di Mario Lombardo

Dopo il quinto test nucleare effettuato dal regime della Corea del Nord venerdì scorso, la Corea del Sud e gli Stati Uniti hanno prevedibilmente risposto in maniera molto dura, minacciando nuove sanzioni se non addirittura un devastante attacco militare. Martedì, poi, due bombardieri B-1 americani hanno provocatoriamente sorvolato i cieli della Corea del Sud, in segno di “solidarietà” con l’alleato di Seoul.

Nella capitale sudcoreana ha parlato anche l’inviato dell’amministrazione Obama per la Corea del Nord, Sung Kim, il quale ha ribadito che l’intenzione del suo governo è quella di fare approvare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “la più dura risoluzione possibile”.

Il diplomatico americano ha affermato che anche la Cina, cioè il principale alleato di Pyongyang, considera necessaria una risoluzione ONU in risposta al più recente test nucleare nordcoreano. Il Quotidiano del Popolo cinese ha infatti scritto martedì che Pechino ritiene che l’iniziativa del regime di Kim Jong-un “non favorisca la pace e la stabilità nella penisola di Corea”.

Allo stesso tempo, l’organo del Partito Comunista Cinese ha sottolineato la preferenza per il dialogo e i negoziati, peraltro in fase di stallo dal 2009 nella forma delle cosiddette “6 parti” (Corea del Nord, Corea del Sud, USA, Cina, Russia, Giappone).

I due B-1 americani sono giunti da una base a Guam, nell’Oceano Pacifico, e sono stati scortati da aerei da guerra sudcoreani fino a poco meno di 80 chilometri dal confine con la Corea del Nord. La manovra rientra nelle consuete modalità di risposta di Washington alle provocazioni di Pyongyang e, puntualmente, finiscono per aggravare lo scontro, suscitando reazioni e minacce decisamente al di sopra delle righe da parte del regime stalinista nordcoreano.

Le stesse misure adottate da Washington e Seoul dopo i “colloqui strategici” bilaterali di questa settimana non lasciano intravedere alcuna disponibilità ad aprire un vero dialogo con la Corea del Nord. I ministeri della Difesa dei due alleati hanno ribadito infatti che il regime di Kim deve rinunciare preventivamente al proprio programma nucleare in maniera “completa, verificabile e irreversibile”.

I due governi hanno anche confermato la volontà di installare sul territorio sudcoreano il sistema missilistico americano THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”), ufficialmente per rafforzare le capacità difensive di Seoul in caso di attacco dalla Corea del Nord ma visto correttamente da Pechino come una seria minaccia al proprio deterrente nucleare.

La questione del THAAD complica perciò ulteriormente la crisi coreana. L’accelerazione di Washington e Seoul su questo sistema anti-missilistico rischia infatti di irrigidire e rendere ancora più delicata la posizione della Cina.

Pechino si trova da tempo di fronte a un dilemma per quanto riguarda la Corea del Nord. Da un lato, il governo cinese assiste con preoccupazione alle provocazioni dell’alleato nordcoreano, poiché non fanno che offrire l’occasione agli Stati Uniti per procedere sempre più con la militarizzazione della penisola di Corea.

D’altra parte, Pechino esita però a esercitare pressioni su Pyongyang per il timore che un ulteriore isolamento del regime possa rischiare di destabilizzarlo o farlo crollare. Un esito di questo genere potrebbe sfociare nell’unificazione della penisola di Corea sotto il controllo americano, le cui forze armate sarebbero a quel punto direttamente al confine con la Cina.

Gli scrupoli cinesi sono alimentati anche dalle recenti minacce americane e sudcoreane indirizzate verso Pyongyang. L’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap ha citato questa settimana un funzionario del governo di Seoul che ha descritto un piano del ministero della Difesa per distruggere la capitale della Nordcorea se dovessero emergere i preparativi da parte del regime per un attacco con armi nucleari.

Qualche mese fa alcuni organi di stampa avevano inoltre riportato l’esistenza di un piano segreto (OPLAN 5015) di Stati Uniti e Corea del Sud che prevede attacchi preventivi contro i centri di comando del Nord, assieme alla “decapitazione” della leadership del regime.

I preparativi americani per contrastare la minaccia di Pyongyang sono dunque in larga misura diretti contro la Cina e rappresentano, nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica promossa dall’amministrazione Obama, il corrispettivo nella penisola coreana delle provocazioni di Washington nel Mar Cinese Meridionale, sempre nei confronti di Pechino.

La condotta spesso imprevedibile e apparentemente irrazionale di Kim Jong-un consente fin troppo facilmente al governo americano e ai media ufficiali negli Stati Uniti, così come in Corea del Sud o in Giappone, di additare il regime nordcoreano come una minaccia esistenziale, la cui rimozione, anche con la forza, sarebbe tutto sommato giustificata.

Emblematico degli sforzi per rafforzare questa impressione è stato ad esempio un commento dell’esperto della Corea del Nord, Joel Wit, pubblicato martedì dal New York Times. Fondatore del sito 38north.org, Wit sostiene che gli Stati Uniti, e non la Cina, siano l’unica potenza in grado di risolvere la crisi coreana.

Per questa ragione, Washington dovrebbe utilizzare “il potenziale diplomatico, militare ed economico a sua disposizione”, prendendo parallelamente “tutte le misure necessarie a proteggere i propri alleati”, incluse quelle che “possono irritare la Cina”, come appunto la recente decisione di installare il sistema missilistico THAAD in Corea del Sud.

Eventuali ulteriori sanzioni contro Pyongyang dovrebbero essere poi adottate unilateralmente, visto che le pressioni su Pechino risulterebbero sempre “insufficienti” per via della necessità, da parte cinese, di preservare la stabilità del regime. Il ritorno al tavolo dei negoziati non viene escluso da Wit, anche se ciò sarebbe di fatto impossibile, dal momento che le iniziative preventive che gli Stati Uniti dovrebbero adottare non farebbero che peggiorare i rapporti già virtualmente inesistenti con una Corea del Nord che, da sempre, mostra di essere disponibile al dialogo soltanto se condotto su un piano paritario.

Simili proposte, valutate con ogni probabilità da molti all’interno del governo e dell’apparato militare americano, prospettano dunque l’illusione della possibilità di una soluzione sostanzialmente unilaterale alla crisi coreana. La Cina molto difficilmente potrebbe tuttavia rimanere fuori dall’equazione, se non al prezzo di alimentare ancor più le tensioni in Asia nord-orientale e far salire pericolosamente il rischio di un conflitto tra potenze nucleari.

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