periodo è rappresentato dalle primarie di New York, cioè il suo stato, dove continua a rimanere favorito.
Qui, però, Trump avrà tutto da perdere, dal momento che i nuovi scenari in casa Repubblicana lo costringeranno non solo a vincere ma addirittura a stravincere per cercare di arginare l’ondata di opposizione interna che rischia di travolgere la sua campagna.
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di Michele Paris
I preparativi per un nuovo intervento militare dell’Occidente in Libia, dopo le conseguenze disastrose dell’operazione di cambio di regime progettata e portata termine nel 2011, sembrano continuare senza sosta nonostante le difficoltà del cosiddetto “processo di pace” promosso dalle Nazioni Unite. Le operazioni nel paese nordafricano dovrebbero infatti iniziare solo dopo l’insediamento del governo di “unità nazionale”, nato con l’appoggio della comunità internazionale ma che fatica a raccogliere il consenso delle due entità che controllano la Libia e le milizie su cui esse poggiano il loro potere.
Il nuovo governo, o Consiglio Presidenziale, è stato creato a tavolino dai governi occidentali lo scorso dicembre ed è guidato dal “tecnico” Fayez al-Sarraj. I suoi membri sono giunti a Tripoli via mare dalla Tunisia settimana scorsa e hanno potuto installarsi nella capitale solo grazie al seguito di una massiccia scorta armata.
Come ha scritto lunedì la Reuters, il governo sostenuto dall’ONU ha subito cercato di “imporre la propria autorità ordinando il congelamento dei budget dei ministeri” e, soprattutto, assicurandosi la protezione di “una potente milizia armata”. Lo stesso governo aveva ottenuto anche l’appoggio formale dell’Autorità libica per gli Investimenti, della Corporazione Nazionale per il Petrolio e della Banca Centrale.
In segno di sostegno alla nuova compagine, martedì il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha fatto sapere che Parigi intende riaprire la propria rappresentanza diplomatica a Tripoli. Sempre martedì, l’inviato speciale dell’ONU per la Libia, Martin Kobler, ha incontrato a Tripoli i membri del Consiglio Presidenziale, dopo che solo alcune settimane fa gli era stato impedito di recarsi nel paese.
Se poi al momento “non si registrano reazioni violente da parte delle altre milizie”, la sorte del governo non appare comunque rosea. Il governo filo-occidentale che opera da Tobruk, nella parte orientale del paese, ha ad esempio detto di opporsi all’assunzione dei pieni poteri da parte del gabinetto di “unità nazionale” prima di un voto formale del proprio parlamento, come peraltro previsto dall’accordo mediato dalle Nazioni Unite.
Nel caso, però, il governo di Sarraj dovesse stabilire rapporti troppo stretti con le milizie attive a Tripoli e nella Libia occidentale, verrebbe visto da Tobruk come uno strumento di queste ultime, tanto da far saltare l’intero accordo voluto dall’ONU.
La situazione confusa e la fragilità del nuovo governo da poco giunto in Libia riflettono le manovre e gli interessi dei paesi che in Occidente lo hanno voluto. Questo organismo, finora senza praticamente alcun potere, ha cioè come unico scopo quello di ottenere almeno una parvenza di legittimità così da richiedere in maniera formale l’assistenza militare della NATO, ufficialmente per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS) e gli altri gruppi fondamentalisti che operano in Libia.
In altre parole, di fronte alla disgregazione di questo paese, dovuta precisamente al precedente intervento del 2011, i governi e le compagnie occidentali ritengono che i propri interessi in Libia possano essere difesi solo con una nuova presenza militare. Per fare ciò è indispensabile passare attraverso un processo apparentemente legale e motivato dalla necessità di garantire la sicurezza e la stabilità del paese.
Le milizie fondamentaliste che forniscono oggi la giustificazione - almeno a livello ufficiale - per un nuovo intervento militare esterno in Libia sono nate da quegli stessi gruppi sostenuti dai paesi NATO nel 2011 per abbattere il regime di Gheddafi e che, dopo avere contribuito con migliaia di combattenti alla guerra in Siria contro le forze di Assad, hanno rivolto in varie occasioni le armi verso i loro (ex) benefattori occidentali.
I preparativi per la guerra sono stati annunciati dal presidente americano Obama dopo un incontro avvenuto lunedì alla Casa Bianca con il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. Obama ha detto di essere certo che gli USA e i loro alleati possano “fornire un aiuto enorme per stabilizzare” la Libia, mentre Stoltenberg ha assicurato che la NATO “è pronta ad appoggiare il nuovo governo” di Tripoli.
Sempre lunedì, poi, il Washington Post ha spiegato come il Comando militare Africano degli Stati Uniti (AFRICOM) stia studiando “decine di obiettivi in Libia” che potrebbero essere colpiti dagli aerei da guerra americani ed europei, dalla città costiera di Sirte a Derna, entrambe roccaforti di gruppi estremisti e già colpite da aerei USA lo scorso autunno.
Il Pentagono, inoltre, “sta cercando di rafforzare il coordinamento tra le Forze Speciali americane e le loro controparti francesi e britanniche, le quali hanno stabilito piccole cellule sul campo” in Libia per mettere assieme “milizie amiche in grado di affrontare i combattenti estremisti”.
In questo contesto, sarebbe l’Italia a dover giocare un ruolo di primo piano, possibilmente con l’invio di un massimo di seimila uomini da impiegare sul territorio della ex colonia, anche se, aggiunge il Post, al momento non vi è ancora nessun impegno militare concreto né da parte americana né tra i paesi europei.
Se la propaganda di governi e parecchi media occidentali a favore di un nuovo intervento “umanitario” in Libia è creduta ormai da pochi, anche l’efficacia di un’eventuale invasione per stabilizzare il paese che fu di Gheddafi è in fortissimo dubbio. A conferma di ciò vi è, tra l’altro, la contrarietà o, quanto meno lo scetticismo, verso l’intervento NATO dei paesi vicini – Algeria, Egitto, Tunisia – teoricamente i più interessati a un miglioramento della situazione in Libia attraverso la presenza di soldati occidentali e una nuova campagna di bombardamenti aerei.
L’esempio del 2011 è d’altra parte ben impresso nella memoria di quanti hanno fatto le spese del disastroso intervento “umanitario” occidentale in Libia dopo la pianificazione della “rivoluzione” popolare anti-Gheddafi. Svariati analisti, infine, mettono in guardia dalla strategia preparata in Occidente e basata sulla creazione di legami e collaborazioni con determinate milizie armate, visto che rischierebbe di aggravare le divisioni interne al paese e alimentare ulteriori violenze.
Stati Uniti ed Europa, peraltro, vedono come una possibile soluzione al caos proprio la frammentazione della Libia, come ha spiegato il già ricordato articolo del Washington Post, da suddividere “in una rete di forze regionali o tribali” appoggiate da un governo centrale che eserciti un minimo di controllo sull’intero paese e che, soprattutto, un certo controllo sulle proprie risorse energetiche lo assicuri ai suoi sponsor occidentali.
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di Mario Lombardo
La pubblicazione di oltre 11 milioni di file relativi alle ricchezze depositate “offshore” dai potenti di tutto il mondo - o quasi - ha trovato in questo avvio di settimana un’eco molto ampia nei media e sui social network. Se le rivelazioni, che il giornale tedesco Süddeutsche Zeitung ha condiviso con svariate testate, hanno quanto meno il merito di mostrare i nomi di leader politici e imprenditori accostati a documenti che provano comportamenti moralmente riprovevoli, anche se non sempre illegali, per molti dei divulgatori la vicenda dei “Panama Papers” sembra avere una valenza tutta politica e serve a colpire i soliti presunti nemici dell’Occidente, a cominciare dal presidente russo, Vladimir Putin.
Emblematico, anche se tutt’altro che sorprendente, è in questo senso il caso del britannico Guardian. Già depositario di molte delle rivelazioni di Edward Snowden sull’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), il Guardian ha prodotto lunedì una serie di articoli, approfondimenti e accattivanti grafici per spiegare gli intrecci fatti emergere dai documenti provenienti dalla società di consulenza panamense Mossack Fonseca.
Il giornale britannico ha dedicato un intero pezzo a ricostruire gli intrighi di alcuni cittadini russi molto vicini a Putin, nonché di famigliari del numero uno del Cremlino, per insinuare in maniera esplicita che quest’ultimo beneficia di centinaia di milioni se non di miliardi di dollari parcheggiati in conti offshore.
I lettori dell’articolo firmato da Luke Harding si imbattono però da subito in una precisazione che, se pure non smonta totalmente le spiegazioni che seguono, lascia intendere in modo chiaro la tendenziosità delle conclusioni. Il nome di Putin, infatti, “non compare in un nemmeno uno dei documenti” analizzati.
Che l’onestà di Putin possa essere oggetto di discussione appare evidente; magari è solo più astuto o accorto di altri nel nascondere il proprio denaro in paradisi fiscali. Ma il punto è decisamente un altro: cioè che su congetture e ipotesi, i media europei e americani hanno costruito ancora una volta un impianto accusatorio nei confronti di un leader politico al centro delle mire dei fautori del cambio di regime in molte cancellerie occidentali.
D’altra parte, i precedenti del Guardian non promettono molto di buono circa la manipolazione di rivelazioni esplosive o presunte tali. Basti ricordare che nell’estate del 2013 i vertici del giornale londinese distrussero i supporti informatici contenenti i file consegnati da Snowden dietro pressioni dei servizi di sicurezza britannici. Ancora, il Guardian, malgrado avesse inizialmente pubblicato molti documenti segreti di WikiLeaks, conduce da anni una feroce campagna di discredito contro il suo fondatore, Julian Assange.
Il Guardian, in ogni caso, ricorda come Putin sia amico di Sergei Rodulgin, titolare di quote variabili di diverse compagnie, tra cui la Banca Rossiya, considerata l’istituto degli amici del presidente russo e colpita da sanzioni americane dopo lo scoppio della crisi ucraina. Sempre secondo il governo americano, il numero uno di questa banca, Yuri Kovalchuk, sarebbe il banchiere personale di molti membri del governo di Mosca, tra cui ovviamente Putin.
I Panama Papers rivelano come Kovalchuk e la sua banca abbiano favorito il trasferimento di almeno un miliardo di dollari verso una “entità offshore appositamente creata”, di nome Sandalwood Continental. I fondi proverrebbero da “una serie di prestiti senza garanzie” erogati dalla Banca Commerciale Russa (RCB), di proprietà statale, con sede a Cipro e da altri istituti finanziari pubblici.
L’articolo del Guardian elenca una serie di ulteriori prestiti e descrive l’utilizzo dei fondi da parte di compagnie offshore a favore di cittadini russi legati in qualche modo a Putin, per poi riproporre le speculazioni relative alla sua ricchezza, anche se il presidente russo formalmente non possiederebbe nulla o quasi.
Se il nome di Putin e la sua immagine sono apparsi in numerosi resoconti dei Panama Papers proposti dai media occidentali, ad esempio in Gran Bretagna pochi hanno parlato in maniera anche solo marginale di un altro leader tirato in ballo con modalità simili, vale a dire il primo ministro David Cameron. Sempre il Guardian, anzi, ha ricordato senza imbarazzo come il premier Conservatore in un discorso a Singapore lo scorso anno avesse denunciato il trasferimento di denaro in paradisi fiscali e manifestato la volontà del suo governo di prendere iniziative per contrastare la creazione di compagnie fasulle offshore.
Nei documenti appena pubblicati viene nominato il padre di Cameron, Ian, deceduto nel 2010, il quale una decina di anni fa si rivolse a Mossack Fonseca per evitare al suo fondo di investimenti, Blairmore Holdings, il pagamento delle imposte in Gran Bretagna. Tra i clienti di rilievo in Gran Brategna della società panamense che fornisce assistenza per la creazione di entità offshore figurano inoltre altri leader o finanziatori dei “Tories”, tra cui l’ex parlamentare Lord Ashcroft e l’ex ministro Michael Mates.
Qualche sospetto sulla diffusione delle informazioni sui paradisi fiscali è suscitato poi dalla dichiarazione, fatta ad esempio dal Guardian, che numerosi documenti messi a disposizione dei media continueranno a rimanere segreti. Le perplessità legate a questa decisione vanno collegate al fatto insolito, rilevato da molti sui social network, che negli 11,5 milioni di documenti sembra non esserci menzione di compagnie o politici americani.
La questione dei paradisi fiscali e delle compagnie offshore rappresenta comunque una problematica non nuova né sorprendente. Soprattutto però, qualsiasi rivelazione che serva a smascherare le modalità di queste pratiche, sempre che risulti completa e imparziale, non può essere separata da un’analisi delle responsabilità dei singoli governi e dei politici che, pur dichiarando guerra alle compagnie con domiciliazione fiscale sospetta, sono quanto meno passivi nel combatterle, visto che i beneficiari fanno parte fondamentalmente delle classi a cui essi fanno riferimento o, addirittura, sono di frequente essi stessi.
I Panama Papers, ad ogni modo, oltre a uomini della cerchia di Putin e al padre di Cameron, citano 12 capi di stato o primi ministri, sia ex che attualmente in carica, con interessi offshore. Tra quelli in carica spiccano i presidenti di Argentina, Mauricio Macri, e Ucraina, Petro Poroshenko, il primo ministro islandese, Sigmundur Gunnlaugsson, e il sovrano dell’Arabia Saudita, Salman. L’Italia è presente con Luca Cordero di Montezemolo, a dimostrazione che l’inutilità rende sempre.
A seguito delle rivelazioni, alcuni paesi hanno già annunciato l’avvio di indagini fiscali, più che altro per contenere eventuali malumori di chi le tasse le paga per intero. Le autorità di Australia e Nuova Zelanda si sono ad esempio mosse in questo senso lunedì dopo che i nomi di centinaia di loro cittadini sono emersi dai documenti. In Europa, invece, uno dei primi a promettere procedimenti giudiziari contro eventuali evasori è stato uno dei leader politici più impopolari tra quelli in carica nel continente: il presidente francese, François Hollande. Possono dormire tranquilli.
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di Michele Paris
Le speranze nutrite da Donald Trump di unificare il Partito Repubblicano attorno alla sua candidatura, nel caso fosse alla fine lui a conquistare la nomination nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti, hanno subito un altro duro colpo questa settimana in seguito a una serie di nuove gaffes e polemiche nelle quali si è trovato coinvolto il 69enne miliardario newyorchese.
Il segnale della crisi crescente che sta attraversando il partito è giunto però da una questione parzialmente separata e che rischia di produrre una grave spaccatura in vista della convention di Cleveland il prossimo mese di luglio. Martedì sera, in diretta televisiva, Trump si è rimangiato cioè l’impegno a sostenere qualsiasi candidato, che non sia lui, che verrà incoronato dal partito per sfidare i Democratici per la Casa Bianca.
Questa marcia indietro comporta anche la possibilità che, nel caso a prevalere sia uno dei suoi rivali o un candidato terzo, Trump si riservi di correre per la presidenza in maniera indipendente. Una simile ipotesi, visto il seguito consistente di elettori Repubblicani conquistato da Trump, implicherebbe quasi certamente la vittoria a novembre del candidato Democratico e, con buone probabilità, una scissione all’interno del partito.
Solo qualche settimana fa, nel corso di un dibattito a Detroit, Trump e gli altri pretendenti alla Casa Bianca - il senatore di estrema destra del Texas, Ted Cruz, il governatore “moderato” dell’Ohio, John Kasich, e il senatore della Florida in seguito ritiratosi dalla competizione, Marco Rubio - avevano tutti assicurato che avrebbero dato il loro appoggio al candidato nominato.
Cruz e Kasich hanno così a loro volta lasciato intendere che Trump potrebbe non ottenere il loro sostegno nel caso riuscisse a mettere le mani sulla nomination, anche se le dichiarazioni di entrambi in proposito sono state più caute rispetto a quelle dell’attuale favorito. Cruz ha fatto riferimento agli attacchi dei giorni scorsi portati da Trump a sua moglie e alla sua famiglia per dimostrare l’impossibilità a sostenerlo, mentre Kasich ha spiegato che il partito non dovrebbe appoggiare un candidato che “divide e danneggia il paese”.
Le prese di posizione dei due inseguitori di Trump nella sfida in casa Repubblicana sono la più recente manifestazione delle manovre in atto per impedire del tutto a quest’ultimo di ottenere il numero di delegati necessario ad assicurarsi la nomination. Vista la quasi impossibilità per Cruz e Kasich di superare Trump e raccogliere i 1.237 delegati necessari a chiudere ogni discorso, l’obiettivo di una buona parte del partito è quello di giungere a una convention divisa o “contestata”.
La strategia, in altre parole, è quella di impedire a Trump di ottenere la maggioranza assoluta dei delegati al termine delle primarie e forzare una seconda votazione alla convention, nella quale i membri del partito avrebbero la facoltà di scegliere un qualsiasi candidato a loro gradito senza essere vincolati ai risultati elettorali.
Con questo scenario in mente, qualche giorno fa Marco Rubio ha chiesto al comitato nazionale del partito e a quelli dei singoli stati di obbligare i 171 delegati conquistati nelle primarie a votare per lui nella votazione d’apertura della convention, nonostante si sia ritirato dalla corsa. Di norma, i delegati di candidati che hanno abbandonato la competizione non hanno vincoli di voto alla convention e sono generalmente a disposizione del migliore offerente. La mossa di Rubio intende perciò privare Trump di un numero consistente di voti alla prima e per lui decisiva votazione per l’assegnazione della nomination.
L’aria di crisi che rischia di avvolgere la convention Repubblicana di luglio era già stata prefigurata un paio di settimane fa dallo stesso Trump, il quale aveva ipotizzato una sorta di rivolta nel caso gli fosse sottratta la nomination. In verità, in assenza di un candidato con la maggioranza assoluta dei delegati, convention divise si sono verificate più volte in passato per entrambi i principali partiti americani. Lo svincolo dei delegati dopo la prima votazione è inoltre una regola consolidata che ha già premiato candidati alla Casa Bianca diversi da quelli in vantaggio dopo le primarie.
Le manovre dirette contro Trump sono ad ogni modo favorite dalle controversie che egli stesso contribuisce a creare, facendo appunto il gioco dei vertici di un partito che ritiene pressoché impossibile riconquistare la Casa Bianca con un candidato simile.
Critiche molto accese sono piovute ad esempio su Trump questa settimana dopo un’uscita nel corso di un’intervista al network MSNBC sul diritto all’aborto. Trump, dopo avere ribadito la sua contrarietà alle interruzioni di gravidanza, ha affermato che, se l’aborto fosse messo fuori legge negli USA, le donne che dovessero ricorrervi illegalmente dovrebbero essere punite in qualche modo.
La dichiarazione è stata subito condannata da abortisti e anti-abortisti. Tra questi ultimi sono intervenuti anche i due rivali di Trump - Cruz e Kasich - i quali hanno proposto la tradizionale posizione altrettanto reazionaria prevalente tra i Repubblicani, cioè che a pagare le conseguenze di pratiche abortive eventualmente illegali dovrebbero essere i medici e non le donne incinte.
Trump, da parte sua, ha ritrattato poco più tardi, allineandosi alle posizioni del partito e rispondendo anche alle accuse di quanti hanno ricordato come in passato si fosse detto a favore dell’interruzione di gravidanza. Nel corso di un evento sponsorizzato dalla CNN, Trump ha spiegato di avere cambiato idea sull’aborto, seguendo un percorso simile a quello di Ronald Reagan, dapprima favorevole da governatore della California e poi oppositore alla Casa Bianca.
Dopo l’aborto, mercoledì Trump è tornato sulle torture come arma a suo dire legittima per la promozione degli interessi americani. Uno dei problemi per il governo di Washington sarebbe per lui l’esistenza della Convenzione di Ginevra, le cui “leggi e regole” rendono i soldati USA “timorosi di combattere”.
Sia sulla questione dell’aborto sia su quella relativa alle torture dei prigionieri, la grande maggioranza del Partito Repubblicano è peraltro su posizioni non dissimili da quelle di Trump, basti pensare all’ampio sostegno per i crimini dell’amministrazione Bush nella “guerra al terrore” e all’opposizione all’indagine della ex maggioranza Democratica al Senato sugli interrogatori dei sospettati di terrorismo da parte della CIA.
Un altro guaio per Trump è stato registrato martedì con l’incriminazione formale in Florida del numero uno della sua campagna elettorale, Corey Lewandowski, accusato di percosse nei confronti di una giornalista del sito di informazione di destra, Breitbart News, durante un comizio. I guai legali di Lewandowski sono aggravati dai filmati che hanno ripreso lo scontro e si aggiungono ai numerosi episodi di maltrattamenti, se non vere e proprie violenze, contro contestatori di Trump in vari eventi pubblici durante le primarie.
L’emergere di Donald Trump come favorito per la nomination sta dunque accelerando quello che sembra a tutti gli effetti un processo di disintegrazione del Partito Repubblicano, esposto alle conseguenze di decenni caratterizzati dalla promozione di forze di estrema destra e al limite del fascismo da parte di tutto il panorama politico americano.
La reazione dell’establishment Repubblicano al successo di Trump sembra però iniziare a dare i primi frutti, tanto da rendere paradossalmente ancora più confuse le prospettive per la convention dell’estate e il voto di novembre.
I sondaggi diffusi in questi giorni per il prossimo appuntamento delle primarie, in programma martedì in Wisconsin, indicano Ted Cruz - candidato ugualmente non troppo ben visto dalla dirigenza Repubblica e attestato su posizioni non meno reazionarie di Trump - in vantaggio di una decina di punti percentuali sul favorito e di quasi 20 su Kasich.
Il dato, se corrispondente alla realtà, appare ancora più rilevante se si considera che la composizione dell’elettorato di questo stato del Midwest non sembrerebbe particolarmente adatto a un candidato fondamentalista cristiano come il senatore del Texas.
A sottolineare la gravità delle divisioni tra i Repubblicani o, meglio, tra i leader e una buona parte dell’elettorato, c’è infine un fatto estremamente insolito per il “frontrunner” del partito a questo punto della competizione. In Wisconsin, cioè, non un solo membro del partito che ricopra una carica elettiva ha finora manifestato ufficialmente il proprio appoggio per Donald Trump.