di Michele Paris

Il bombardamento dell’ospedale di Medici Senza Frontiere (MSF) in Yemen il giorno di Ferragosto è stato l’ennesimo crimine di guerra commesso dalla “coalizione” militare guidata dall’Arabia Saudita in questo paese. Come ha spiegato l’organizzazione umanitaria francese, le coordinate GPS della struttura erano state comunicate chiaramente a tutte le parti impegnate nel conflitto, così che la strage che ha fatto almeno 11 vittime e una ventina di feriti è quasi certamente da considerarsi deliberata.

Le forze armate saudite e i loro alleati sono invischiati da quasi un anno e mezzo in una guerra sanguinosa per reinstallare il presidente-fantoccio dello Yemen Abd Rabbu Mansour Hadi. Quest’ultimo e il suo governo erano stati costretti alla fuga in seguito all’avanzata dei “ribelli” Houthi sciiti che chiedevano una maggiore partecipazione dei rappresentanti della loro etnia nel governo del paese.

Quella che era stata lanciata come una guerra di breve durata  si è trasformata ben preso in un pantano segnato da migliaia di vittime civili, ma anche da perdite talvolta pesanti per i sauditi. Riyadh considera di importanza fondamentale la presenza di un regime favorevole ai propri interessi nel vicino Yemen. La presa del potere da parte degli Houthi, collegati da Riyadh in maniera sbrigativa all’Iran, ovvero l’arcinemico regionale dell’Arabia Saudita, era stata vista perciò con estremo allarme nel regno sunnita, dove è oltretutto presente una forte e inquieta minoranza sciita.

La guerra in Yemen ha finora causato, secondo le stime ufficiali, quasi 7 mila morti tra la popolazione civile, mentre i bombardamenti della “coalizione” internazionale hanno distrutto gran parte delle infrastrutture civili - inclusi ospedali e scuole - di quello che già in tempo di pace era il più povero dei paesi arabi.

Le bombe saudite hanno spesso preso di mira in maniera deliberata obiettivi di nessuna importanza militare, al preciso scopo di terrorizzare e piegare la resistenza della popolazione e, in particolare, degli appartenenti alla minoranza sciita.

Portavoce di MSF hanno ricordato come la distruzione lunedì dell’ospedale situato nella provincia settentrionale di Hajjah abbia seguito altri tre episodi di questo genere che avevano interessato strutture gestite dalla loro organizzazione in Yemen dall’inizio della guerra. Solo due giorni prima, le forze saudite avevano inoltre ucciso dieci studenti di una scuola nella provincia settentrionale di Saada, controllata dagli Houthi.

Le immagini delle macerie e delle vittime del più recente bombardamento sono state riportate dai media di tutto il mondo e hanno spinto il regime saudita ad aprire un’indagine per fare luce sull’accaduto. Come nei casi precedenti, tuttavia, l’iniziativa non darà alcun esito. La distruzione di un altro ospedale di Medici Senza Frontiere lo scorso mese di ottobre venne ad esempio giustificata dai sauditi con l’utilizzo della struttura come base militare da parte dei “ribelli” Houthi.

Mentre le vere o presunte operazioni contro i civili da parte delle forze russe o del regime di Damasco in Siria vengono duramente condannate da governi e media in Occidente, i crimini ben documentati dell’Arabia Saudita in Yemen sono tutt’al più oggetto di blandi comunicati che invitano alla cessazione delle ostilità e a cercare di risparmiare gli obiettivi civili.

Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno peraltro condannato più volte i crimini commessi da entrambe le parti in guerra. Secondo le Nazioni Unite, però, le forze guidate dall’Arabia Saudita sono responsabili della maggior parte delle vittime civili in Yemen, tra cui più del 60% dei bambini uccisi dall’inizio del conflitto.

Se le responsabilità del massacro di lunedì in Yemen sono da attribuire interamente al regime saudita, non vanno dimenticate quelle degli Stati Uniti e degli altri governi che appoggiano sostanzialmente la guerra in questo paese. L’amministrazione Obama è con ogni probabilità preoccupata per i riflessi destabilizzanti del protrarsi delle operazioni militari saudite in Yemen. Tuttavia, Washington continua quanto meno a garantire appoggio logistico e assistenza a Riyadh nell’individuare i bersagli da colpire in territorio yemenita, senza contare le massicce forniture di armi.

Gli Stati Uniti operano inoltre da anni un programma di bombardamenti con i droni in Yemen, ufficialmente per eliminare affiliati ad Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), che ha fatto anch’esso un numero imprecisato di vittime civili.

La posizione americana spiega dunque il comunicato estremamente cauto emesso dal Dipartimento di Stato dopo la distruzione dell’ospedale di MSF. Non solo, la mancata condanna della strage del regime saudita dipende anche dal fatto che le stesse forze USA hanno commesso alcuni mesi fa un identico crimine a quello dell’alleato saudita.

A ottobre, cioè, un aereo da guerra americano aveva colpito una struttura dell’organizzazione umanitaria francese a Kunduz, in Afghanistan, uccidendo 42 civili innocenti. L’incursione era durata più di un’ora nonostante membri di MSF avessero contattato immediatamente il comando americano per chiedere di fermare i bombardamenti.

Anche in quell’occasione, l’indagine interna del Pentagono servì fondamentalmente a impedire che fosse fatta luce sulla verità e, come nel caso dei sauditi in Yemen, a sottrarre i responsabili da una più che legittima accusa per crimini di guerra.

di Michele Paris

La visita di questa settimana del presidente turco Erdogan in Russia ha segnato simbolicamente il riavvicinamento tra due paesi le cui relazioni erano precipitate solo pochi mesi fa a causa dei diversi obiettivi nel conflitto siriano. Quello di Erdogan è anche il primo viaggio all’estero dal fallito colpo di stato del 15 luglio scorso e si inserisce appunto in una fase di riallineamento strategico del proprio paese che sta mettendo in serio allarme gli alleati occidentali.

L’incontro tra Putin e Erdogan a San Pietroburgo è stato seguito dalle parole di entrambi i leader con le quali hanno tenuto a sottolineare la “normalizzazione” in corso dei rapporti bilaterali. Russia e Turchia avevano toccato probabilmente il punto più basso nelle loro relazioni dopo l’abbattimento nel novembre scorso di un velivolo da combattimento di Mosca al confine con la Siria da parte di un jet di Ankara.

Quell’episodio aveva spinto il Cremlino ad adottare provvedimenti economici punitivi contro la Turchia, così che gli scambi commerciali erano crollati di oltre il 60% nei primi mesi del 2016, mentre lo stop dei turisti russi si era concretizzato in un altro danno da centinaia di milioni di dollari per Ankara.

Già dal mese di giugno era apparsa però evidente la volontà di Erdogan di ristabilire relazioni amichevoli con la Russia. Ciò era dovuto in larga misura al deteriorarsi dei rapporti con l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti. Tra Turchia e USA persistono differenti vedute circa le modalità con cui giungere al rovesciamento del regime siriano.

Washington, ad esempio, continua a considerare i curdi siriani come alleati, mentre per Ankara il rafforzamento delle milizie appartenenti a questa etnia che operano oltre il confine meridionale rappresenta una minaccia esistenziale all’unità del paese, dal momento che esse sono considerate tutt’uno con il PKK, attivo sul fronte interno.

L’amministrazione Obama, che pure non si fa scrupoli nell’appoggiare formazioni armate jihadiste in Siria, ha inoltre espresso ripetutamente il proprio malcontento per il sostegno più o meno aperto garantito dalla Turchia all’ISIS.

In questo scenario, il tentato golpe del luglio scorso ha impresso un’accelerazione alla riconciliazione tra Russia e Turchia. Le vicende seguite al tentativo di rimuovere e, probabilmente, assassinare Erdogan da parte di alcune sezioni dell’esercito turco hanno chiarito come gli Stati Uniti abbiano avuto un ruolo nella rivolta o, quanto meno, l’abbiano vista con favore e come un’occasione per installare ad Ankara un regime più affidabile e disposto ad abbandonare il percorso di riavvicinamento a Mosca.

Se la visita di Erdogan a San Pietroburgo era programmata da prima del tentato colpo di stato, è difficile non accostare l’immagine dei due presidenti a colloquio con le rivelazioni emerse dopo il 15 luglio sulle informazioni trasmesse da Mosca al governo legittimo di Ankara circa l’imminenza di una sollevazione tra le file dell’esercito.

Ad ogni modo, i segnali di Erdogan agli Stati Uniti e all’Europa sullo stato delle loro relazioni sono stati abbastanza chiari nelle ultime settimane, soprattutto in merito alla richiesta di estradizione del leader islamico moderato, Fethullah Gulen, in esilio volontario negli USA e accusato da Ankara di avere organizzato il golpe.

In un’intervista concessa alla televisione pubblica russa, Erdogan nei giorni scorsi ha parlato della necessità di aprire una “nuova pagina” nelle relazioni bilaterali e, in maniera cruciale, ha sottolineato il ruolo decisivo di Mosca nella risoluzione della crisi in Siria. Proprio in quest’ultimo scenario verrà messa alla prova la solidità dell’impegno dei due presidenti, assieme alla risposta occidentale alla svolta strategica di Ankara.

Il governo turco ha già lasciato intendere di essere pronto a ristabilire contatti con Damasco e, ancora una volta, se questo è il reale intento di Erdogan si vedrà probabilmente a breve, visto lo stato della battaglia per Aleppo che sta portando le forze russe sempre più vicino ai confini con la Turchia.

L’evolversi della situazione in Medio Oriente crea ovviamente parecchi grattacapi agli Stati Uniti, dove i media e il governo stanno cercando, a livello ufficiale, di minimizzare la pace ritrovata tra Putin e Erdogan o di collocarla in un contesto segnato dal presunto isolamento dei due leader. Isolamento, peraltro, poco evidente nel caso di Erdogan, come ha dimostrato ad esempio la recente manifestazione oceanica tenuta in Turchia per condannare il tentato golpe del 15 luglio.

Lo scivolamento di Ankara verso Mosca infliggerebbe danni incalcolabili agli USA e alla NATO principalmente su due fronti: quello relativo allo sforzo per accerchiare e ridurre il peso internazionale della Russia e alla guerra orchestrata in Siria per rovesciare il regime di Assad. La prima preoccupazione, ovvero la più importante in prospettiva futura, ha trovato conferma martedì a San Pietroburgo con l’annuncio della ripresa dei progetti di costruzione del gasdotto “Turkish Stream” che dovrebbe portare il gas russo in Europa meridionale attraverso il Mar Nero e la Turchia.

Lo stop a questo piano, deciso da Putin in alternativa al naufragio del “South Stream”, era arrivato con il gelo dei rapporti tra Mosca e Ankara ed era stato salutato da molti in Occidente come un passo decisivo nel ridurre l’importanza della Russia per il mercato energetico europeo.

La ritrovata sintonia tra Putin e Erdogan ha incontrato generalmente l’ostilità della stampa e degli ambienti di potere in Occidente, i quali peraltro già dopo il golpe mancato avevano attaccato il governo turco per le epurazioni e il consolidamento del potere nelle mani del presidente. Non tutte le reazioni sono state però su questi toni.

Il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, è stato tra quelli che hanno valutato positivamente l’incontro di San Pietroburgo, nonostante la conferma del ruolo della Turchia come partner fondamentale per la NATO. Il leader Social Democratico ha poi riconosciuto che la pace in Siria non potrà essere raggiunta senza il contributo della Russia.

La presa di posizione di Steinmeier rappresenta il punto di vista di quanti in Europa, malgrado l’allineamento ufficiale alle posizione americane, auspicano il ritorno a relazioni cordiali con la Russia, anche se ciò dovesse comportare un relativo ridimensionamento del rapporto con gli USA o la stessa NATO. Il capo della diplomazia di Berlino, d’altra parte, nel mese di giugno aveva criticato pubblicamente le provocazioni contro la Russia da parte dei membri dell’Alleanza nei paesi dell’est europeo.

Le nuove scelte strategiche di Erdogan, in definitiva, non nascono dal nulla o da una sua attitudine all’imprevedibilità e allo scontro, ma sono piuttosto il riflesso della sconsiderata politica estera americana in Medio Oriente, oltre che del ripensamento della fallimentare strategia del governo dell’AKP nella regione.

Quel che è certo, come ha dimostrato il tentato colpo di stato, è che Washington non intende stare a guardare passivamente gli sviluppi che riguardano un partner indispensabile come la Turchia. E la risposta americana al riallineamento strategico in atto non potrà che essere fatta, come sempre, di nuove provocazioni, maggiore destabilizzazione degli scenari mediorientali e un rinnovato impegno militare, soprattutto dopo che saranno mandate in archivio le elezioni presidenziali del prossimo mese di novembre.

di Michele Paris

La campagna per la Casa Bianca di Donald Trump è precipitata nel caos in questi ultimi giorni in seguito all’ennesima serie di controversie che hanno coinvolto il candidato Repubblicano. L’impreparazione di Trump, sommata a tendenze fascistoidi e a un atteggiamento pericolosamente impulsivo, ha scatenato il panico nel partito, aggiungendosi ai continui attacchi da destra portati da Hillary Clinton e dai Democratici a partire dalla loro convention chiusasi settimana scorsa a Philadelphia.

Tutti i giornali americani hanno dato spazio agli sfoghi e alla manifestazione dei timori di leader ed esponenti del Partito Repubblicano per l’incapacità evidenziata da Trump di evitare polemiche che rischiano di costargli voti o, quanto meno, una copertura mediatica costantemente negativa. Le frustrazioni sono accentuate dal fatto che Hillary, grazie soprattutto a Trump, è riuscita per il momento a superare senza particolari danni varie vicende che, in condizioni normali, avrebbero penalizzato in maniera pesante qualsiasi altro candidato.

Tra i Repubblicani la preoccupazione per la condotta del loro candidato alla presidenza ha raggiunto un livello tale che mercoledì sono iniziate a circolare voci su un possibile clamoroso ritiro dalla corsa di Trump. ABC News, ad esempio, ha descritto un partito già intento a studiare, se non una rosa di sostituti, almeno le modalità per favorire un’uscita di scena di Trump.

Inutile sottolineare che un simile scenario è del tutto straordinario, visto che Trump ha incassato la nomination ufficiale alla convention Repubblicana solo due settimane fa, mentre né lui né nessun membro del suo staff ha dato il minimo segnale di un possibile abbandono della competizione.

Il Comitato Nazionale Repubblicano è dovuto intervenire mercoledì per smentire le voci su possibili piani per rimpiazzare Trump e per confermare la fiducia del partito nell’attuale candidato. La sola necessità di emettere un comunicato ufficiale sulla questione sollevata dai media è però già di per sé una prova del caos che sembra dominare in casa Repubblicana.

I nuovi problemi per Trump erano iniziati settimana scorsa con le sue critiche, anche di stampo razzista, ai genitori del capitano dell’esercito di origine pakistana, Humayun Khan, ucciso in Iraq da un attacco suicida. Khizr e Ghazala Khan avevano a loro volta attaccato il miliardario newyorchese sul palco della convention Democratica per le sue proposte dirette contro i musulmani.

Le critiche, o gli insulti, di Trump avevano scatenato una valanga di condanne da entrambi gli schieramenti, anche perché il candidato Repubblicano era tornato più volte sulla questione senza accennare a un abbassamento dei toni. La macchina dei media “mainstream” ha ovviamente cavalcato e amplificato la polemica, tralasciando qualsiasi critica del conflitto in Iraq, appoggiato in pieno nel 2003 da Hillary Clinton, e sfruttando l’occasione per celebrare ancora una volta il militarismo americano.

L’apparizione dei coniugi Khan a Philadelphia era stata inoltre una manovra studiata a tavolino dai vertici Democratici, come hanno confermato le notizie apparse successivamente sui legami dello studio legale per il quale lavorava il padre del capitano ucciso in Iraq con la famiglia Clinton e il loro partito.

Nel pieno di questa controversia, Trump si è poi gettato in un altro ginepraio. Martedì, in un’intervista al Washington Post, si è cioè rifiutato di dare il proprio sostegno ufficiale a due pezzi grossi del partito impegnati nelle primarie Repubblicane nel mese di agosto, il senatore dell’Arizona, John McCain, e lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan. Entrambi avevano criticato Trump dopo le sue dichiarazioni sui genitori del capitano Khan.

Un commento della testata on-line Politico ha fatto notare come un affronto a Ryan da parte di Trump potrebbe avere conseguenze “devastanti” per la sua campagna. Infatti, ciò potrebbe “spezzare la fragile pace che Priebus [il segretario del Partito Repubblicano] e altri si sono adoperati per negoziare tra il partito e il suo candidato”. Quello di Ryan è d’altra parte “l’endorsement Repubblicano più prezioso ottenuto da Donald Trump”.

Ryan aveva appoggiato la candidatura di Trump dopo molte incertezze, ma la sua mossa aveva contribuito a farlo accettare, sia pure in maniera riluttante, a una buona parte del partito. Che questa tregua sia però a rischio è ora evidente da dichiarazioni come quella dell’ex deputato Repubblicano Vin Weber, già stretto collaboratore dell’ex “speaker” della Camera Newt Gingrich, il quale ha definito la nomination di Trump “un errore di proporzioni storiche”.

Lo stesso Gingrich ha parlato di tendenze “auto-distruttive” di Trump, dicendosi poi tutt’altro che certo che i problemi manifestati fin qui dalla sua campagna siano risolvibili. Proprio l’ex “speaker”, secondo la NBC, assieme all’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, e al numero uno del Comitato Nazionale Repubblicano, Reince Priebus, potrebbe essere messo a capo di un team con l’incarico di “salvare” la candidatura di Trump, cercando di modificarne il corso.

Lo staff di quest’ultimo ha smentito l’esistenza di un piano simile, ma qualche timido tentativo di riparare i danni dei giorni scorsi si è intravisto. In questo senso può essere inteso l’appoggio a Ryan nelle primarie del Wisconsin di martedì prossimo espresso dal candidato alla vice-presidenza, Mike Pence. Il governatore dell’Indiana ha anzi sostenuto di avere preso la decisione su consiglio di Trump.

Le scosse provocate nel Partito Repubblicano dalla nomination di Trump sono comunque innegabili. A poco più di tre mesi dal voto le defezioni iniziano ad assumere un ritmo preoccupante. Questa settimana, il deputato dello stato di New York, Richard Hanna, è stato il primo membro Repubblicano del Congresso a dichiarare il proprio sostegno a Hillary Clinton. Poco più tardi, anche il deputato dell’Illinois e veterano dell’aeronautica militare, Adam Kinzinger, ha dichiarato di non potere accettare la candidatura di Trump.

Hillary ha ottenuto inoltre l’appoggio di tre donne influenti negli ambienti Repubblicani: le ex consigliere di Jeb Bush e del governatore del New Jersey Chris Christie, rispettivamente Sally Bradshaw e Maria Comella, e la presidente e amministratrice delegata di Hewlett Packard, nonché candidata senza successo a governatrice della California nel 2010, Meg Whitman.

L’appoggio di quest’ultima a Hillary è solo il più recente espresso per la candidata Democratica da ricchi finanziatori Repubblicani e da ex membri di amministrazioni ugualmente Repubblicane con competenze nell’ambito della “sicurezza nazionale”. Questa tendenza conferma che l’ex segretario di Stato è considerata più affidabile per la promozione degli interessi dell’imperialismo americano rispetto a Trump.

Il candidato Repubblicano continua infatti a essere attaccato da destra da Hillary e dai suoi sostenitori per avere espresso posizioni troppo concilianti nei confronti della Russia e del presidente Putin, ma anche perplessità sul ruolo della NATO. Le posizioni di Trump in politica estera, anche se spesso confuse ed evidentemente soggette a un’inversione di rotta in caso di successo nelle presidenziali, sono una delle ragioni principali dell’ostilità che sta incontrando nel suo stesso partito.

In ogni caso, benché i sondaggi più recenti indichino un costante vantaggio di Hillary Clinton su scala nazionale, la forbice tra i due candidati alla Casa Bianca non appare eccessivamente ampia se si considera la lunga lista di gaffe commesse da Donald Trump.

Il suo scontrarsi con l’establishment Repubblicano, i media ufficiali e la famiglia Clinton, assieme alla capacità di cavalcare le frustrazioni nei confronti del sistema di una parte - quella più disorientata - delle classi maggiormente colpite dal declino economico degli Stati Uniti, non è detto che rappresenti un impedimento alla sua corsa alla presidenza. Hillary è d’altra parte l’essenza stessa dello status quo di Washington e rimane una delle figure più disprezzate di tutto il panorama politico americano.

Forse proprio queste dinamiche aiutano a inquadrare l’unica notizia positiva arrivata per Trump negli ultimi giorni, quella relativa alle finanze della sua campagna. Dopo gli stenti dei mesi scorsi, a luglio l’organizzazione di Trump e il Comitato Nazionale Repubblicano hanno fatto segnare un’impennata delle donazioni, salite a 80 milioni di dollari, contro i 90 raccolti da Hillary.

I dati indicano soprattutto un’esplosione delle donazioni fatte di importi modesti, decisamente insolite per il candidato di un partito notoriamente controllato da ricchi e super-ricchi, molti dei quali, infatti, in questa tornata elettorale hanno deciso di mettere le loro risorse a disposizione dell’aspirante Democratica alla Casa Bianca.

di Michele Paris

L’avvicendamento alla guida del governo britannico dopo il clamoroso esito del voto sulla “Brexit” sembra avere innescato un riallineamento strategico ed economico da parte di Londra che minaccia di azzerare gli sforzi dell’ex premier, David Cameron, e del suo Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, per inaugurare quella che è stata definita come “un’era dorata” nelle relazioni con la Cina.

Il segnale finora più chiaro della possibile inversione di rotta da parte del nuovo primo ministro, Theresa May, è giunto la settimana scorsa, con il rinvio dell’approvazione di un accordo per la costruzione di una nuova centrale nucleare in Gran Bretagna, da finanziare con capitali francesi e cinesi.

Il progetto del nuovo impianto era stato ideato più di un decennio fa, ma solo recentemente il governo Cameron aveva agito concretamente per accelerarne la realizzazione. I lavori per la centrale dovrebbero iniziare nel 2019 e finire nel 2025. La costruzione e il finanziamento erano stati affidati per i due terzi alla compagnia francese EDF (Électricité de France), all’84,5% di proprietà pubblica, e il resto alla cinese CGN (China General Nuclear Corporation), anch’essa di proprietà statale.

La centrale dovrebbe chiamarsi “Hinkley Point C” e sorgere nel Somerset, nel sud-ovest dell’Inghilterra, a un costo complessivo di circa 18 miliardi di sterline e con una capacità di 3.200 megawatt, pari a circa il 7% del fabbisogno energetico britannico.

Il governo May ha sospeso la decisione sulla centrale con tempismo e modalità sospetti che hanno fatto infuriare sia la Francia sia la Cina. Il ministro dell’Energia, Greg Clark, aveva annunciato nella serata di giovedì scorso la volontà di studiare nuovamente il progetto e di esprimere un parere definitivo il prossimo autunno, nonostante per la mattina successiva fosse già stata organizzata una cerimonia sulla costa del Somerset che avrebbe dovuto fare da sfondo alla firma di un contratto vincolante tra le parti coinvolte.

Non solo, poche ore prima dell’annuncio del governo Conservatore, il consiglio di amministrazione di EDF aveva approvato con una maggioranza di 10 voti a 7 il progetto della centrale, superando forti riserve su costi e possibili problematiche tecniche.

La risposta cinese alla decisione del governo di Londra è stata affidata principalmente ai media ufficiali, come l’agenzia di stampa Xinhua, sul cui sito web è apparso questa settimana un commento nel quale si prospettano complicazioni nelle relazioni bilaterali e il possibile “ripensamento” degli investimenti di Pechino in Gran Bretagna. Per il governo cinese, la centrale di Hinkley Point risulta di estrema importanza. Il progetto, anche se in compartecipazione, è stato il primo di una compagnia cinese nel settore nucleare in Occidente e un’eventuale riuscita potrebbe garantire accordi simili in altri paesi.

Per molti commentatori, la centrale ha comunque buone possibilità di essere realizzata, visto lo stato avanzato dei piani di costruzione e il numero di posti di lavoro che essa offrirebbe in Gran Bretagna. Tuttavia, il rinvio della firma sul contratto è indubbiamente un segnale molto chiaro indirizzato da Londra a Pechino, cioè che il nuovo governo potrebbe non continuare a percorrere la stessa strada di quello precedente nei rapporti con la Cina.

La compagnia cinese CGN ha altri progetti in corso in Gran Bretagna e da essi potrebbe quindi vedersi esclusa se il governo May dovesse irrigidire le proprie posizioni nei confronti della Cina. Per la costruzione della centrale nucleare “Sizewell C”, nel Suffolk, CGN prevede una partecipazione del 20%, mentre l’80% sarebbe sempre della francese EDF. Le parti sono invertite invece per il progetto, sia pure ancora nelle primissime fasi, di “Bradwell B”, nell’Essex, dove CGN intende partecipare al 66,5% e fornire tecnologia cinese.

Il comportamento di Theresa May risponde ai timori di quanti, tra la classe dirigente britannica, ritengono che Cameron e Osborne siano andati troppo in là nell’offrire a un paese come la Cina il controllo di impianti e infrastrutture in settori sensibili come quello energetico.

Il precedente governo Conservatore aveva evidentemente suscitato parecchie perplessità in patria e non solo nel mettere in atto politiche che avevano fatto o ambivano a fare della Gran Bretagna il principale partner europeo di Pechino. Le frustrazioni di questi ambienti erano state in qualche modo espresse da un’insolita uscita della regina Elisabetta durante una visita a Londra del presidente cinese, Xi Jinping, nell’ottobre del 2015.

L’episodio, catturato da una telecamera e reso pubblico lo scorso maggio, era stato definito accidentale dai media britannici ma è in realtà apparso attentamente studiato per richiamare l’attenzione sia del governo Cameron sia di Pechino. La sovrana, nel corso di un ricevimento ufficiale, aveva cioè manifestato la propria insofferenza nei confronti della delegazione cinese, definendola “molto scortese” verso l’ambasciatore britannico.

Le scelte di Cameron avevano incontrato inoltre la disapprovazione anche del governo americano, risentito in particolare per la decisione di Londra nella primavera dello scorso anno di partecipare alla fondazione della Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti (AIIB) nonostante gli avvertimenti contrari di Washington. Questo organismo è stato lanciato dalla Cina principalmente per sostenere il colossale progetto di integrazione economica euro-asiatica promosso da Pechino e si pone in competizione con istituzioni come la Banca Mondiale o la Banca Asiatica per lo Sviluppo, tradizionalmente dominate dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

La decisione sulla centrale nucleare di Hinkley Point del governo May non è sorprendente se si considera l’attitudine del nuovo primo ministro verso la Cina. Ministro dell’Interno con Cameron per sei anni, Theresa May durante le riunioni di gabinetto aveva espresso in varie occasioni le proprie riserve sull’apertura di alcuni settori strategici del mercato britannico alle compagnie cinesi.

Accordi come quello siglato da British Telecom con il gigante Huawei avevano ad esempio messo in allarme l’allora ministro, il cui capo dello staff, Nick Timothy, nel pieno della visita del presidente cinese Xi dello scorso anno scriveva su un sito filo-Conservatore dei rischi per la sicurezza britannica derivanti dal controllo di impianti strategici nel settore energetico da parte di Pechino. Timothy descriveva la Cina come un “paese ostile”, mentre “il commercio e gli investimenti” con quest’ultimo, per quanto ingenti, non potevano giustificare il “facile accesso a infrastrutture cruciali” per la Gran Bretagna.

I sospetti della May nei confronti della Cina sono dovuti probabilmente ai noti legami stabiliti con l’apparato militare e dell’intelligence britannico. In un’intervista al Sunday Telegraph, Vince Cable, ex ministro Liberal Democratico nel governo di coalizione di David Cameron tra il 2010 e il 2015, ha recentemente rivelato i “pregiudizi” di Theresa May verso la Cina e, in particolare, per gli investimenti cinesi in Gran Bretagna.

Cable racconta ad esempio di come le riserve della May sull’allentamento delle restrizioni per l’ottenimento dei visti d’ingresso in Gran Bretagna da parte di uomini d’affari cinesi fossero state superate solo con l’intervento di Cameron e Osborne. In generale, spiega Cable, l’attuale primo ministro aveva un atteggiamento più sospettoso verso la Cina, “in linea con le posizioni americane”. Di conseguenza, anche la questione della centrale di Hinkley Point fu oggetto di critiche da parte della May quando questa venne discussa all’interno del gabinetto.

Per attenuare i contraccolpi della recente decisione sulla centrale nucleare, una portavoce del primo ministro ha affermato questa settimana che Londra intende “continuare a perseguire relazioni solide con la Cina”. L’intervento potrebbe essere giunto in risposta ai malumori all’interno del gabinetto, riportati ad esempio da un articolo del Financial Times che ipotizzava possibili dimissioni di Jim O’Neill, “addetto commerciale” del Tesoro, proprio a causa dell’approccio verso Pechino di Theresa May.

Le future decisioni del primo ministro in questo ambito potrebbero dunque avere conseguenze significative sulle scelte strategiche britanniche e nei rapporti tra Londra e Pechino. Il legame speciale tra i due paesi potrebbe indebolirsi, se non addirittura spezzarsi, ancora prima di essersi consolidato. Ciò risulterebbe particolarmente rilevante alla luce del peso degli affari conclusi o in fase di negoziazione con la Cina, ma anche della previsione, condivisa da molti, che la Gran Bretagna avrebbe perseguito politiche filo-cinesi in maniera più incisiva dopo essersi svincolata dall’Unione Europea con il voto a favore della “Brexit”.

Le divisioni nella classe dirigente britannica sulla vendita di industrie e infrastrutture strategiche a entità straniere si sono d’altra parte accentuate in questi anni e si sovrappongono inoltre alle scelte strategiche del paese in un frangente storico caratterizzato dall’inasprirsi della rivalità tra USA e Cina. Le iniziative dei governi Laburisti e Conservatori, secondo i dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica, hanno fatto in modo che investitori stranieri posseggano oggi compagnie del Regno per un valore di oltre mille miliardi di sterline.

Questa quota è salita di ben dieci punti percentuali solo tra il 2010 e il 2014 e, come scriveva il Daily Telegraph qualche mese fa citando lo stesso Ufficio di Statistica, è destinata ad aumentare ancora vista “la crescente internazionalizzazione della borsa di Londra e la facilità con cui gli stranieri possono ormai investire “ nel mercato britannico.

di Michele Paris

A pochi mesi dalla sua definitiva uscita di scena, il presidente americano Obama ha aggiunto questa settimana una nuova voce al suo già lungo elenco di guerre scatenate, ereditate o intensificate a partire dal 2009. I bombardamenti iniziati lunedì sulla città di Sirte, in Libia, per stessa ammissione del Pentagono segnano l’avvio di un’altra “campagna prolungata”, ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS), e sembrano rappresentare l’esito più appropriato del dibattito interno al Partito Democratico negli Stati Uniti durante e dopo la recente convention di Philadelphia, caratterizzata da un’impronta insolitamente patriottica e guerrafondaia.

A livello formale, l’intervento americano è stato richiesto dal primo ministro libico, Fayez al-Sarraj, dopo che le fazioni armate alleate del suo “governo di accordo nazionale” stanno combattendo da mesi gli uomini del “califfato” nella città dove Gheddafi era stato barbaramente assassinato nell’autunno del 2011. A Sirte, i militanti fondamentalisti avevano fissato il proprio quartier generale in Libia a partire dallo scorso anno e le loro postazioni erano già state colpite da sporadiche incursioni americane, tra cui la più recente, almeno tra quelle riconosciute ufficialmente, nel mese di febbraio.

L’inaugurazione della nuova campagna militare americana in Libia è stata accompagnata dalle solite manovre di propaganda che avevano segnato le precedenti avventure belliche all’estero. La giustificazione per l’intervento, ad esempio, è stata ancora una volta la necessità di combattere forze terroristiche come l’ISIS.

In realtà, il caos che sta vivendo Sirte e l’intera Libia è il risultato proprio del disastroso precedente intervento occidentale nel 2011 per rovesciare il regime di Gheddafi. Gli Stati Uniti e i loro alleati appoggiarono una “rivoluzione” immaginaria nel paese nord-africano, contando su gruppi di ispirazione apertamente fondamentalista.

Alla caduta di Gheddafi, mentre la Libia precipitava nell’anarchia e nelle violenze di innumerevoli milizie armate, la CIA avrebbe poi utilizzato il paese come base di partenza per uomini e armi diretti in Siria con l’obiettivo di replicare lo stesso schema destabilizzante ai danni del regime di Bashar al-Assad.

Questo piano, assieme al contributo degli alleati americani nel Golfo Persico, ha finito per favorire l’arrivo dell’ISIS in Libia, dove gli stessi Stati Uniti intendono ora consolidare la propria presenza attraverso un nuovo rovinoso conflitto.

La sconfitta dell’ISIS non è che un obiettivo tutt’al più secondario per Washington e la profondissima crisi in cui versa la Libia non sarà in nessun modo alleviata dalle bombe americane. L’intervento sembra piuttosto doversi collegare all’evoluzione del quadro mediorientale, segnato da sviluppi ben poco favorevoli agli USA, dal cambio di rotta strategico di Erdogan in Turchia ai successi delle forze russo-siriane contro i “ribelli” sostenuti dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo.

A questi eventi, l’amministrazione Obama intende rispondere in maniera tutt’altro che rassegnata. L’assurda logica dell’apparato militare americano prevede un’escalation bellica senza fine e, in quest’ottica, la guerra bis in Libia potrebbe essere solo l’inizio di una nuova accelerazione dell’impegno militare nell’immediato futuro, soprattutto in caso di successo di Hillary Clinton nelle presidenziali di novembre.

Ugualmente consolidate sono poi le modalità pseudo-legali con cui la nuova guerra è stata lanciata in seguito alla decisione del presidente Obama. Come l’intervento in Iraq e in Siria contro l’ISIS, anche i bombardamenti in Libia non sono stati autorizzati da un voto del Congresso, come previsto dalla Costituzione americana. La Casa Bianca ritiene d’altra parte che ciò non sia necessario, dal momento che ormai praticamente ogni missione di guerra sembra trovare un fondamento legale nella “Autorizzazione all’Uso della Forza” (AUMF), approvata dal Congresso nel 2001, per colpire i terroristi considerati responsabili degli attentati dell’11 settembre.

Ancora meno riguardo che per un Congresso tutto sommato compiacente, il governo americano lo ha mostrato nei confronti degli americani. I preparativi per l’offensiva su Sirte in Libia, anche se evidentemente in corso da tempo, non sono stati discussi o presentati pubblicamente, tantomeno prima, durante o dopo la convention Democratica.

Per bombardare l’ISIS in Libia, gli Stati Uniti hanno avuto inoltre bisogno di una richiesta d’aiuto proveniente dall’autorità governativa di questo paese. A livello formale ciò è avvenuto, ma il concetto di governo nella Libia odierna risulta alquanto sfumato. Il governo di unità nazionale del premier Sarraj è stato imposto dalle potenze straniere in seguito a un “accordo” mediato dalle Nazioni Unite per risolvere il conflitto tra due entità contrapposte che rivendicavano il diritto di governare e legiferare.

La stessa invenzione di un nuovo governo con pieni poteri aveva il preciso scopo di istituire un’autorità riconosciuta internazionalmente e con l’autorità di chiedere un intervento militare esterno in Libia, dapprima per far fronte all’emergenza rifugiati e più tardi alla minaccia dell’ISIS.

Dopo mesi dall’arrivo a Tripoli, il governo di Sarraj continua però a faticare a imporre la propria autorità e solo alcuni gruppi armati gli hanno assicurato il proprio sostegno. Gli stessi governi occidentali che lo hanno creato a tavolino mantengono - o hanno mantenuto fino a poco tempo fa - un atteggiamento ambiguo.

Alcune registrazioni relative al controllo del traffico aereo sulla Libia, ottenute dalla testata on-line Middle East Eye e pubblicate a inizio luglio, avevano rivelato come USA, Francia, Gran Bretagna e Italia insistevano nel garantire il loro appoggio alle forze del generale libico Khalifa Hiftar, nonostante a quest’ultimo fosse stato chiesto ufficialmente di riconoscere il nuovo governo installato a Tripoli.

Hiftar è un ex alto ufficiale dell’esercito di Gheddafi diventato dissidente e “asset” della CIA. Dopo la caduta del regime, il generale aveva lasciato l’esilio americano per tornare in Libia nel tentativo di imporsi come nuovo uomo forte nel caos provocato dall’intervento internazionale. Hiftar ha poi cominciato a svolgere un ruolo importante nel combattere le milizie islamiste nell’est del paese e proprio per questa ragione ha continuato a ottenere il supporto dei governi occidentali malgrado il suo rifiuto a sottomettersi al gabinetto guidato da Sarraj.

Secondo quanto dichiarato dai governi di Libia e Stati Uniti, infine, l’intervento militare di Washington si limiterà alle incursioni aeree, mentre non è previsto l’invio di truppe da combattimento. Lo stesso primo ministro ha assicurato che le operazioni “saranno limitate a Sirte e ai sobborghi della città” e il supporto internazionale sul campo sarà soltanto di natura “tecnica e logistica”.

Queste rassicurazioni hanno tuttavia poco o nessun valore, vista anche la totale dipendenza dall’Occidente del governo Sarraj, e servono solo a contenere l’ostilità della popolazione libica verso un nuovo intervento di forze straniere. Gli USA e i loro alleati stanno studiando infatti da tempo la possibilità di inviare un contingente militare di terra in Libia e, non appena saranno create le condizioni, ciò potrebbe avvenire senza troppi impedimenti da parte delle autorità locali.

D’altra parte, anche se clandestinamente, un certo numero di militari stranieri è presente da tempo in Libia, come ha confermato la notizia dell’uccisione di tre soldati delle forze speciali francesi in questo paese, annunciata dal presidente Hollande il 21 luglio scorso.

La vicenda aveva creato un certo imbarazzo a Parigi e aveva provocato la dura condanna da parte di quello stesso primo ministro Sarraj che, meno di due settimane più tardi, ha invocato le bombe americane sulla già martoriata città di Sirte.


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