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di Mario Lombardo
La vigilia dell’annuale sessione dell’Assemblea del Popolo cinese è stata segnata questa settimana da un inquietante annuncio da parte del governo. Nei prossimi anni, cioè, le “riforme” economiche richieste dai mercati e dalle istituzioni finanziarie internazionali saranno accelerate e, in particolare, un certo numero di aziende statali verrà chiuso o ristrutturato, con la conseguente perdita di milioni di posti di lavoro.
La leadership del Partito Comunista Cinese (PCC) sta studiando da tempo l’ipotesi di ridimensionare le compagnie di proprietà dello stato, soprattutto quelle dell’industria pesante che in molti casi restano in vita solo grazie al supporto pubblico per il timore delle conseguenze sociali di eventuali licenziamenti di massa.
In un contesto segnato dal rallentamento dell’economia e dalle crescenti apprensioni per i livelli di indebitamento, il regime sembra essere ora intenzionato a non rinviare ulteriormente questa delicata decisione. Qualche giorno fa, il ministro per l’Occupazione e il Welfare, Yin Weimin, ha così comunicato che le riduzioni previste nei settori del carbone e dell’acciaio avranno effetti devastanti, con almeno 1,8 milioni di lavoratori che perderanno il loro impiego.
Questi numeri potrebbero essere addirittura sottostimati, verosimilmente per evitare agitazioni che già stanno riguardando l’industria cinese. Un articolo della Reuters ha infatti citato anonime fonti governative per rivelare che i tagli e le ristrutturazioni riguarderanno sette settori produttivi e comporteranno complessivamente la distruzione di circa sei milioni di posti di lavoro nei prossimi tre anni.
Il governo si è affrettato a rassicurare che queste perdite saranno “temporanee” e i disoccupati dell’industria pesante saranno assorbiti da altri settori, anche se, visto il numero di licenziamenti e gli stenti dell’economia, una simile prospettiva appare poco probabile.
Inoltre, Pechino ha stanziato 100 miliardi di yuan, pari a oltre 15 miliardi di dollari, per assistere i lavoratori licenziati. Anche in questo caso, come ritengono molti osservatori, l’elevato numero di industrie non competitive potrebbero rendere insufficiente l’impegno del governo.
Il moltiplicarsi di aziende “zombi” in Cina è legato in parte alla bolla speculativa seguita alla crisi globale del 2008 e prodotta dall’intervento governativo per stimolare l’economia del paese. In particolare, prestiti a bassissimo costo avevano alimentato un’ondata di nuove costruzioni di abitazioni e infrastrutture con riflessi inizialmente positivi sull’industria pesante.
Il persistere della stagnazione ha però alla fine determinato un rallentamento di queste attività, assieme a una preoccupante impennata dei livelli di indebitamento, ripercuotendosi non solo sull’industria domestica ma anche sulle economie di paesi esportatori di materie prime, come Brasile o Australia.
La situazione di molte aziende di stato cinesi è documentata ad esempio da alcuni dati proposti dal Financial Times, secondo il quale il 42% di queste ultime era in perdita nel 2013, mentre i profitti complessivi di tutto il settore pubblico l’anno scorso sono calati in termini assoluti per la prima volta dal 2001.
Le acciaierie, poi, hanno fatto registrare un eccesso di capacità produttiva pari a 327 milioni di tonnellate nel 2014 contro i 132 milioni del 2008. Dati simili contraddistinguono anche altri settori dell’industria pesante, come quello del cemento e della raffinazione.
Oltre alle conseguenze sui livelli occupazionali e sulla pace sociale, l’intervento del governo per ridimensionare le aziende di stato potrebbe farsi sentire negativamente anche sul settore bancario e finanziario, visto il massiccio indebitamento delle compagnie pubbliche cinesi e i timori già ampiamente diffusi per l’incremento dei cosiddetti “prestiti non performanti”.
Le iniziative che si prospettano in Cina si inseriscono nei piani di “riforma” in senso liberista dell’intero sistema economico che la leadership Comunista sta progressivamente implementando. Il prezzo che verrà pagato dai lavoratori cinesi, come conferma il recente annuncio dei licenziamenti di massa, sarà ancora una volta altissimo.
La stampa internazionale ha dato ampio spazio in questi giorni agli effetti già prodotti dalla transizione verso il capitalismo della Cina negli anni Novanta. In quell’occasione, una raffica di privatizzazioni e ristrutturazioni di compagnie pubbliche causò la perdita di qualcosa come 40 milioni di posti di lavoro, in gran parte nei settori manifatturiero e dell’industria pesante. L’impulso al settore privato permise il riassorbimento di una parte di questi lavoratori ma l’impatto fu traumatico per molti, anche per via del restringimento della rete di assistenza sociale garantita a tutti i cittadini.
Se i numeri appaiono oggi più contenuti, è altrettanto vero che il boom cinese sembra appartenere ormai al passato, mettendo in serio dubbio le capacità dell’economia di questo paese di produrre nuove opportunità di impiego per tutti o quasi i lavoratori che verranno licenziati nei prossimi anni, nonché per i 15 milioni di giovani cinesi che entreranno nel mercato del lavoro solo nel 2016.
Lo stesso governo, d’altra parte, potrebbe annunciare durante l’imminente sessione dell’Assemblea del Popolo un ulteriore abbassamento del target di crescita, il quale per i prossimi anni oscillerà tra il 6,5 e il 7%.
Ai vertici del regime vi è la piena consapevolezza delle tensioni sociali che covano dietro l’apparenza di un’immagine di stabilità e controllo. Gli scioperi registrati in Cina sono infatti raddoppiati tra il 2014 e il 2015 e nel solo mese di gennaio del 2016 sono stati più di 500, cioè quasi un quinto del totale dello scorso anno, senza contare quelli non riportati dalla stampa o dai social media.
In questo quadro, è comprensibile la relativa prudenza con cui la leadership Comunista intende procedere sul percorso delle “riforme”, nonostante le pressioni e gli inviti provenienti da più parti, dentro e fuori la Cina, ad accelerare le liberalizzazioni economiche.
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di Michele Paris
Il tradizionale appuntamento del Supermartedì nelle elezioni primarie per le presidenziali negli Stati Uniti ha dato probabilmente l’impronta decisiva alle competizioni per la nomination di entrambi i principali partiti. Se però in casa Democratica il consolidamento della leadership di Hillary Clinton ha confortato i vertici e i ricchi sostenitori del partito, il quasi trionfo di Donald Trump ha fatto salire esponenzialmente le ansie dell’establishment Repubblicano, ormai a corto di opzioni per provare a fermare la corsa di un candidato che appare sempre meno presentabile agli elettori in vista del voto di novembre.
L’aspetto forse più preoccupante, anche se non nuovo, per l’ampio fronte anti-Trump all’interno del Partito Repubblicano è stato il risultato convincente ottenuto dal miliardario newyorchese nella maggior parte degli stati che hanno votato martedì dopo una settimana segnata da pesanti attacchi nei suoi confronti e dalle nuove controversie in cui si è trovato coinvolto.
Trump ha vinto ben sette delle undici competizioni in calendario martedì, facendo registrare successi in stati molto diversi tra loro per composizione demografica e orientamenti dell’elettorato. Trump ha cioè prevalso, spesso in maniera netta, in stati del sud come Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee e Virginia, ma anche in due stati del nord-est, dove la sensibilità degli elettori è considerata quasi opposta a quella prevalente in questi ultimi, come Massachusetts e Vermont.
Il numero di delegati conquistati martedì resta ben lontano da quello necessario a garantirsi la nomination Repubblicana ma il vantaggio di Trump sui suoi rivali comincia a essere importante. Non solo, man mano che la competizione avanzerà, sarà sempre più difficile chiudere il divario, soprattutto perché nelle prossime settimane voteranno alcuni grandi stati dove la quota di delegati in palio sarà assegnata con il metodo maggioritario e, quindi, interamente al primo classificato.
Assieme al passo avanti forse decisivo di Trump, l’altro dato più importante della serata è stato il flop del candidato che avrebbe dovuto emergere come l’alternativa più valida dell’establishment e dei finanziatori Repubblicani, il senatore della Florida Marco Rubio. Il 44enne cubano-americano ha vinto soltanto in Minnesota, il terzo stato più piccolo in termini di delegati al voto martedì, mentre è andato molto vicino a Trump in Virginia, dove è stato oggettivamente penalizzato dalla permanenza di altri candidati alla nomination sulle schede elettorali. La maggiore speranza dei Repubblicani che rappresentano gli organi del partito può dunque vantare un bilancio misero a questo punto della corsa, avendo vinto soltanto in uno dei 14 stati che hanno votato finora.
Il fallimento di Marco Rubio, il quale aveva duramente attaccato Trump nei giorni precedenti il Supermartedì, è in parte il risultato del voto diviso tra i Repubblicani, dove restano in corsa cinque candidati. Soprattutto, però, i magri risultati raccolti nonostante il sostegno del partito e dei finanziatori sono dovuti al fatto che Rubio è politicamente poco più di una nullità e deve la sua carriera politica a una manciata di miliardari che lo appoggiano in cambio dei suoi servizi.
Anche l’illusione di poter recuperare su Trump potrebbe crollare definitivamente per Rubio il prossimo 15 marzo nel caso dovesse perdere il suo stato, la Florida, dove peraltro i sondaggi lo danno in ritardo rispetto al rivale. Nel suo stato non ha invece fallito l’altro senatore cubano-americano in corsa per la nomination, Ted Cruz. In Texas, Cruz ha staccato nettamente Trump e Rubio e si è imposto anche in Alaska e Oklahoma.
Il senatore di estrema destra ha chiesto ai suoi rivali - il governatore dell’Ohio, John Kasich, il neuro-chirurgo di colore in pensione, Ben Carson, e appunto Rubio - di abbandonare la corsa in modo da favorire la formazione di un fronte compatto contro Trump. Questa prospettiva è però improbabile al momento, visto che Rubio sembra godere ancora dell’appoggio di un Partito che, allo stesso tempo, vede lo stesso Cruz con estremo sospetto. Solo Carson si è mosso per ora in questo senso, anticipando mercoledì l’imminente ritiro dalla competizione.
Il tempo per mettere assieme una strategia efficace per contrastare l’avanzata di Trump da parte dei vertici del Partito Repubblicano è comunque poco, se non già esaurito. L’imprenditore e showman continua a infiammare una parte dell’elettorato Repubblicano, di dimensioni relativamente ridotte se proiettata su scala nazionale ma significativa se rapportata all’affluenza registrata nelle primarie, con una retorica populista e anti-sistema che fa leva sugli impulsi più retrogradi e che trova terreno fertile in una realtà politica e sociale segnata da oltre un decennio di inesorabile spostamento a destra del baricentro politico americano.
Estremamente significativi della natura del candidato Trump sono due episodi che hanno caratterizzato la vigilia del Supermartedì. Nel corso di un comizio, un agente del Servizio Segreto, che assicura la sicurezza di Trump e degli altri candidati alla Casa Bianca, ha aggredito un noto fotoreporter mentre era in corso una manifestazione di protesta contro il favorito Repubblicano, il quale a sua volta ha mostrato di gradire l’episodio. Trump, inoltre, era finito al centro di nuove polemiche per non avere respinto esplicitamente l’appoggio espressogli dall’ex leader del Ku Klux Klan, David Duke, e da alcuni gruppi che promuovono il suprematismo bianco.
Al di là delle dichiarazioni di molti che tra i Repubblicani sostengono di essere intenzionati a voltare le spalle a Trump nel caso fosse lui a conquistare la nomination, è probabile che le divisioni verranno in gran parte sanate nei prossimi mesi e il partito finirà per assicurargli il proprio appoggio. Le ipotesi di una convention spaccata o di una coalizione anti-Trump che impedisca al “frontrunner” di ottenere la maggioranza dei delegati che si riuniranno a Cleveland a luglio si dissolveranno verosimilmente nei prossimi mesi.
Alcune indicazioni del fatto che almeno una parte dei membri del partito abbia accettato o sia disposta ad accettare la vittoria di Trump sono già emerse, come ad esempio il sostegno ufficiale dichiarato per quest’ultimo da personalità Repubblicane di spicco, come il governatore del New Jersey e fino a qualche settimana fa candidato alla Casa Bianca, Chris Christie, e il senatore dell’Alabama, Jeff Sessions, beniamino dell’ala conservatrice.
Le prese di posizione in odore di fascismo di Trump non sono d’altronde troppo lontane da quelle che contraddistinguono i “moderati” o i “conservatori” del Partito Repubblicano. La differenza, tutt’al più, consiste nelle modalità con cui esse vengono espresse o nel fatto stesso che vengano espresse pubblicamente. Trump, da parte sua, una volta incassata la nomination, attenuerà in qualche modo i toni, così da rassicurare i vertici del suo partito, per poi scegliere magari come candidato alla vice-presidenza una figura a loro gradita.
Anche tra i Democratici il destino della competizione sembra essere quasi segnato dopo il Supermartedì, anche se il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha confermato la serietà della sua candidatura e l’incisività di un messaggio politico basato sulla lotta alle disuguaglianze sociali e di reddito dilaganti negli Stati Uniti.
Hillary Clinton ha comunque conquistato tutti gli stati in cui era largamente favorita (Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee, Texas e Virginia), più il Massachusetts, dove è stato decisivo un margine di appena 20 mila voti. Davanti a un fronte compatto favorevole all’ex segretario di Stato, fatto di leader Democratici, media e ricchi finanziatori, Sanders ha fatto suoi Colorado, Minnesota, Oklahoma e Vermont.
Gli equilibri attuali e la storia delle primarie Democratiche suggeriscono che i margini per recuperare su Hillary sono molto ristretti, anche se il team di Sanders si è detto fiducioso sia per le risorse finanziarie a disposizione sia per un calendario che potrebbe essere più favorevole nelle prossime settimane, quando voteranno, tra gli altri, alcuni stati industriali del Midwest.
La Clinton ha saputo mettere a frutto il vantaggio scaturito dal presunto legame tra la sua famiglia e l’elettorato di colore e ispanico che costituisce una fetta importante dei votanti Democratici nelle primarie negli stati del sud. La sua candidatura continua però a mostrare segnali di evidente debolezza, peraltro inevitabile visto il discredito di una famiglia che ha costruito fortune politiche e ricchezze al servizio di Wall Street e dell’imperialismo americano. Soprattutto tra gli elettori più giovani, i bianchi e i redditi più bassi, Hillary ha ceduto quasi sempre il passo a Sanders in queste primarie, mostrando difficoltà che potrebbero rendere meno facile del previsto un’eventuale sfida contro Trump nel mese di novembre.
Nonostante i dubbi e i risultati molto meno entusiasmanti di quanto i suoi sostenitori si attendevano solo pochi mesi fa, la candidatura di Hillary Clinton sembra essere sul punto di diventare inevitabile, come conferma il fatto che il suo vantaggio in termini di delegati è oggi maggiore rispetto a quello di Obama nel 2008 allo stesso punto della competizione.
Il probabile fallimento di Bernie Sanders, anche se molto relativo viste le condizioni da cui partiva, è dovuto invece anche alla portata decisamente troppo ridotta della “rivoluzione” da lui auspicata, in primo luogo perché promossa all’interno di un partito, come quello Democratico, che è uno dei due principali strumenti della conservazione di un sistema che opera a favore di una piccolissima percentuale della popolazione americana.
Se le sue apparizioni pubbliche hanno spesso registrato la presenza di un numero record di sostenitori, l’entusiasmo non si è tradotto in un movimento sufficiente - se non in alcuni stati – a travolgere la sua rivale, simbolo stesso della deriva reazionaria del Partito Democratico e della sclerotizzazione del sistema politico USA.
Sanders, in definitiva, essendo sostanzialmente egli stesso un affidabile esponente della classe dirigente d’oltreoceano, è mancato nell’obiettivo più importante e allo stesso tempo più complicato, alla luce delle premesse della sua campagna elettorale, vale a dire nel mobilitare quella parte (maggioritaria) di potenziali elettori più colpiti dalle contraddizioni della società americana e che, non votando, continuano a esprimere indifferenza e disprezzo verso un sistema che, a loro, non ha nulla da offrire.
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di Michele Paris
La crisi economico-finanziaria esplosa tra il 2007 e il 2008 e la medicina somministrata da molti governi in Europa per salvare i rispettivi sistemi bancari responsabili del tracollo hanno fatto un’altra vittima nel fine settimana, quando le elezioni per il rinnovo del parlamento (Dáil) della Repubblica d’Irlanda hanno registrato pesanti perdite per i due partiti di governo, il Fine Gael (“Famiglia degli Irlandesi”) di centro-destra e il Partito Laburista.
I risultati del voto di venerdì in Irlanda hanno riproposto scenari molto simili a quelli già emersi nei mesi scorsi in altri paesi europei devastati da anni di austerity, in particolare in Spagna. Anche in Irlanda, infatti, i due partiti che hanno dominato il panorama politico per decenni - Fianna Fáil (“Soldati del destino”) e, appunto, Fine Gael - non sono stati in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei consensi né dei seggi parlamentari, nemmeno, nel caso di quest’ultimo, con il supporto del proprio partner di coalizione.
I nuovi equilibri osservabili anche a Dublino sono il sintomo di una grave crisi del sistema rappresentativo consolidato in tutta Europa, spesso manifestatosi in un sostanziale bipartitismo, sulla spinta delle politiche distruttive messe in atto dalle classi dirigenti di qualsiasi colore dopo il tracollo economico del 2008.
Il Fine Gael ha visto così precipitare la propria fetta di elettori dal 36% del 2011 al 25,5% odierno. Ancora peggio ha fatto prevedibilmente il Labour, passato dal 19,4% al 6,6% dopo cinque anni nel ruolo di partner di minoranza dedito all’implementazione di un programma fatto di tagli e nuove tasse dettato da Bruxelles.
Significativamente, nel 2011 era stato il Fine Gael ad approfittare della rabbia degli elettori nei confronti del governo guidato dal Fianna Fáil, responsabile a sua volta delle prime devastanti misure di austerity adottate nell’ambito delle trattative con l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale per l’ottenimento di un maxi-prestito da 85 miliardi di euro.
Proprio il Fianna Fáil si è ripreso ora una parte di voti che cinque anni fa erano andati al suo storico rivale, così da salire dal 17,4% del 2011, ovvero la peggiore prestazione dalla sua fondazione nel 1926, al 24,3% odierno.
In un parlamento di 158 seggi, per garantirsi il diritto di formare il prossimo governo, il Fine Gael, che rimane comunque il primo partito irlandese, o il Fianna Fáil dovranno assicurarsi il sostegno di diverse forze politiche. La soluzione più gradita ai mercati e verosimilmente anche a Bruxelles è invece quella di una grande coalizione tra i due partiti che hanno ottenuto il maggior numero di voti.
Anche se Fine Gael e Fianna Fáil sono entrambe formazioni di centro-destra senza particolari differenze ideologiche o di programma, le divisioni tra i due partiti sono radicate nella storia della Repubblica d’Irlanda e nelle vicende legate alla sua nascita, rendendo quanto meno complicato un gabinetto che veda i loro leader lavorare fianco a fianco.
Un precedente in cui i due partiti di centro-destra hanno collaborato tuttavia esiste e risale al 1987, quando il Fine Gael per poco più di due anni garantì il proprio appoggio esterno a un esecutivo di minoranza guidato dal Fianna Fáil.
In ogni caso, anche in Irlanda le frustrazioni degli elettori hanno determinato la crescita di vari partiti e movimenti di sinistra o centro-sinistra. Il Sinn Fein, tradizionalmente considerato il braccio politico dell’IRA in Irlanda del Nord, ha sfiorato il 14% e si è aggiudicato 22 seggi nel Dáil di Dublino.
Il partito di Gerry Adams aveva impostato la propria campagna elettorale sulle questioni economiche, promettendo iniziative a favore delle classi più colpite dall’austerity di questi anni. In molti, a cominciare dalle forze di centro-destra nella Repubblica, hanno però più volte fatto notare come il Sinn Fein abbia dato il proprio appoggio senza eccessivi scrupoli alle politiche di rigore implementate in Irlanda del Nord.
Risultati relativamente buoni li hanno ottenuti anche i Social Democratici (SD), con il 3% e 3 seggi, e la neonata Alleanza Anti Austerity- Persone Prima del Profitto (AAA-PBF), con quasi il 4% e 5 seggi. Circa 19 saranno invece i seggi assegnati ai candidati indipendenti, tra i quali i partiti principali andranno a pescare per cercare di mettere assieme i numeri necessari a governare.
I nuovi scenari così delineati indicano dunque uno stravolgimento degli equilibri basati sulle formazioni tradizionalmente protagoniste assolute della politica irlandese. Alcuni dati riportati lunedì dal quotidiano Irish Times hanno ricordato come Fine Gael, Fianna Fáil e Partito Laburista fino alla prima metà degli anni Ottanta vantassero complessivamente più del 90% dei consensi espressi durante le elezioni. Questa quota sarebbe rimasta a livelli considerevoli ancora nel 1997 (78%) e nel 2011 (73%), mentre dopo il voto di venerdì è crollata al 56%.
Questa crisi di legittimità, esplosa in parallelo alla crisi del capitalismo internazionale e alle iniziative impopolari che ne sono seguite, è comune a molti partiti europei che hanno dominato il panorama politico nei rispettivi paesi negli ultimi decenni, a cominciare dalla Spagna, dove da più di due mesi sono in corso difficili trattative per dare vita a un nuovo governo.
A giudicare dalle ricostruzioni della storia recentissima dell’Irlanda fatta dalla stampa internazionale, la batosta patita dalla coalizione Fine Gael-Labour sarebbe virtualmente inspiegabile. Dopo il collasso del 2007-2008, infatti, Dublino ha ripagato il prestito UE-FMI e negli ultimi due anni l’economia irlandese ha fatto segnare i tassi di crescita più sostenuti in Europa.
Per il Wall Street Journal, poi, il quadro sarebbe ancora più roseo, visto che il governo uscente del “Taoiseach” (primo ministro) Enda Kenny aveva iniziato a “tagliare le tasse” e ad “aumentare leggermente la spesa pubblica”, mentre “il livello di disoccupazione è sceso costantemente negli ultimi anni”.
Questi stessi giornali hanno però dovuto ammettere che, quanto meno, della ripresa economica irlandese non hanno beneficiato tutte le classe sociali. Per lo stesso Wall Street Journal, “le retribuzioni restano ancora basse e in molti sono in affanno nel pagare i loro mutui”. La testata on-line International Business Times ha invece ricordato le difficoltà nel trovare un impiego, il numero record dei senzatetto a Dublino e le proteste di decine di migliaia di irlandesi contro una tassa sull’acqua potabile introdotta dal governo la primavera scorsa.
Se ripresa c’è stata in Irlanda, in effetti, essa ha riguardato in larga misura un numero molto ridotto di persone, com’è ovvio tra le fasce più agiate della popolazione. Una recente ricerca sulle disuguaglianze in questo paese ha messo in luce come gli irlandesi più benestanti abbiano incrementato sensibilmente le loro ricchezze negli anni seguiti al “bailout” e ai sacrifici imposti al resto della popolazione. Questa realtà è sintetizzata nel dato che descrive come 250 persone detengano oggi beni pari a circa il 30% dell’intero PIL irlandese.
A pochi giorni dalla chiusura delle urne, il dibattito politico a Dublino ruota già attorno alla possibilità che Fine Gael e Fianna Fáil diano vita a un inedito governo di coalizione, così da evitare altre elezioni nei prossimi mesi. Prevedibilmente, all’interno di entrambi i partiti ci sono profonde divisioni sull’opportunità di una mossa di questo genere, alla luce sia delle pressioni dei mercati e dell’Europa sia delle probabili conseguenze politiche che ne deriverebbero.
La paura dell’incertezza e per il rallentamento nell’applicazione delle misure di “ristrutturazione” dell’economia e del mercato del lavoro irlandese sembrano convincere alcuni della necessità di mettere da parte la rivalità tra i due partiti. Altri, al contrario, avvertono circa i pericoli nell’intraprendere un percorso mai battuto prima d’ora e che, per quello che può valere, soprattutto per il Fianna Fáil significherebbe anche infrangere la promessa elettorale di non entrare a far parte di un governo con il Fine Gael.
Un esecutivo formato dai due partiti di centro-destra promuoverebbe infine per la prima volta a formazione principale dell’opposizione il Sinn Fein, assicurando a quest’ultimo, viste le politiche impopolari che ancora una volta si prospettano, un ulteriore passo avanti in termini di consensi in vista del prossimo appuntamento con le urne.
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di Vincenzo Maddaloni
Berlino. Silenzio assoluto - paradossale come sempre - sul dodicesimo roud di negoziati appena concluso a Bruxelles tra Stati Uniti e Ue sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), il Trattato transatlantico sulla liberalizzazione del commercio e delle garanzie per investimenti. Il Ttip riguarda 850 milioni di abitanti fra il Nordamerica e l'Europa, che insieme rappresentano il 45 per cento del Pil mondiale.
Il commercio transatlantico che verrebbe influenzato dalle nuove regole del Ttip, in settori come le commesse, opere pubbliche, servizi, supera i 500 miliardi di euro all'anno. I soli investimenti diretti dagli Usa in Europa superano i 320 miliardi, quelli europei negli Stati Uniti sono un po' più della metà. Il TTIP insomma potrebbe essere usato per bloccare inutili forme di protezionismo ma anche per impedire politiche di miglioramento delle condizioni dei lavoratori o dell’ambiente o del pubblico dominio della conoscenza e altro.
Pertanto il vero punto debole resta la trasparenza. L' ha denunciato Katia Lipping, battagliera deputata tedesca della Linke :"Misure di sicurezza degne di un carcere speciale, deputati trattati come potenziali spie, come nemici inconsapevoli, o peggio della libertà di commercio... Cosa c'è di tanto segreto in questo Ttip?”.
Eppure riguarda la vita dei cittadini e delle imprese. Scrive Katia Lipping :"Chiunque stesse andando a questi negoziati per migliorare la protezione dell'ambiente, la tutela dei consumatori e le norme sul lavoro non avrebbe nulla da temere dalla trasparenza. Chiunque sia invece impegnato nella svendita della democrazia, d'altra parte, è ovviamente interessato ad evitare il controllo pubblico. Se i negoziatori sono davvero così convinti dei benefici di Ttip, perché non mettono il testo on-line, a disposizione di tutti?", conclude la deputata tedesca.
Naturalmente, anche questa denuncia sebbene pronunciata da una tribuna sostenuta dal peso economico internazionale della Germania non ha prodotto nulla poiché anche l'ultima tornata negoziale Usa-Ue, appena conclusa a Bruxelles si è svolta a porte chiuse. Perché continua ad accadere tenta di spiegarlo un post di un sito british, truepublica.org.uk che scrive: "La ragione per cui i negoziati del Ttip sono così segreti è che gli americani hanno raccomandato di tener celato il dibattito fino a quando l’adozione sia diventata ineludibile”.
“Essi - si legge sul post - vogliono armonizzare gli standard fra Eu e Ue, visti dagli oppositori come un grave colpo alle sudate protezioni su cibo e sicurezza chimica, cosmetici , insetticidi e pesticidi, l’ambiente e i diritti dei lavoratori. Il settore agricolo americano sta premendo fortemente l’Europa perché importi prodotti OGM attualmente illegali (ma di cui l’UE ha autorizzato l’ importazione nell’aprile 2015) e carne non conforme agli standard europei, vale a dire bestiame cresciuto con ormoni della crescita (questo divieto continua ma con un accordo per comprare ulteriori 48 mila tonnellate annue di carne americana senza ormoni della crescita).”.
Graham Vanbergen, l'autore del post di TruePublica sottintende il punto di vista britannico e anche per questo è interessante poiché aiuta a capire le ragioni delle resistenze di tanti cittadini inglesi, orgogliosi della loro indipendenza e diffidenti non solo dell’Ue, ma anche dei ‘cugini’ americani.
In ballo, infatti, ci sono le regole, l'attribuzione dei poteri, le priorità da proteggere. E non è da tempo un mistero che le regole Usa su alimentazione, ambiente o farmaci siano assai più lasche di quelle europee, dettate spesso direttamente dalle multinazionali anziché “fondate scientificamente”.
Negli Usa, il “principio di precauzione” sulla commercializzazione di questi prodotti non esiste. Ragion per cui essi premono da sempre per affidare il verdetto ad arbitrati privati, con il meccanismo di risoluzione noto con l'acronimo anglosassone Isds (Investor-state dispute settlement). Praticamente sono persone scelte tra gli avvocati del commercio internazionale, che diventano a seconda delle circostanze “consulenti di parte”, oppure dei veri e propri giudici, generalmente “asserviti”, sia dalle multinazionali che dai singoli Stati.
Insomma, sono sentenze già scritte in base al peso specifico dei protagonisti. E' il motivo per cui, sostiene Graham Vanbergen su TruePublica, gli americani hanno dato vita al non meno segreto Gruppo Bilderberg, definito come un gruppo di lobbisti di élite, vertici di multinazionali Usa, funzionari Ue, capitani di industria, capi di agenzie di intelligence e reali europei. Insomma tutti i principali lobbisti degli affari e della finanza a favore del Ttip sono sotto lo stesso tetto, conclude Vanbergen. Che azzarda. “Quello a cui siete testimoni è un ‘ colpo di stato corporate’ dell’Europa da parte dell’America delle multinazionali.”.
E' il suo un grido di allarme che rimbalza su quello dei parlamentari tedeschi, sicuramente i più ferrati in Europa sull'argomento. Sono gli unici che sono riusciti ad ottenere una “Leseraum” (Reading Room, Sala di lettura) dedicata al Ttip. Moltissimo vi hanno influito le mobilitazioni imponenti (oltre mezzo milione di persone solo a Berlino, qualche mese fa), e una raccolta firme di oltre tre milioni.
Katia Lipping, la deputata della Linke, è stata una dei primi parlamentari ad entrare nella Leseraum: "Martedì 2 febbraio era il mio giorno. Mi ero registrata per la sala di lettura. Una guardia mi ha portato ai controlli di sicurezza e mi ha chiesto di chiudere a chiave la giacca e la borsa. Ha controllato che non stessi prendendo qualsiasi una macchina fotografica o il cellulare nella sala di lettura e poi ha bussato a una porta. Il livello elevato di segretezza mi ha reso ancora più curiosa su quello che stavo andando a trovare, ma la camera in sé era non niente di speciale.”.
"C'erano otto stazioni di lavoro al computer, e mi è stato permesso di sedermi a quella designata per me. Una donna dall'atteggiamento amichevole era seduta nella stanza. Lei mi ha fatto firmare le regole dei visitatori - se non si firma, non si ottiene l'accesso - così ho firmato. C'era un thermos di caffè e un piatto di biscotti in un angolo. Eppure, nessuna quantità di caffeina o di zuccheri nel sangue mi avrebbe permesso di passare attraverso le circa trecento pagine di testo nelle due ore che ho avuto a mia disposizione”.
“Infatti - prosegue la deputata della Linke - le due ore che ho avuto a disposizione nella sala di lettura sono state, ovviamente, insufficienti a leggere tutti i documenti. Eppure, mi sono resa conto che nulla di quel che avevo letto mi potrebbe far ritrarre nessuna delle mie precedenti critiche al Ttip. Non ho letto nulla che possa alleviare la mia preoccupazione sul fatto che la parte americana vuole rendere la vita più difficile alle imprese pubbliche e comunitarie e per garantire condizioni migliori per multinazionali nella battaglia per appalti pubblici. Non ho letto neanche nulla per ridurre i miei timori circa il fatto che i negoziatori europei sono disposti a sacrificare i nostri standard sociali e ambientali in cambio della prospettiva di vincere lucrosi contratti per le grandi imprese europee”.
I tedeschi se la sono conquistata questa sala di lettura il Leseraum , perché - unici in Europa – sono stati capaci di andare a protestare in massa contro il Ttip. Sebbene i parlamentari tedeschi siano stati trattati come dei nemici - e addirittura passibili di sanzioni, in caso di divulgazione, come ricordava Katia Lipping - essi comunque sono riusciti a farsi aprire la porta e a vedere le carte. Non risulta che i loro colleghi italiani siano interessati a una simile impresa.
Si sono spese settimane per una legge incompleta sulle Unioni civili, ma in Parlamento non s'è parlato di Ttip. Un silenzio assurdo, poiché la bilancia commerciale italiana poggia su regole come la produzione di alimenti a denominazione di origine controllata, come le misure per attrarre investimenti. Più di ogni altra nazione è l'Italia che campa di commercio, che ha molto più da perdere che da guadagnare con il Ttip. Provate a chiedere a un qualsiasi parlamentare italiano cosa ne sa. O meglio se lo sa.
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di Michele Paris
La mossa presa dal presidente Obama questa settimana per rilanciare il piano di chiusura del lager di Guantánamo è poco più di una manovra propagandistica, oltretutto tardiva, che ha pochissime chances di successo e che non farebbe comunque nulla per mettere fine agli abusi legali istituzionalizzati dal governo degli Stati Uniti nel corso della cosiddetta “guerra al terrore”.
La proposta di smantellamento del carcere sull’isola di Cuba è stata inviata martedì dalla Casa Bianca al Congresso di Washington, con un’iniziativa che i giornali USA hanno descritto come il tentativo del presidente di mantenere una promessa che aveva fatto all’indomani del suo insediamento nel gennaio del 2009.
In un intervento pubblico durato poco più di un quarto d’ora, Obama ha riconosciuto che il piano sarà di difficile attuazione e ha ricordato gli ostacoli posti soprattutto dallo stesso Congresso alla chiusura e al trasferimento in altri paesi o in territorio americano dei detenuti rimasti.
Obama ha anche accennato a una delle ragioni principali che hanno riportato la questione di Guantánamo all’ordine del giorno del suo governo, ovvero il danno di immagine per un paese che, pur basando la propria politica estera in gran parte sulla violazione del diritto internazionale, riesce a conservare una residua legittimità agli occhi delle popolazioni mondiali promuovendosi come difensore della democrazia e dei diritti umani.
Nel raggiungere questo obiettivo, il presidente americano ha affermato di essere pronto a muoversi unilateralmente e a utilizzare i poteri assegnatigli dalla Costituzione, in caso di mancata collaborazione da parte del Congresso, anche se non è per nulla chiaro quali siano gli spazi di manovra della Casa Bianca in questo senso.
La maggioranza Repubblicana al Congresso è attestata su posizioni diametralmente opposte a quelle di Obama in merito a Guantánamo, mentre i candidati alla presidenza hanno più volte dichiarato non solo di voler mantenere in vita il carcere ma anche di aumentarne la popolazione, nonché di ricorrere a metodi tortura nei confronti dei suoi “ospiti”.
Il progetto di Obama non è stato comunque corredato di troppi particolari e più che altro si tratta di una serie di iniziative che verrebbero implementate se dovesse essere superata la resistenza del Congresso. Sostanzialmente, il piano si basa sull’individuazione di alcuni paesi esteri che dovrebbero ricevere alcune decine di detenuti il cui trasferimento è già stato approvato dal governo USA. Quelli considerati più pericolosi – tra i 30 e i 60 – sarebbero invece spediti in varie carceri di media o massima sicurezza negli Stati Uniti.
Le strutture prese in considerazione sono 13, tra cui in Kansas, Colorado e South Carolina, i cui rappresentanti al Congresso hanno peraltro già manifestato tutta la loro contrarietà all’ipotesi avanzata dalla Casa Bianca. Come ha ricordato Obama, durante la campagna elettorale del 2008 esponenti di spicco del Partito Repubblicano, come l’allora presidente Bush e il candidato alla sua successione, John McCain, erano a favore della chiusura, ma da allora il baricentro politico americano ha fatto registrare un nettissimo spostamento a destra e una chiara maggioranza del Congresso intende ora mantenere in vita la famigerata struttura detentiva off-shore.
L’ostacolo principale alla chiusura del carcere è rappresentato appunto da una legge del Congresso che vieta il trasferimento dei detenuti di Guantánamo in territorio americano, anche per essere sottoposti a processi in ambito civile.
L’insistenza di Obama e dei suoi sostenitori per convincere la maggioranza alla Camera e al Senato a lasciar cadere il divieto al trasferimento non ha comunque nulla a che vedere con il desiderio di chiudere un capitolo oscuro della storia americana e di veder trionfare il diritto.
Anche se le decine di prigionieri che vivono nel limbo a Guantánamo, senza accuse formali, processi o tanomeno condanne, fossero trasferiti in un carcere in territorio americano, la natura arbitraria della loro detenzione non cambierebbe infatti di una virgola.
A far notare questo punto è stato, tra gli altri, l’avvocato David Remes, legale di 13 cittadini yemeniti rinchiusi a Guantánamo, secondo il quale “il presidente non intende chiudere [il carcere], ma solo spostarlo negli Stati Uniti”.
Di fatto, se anche Obama riuscisse a superare la resistenza del Congresso, il suo piano finirebbe per sanzionare la detenzione indefinita in territorio americano di sospettati di terrorismo, le cui accuse a loro carico non sono mai state né potranno mai essere dimostrate in un’aula di tribunale.
Inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002, il lager di Guantánamo era giunto a ospitare quasi 800 detenuti, la maggior parte dei quali rapiti illegalmente da forze di sicurezza o da mercenari in Pakistan e in Afghanistan per essere poi venduti agli Stati Uniti. Il carcere era diventato ben presto il simbolo stesso dei crimini americani nel quadro della “guerra al terrore”.
Per giustificare la detenzione illegale e le torture commesse, l’amministrazione Bush aveva inventato la definizione di “nemici in armi” da assegnare ai sospettati di terrorismo, così da negare a questi ultimi sia i diritti costituzionali sia le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra.
All’arrivo di Obama alla Casa Bianca, la popolazione del carcere era scesa a 242 e da allora è costantemente diminuita fino ai 91 prigionieri odierni. Centinaia di “ospiti” di Guantánamo sono stati rinchiusi per anni, spesso distrutti fisicamente e psicologicamente, e poi rilasciati senza spiegazioni o risarcimenti.
Il governo americano ha creato inoltre in questi anni un tribunale militare speciale per processare alcuni dei detenuti e dare l’impressione di volere rispettare i loro diritti. In realtà, questi procedimenti, che riguardano attualmente una decina di prigionieri, sono una farsa, visto che gli accusati godono di ben poche delle garanzie legali previste dalla legge USA.
La tesi sostenuta infine da coloro che elogiano comunque il presidente Obama per avere cercato di chiudere il lager di Guantánamo di fronte alla resistenza del Congresso è del tutto fuorviante. A dimostrarlo ci sono i precedenti accumulati dall’amministrazione Democratica in questi anni.
Non solo Obama ha fatto di tutto per proteggere ed evitare l’incriminazione dei responsabili di rendition e torture ai danni di sospettati di terrorismo, ma l’alternativa scelta alle detenzioni “extra-giudiziarie” è stata di gran lunga peggiore.
Il governo americano non ha aggiunto un solo detenuto alla popolazione di Guantánamo dal 2009 soltanto perché le procedure che eventuali nuovi arresti avrebbero comportato sarebbero state eccessivamente gravose e avrebbero perpetuato un sistema profondamente impopolare.
Il presidente Obama e l’apparato della sicurezza nazionale USA hanno così optato per il drastico ampliamento del programma degli assassini mirati con i droni, anch’esso avviato da George W. Bush. In sostanza, i sospettati di terrorismo non vengono più rapiti o arrestati, poi eventualmente torturati e spediti a Guantánamo, ma finiscono su una lista nera e il presidente in persona, senza passare attraverso un tribunale o un procedimento che possa ragionevolmente essere definito “legale”, decide in totale segretezza chi di loro debba essere letteralmente fatto a pezzi da un drone.
Il grado di precisione delle operazioni con i velivoli senza pilota americani in paesi come Pakistan, Afghanistan, Somalia, Yemen e Libia è stato valutato da numerose indagini di organizzazioni a difesa dei diritti umani in questi anni, le quali hanno documentato le migliaia di vittime civili innocenti, quasi mai riconosciute o considerate semplicemente come inevitabili “danni collaterali”.