di Mario Lombardo

Le notizie della guerra scatenata l’anno scorso dall’Arabia Saudita in Yemen sono tornate ad affacciarsi sui media di tutto il mondo in questi giorni dopo l’ennesima strage di civili commessa nel più povero dei paesi arabi dalle forze della “coalizione” guidata dal regime di Riyadh. Anche tra gli alleati dei sauditi, a cominciare dagli Stati Uniti, sta iniziando a diffondersi una certa preoccupazione per le conseguenze di un’avventura bellica che ha tutti i contorni di un colossale crimine di guerra.

Il doppio bombardamento effettuato sabato scorso su un funerale nella capitale yemenita, Sanaa, ha suscitato lo sdegno della comunità internazionale e un’ondata di manifestazioni di protesta nello stesso paese sotto attacco. L’incursione dell’aviazione saudita aveva provocato la morte di almeno 140 civili e il ferimento di altre 500 persone.

Impiegando una tattica raccapricciante a cui ricorrono spesso gli USA nell’operare gli attacchi con i droni in Pakistan, le forze di Riyadh hanno dapprima colpito la cerimonia, per poi tornare a bombardare lo stesso luogo una volta raggiunto dai soccorritori.

Alle proteste a Sanaa hanno partecipato decine di migliaia di yemeniti, infuriati non solo nei confronti dell’Arabia Saudita, ma anche degli alleati occidentali - USA, Gran Bretagna, Francia - che continuano a garantire supporto logistico e di intelligence alla monarchia wahabita nel conflitto in corso. La rabbia contro gli Stati Uniti è stata alimentata anche dalla diffusione di immagini di frammenti degli ordigni impiegati sabato, i quali riportavano codici che hanno rivelato la provenienza americana.

L’attacco di sabato aveva come obiettivo il ministro dell’Interno del governo dello Yemen guidato dalle forze ribelli “Houthi” sciite, contro cui combatte la “coalizione” saudita. Al di là dell’orrore per il massacro, in molti hanno fatto notare come il bombardamento possa risultare controproducente per Riyadh, visto che rischia di spingere un numero sempre maggiore di persone in Yemen a sostenere la resistenza Houthi.

L’Arabia Saudita era intervenuta militarmente in Yemen nella primavera del 2015 dopo la cacciata del presidente-fantoccio Abd Rabbuh Mansour Hadi. Quest’ultimo era stato eletto nel 2012 in un’elezione-farsa con un solo candidato e promossa da Washington e Riyadh per risolvere la crisi che aveva paralizzato il paese dopo le proteste esplose nell’ambito della cosiddetta “primavera araba”.

L’accordo prevedeva le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, a lungo utilizzato per i propri interessi dai due paesi con maggiore influenza sullo Yemen. Lo stesso Saleh e le fazioni delle forze armate del paese a lui fedeli si sarebbero poi schierate a fianco dei ribelli Houthi, a loro volta insorti contro il nuovo regime che aveva disatteso la promessa di integrarli nella gestione del potere.

L’intervento saudita ha anche implicazioni regionali, dal momento che Riyadh accusa gli Houthi di essere appoggiati dall’Iran, la cui influenza in Yemen sarebbe perciò intollerabile in un quadro di crescente ostilità tra le due principali potenze mediorientali.

Fin dall’inizio, la guerra in Yemen è stata caratterizzata da attacchi deliberati da parte dei sauditi contro obiettivi civili. Scuole, ospedali, mercati e altre strutture di nessuna importanza militare sono finiti sotto i bombardamenti, provocando ripetute stragi condannate dalle organizzazioni a difesa dei diritti umani, menzionate di sfuggita dai media e quasi sempre ignorate da quegli stessi governi occidentali che si dicono sconcertati dalle operazioni di Russia e Siria ad Aleppo.

Oltre alle bombe, la popolazione yemenita ha dovuto subire le conseguenze di un crudele blocco navale imposto dall’Arabia Saudita che impedisce l’ingresso nel paese di cibo e medicinali. Infine, il virtuale dissolvimento dell’autorità civile in Yemen ha permesso all’organizzazione integralista al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), da tempo in cima alla lista dei nemici dell’Occidente e dei regimi arabi, di guadagnare terreno nel paese.

Con il procedere del conflitto aumenta anche il rischio di un coinvolgimento ancora maggiore di altre potenze, come gli stessi Stati Uniti. Lunedì, due missili provenienti dal territorio controllato dagli Houthi sono stati lanciati contro la nave da guerra americana USS Mason che opera al largo delle coste dello Yemen nello stretto di Bab el-Mandeb. I missili sono finiti in mare ma il lancio conferma non solo la persistente capacità offensiva dei “ribelli” dopo oltre un anno e mezzo di guerra, ma anche che questi ultimi considerano gli USA interamente complici dell’aggressione militare contro il loro paese per ristabilire il governo del deposto presidente Hadi.

Proprio gli Stati Uniti si trovano in una posizione estremamente delicata in relazione allo Yemen. Il Pentagono e la CIA continuano a garantire assistenza ai sauditi, mentre il Congresso e la Casa Bianca non intendono interrompere il flusso di armi destinate all’alleato.

Il coinvolgimento americano rischia però di diventare sempre più imbarazzante dopo i recenti attacchi sauditi. Tanto più che il Segretario Generale uscente delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ha chiesto un’indagine internazionale sull’attacco di sabato scorso, criticando l’atteggiamento del regime saudita, il quale aveva inizialmente negato di essere responsabile del massacro nonostante non vi siano altre forze aeree attive nei cieli dello Yemen.

Martedì, poi, anche l’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha invocato un’indagine indipendente per crimini di guerra in Yemen, definendo “vergognoso” il bombardamento sul funerale a Sanaa.

Con l’aumentare delle pressioni internazionali, l’amministrazione Obama si è sentita in dovere di emettere almeno un comunicato relativamente critico nei confronti del regime saudita, assieme alla minaccia di “riconsiderare” l’appoggio ad esso assicurato nel conflitto in Yemen.

A Washington, d’altra parte, è in corso un dibattito interno sulla crisi in questo paese, con particolare attenzione alle possibili implicazioni dal punto di vista del diritto internazionale. Il governo americano teme cioè che la collaborazione con Riyadh nella guerra in Yemen possa portare ad accuse di crimini di guerra nei confronti dei vertici politici e militari di Washington.

La discussione nell’amministrazione Obama è stata raccontata da una esclusiva pubblicata lunedì dalla Reuters. Il lungo articolo evidenzia soprattutto l’ipocrisia del governo USA, preoccupato non tanto per i massacri di civili in Yemen, quanto di trovare un modo per continuare a conservare la partnership con l’Arabia Saudita nonostante i ripetuti crimini commessi dalla monarchia assoluta nella guerra in corso.

I consiglieri legali del governo americano sembrano non avere raggiunto una conclusione definitiva sulle possibili conseguenze legali dell’appoggio alla guerra criminale di Riyadh in Yemen. Allo stesso tempo, la Reuters elenca una serie di iniziative che gli USA avrebbero preso per evitare che le bombe saudite colpiscano obiettivi civili, come ad esempio la consegna alle autorità del regno di elenchi di strutture ed edifici off-limits alle incursioni aeree.

Evidentemente, queste precauzioni non hanno avuto nessuna efficacia. Né le stragi di civili né il rischio che membri del governo o dei vertici militari americani possano essere processati per crimini di guerra hanno comunque ostacolato la fornitura di ingenti quantità di armi a Riyadh.

A partire dal marzo del 2015, mese di inizio dell’aggressione saudita, gli USA hanno garantito al regime armi per oltre 22 miliardi di dollari, tra cui una fornitura da 1,29 miliardi approvata dal Congresso di Washington nel novembre scorso e destinata specificatamente a rimpiazzare munizioni e pezzi di artiglieria utilizzati nel conflitto in Yemen.

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